Che fine ha fatto Fancellu? Ce lo dice Stefano Zanatta

09.09.2021
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Alessandro Fancellu, giovane corridore ventenne, del team Eolo Kometa sta attraversando un periodo non facile per la sua carriera. L’ultima volta che lo abbiamo visto in azione è stato ad aprile al Tour of the Alps, corsa a tappe che si corre principalmente in preparazione al Giro d’Italia. Appuntamento rosa che Alessandro era pronto a conquistarsi sulla strada, a colpi di pedale, poi però il momento buio e le poche certezze sulle sue condizioni fisiche, non gli hanno permesso di correrlo.

«Non so nemmeno io cosa mi sia successo – disse Alessandro – arrivavamo da un ritiro in Sierra Nevada di una ventina di giorni. Stavamo preparando il Tour of the Alps e gli appuntamenti successivi, quando negli ultimi giorni di allenamento ho iniziato ad accusare stanchezza e malessere generale».

Al Tour of the Alps la sua ultima corsa, poi il black out. Eccolo tra Bais e Fetter
Al Tour of the Alps la sua ultima corsa, poi il black out. Eccolo davanti a Fetter

Ne parliamo così con Stefano Zanatta, da quest’anno nello staff tecnico del team Eolo Kometa. Il diesse ha vissuto, insieme ad Ivan Basso, il momento no di Alessandro. E così lo abbiamo intervistato per capire quali possano essere state le cause che hanno portato il ragazzo comasco fino a questo punto di non ritorno.

La squadra come ha reagito alla situazione di Alessandro?

È stato prontamente seguito da tutta l’equipe medica. Ha a disposizione ben quattro persone dello staff che tutti i giorni lo sentono e lo monitorano. In più Ivan (Basso ndr) lo sente quotidianamente, chiama anche i genitori, non è scontato avere tutta questa disponibilità tecnica in un team così giovane. È un bel segnale, la squadra crede in lui, questo non si può negare, ai miei tempi non sarebbe stato così.

Tutti questi mesi senza risposta, come se il suo fosse un male invisibile…

Ha subito il passaggio nel professionismo, lui vorrebbe andare in bici e non far fatica. Il fatto è che gli è cambiato il mondo che lo circonda, ha corso solamente due anni da under 23 e questo dal mio punto di vista lo ha condizionato. 

Alla Settimana Coppi e Bartali ha colto alcuni piazzamenti interessanti
Alla Settimana Coppi e Bartali ha colto alcuni piazzamenti interessanti
Ma ora si passa professionisti molto presto, bisogna mettere in conto anche queste cose…

Vero, passare prima nei pro’ non ti dà un buono sconto per le esperienze non fatte tra gli under. Ora va così e ci si deve anche adattare ai cambiamenti. Correre tra i pro’ cambia tutto, ora affronti gente con anni di esperienza in questo mondo, devi aver voglia di fare più fatica ancora.

In che senso dici “gli è cambiato il mondo che lo circonda”?

Quando è passato professionista aveva i titoli dei giornali dedicati, articoli e proclami da ogni parte. Però poi la gente e soprattutto i giornali, vogliono i risultati e se non arrivano ti surclassano, lui è giovane, non è facile destreggiarsi tra queste cose.

Come mai così ha corso così poco tra gli under?

Era nel team Kometa, la formazione under 23, e dopo i suoi risultati è stato subito contattato da molte squadre. Allora la Eolo ha deciso di portarlo nella formazione pro’, per non perdere la risorsa, questo non ha giovato però alla sua maturazione, fisicamente non è ancora maturo per questo mondo. Deve mettersi in testa di ripartire dalle basi, gli è stato anche consigliato di staccare, fare una vacanza ma non ne ha voluto sapere.

«Continuo ad allenarmi –dice infatti Fancellu – ho fatto una decina di giorni senza bici tra aprile e maggio, ma il mio problema si presenta principalmente in corsa, quando mi alleno generalmente ho delle sensazioni migliori».

Fancellu, classe 2000, è uno scalatore. Da U23 faceva già parte del gruppo Eolo
Fancellu, classe 2000, è uno scalatore. Da U23 faceva già parte del gruppo Eolo
Dalle sue statistiche vediamo che si è ritirato spesso, tende a gettare la spugna?

È un dato da valutare, oltre al Tour of the Alps si è ritirato anche dalla Vuelta a Burgos la scorsa stagione e dal Campionato Italiano. Deve tornare a correre per il gusto di farlo e senza pensare al risultato, mettersi il numero sulla schiena e finire una gara, anche quello è un allenamento.

Sono quattro mesi che non corre, quasi cinque. Ne parlate di un possibile ritorno in gara?

Sì, gli abbiamo tranquillamente detto che quando si sente pronto noi lo possiamo mandare a gareggiare. Non è un problema il correre meno, abbiamo qualche corridore giovane che ha disputato poche gare, ma fa parte della crescita.

È possibile che si sia nascosto dietro a queste sensazioni e si sia disabituato alla fatica?

Questo è un rischio che corriamo, però fa capire quanto si creda in lui. Dice che ha mal di gambe, un corridore ha mal di gambe da gennaio a ottobre, per questo dico che deve riabituarsi a correre ed andare in bici, senza strafare. 

E dal punto di vista medico?

Abbiamo ancora un ultimo esame a cui sottoporlo. E non è neanche facile da fare, perché non tutti gli ospedali lo eseguono, a testimonianza della fiducia della pazienza nei suoi confronti. Alla fine di tutto verrà stilato un rapporto, se non risulteranno anomalie mediche la squadra lo aspetterà nel ritiro invernale, dopo una bella vacanza e da lì inizierà la nuova stagione.

Viaggio tra i giovani. Il punto con Tacchino, “tecnico dei tecnici”

07.09.2021
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Ancora non si ferma l’onda lunga del Lunigiana, ma più in generale dell’effetto giovani. Abbiamo visto ritmi pazzeschi, numeri da pro’, comportamenti da campioni navigati, ma al tempo stesso grosse lacune (vedi i famosi fondamentali). Come da nostra abitudine cerchiamo di saperne di più e lo facciamo con Fabrizio Tacchino.

Fabrizio ha una lunghissima esperienza nel campo della preparazione e della formazione rivolta anche ai tecnici. Dopo le sue esperienze in bici, le qualifiche come diesse e la laurea in scienze motorie l’aspetto pedagogico è in primo piano per lui.

Fabrizio Tacchino durante uno dei suoi corsi di formazione
Fabrizio Tacchino durante uno dei suoi corsi di formazione

Partiamo dai rapporti

In questo Lunigiana abbiamo assistito a performance importanti con ben dieci ragazzi che hanno siglato tempi migliori di Pogacar sulla salita di Fosdinovo. Si è sentito parlare di rapporti spinti in allenamento che vanno ben oltre il 52×14 del regolamento imposto in gara per la categoria. Cosa succede quindi?

«Io – spiega Tacchino – non sono così orientato nel dire che i ragazzi facciano dei carichi eccessivi. Piuttosto mi chiederei che tipo di gare fanno? Cosa richiedono le loro competizioni? Quella dei rapporti è una regola degli anni ’60 fatta per tutelare i ragazzi perché se c’era qualcuno che era meno sviluppato di un altro non sarebbe riuscito a tirare i rapporti più duri. Ed era giusta. Ma i tempi cambiano. E andiamo ad analizzare cosa dice l’Uci. In pista e in Mtb per esempio non ci sono limiti di rapporti e oggi uno juniores che in certe gare, vedi il quartetto, non spinge il 56 non risponde al modello di prestazione di quella specialità. Sono stati recentemente abbattuti diversi record del mondo, ma questo è successo non perché si allenino di più o vadano più forte, ma perché girano rapporti che consentono di fare velocità più alte.

«Detto questo, ha senso allenarsi con rapporti più duri, purché sia fatto in modo progressivo e in base a ciò che richiedono le gare. Quindi ben venga ancora il limite del 52×14 in gara altrimenti ci sarebbe una netta svolta verso la forza nella preparazione».

Alcuni juniores sono meno sviluppati di altri e per loro il rischio di restare dietro è altissimo (foto Valerio Bianco)
Alcuni juniores sono meno sviluppati di altri e per loro il rischio di restare dietro è altissimo (foto Valerio Bianco)

Cambio generazionale netto

Che si sta assistendo ad un cambio generazionale lo abbiamo detto più volte, ma che tale cambio sia così repentino e così marcato fa riflettere. Perché? Da cosa dipende?

«E’ migliorata la tipologia degli allenamenti – dice Tacchino – si spinge un dente più duro sulle salite e si fanno tempi impensabili fino a pochi anni fa. E questo per me dipende anche dalla multidisciplinarietà che li stimola molto. In pista vince chi ha la capacità di spingere un dente in più. Ma questo non vuol dire che i ragazzi siano sfruttati oltre le loro possibilità e che si facciano dei danni. Se le cose sono fatte bene, in modo progressivo, non ci sono controindicazioni».

Il dubbio però resta. Siamo sicuri che non si vada oltre? Cosa chiedono i diesse nei corsi di aggiornamento? Alla fine si rischia che, volenti o nolenti, ci sia questa sorta di “fame di successo”.

«Nei corsi spieghiamo il modello prestazionale richiesto dalla gara di quella categoria: quanto dura, la tipologia di sforzo che sono chiamati a fare i ragazzi, la capacità lattacida richiesta… e su questo modello si costruisce la preparazione. Poi c’è chi recepisce e chi no… Ma ci sono delle tappe da rispettare. Ci sono dei ragazzi più propensi e altri meno, nel senso che hanno sviluppato meno. 

«Però non bisogna neanche esagerare nel senso opposto, in quello pedagogico. Non è vero che non bisogna fare dei lavori di forza o senza pesi. Come ripeto, l’importante è farlo con i tempi giusti. Partire dai carichi naturali e poi impostare dei lavori con i bilancieri. Per questo diciamo sempre ai diesse di affidarsi a persone esperte e affidabili. Di fatto noi mettiamo a disposizione delle squadre le metodologie sviluppate con le nazionali e i diesse le devono adeguare ai propri atleti».

Ritmi elevatissimi al Lunigiana. Tenere le ruote in salita non era facile. E lì c’erano i migliori…
Ritmi elevatissimi al Lunigiana. Tenere le ruote in salita non era facile. E lì c’erano i migliori…

Evoluzione delle metodologie

«Da noi il ciclismo – continua Tacchino – è un po’ esasperato. Abbiamo una tradizione ciclistica di lungo corso. Oggi si fanno troppe discipline. Da juniores non puoi più fare troppo: il tempo richiesto per allenarti è grande. C’è una ricerca importante del mio collega Paolo Menaspà, ex Centro Mapei Sport, che mette in evidenza come il livello tra gli juniores sia così elevato che le qualità che esprime un atleta in quella categoria se le porta poi dietro per il resto della carriera. In pratica chi è uno scalatore da juniores molto probabilmente lo sarà anche da under 23 e da professionista. E sta a noi tecnici individuare queste caratteristiche. 

«Ci sono dieci ragazzini che vanno più forte di Pogacar? E’ l’evoluzione della preparazione e una maggiore consapevolezza nei metodi di lavoro. Il che può essere letto in due modi: l’esasperazione o una maturazione tranquilla. Nel primo caso succede che molti abbandonano in modo precoce perché gli tirano fuori tutto. Oggi a 20-21 anni sei vecchio se non passi e le squadre dei pro’ preferiscono prendere un atleta meno maturo e investire su di lui. Senza contare che dietro c’è anche la spinta dei procuratori. Nel secondo caso, invece, c’è chi vive il ciclismo in modo più divertente, più ludico, ma di contro rischia di non arrivare e di non essere preso in considerazione».

Spesso per i ragazzi non è facile sopportare certi livelli di stress
Spesso per i ragazzi non è facile sopportare certi livelli di stress

Il mercato dei giovani

E qui si apre un capitolo molto importante: il mercato dei giovani, il ruolo dei procuratori, la carenza di squadre… il che inevitabilmente porta ad alzare l’asticella. E’ la legge della domanda e dell’offerta. 

«Oggi – riprende Tacchino – se non vai forte da allievo rischi di non trovare squadra da juniores. Da juniores di non trovarla tra gli U23 e così via.. perché ci sono pochi posti in base alle squadre rimaste. Non è più come una volta. In Mtb vediamo dei campionati nazionali con 200 partenti tra gli juniores e 50 tra gli under 23: perché non ci sono squadre in grado di supportare un’attività nazionale.

«Di conseguenza con meno posti si cerca di fare di più. E uno juniores che va forte è già sul taccuino dei procuratori. Al tempo stesso ci sono metodologie migliori di allenamento che bene o male fanno rendere di più. Ma poi si ripercuotono non tanto sul fisico quanto sull’aspetto mentale. Oggi un ragazzo di 19 anni deve essere pronto a fare la vita da pro’. Se deve andare ad una corsa deve prendere un treno, spostarsi da solo… A 25 anni è più maturo, prende la macchina e va: è tutto più facile per lui. In questo contesto è importante anche l’ambiente familiare».

L’effetto Evenepoel è stata una vera rivoluzione, una scossa nel mondo giovanile e juniores in particolare
L’effetto Evenepoel è stata una vera rivoluzione, una scossa nel mondo giovanile e juniores in particolare

Quei fondamentali perduti

Diceva Gianluca Geremia del fatto che oggi i ragazzi vanno forte, ma mancano di fondamentali. Non sanno fare un treno o prendere il rifornimento quando si va più veloce. Nei corsi di formazione o comunque in seno a queste categorie giovanili si curano ancora questi aspetti?

«Faccio un esempio – conclude Tacchino – io sono di Ovada. Ai miei tempi come in ogni altra cittadina c’era una squadra che aveva come minimo 10-15 tesserati, di tutte le età. Una volta non cerano gli Under 23 e magari un dilettante aveva quasi 40 anni. Ebbene questi corridori più vecchi nelle uscite di squadra facevano scuola ai più giovani. Certe dinamiche di gruppo erano apprese in modo naturale. Oggi col fatto che ci sono poche squadre e che magari un tesserato abita a 100 chilometri dall’altro è difficile fare questi allenamenti collegiali. Di contro, non si possono valutare solo i watt. Sento tanti amatori che vincono le granfondo dire: coi miei watt potrei fare il professionista. Non è così. Lì sei in un contesto in cui sei il più forte e vai. Qui invece hai anche un confronto tecnico che ti toglie energie. Mi riferisco allo stare in gruppo, al nervosismo, a prendere una salita dopo aver speso molto di più.

«Piuttosto c’è il rischio che la nuova generazione di diesse non abbia esperienza ciclistica sul campo, ma solo dall’ammiraglia. Finché può il diesse dovrebbe andare in bici coi propri ragazzi. Tra gli U23 certe cose si danno per assodato, tra gli junior qualcosa devi ancora imparare, da esordiente e allievo ci devi lavorare. Noi lo diciamo nei corsi, ma non è facile. Sarebbe bello fare dei corsi pratici perché un conto è spiegare a parole un ventaglio e un conto è farlo su strada. Ma ci sono anche delle esigenze sulla sicurezza che vanno prese in considerazione quando si fa un corso».

Oltre 800 giovani ciclisti. Il racconto del 25° Gp Fabbi Imola

10.08.2021
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Colori, aria di gioventù e passione per il ciclismo in una cornice che della velocità ha fatto il suo biglietto da visita, l’autodromo Enzo e Dino Ferrari di Imola. E’ questa l’atmosfera che ha accompagnato il 25° Gran Premio Fabbi Imola organizzato dalla Ciclistica Santerno nei due giorni di gara, sabato 31 e domenica 1 agosto. “Gran premio” non a caso vista la location della corsa: 800 giovani tra i 6 e i 16 anni, rappresentanti 89 squadre provenienti da 12 regioni d’Italia e suddivisi in 3 categorie: Giovanissimi, Esordienti e Allievi. 

La manifestazione si è svolta in un vero e proprio palcoscenico, l’Autodromo Enzo e Dino Ferrari famoso per Formula 1 e per le moto, storicamente prestato alle due ruote muscolari in più occasioni. In questa pista hanno trionfato Vittorio Adorni ai Campionati del Mondo nel 1968, Filippo Pozzato nel 2009 nella Settimana Tricolore. E poi l’arrivo di tappe del Giro d’Italia, di cui alcune in anni recenti con vittorie del russo Zakarin (2015) e dell’irlandese Bennett (2018). Per ultimi in ordine temporale: Anna Van der Breggen e Julian Alaphilippe, che qui poco meno di un anno fa hanno vinto la maglia iridata. Un’ambiente che ha accolto l’élite mondiale del ciclismo e in questi due giorni ha fatto da campo scuola per i giovani italiani.

Le voci dei giovani

La pit lane è costellata di ammiraglie, pulmini e gazebo delle società che danno vita a un contesto fatto di entusiasmo e aspirazioni ma soprattutto volto al divertimento. E’ proprio sentendo le voci dei ragazzi che si percepisce la spensieratezza e la voglia di praticare questo sport. Sorge spontaneo fermare qualche ragazzo per chiedere come vivono questa giornata di sport. Il primo a risponderci con voce emozionata è il piccolo esordiente Francesco:

Da quanto pratichi ciclismo?

Da 6 anni, la passione me l’ha trasmessa mio padre che va in bici da sempre.

Segui il ciclismo dei professionisti?

Si, il mio idolo è Wout Van Aert per come corre, sempre all’attacco.

Quello di Wout è un nome che risalta in quasi tutte le risposte che i ragazzi danno alla domanda: chi è il tuo idolo? E questo fa ben sperare perché è sintomo di un ciclismo in continua evoluzione proprio perché ai giovanissimi di oggi piacciono i “corridori moderni”, cresciuti all’insegna della multidisciplinarietà. Continuiamo a camminare, tra paddock e rettilineo d’arrivo, respirando quella tensione che per Giovanissimi ed Esordienti sembra davvero odore di scuola: si sale in sella per migliorarsi, per crescere, con costanza e impegno per giungere al risultato. Se non sarà una vittoria in bicicletta, il metodo sarà quello giusto per altri successi nella vita.

Ciao tu ti chiami? 

Elisa.

Perché hai iniziato ciclismo? 

Per la passione che abbiamo per questo sport in famiglia.

Hai aspirazioni, sogni?

Non in modo particolare.

Partecipare al Giro d’Italia non ti piacerebbe?

Mah, se capita. (ride)

Non tutti hanno un idolo, un “corridore moderno” di riferimento. Per alcuni la bicicletta è solo libertà, voglia di pedalare, stare con i compagni e con gli avversari. La bicicletta è bellezza. Anche questo fa ben sperare.

Diesse per passione

L’ambiente del ciclismo vive e respira di passione, quello giovanile più che mai. La parola d’ordine per queste categorie è spesso volontariato. I primi che mettono a disposizione il proprio tempo sono proprio i direttori sportivi, come Luca che abbiamo disturbato mentre gonfiava le bici e riempiva le borracce.

Da quanto fai il direttore sportivo?

Sono 5 anni, ho corso 10 anni e quando ho smesso ho iniziato subito ad allenare. 

Cosa ti spinge a farlo? 

L’amore per questo sport e vedere la passione negli occhi dei ragazzi. 

Oltre ai volontari della corsia box ci sono anche quelli dietro le quinte, della società Ciclistica Santerno Fabbi Imola, più di 100 nei due giorni, presenti su tutto il percorso per dare ogni tipo di assistenza e fare funzionare la macchina organizzativa. Tra loro ci sono tanti ex ciclisti della società imolese, ma non solo: ci sono i genitori dei tesserati, amici e colleghi coinvolti nel corso della settimana, ci sono cicloturisti di altre società sportive imolesi. «Ogni anno raddoppiamo lo stipendio», ha sempre detto sorridendo il presidente onorario e fondatore, Ilario Rossi. Un modo tutto romagnolo di scherzare: «Qui sono tutti volontari e il doppio di zero… è sempre zero!».

Un piccolo ciclista, di fronte alla grandezza degli spalti con un po’ di pubblico per il Gp Fabbi (foto Fulgenzi)
Un piccolo ciclista, di fronte alla grandezza degli spalti con un po’ di pubblico per il Gp Fabbi (foto Fulgenzi)

Parola all’organizzatore

Alla guida della società giallo-verde c’è Luca Martelli, che ha raccolto il testimone del fondatore Ilario Rossi, che a metà degli anni Novanta aveva avuto l’intuizione di portare il ciclismo giovanile all’interno dell’autodromo e che oggi è ancora in prima fila tra i volontari al lavoro. Segno di un ricambio generazionale che non è mai così facile attuare, ma che da queste parti è riuscito. 

Luca che cosa vuol dire per te il Gp Fabbi?

Innanzitutto il bello di fare una manifestazione in un impianto importante, famoso e tecnicamente impegnativo per i ragazzi. Ma cosa più rilevante, è sicuro, senza macchine e con strade larghe 12 metri. Credo ci sia un misto di emozioni per chi viene qua, sia per gli atleti che per gli allenatori. Provare questo circuito che hai visto in televisione per le macchine e le moto o più recentemente con i mondiali di ciclismo su strada 2020. 

Cosa vi motiva a organizzare tutto?

Noi eravamo tutti corridori e cerchiamo di trasmettere quello che hanno trasmesso a noi quando abbiamo corso qui, grazie all’idea di Ilario Rossi e al lavoro di tutti i suoi collaboratori. Siamo al 25° anniversario della competizione ed è bello vedere che come noi altri autodromi abbiano iniziato ad ospitare il ciclismo giovanile.

Come si vede se un ragazzo è un campione? Ce lo dice Toni

23.06.2021
5 min
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“Un giocatore lo vedi dal coraggio, dall’altruismo, dalla fantasia”, cantava De Gregori. E forse questo vale anche per un ciclista, ma per il nostro mondo contano, e tanto, anche i numeri. E Pino Toni, che di numeri se ne intende, ne ha visti passare di corridori: qualcuno era meno forte, qualcun altro è diventato un campione. Ma cosa distingue i primi dai secondi?

Per capirci: quando Damiano Caruso (in azzurro nella foto di apertura) andò dalla Sicilia alla Toscana, Giuseppe Di Fresco, il suo diesse poi della Mastromarco, lo portò da Toni. Fecero il test e il coach disse che c’era margine per farne un corridore. Quando Riche Porte andò dalla Tasmania alla Toscana, sempre Di Fresco lo portò da Toni. Fecero il solito test e l’esito fu lo stesso. E così via con tanti altri.

Valerio Conti, nel 2014 al primo anno da pro’ vesti la maglia bianca alla Vuelta
Valerio Conti, nel 2014 al primo anno da pro’ vesti la maglia bianca alla Vuelta

Da Caruso a Verre

«La lista è lunga e l’ultimo è Alessandro Verre – dice Toni – lo seguo io, poi però mi confronto con Valoti e Fusi. Non seguo la sua parte “amministrativa” ma qualche consiglio sulle squadre dove andare glielo dò. Immagino che presto possa passare pro’ dopo un Giro U23 come quello che ha fatto. L’ho preso l’anno scorso, alla ripresa post lockdown. Non si trovava molto bene con il suo precedente preparatore e abbiamo iniziato a lavorare insieme.

«Come vedo i campioni mi chiedevate… Bè, i numeri dei test contano molto, ma posso dire che ormai li sento. Sì, sento il rumore del cicloergometro. Ho la fortuna di utilizzare da oltre 20 anni i macchinari migliori, Srm, di svolgere lo stesso test e dal rumore che fanno mentre sono sul cicloergometro già capisco molto. Poi valuto anche la passione del ragazzo, il suo impegno…

«Il povero Antonio Fradusco (il tecnico romano scomparso il 31 maggio 2020, ndr) mi portò Valerio Conti quando era un allievo di primo anno e si capì subito che poteva fare bene, anche se era un ragazzino. Fece lo stesso con Antonio Tiberi, ancor prima che passasse alla Franco Ballerini. Anche se caratterialmente sono diversi, si vedeva che avevano qualcosa di buono. Si vedeva dal colpo di pedale».

Giulio Ciccone, ritiro Trek (foto Oliver Grenaa, Jojo Harper)
Il test incrementale è uno dei più duri in laboratorio (foto Grenaa, Harper)
Giulio Ciccone, ritiro Trek (foto Oliver Grenaa, Jojo Harper)
Il test incrementale è uno dei più duri in laboratorio (foto Grenaa, Harper)

Incrementale spietato

Il test di cui parla Toni è il classico incrementale: tutti partono da uno stesso wattaggio (molto basso) e per tutti ogni minuto l’incremento della resistenza (wattaggio) è lo stesso. Chi più dura è più forte.

«Poi chiaramente ci sono anche altri test, più evoluti che si basano sul consumo energetico e la produzione di lattato, ma quello incrementale resta alla base. Vedo i loro sguardi e i loro comportamenti, il modo in cui soffrono… Anche se questi sono aspetti che possono cambiare tra corridore e corridore e anche nel tempo. Parlando degli ultimi, per esempio, Ponomar è decisamente diverso da Tiberi. Andrii è molto più emancipato, più indipendente, Antonio è più timido, ma entrambi vanno forte.

«Una cosa però non cambia ed è la tecnica. Se ti arriva uno junior e devi lavorarci sulla tecnica, non è un buon segno. A quell’età è difficile».

Anche Martin Svrcek, in forza alla Franco Ballerini, è fra i talenti assoluti di Toni
Anche Martin Svrcek, in forza alla Franco Ballerini, è fra i talenti assoluti di Toni

Tecnica già acquisita

Ma cosa si intende per tecnica? Il coach toscano parla proprio di pedalata, di scioltezza sulla bici, di come si muove l’atleta quando è in sella, di fluidità.

«E poi riconosco subito chi è più “sgamato”. Lo vedo già da come si sistemano sul cicloergometro. Quelli meno esperti riproducono le misure della bici, quelli più scaltri riportano misure più corte, come in salita quando prendi il manubrio nella parte alta. Questo è un atteggiamento tipico di chi già sa. Sa che in quel modo la prestazione sul cicloergometro migliora. Ha angoli più aperti: respira meglio e soprattutto chiude meno l’arteria femorale che consente il passaggio di sangue alle gambe».

Pino Toni con i biker della Dmt Racing Team (Ferreira al centro con le mani sul viso)
Pino Toni con i biker della Dmt Racing Team (Ferreira al centro con le mani sul viso)

Il buongiorno si vede dal mattino

«Chi non andava nei test e poi è diventato forte… – ci pensa un po’ Toni – no, non ce sono. Semmai il contrario. C’è chi andava forte e poi si è perso. Uno che mi colpì fu Edward Beltran, arrivò secondo nel Giro Bio vinto da Betancur. Fece un test eccezionale. Doveva passare con la Ceramica Flaminia ma poi la squadra saltò, prese peso, si perse… Su di lui ci avrei scommesso».

Eppure tra i campioni che segue Toni, a suo dire, il numero uno non è uno stradista ma è un biker portoghese che corre in una squadra italiana (Dmt Racing Team): Tiago Ferreira, già campione del mondo ed europeo marathon.

«Tiago – dice il preparatore toscano – l’ho conosciuto che aveva già 29 anni, ma si presentò da me con valori di tutto rispetto, facendo meglio del miglior Tony Martin. Lui pone attenzione su tutto, quando arrivò mi tempestò di domande. Fa paura».

Anche Verre può ottenere grandi cose secondo Toni
Anche Verre può ottenere grandi cose secondo Toni

Giovani e limiti

Già, le domande: cosa chiedono i giovani atleti al coach? Una delle richieste più frequenti, che forse provengono dai team, è la paura di essere “già troppo in forma”.

«I ragazzi hanno già degli obiettivi, che sia la corsa di paese o un appuntamento più importante e vogliono arrivarci al top, mentre non capiscono che devono crescere in continuazione. I giovani da gennaio a marzo sono diversi, così come da marzo ad ottobre. E da novembre a febbraio devono continuare a crescere. Devo fargli capire che se lavorano bene, se osservano i giusti periodi di recupero non hanno un picco, ma una crescita costante. In quegli anni (tra juniores e U23, ndr) acquisiscono forza, progrediscono.

«Proprio Verre, per esempio, aveva paura di essere già troppo in forma per il Giro. Ma troppo in forma rispetto a cosa, mi chiedo? Se lo avessi rallentato, non avrei tirato fuori il suo potenziale. Perché avrei dovuto porgli dei limiti? Intanto, dico io, troviamoli questi limiti, poi semmai li manteniamo. Ma se in fase di crescita tu non spingi, non puoi sapere dove puoi arrivare. Tanto più in un Giro under 23 che è molto importante e può cambiarti la carriera. Per trovare i famosi picchi di forma, ne hanno di tempo…».

Samuel Quaranta debutta e vince. Storia incredibile

25.03.2021
5 min
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Samuel Quaranta, prima gara da under 23 e prima vittoria. Ormai sembra la prassi per la Colpack Ballan di Beppe Colleoni. Lo scorso anno fece la stessa cosa Antonio Tiberi, ad ExtraGiro: il laziale si portò a casa la crono. 

Samuel è figlio di Ivan, il velocista che negli anni ’90 infiammò le volate di tutto il mondo. Non solo, ma il “Ghepardo” è oggi anche uno dei diesse di Samuel. Storie e destini che s’incrociano.

L’abbraccio tra Samuel e Ivan Quaranta dopo la vittoria di Cantagrillo (Pt)
L’abbraccio tra Samuel e Ivan Quaranta dopo la vittoria di Cantagrillo (Pt)
Samuel, sei un primo anno e hai già una vittoria nel sacco. Te l’aspettavi?

Decisamente no, non me l’aspettavo. A Cantagrillo eravamo solo in due, io e Yuri Brioni, e la gara non era partita bene perché dopo 20 chilometri lui è caduto. In precedenza avevo corso solo a Larciano. Avevo fatto 120 chilometri, poi al secondo passaggio sul San Baronto mi sono staccato, proprio non ce l’ho fatta.

Come è stato quel momento?

Non sono mai stato così “a tutta” in vita mia! Però che bello vedere come aprono il gas i grandi, vedere da vicino Nibali, Quintana, Valverde…

Cosa ti ha detto tuo padre prima di partire per una gara così importante per voi, come appunto il Gp Industria & Artigianato di Larciano?

Che eravamo lì per fare esperienza, non dico senza obiettivo ma quasi. Dovevamo divertirci e magari per imparare qualcosa.

E cosa hai imparato?

Che cambia molto tra gli U23 (e per Samuel in quel momento il paragone era con gli juniores, ndr) e loro. Hanno un altro modo di correre, più regolare e se vogliamo anche più rispettoso in gruppo quando ci sono contatti, sbandate, inchiodate.

Tuo papà era emozionato?

Ma sapete lui non è che esprima molto i suoi sentimenti. Mi ha detto di godermela il più possibile: il livello era talmente alto che di certo non era quella la mia corsa. Tanto più con quella altimetria.

E tu eri teso?

Se per teso s’intende ansia da prestazione no. Però la sensazione di correre con quei campioni, di vedere i pullman del WorldTour… Era come quando andavo a vedere le corse vicino casa, solo che stavolta c’ero anche io a gareggiare. E’ stato bello.

Samuel Quaranta al Gp Industria & Artigianato di Larciano
Samuel Quaranta al Gp Industria & Artigianato di Larciano
Tuo padre Ivan è anche il tuo diesse. Com’è il vostro rapporto? Ti, e vi, sta sopra?

No, lui mi lascia libero. Sì, magari quest’anno che è anche il mio diesse qualcosa ogni tanto deve dirmela. Ma il suo ragionamento mi piace. Lui ci dice cosa fare, se poi noi non lo facciamo peggio per noi. «A me – dice lui – non cambia niente». Questo vale per me e per gli altri. Prima quando non era il mio diesse non mi diceva neanche quello. Ci limitavamo a parlare delle corse, mi chiedeva come fosse andata la mia gara, visto che lui era fuori con la Colpack. Poi sì, qualche aneddoto me lo racconta.

Ce n’è uno in particolare che ti è rimasto in mente?

No, uno specifico no. Però mi piace quando mi parla delle fasi di preparazione della volata al Giro o al Tour, quei momenti frenetici. Un conto è vederlo dalla tv, un conto è ascoltare chi certe situazioni le ha vissute in prima persona. E spero di metterle in atto anche io un giorno!

E tu cosa chiedi a tuo padre?

L’ultima cosa che gli ho chiesto è stata come rischiare il meno possibile per tenere le posizioni in volata. Quindi piccolezze, consigli di questo genere.

C’è una cosa che ci incuriosisce. Questa intervista dovevamo farla un giorno prima, ma tu ci hai risposto che dovevi studiare. Tuo padre invece era uno di quelli che andava a festeggiare in discoteca dopo le vittorie. Siete diversi?

Beh, per ora non ho il tempo per fare certe cose. La mia vita è scuola al mattino, allenamento al pomeriggio e casa la sera. Comunque di base sono un tipo tranquillo. Preferisco stare in casa. Poi un giro con gli amici dopo le corse credo che ci stia e che sia anche giusto.

Samuel (19 anni ad aprile) è anche un ottimo pistard
Samuel (19 anni ad aprile) è anche un ottimo pistard
Cosa studi? E sei bravo a scuola?

Sono all’ultimo anno di ragioneria. Come vado: diciamo che punto ad uscire senza problemi! Magari se un giorno deciderò di continuare vorrei dare seguito ad alcune materie che studio adesso: penso a un qualcosa legato alla finanza o al marketing.

Lasciamo i banchi di scuola e torniamo in bici: che corridore è Samuel Quaranta?

Sono un corridore un po’ strano. Sono veloce, lo vedo anche dai tempi su pista, però riesco a tenere molto di più in salita rispetto ai velocisti puri. Tengo meno, fatte le proporzioni, rispetto ad un Colbrelli, un Nizzolo: sono più un Viviani. E questo va bene per i tempi di oggi.

Quali sono le tue ambizioni in questa stagione?

Il mio obiettivo l’ho raggiunto: volevo vincere una corsa e ci sono riuscito. E adesso non so cosa fare! Come è giusto che sia dovrò aiutare i miei compagni. Già non credevo che avrebbero aiutato me. Brioni, anche se è più grande quel giorno mi ha aiutato, okay lui è uno scalatore e non avrebbe fatto la volata, però… In Colpack tutti hanno una possibilità, i più vecchi che cercano un contratto soprattutto. E quando tutti saranno apposto e avranno vinto la loro corsa, magari avrò un’altra possibilità. Intanto penso ad aiutare e a crescere. Ma certo la mia vittoria mi ha sconvolto i piani!

Filippo Pozzato

Un caffè con Pozzato prima di andare in bici

18.11.2020
5 min
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Come un fiume che spinge per trovare la strada, Pozzato si divide fra Monaco e la Toscana, il Veneto e le sue idee, cercando di portare avanti tutto nel modo migliore. Carne al fuoco ne ha tanta: qualcosa si può dire e qualcosa no, in attesa che giunga a cottura. Il primo progetto cui sta lavorando è l’organizzazione di una corsa WorldTour sul percorso del campionato italiano.

«Ma l’Uci non dà la qualifica al primo anno – spiega – e il tricolore non è un precedente perché era una gara nazionale. So che Di Rocco ci sta lavorando. So che Lappartient ha in mano il fascicolo. Ma si deve aspettare. E non costa neanche poco, parliamo di 300 mila euro per la licenza…».

Dalla sua scrivania, ma anche sulla sella della bici da cui intesse le sue relazioni (nel momento in cui leggerete questa intervista, realizzata di buon mattino, immaginatelo pedalare con il suo amico Johnny Moletta e Nicola Baggio, direttore generale di Selle Italia), il vicentino ha osservato la stagione conclusa. E si è fatto un’idea di quello che si è mosso sotto il cielo del ciclismo.

Vincenzo Nibali, Filippo Pozzato, mondiali Firenze 2013
Con Nibali ai mondiali Firenze 2013: da allora il mondo è cambiato
Vincenzo Nibali, Filippo Pozzato, mondiali Firenze 2013
Con Nibali ai mondiali di Firenze 2013
Qual è stato secondo Pozzato il bello del 2020?

Nonostante le polemiche, il ciclismo ne è uscito vincitore, concretizzando tutto in pochi mesi. Mettere in piedi la stagione non era facile. Ho visto le difficoltà del campionato italiano, tanto che a un certo punto avevamo pensato di rinunciare. Non oso immaginare che cosa abbia significato organizzare 21 giorni di Giro d’Italia fra trasferimenti, corsa e logistica.

E il brutto?

Il fatto che sia stata una stagione falsata, per chi non ha saputo prepararsi in così poco tempo. Però ha vinto chi doveva vincere, i più forti sono venuti fuori. Ed è evidente che il mondo sia cambiato.

In quale direzione?

Questi ragazzi hanno un sistema di lavoro impostato da quando sono piccoli. Ma non durano, secondo me. Li finiscono mentalmente. Cominciano da subito e sono sempre competitivi. Arrivano alla prima corsa tirati a lucido. Io ho vinto un Laigueglia con 4 chili di troppo. Mi sono staccato in salita, sono rientrato in discesa e ho vinto lo sprint. Oggi non sarebbe possibile.

Perché?

Il ciclismo è cambiato. Un giovane che ha qualità vere può emergere subito e mi fanno impazzire i miei ex colleghi che lamentano l’assenza di talenti. Oggi ci sono 50 corridori che vanno tutti forte. I numeri parlano chiaro. Non spiegheranno il mondo, ma non mentono.

FIlippo Ganna, Imola 2020, crono
Ganna a Imola, crono trionfale senza strumenti sul manubrio
FIlippo Ganna, Imola 2020, crono
Ganna iridato senza strumenti sul manubrio
Quindi Nibali ha ragione?

Con Vincenzo parlavo di questo anche l’anno scorso. Mi diceva: «Sono magro come quando ho vinto il Tour e ho gli stessi valori. Scatto in salita, mi giro e ce ne sono ancora 15». E’ un fatto. Come è un fatto che prima di Sky gli inglesi erano la 42ª Nazione del ranking e oggi sono quarti. Li prendevano tutti in giro. Gli dicevano che non si vince il Tour con le parabole. A distanza di 10 anni, si sono tutti adeguati. Chi più chi meno, con più o meno intelligenza.

Ad esempio?

Ad esempio la Quick Step è l’espressione del tradizionalismo. Però Lefevere ha fiutato l’aria e ha cambiato mentalità. Oggi vincono tanto spendendo meno di Ineos, ma avendo adottato schemi di lavoro simili. Se avessero lo stesso budget sai quanto vincerebbero? Hanno saputo imporsi in tutte le epoche. E intanto il gruppo dei vincenti si è allargato.

E’ la mondializzazione?

Esatto. Ineos ha vinto il Giro, il Tour e la Vuelta con quattro inglesi diversi e un colombiano. Wiggins, Froome, Thomas, Bernal e Geoghegan Hart. Gli americani una volta avevano solo Armstrong. Gli australiani solo Phil Anderson. Aspetto che vengano fuori gli atleti di colore, giusto il tempo che qualcuno inizi a farli lavorare sulla tecnica. E poi i cinesi. Al momento nessuno ci pensa, ma avete visto quante corse si fanno da quelle parti? Le generazioni stanno cambiando

Fisicamente o cosa?

Vanno forte in salita i corridori di 1,80. Ci sono cambiamenti fisici, è l’evoluzione della specie. Nell’inseguimento individuale, il tempo con cui quattro anni fa si vinceva un mondiale, adesso non va bene nemmeno per la semifinale. Per andare a 65 all’ora a quel modo si deve avere forza. Non vanno agili, fanno girare il lungo rapporto. E tanto dipende dal modo in cui si allenano.

Sono cambiate anche le preparazioni, infatti.

Giusto. Io partivo da casa e facevo 20 minuti al medio per scaldarmi. Due ripetute. Un po’ di lavori fuori soglia. Arrivavo in cima. Mangiavo un panino e tornavo. Poi andavo alle corse e ne bastavano un paio per andare forte. Oggi in corsa non ti alleni più. Oggi anche Bettini avrebbe problemi se si allenasse come faceva lui.

In Italia il cambiamento è stato recepito?

A Di Rocco dico spesso che i direttori sportivi non hanno capito bene. E’ possibile che ancora oggi Villa abbia problemi a farsi dare i corridori per la pista? Si sono accorti che i vincitori del Tour vengono dalla pista? Vogliamo fare finalmente il bene dei ragazzi? Le continental servono per far crescere il corridore e fare un’attività qualificata. Invece puntano alle corsette del martedì.

Taeo Geoghegan Hart, Jay Hindley, Sestriere, Giro d'Italia 2020
Hindley e Geogeghan Hart, già competitivi dai primi anni fra i pro’
Taeo Geoghegan Hart, Jay Hindley, Sestriere, Giro d'Italia 2020
Hindley-Geoghegan competitivi sin da subito
Ma anche Pozzato è in una continental: la Beltrami, giusto?

E spesso discutiamo, anche forte. Il mio riferimento è la Seg Academy olandese, ma non c’è verso. Continuo a vedere in giro sponsor che fanno le squadre solo vantarsi delle vittorie. Cinquant’anni fa poteva funzionare, oggi non più. Il direttore sportivo deve curare l’aspetto umano, ci mancherebbe, ma anche considerare che oggi si ragiona soprattutto in termini di watt e consumo di ossigeno.

Secondo Andrea Morelli del Centro Mapei non è tutto qui.

Infatti sono d’accordo, ma neanche puoi fare finta di non vedere. Pogacar ha vinto il Tour senza Srm nell’ultima crono. Ganna ha vinto il mondiale di Imola allo stesso modo, partendo forte e finendo a tutta. Ma in allenamento sono dati che servono. Il romanticismo va bene, ma da solo non basta più.

Più difficile oggi o quando correvi tu?

Oggi, tutta la vita. Non si stacca più nessuno. Quasi l’80 per cento delle corse arriva in volata: se non sei veloce, non vinci più. C’è un livello altissimo e su tutti i terreni.

Lo chiamano per andare in bici. Una cosa l’abbiamo capita. Il ciclismo pulito non è necessariamente un pedalare più lento. Il ciclismo credibile richiede un aumento esponenziale del lavoro. Ci sono controlli migliori. Strade migliori. Bici migliori. Atleti migliori. La storia va avanti. Ci si ferma appena per qualche istantanea e per elaborare il pensiero. Poi si torna a pedalare per perdere le ruote. E’ bene ragionare in prospettiva e concedersi il giusto tempo. Ma noi forse abbiamo già un buco da chiudere.

Jai Hindley, Laghi di Cancano, Giro d'Italia 2020

Jai e i suoi… fratellini terribili

29.10.2020
3 min
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Jai Hindley, 24 anni. Joao Almeida 22 anni. Tao Geoghegan Hart, 25 anni. Tadej Pogacar, 22 anni. Remco Evenepoel, 20 anni. Egan Bernal, 23 anni. Questi i nomi più in vista: sono i ragazzini che a vario titolo hanno monopolizzato il ciclismo mondiale negli ultimi due anni e che al Giro d’Italia e prima al Tour de France hanno scavato un solco rispetto alla vecchia guardia. Intendiamoci, la vecchia guardia non era al top, ma certo vedere la disinvoltura e la maturità con cui i giovani hanno gestito le situazioni più spinose ha sollevato il più banale degli interrogativi: dove sono i nostri?

Le teorie sono molteplici. Le società juniores hanno bisogno di essere ascoltate. E probabilmente il lavoro che oggi dovrebbe impostare la Federazione è proprio quello di raccoglierne le istanze per venire a capo della situazione. Noi un parere lo abbiamo chiesto a Michele Bartoli, che con i giovani spesso lavora.

E’ possibile che i talenti nascano soltanto all’estero?

Non credo che dipenda dalle mamme italiane, no. Invece dipende dal lavoro di base, che forse qui non viene fatto bene. Anche perché non sempre si parla di Paesi con più praticanti. A parte Hindley e l’Australia, intendo. Non so dire come lavorino nel dettaglio, ma dai contatti che ho è evidente che non si cerchi il risultato come da noi. Qua ogni categoria è un punto di arrivo, non c’è una visione d’insieme.

Tadej Pogacar, Planche des Belles Filles, Tour de France 2020
Tadej Pogacar, l’ultima crono del Tour senza strumenti… a bordo
Tadej Pogacar, Planche des Belles Filles, Tour de France 2020
Pogacar, l’ultima crono senza strumenti
Spiega meglio.

Un atleta ha il suo patrimonio fisico e psicologico. Se ogni anno lo spremi perché vinca e perché dimostri qualcosa, è come se in un bicchiere di vino cominciassi a mettere acqua. Alla fine, avrai più acqua che vino. Lo annacqui.

Corrono troppo?

Non è l’attività che fa male. Perché la fatica ti rovini, dovresti fare tre Giri d’Italia consecutivi. Il fisico se è stanco va in autoprotezione e recupera. Quella che fa male è l’iperattività mentale, che fa cambiare la percezione della fatica. Se cominci a vivere sotto stress a 16 anni, il cervello perde la percezione della fatica e di conseguenza perdi anche la capacità di fare la prestazione. E questo spiega anche un altro punto.

Quale?

Che questi fenomeni, tutti o quasi, sono arrivati al ciclismo tardi o da altri sport. Senza la trafila giovanile che logora. E’ lo stress che ti consuma. Almeida è arrivato al Giro senza pressione, Jai Hindley ci si è trovato, Geoghegan Hart lo stesso. Sono stati tranquilli e al momento giusto hanno lottato alla morte. La maglia non si regala, al momento giusto si combatte. Ma se fossero arrivati al Giro con l’obiettivo di vincere, non sarebbe andata allo stesso modo. Ha ragione Gilbert.

Su cosa?

Sul fatto che i giovani vanno forte perché imparano meglio e prima. Alcuni strumenti come il misuratore di potenza riducono i tempi, permettono di imparare prima. Da bambini le addizioni le fai con le dita, il misuratore è la penna con cui annotare il risultato.

Non è la calcolatrice con cui disimpari a far di conto?

Quella sarebbe semmai la bici elettrica, che toglie la fatica. Ma se impari a conoscerti a 16-17 anni, quando sei grande il misuratore non ti serve neanche più. Infatti Pogacar nell’ultima crono del Tour non aveva strumenti.

Quindi per te i nostri sono già logori mentalmente quando arrivano tra i pro’?

Io temo di sì, la testa guida tutto. Se ogni categoria è un punto di arrivo, l’eccesso di attività inizia a logorare già da bambini. Nel calcio dei bimbi ormai neanche guardano più il risultato, perché va bene che lo sport prevede il risultato e che per quello si lotti, ma da giovani lo si deve vivere con cautela.

Quindi escludi la teoria, di cui si parlava al Giro, per cui questi giovani dureranno meno?

E perché dovrebbero? Durano meno se perdono la testa, ma se continuano a stare con i piedi per terra e a lavorare nel modo giusto, vanno avanti finché vogliono.

Il ciclismo secondo Guarnieri

17.10.2020
6 min
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Parcheggio dei bus. Noi al di qua delle transenne, Jacopo Guarnieri al di là. Bolla inviolata. E’ sotto il cielo grigio di Conegliano prima della crono che incontriamo l’apripista più desiderato del Giro d’Italia. Il corridore della Groupama-Fdj però è molto più di un ultimo vagone da volata. E’ prima di tutto un uomo, un regista in corsa, un corridore vero.

Guarnieri (33 anni) è al suo secondo Giro d’Italia
Guarnieri (33 anni) è al suo secondo Giro
Jacopo, rispetto a molti tuoi colleghi sei sempre informato. Anche il fatto di usare molto Twitter la dice lunga. Non solo ciclismo, ma anche politica, ambiente… Dove nasce questo senso critico?

Ormai sono diventato grande. Nelle mie frequentazioni mi ritrovo a parlare di altri argomenti. Se capita una cena con i miei amici,  con le persone conosciute negli anni… non parlo di ciclismo.

Cosa hai studiato?

Itis e avevo iniziato legge a Brescia. Poi in concomitanza con il passaggio nel professionismo e col fatto che mi sentivo fuori luogo (erano tutti figli di avvocati) ho perso lo stimolo e ho lasciato. Penso che per essere istruiti e informati non si debba per forza passare dall’università.

Il cittì della nazionale di calcio, Roberto Mancini, sulla questione stadi chiusi e Covid, ha dichiarato che gli italiani hanno diritto al calcio. Cosa ne pensi? E soprattutto, cosa sarebbe successo se una cosa simile l’avesse detta un dirigente del ciclismo?

Ad un manager del ciclismo non lo avrebbero chiesto. Il problema per me è chi ha chiesto a Mancini una cosa che forse non è di sua competenza. Da parte sua avrei preferito una risposta del tipo: sarebbe bello che gli italiani potessero tornare allo stadio. Klopp a questa domanda replicò: e a me lo chiedete? 

A Villafranca Tirrena ha preparato il primo successo per Demare
A Villafranca Tirrena in testa per Demare
Come è cambiato il mestiere del ciclista da quando hai iniziato ad oggi? E in particolare quest’anno?

E’ sempre più esigente. Nelle prime gare da pro’ (2008-2009) riuscii a fare qualche risultato e per come mi allenavo allora oggi sarebbe impensabile. Anche con una condizione appena sufficiente potevi cavartela, oggi sarebbe impossibile. E quest’anno ancora di più. Per fare un esempio alla Poitou-Charentes, corsa di secondo piano, ho fatto la stessa fatica che sto facendo al Giro. 

Oggi nulla è lasciato al caso: tanti ritiri, alimentazione curata all’estremo…

Sì e no. E’ così per gli uomini di classifica e per alcuni team. Noi siamo un po’ diversi. Di ritiri e di altura ne facciamo poca. E questo mi piace visto che siamo molto lontano da casa per le gare. Prima del Giro abbiamo fatto un ritiro di sei giorni e basta. Pochi allenamenti, ma ben fatti. Quest’anno Demare ha voluto provare a fare un po’ di altura dopo il lockdown ed è andato a Sierra Nevada. Ma solo lui. Siamo più liberi. Sono energie “nervose” che si risparmiano.

I giovanissimi sono già vincenti. Pogacar, Evenepoel o lo stesso Antonio Tiberi che vince alla prima gara tra gli U23. Perché secondo te?

Quando sono passato io, i tempi per vincere erano diversi. Io ci misi qualche mese, Oss per esempio impiegò due anni. In generale si maturava più tardi. Non dico che i giovani di oggi siano sfruttati, ma certo sanno già tutto. Però non hanno margini di miglioramento. Sono già al 100 per 100. Io ho sempre fatto una distinzione tra campioni e fenomeni. Il campione è quello che si ripete. Pogacar è un fenomeno. Froome è un campione. Se Tadej si ripeterà sarà un campione. Perché un conto è vincere senza pressioni e un conto è farlo con le attese di sponsor, media, con uno stipendio pesante. Parlavo di questa cosa giusto l’altro giorno con Peter (Sagan, ndr). Gli ho detto: «Sono anni che vinci, ti sei ripetuto».

Demare con Guarnieri, i due corrono insieme dal 2017
Demare e Guarnieri corrono insieme dal 2017
A 25-26 anni potrebbero già “smettere”?

Voi media chiedete sempre fin dove possono arrivare. Pogacar vince il Tour, più di quello cosa può fare? Vincerne due in una stagione! Oltre questo non possono andare. Passano e sono pronti. E’ così. Questo magari limita ragazzi che da dilettanti non vanno così forte e che invece avrebbero margini più avanti. Il rischio vero è che se il prossimo anno Pogacar fa terzo al Tour, è andato male.

Non sei vecchio, ma neanche un ragazzino: cosa c’è nel futuro di Jacopo Guarnieri?

Per ora spero di fare altri quattro anni di carriera. Perché ho un sogno: Andare alle Olimpiadi. Voci di corridoio dicono che il percorso di Parigi 2024 sia per velocisti. Quella è la meta, poi vediamo cosa succede strada facendo. Il mio lavoro per ora mi piace e qualche progetto per la testa ce l’ho.

A Rimini la gioia immensa per il poker di Demare
La gioia immensa per il poker di Demare
Cosa?

Lo tengo per me. Vorrei allontanare la sfiga!

In gruppo sei un senatore. Lo vediamo in tv, ma anche come gli altri ragazzi s’interfacciano con te sui social. Questo ti rende orgoglioso? Ti cambia in qualche modo?

No, però mi dà sicurezza quando devo preparare uno sprint. Gli altri cercano di capire cosa farà la Groupama-Fdj con Guarnieri. Semmai sono un senatore del gruppetto! Davide Cimolai mi dice sempre: «Guarnierone come la vedi? Lo chiamiamo sto gruppetto?». Sarà che ho la voce grossa e mi sentono fino alla testa del gruppo…

Qual è lo sprint perfetto?

Non c’è. Forse c’è quello quasi perfetto. E credo che a Rimini ci siamo andati vicini. E infatti dopo l’arrivo si è vista la nostra felicità. Dipende da molte cose: larghezza della strada, vento, velocità, se tutti riescono a dare il 100 per 100.

Demare è partito quando tu eri ancora in piena spinta. Ha deciso lui tempi e lato per uscire…

Per questo siamo stati contenti. Perché è stata come una delle simulazioni che facciamo in allenamento. Quella cosa del “buco”, del metro di distanza in piena velocità consente ad Arnaud di lanciarsi più forte e quando mi affianca è già velocissimo. A Rimini mi ha passato che ero ai 150 metri. Meglio di così…

Sei il regista del treno. Parli molto in quelle fasi concitate?

In quel momento non molto. Parliamo più sul bus prima della corsa. In gara ognuno deve sapere cosa fare. Qui al Giro non essendoci Sinkeldam abbiamo lavorato su Scotson. Lui ha un po’ sbagliato nella prima volata, ma poi si è integrato subito.

Jacopo ha un grande rapporto d’amicizia con Peter Sagan
Jacopo ha un grande rapporto d’amicizia con Sagan
Visto che sei un “twitteriano” facciamo un tweet su un po’ di corridori. Partiamo da Almeida…

Coriaceo. Non credo che lo stiano sottovalutando, piuttosto fin qui non c’è stato il terreno per staccarlo. Le difficoltà vere arriveranno da oggi.

Sagan…

Una rock star, anche senza far risultato… (si ferma un istante, ndr). Vedete che anche io casco nel tranello. Alla fine ha vinto. Peter fa sempre notizia. Con le sue interviste e le sue impennate ha portato un vento di novità.

Pozzovivo…

Cavolo! Non molla mai. Determinato. Lo vedo in bici e mi chiedo come faccia a pedalare. Sinceramente dopo il ritiro dal Tour credevo fosse agli sgoccioli. Invece… Stoico!

Ganna…

Una centrale idroelettrica. Mai visto uno con così tanti watt. In una frazione di 100 abitanti illumina tutte le case! Senza limiti.

Infine Nibali…

Fenomeno… e campione. Se lo vuoi mandare più forte basta che gli vai vicino e gli dici: «Vince, ieri proprio non andavi eh…». Orgoglioso com’è vedi poi cosa combina. Allenamenti, corsa, fuori corsa… lui è un artista della bici.

E’ lui il tuo favorito del Giro d’Italia?

Di solito la terza settimana Vincenzo fa le buche per terra!

Bertolini: «Pidcock? E’ come Van der Poel»

22.09.2020
2 min
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Thomas Pidcock, detto Tom, è il nuovo fenomeno che avanza. Dopo Van de Poel, Evenepoel, Van Aert ecco un altro esponente della multidisciplinarietà piombare nel ciclismo dei grandi. Il prossimo anno vedremo l’inglese in maglia Ineos-Grenadier. Fino all’anno scorso il ragazzo di Leeds ha militato nella squadra U23 di Bradley Wiggins, appunto il Team Wiggins (quest’anno era alla Trinity Racing).

Tuttavia, proprio l’ex maglia gialla 2012 lo ha sconsigliato di accettare la proposta del suo ex team. Perché? Forse Sir Brad conosce il carattere del suo atleta e i metodi della Ineos e ha reputato incompatibile il “matrimonio”.

Per provare a saperne qualcosa di più abbiamo chiamato in causa Gioele Bertolini, uno dei crossisti (e biker) più forti d’Italia.

GP Sven Nys 2020. Da sinistra: Pauwels Sauzen, Mathieu Van Der Poel e Thomas Pidcock

Dalla strada al cross e non solo

«Pidcock è più forte di Van der Poel!», ha detto senza mezze misure il valtellinese. «E’ un vero fenomeno. L’ho visto in azione e fa paura. La cosa che mi colpisce di più di questi atleti è la loro capacità di passare dalla strada al cross, dalla crono alla Mtb e di essere subito pronti. Di solito ci si mette almeno un paio di gare per raggiungere il top, loro invece vanno subito fortissimo. Hanno un feeling pazzesco. E Tom per assurdo è ancora meglio di VdP. Mathieu ha impiegato un anno buono per essere forte in Mtb. Anche nel Cx di certo non lo batti sulla tecnica. Tom gira sulla pump track e fa downhill. Tuttavia non lo vedo ancora al pari di Remco Evenepoel, almeno su strada. Ci vedo più un Van der Poel proprio perché sa passare da una disciplina all’altra».

Tom superava gli avversari con una tale facilità che sembrava di un’altra categoria

Bertolini racconta anche che Pidcok però non è un simpaticone. Alla Transmaurienne (gara pre covid) ha rimediato 30′ di penalità per aver discusso con un giudice. C’erano stati dei problemi nella chiamata dello start e lui lo ha spintonato con la ruota. E anche in altre occasioni non è stato un pozzo di simpatia. Spesso se ne stava concentrato per i fatti suoi.

Quel mondiale in Danimarca…

«Quest’anno, nonostante sia giovane è già cresciuto molto, anche in MTB. Alla Transmaurienne nella tappa iniziale, molto lunga e dura, è arrivato secondo dietro a Leonardo Paez (il campione del mondo Marathon, ndr). Ha vinto il Giro d’Italia U23, ha fatto un numero agli europei sempre su strada. E ha corso il mondiale a Imola coi pro’. Magari potrà fare anche le Olimpiadi in Mtb il prossimo anno, ci sta».

«L’ho visto per la prima volta a Bogense, al mondiale di cross in Danimarca nel 2018. Era al primo anno tra gli U23 quando nel rettilineo risaliva gli avversari con una facilità disarmante. Sembrava di un’altra categoria. E’ entrato ai box, ha cambiato la bici con la calma di un veterano e quando è rientrato ha continuato a saltare gli altri al doppio della velocità».