EDITORIALE / Il silenzio dei media non diventi rassegnazione

03.02.2025
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A cosa serve rimestare nel dolore? Certamente accresce il senso di fragilità, fa rivivere il dramma, ma in che modo incide sul fatto che oggi un uomo o una donna si metterà al volante e, leggendo messaggi nel suo smartphone, rischierà di uccidere qualcuno? 

Matteo Trentin ha detto una verità spietata: ci sono morti di serie A e morti di serie B. I morti del ciclismo, per qualche inspiegabile ragione, non scuotono le coscienze. Forse davvero se un dramma del genere toccasse le case della politica, allora si capirebbe la necessità di intervenire. Non accade nulla quando viene ucciso un campione come Scarponi, quando tocca a Rebellin e neppure quando muore una ragazzina di 19 anni. Importa ai loro cari, importa a noi che in qualche modo ne condividiamo la passione e gli ideali, ma per il resto il mondo là fuori sembra anestetizzato.

Il 27 gennaio, Palù di Giovo ha dato l’ultimo saluto a Sara Piffer, uccisa da un automobilista a 19 anni (TGR Trento)
Il 27 gennaio, Palù di Giovo ha dato l’ultimo saluto a Sara Piffer, uccisa da un automobilista a 19 anni (TGR Trento)

L’informazione assente

E’ anestetizzato o imbavagliato anche il mondo dell’informazione (in apertura, immagine depositphotos.com). Si cerca il pezzo scritto bene, che magari faccia piangere. Ma se guardiamo, sono parole e reazioni che restano fra noi, come di commiato al funerale. Si ha la sensazione di quando c’è un formicaio e te ne infischi di cosa accade là sotto quando gli versi sopra il veleno o un secchio d’acqua. Solo che questa volta le formiche siamo noi e stiamo facendo il loro gioco.

Ci sono media di serie A e media di serie B, siamo consapevoli anche di questo. Non per dignità o capacità giornalistiche, quelle siamo pronti a rivendicarle, ma per la potenza di fuoco. Di fronte al dramma, i loro giornalisti si sfogano sui social personali, ma per il resto sono inchiodati a ordini diversi. Possiamo metterci tutto l’ardore che vogliamo, ma giochiamo in una lega minore rispetto ai colossi che hanno alle spalle grandi aziende e interessi superiori a quelli di cui stiamo parlando. Interessi che forse impongono il silenzio: altrimenti perché anche loro non sono qui a pretendere una svolta? Evidentemente ai loro capi bastano Sinner, Hamilton e il calcio per essere felici.

Nessuna protesta, va tutto bene. Perché il ciclismo non si ribella al silenzio della politica davanti al dramma reiterato? (depositphotos.com)
Nessuna protesta, va tutto bene. Perché il ciclismo non si ribella al silenzio della politica davanti al dramma reiterato? (depositphotos.com)

Ma anche le formiche a volte…

Qualche giorno fa abbiamo proposto di mettere in strada una manifestazione che invada pacificamente Roma e rivendichi i diritti degli utenti deboli della strada: deboli, non insignificanti. Abbiamo ricevuto reazioni e adesioni da parte di atleti professionisti e anche da associazioni di primissima grandezza. Non è detto che non sarà una strada da percorrere e ci piacerebbe condividerne l’ideazione anche con altri che abbiano a cuore come noi il problema.

Avevamo in animo di aprire la settimana parlando dei giganti. Di Van der Poel e di Pogacar, in uno sport che vive fasi esaltanti per la presenza di campioni immensi. Avevamo già cominciato a scrivere, eppure qualcosa ci ha impedito di farlo. Con quale cuore si può sperare che un bambino o una bambina segua le loro impronte, se proporglielo significa implicitamente far rischiare loro la vita? Lo capite perché c’è bisogno di una rivoluzione pacifica ma niente affatto morbida? Bisogna bonificare l’Italia. Forse è il tempo di lasciare da parte gli strumenti della cicala e diventare un po’ più spesso concreti come le formiche. Ricordando, come dice il libro, che a volte anche le formiche nel loro piccolo…

Agostinacchio e Viezzi, due iridati a confronto, anche su strada

03.02.2025
6 min
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Il titolo mondiale juniores di ciclocross resta in Italia. Nel 2024 Stefano Viezzi, oggi Mattia Agostinacchio. Il friulano ci aveva messo sopra la Coppa del mondo, Mattia ha dovuto mandar giù la sconfitta nella challenge all’ultimo giorno, ma a casa tiene sempre la maglia di campione continentale, una doppietta che testimonia la sua superiorità anche perché i due percorsi, a Pontevedra e Lievin, erano profondamente diversi fra loro, per caratteristiche e condizioni del tracciato.

La rimonta di Agostinacchio nell’ultimo giro iridato è qualcosa che rimarrà impresso nella memoria
La rimonta di Agostinacchio nell’ultimo giro iridato è qualcosa che rimarrà impresso nella memoria

Il confronto fra i due viene naturale. Dal prossimo anno torneranno rivali e Pontoni già pregusta una coppia fantastica da schierare nei tavoli che contano, confrontandosi da pari a pari con quelle scuole, Belgio e Olanda, oggi meno lontane di quanto apparissero quando è salito alla carica di cittì. Parliamo però di due corridori molto diversi e metterli uno di fronte all’altro è un gioco che viene naturale e che riempirà anche le settimane e i mesi d’intervallo da qui alla ripresa delle ostilità, tanto più che ora li attende la stagione su strada.

Paolo Mei, commentatore tv per la Rai, li ha visti da vicino per tutto l’anno e conosce affinità e differenze: «Tra le prime c’è innanzitutto la classe innata, quella che permea solo pochi eletti ed è clamoroso che siano nati in Italia, entrambi, a così ridotta distanza di tempo. In scala ridotta rivediamo quel che è ormai abituale per belgi e olandesi. A me colpiscono le loro movenze, da ciclocrossisti consumati, le stesse che vedi da parte dei grandi della Coppa del mondo».

Paolo Mei, speaker per la Rcs Sport e commentatore Tv nel ciclocross
Paolo Mei, speaker per la Rcs Sport e commentatore Tv nel ciclocross
Come loro, li vedi ben predisposti anche per la strada?

Sicuramente, hanno di base una grande eleganza nelle loro movenze. Viezzi nelle sue ultime uscite mi è sembrato proprio un professionista della strada, di quelli che vedi tranquillamente emergere anche nelle classiche del Nord, tra Fiandre e Roubaix. Alla lontana ricorda molto Van der Poel e capisco come quelli della Fenix abbiano voluto portarlo nelle loro file. La sua tecnica e il suo fisico lo definiscono come un vero passistone.

E Agostinacchio?

Mattia, che tra l’altro è valdostano come me, è un altro che nelle classiche può fare molto bene, ma ha caratteristiche diverse, è più scattante. Di lui la cosa che mi colpisce è la sua professionalità, lattenzione anche per le piccole cose, la sua capacità di leggere la corsa. Ha un modo di muoversi sul percorso che mi entusiasma, la sua rimonta finale a Lievin è qualcosa che resterà negli annali, soprattutto su un percorso che non era adatto a lui. E’ un corridore modernissimo.

Nella sua evoluzione quanto ha influito il fratello?

Tantissimo, è stato un peccato non vederlo in azione a Lievin. Fra i due c’è un bellissimo rapporto e aver visto Filippo vivere le sue esperienze poco prima è stato un grande aiuto. Mattia in tal modo si è abituato prima alla vita del corridore, possiamo dire che la vive da anni pur non essendo ancora maggiorenne.

Differenze?

Innanzitutto quelle fisiche, evidenti. Viezzi è più alto, Agostinacchio più leggero e questo si traduce anche in due impostazioni di gara diverse. Stefano ricorda molto i ciclisti olandesi, Mattia è forse ancora più in evoluzione, nel senso che è da vedere come andrà avanti, che cosa diventerà. Questo lo rende particolarmente capace nel rilanciare all’uscita dalle curve, dove davvero fa la differenza sugli altri. Viezzi dalla sua ha la capacità di tenere le alte velocità per più tempo. A Lievin ha pagato scotto alla sfortuna con qualche scivolone e alla diversa esperienza rispetto a chi è alla fine della sua categoria, ma il suo quarto posto ha un valore enorme.

Per Viezzi un mondiale più che positivo, a lungo 2° e finito 4° per un calo nel finale
Per Viezzi un mondiale più che positivo, a lungo 2° e finito 4° per un calo nel finale
Viezzi ha scelto l’estero, Agostinacchio no o almeno non ancora. Questo influirà sulla loro evoluzione?

Discorso delicato. Partiamo col dire che Stefano ha fatto la scelta giusta. Se la Fenix ha deciso d’investire su di lui significa che ci crede e i risultati già danno loro ragione. Non era così scontato che a 18 anni Stefano riuscisse già a fare una top 20 in Coppa. Si sta mentalizzando per un grande club e secondo me farà bene anche su strada. Poi la vicinanza con Pontoni gli è servita tanto, mentalmente gli ha insegnato molto nell’approccio con le gare.

E Mattia?

Io credo che la scelta di restare alla Guerciotti non sia sbagliata. E’ il team più evoluto in Italia, fa grande attività all’estero, fornisce tutto quel che serve a un ciclocrossista. Non dimentichiamo che nelle sue file hanno vinto il mondiale gente come Kluge (per me stilisticamente il miglior ciclocrossista di sempre) e Djernis, non gli ultimi arrivati e entrambi facevano anche la doppia attività quando questa non era un’abitudine come oggi. Lo stesso Pontoni ha costruito lì i suoi grandi successi. Mattia è nel team giusto per crescere, poi molto dipenderà da come si evolverà la sua carriera, anche su strada.

In Coppa a Hoogerheide Viezzi aveva colto il 3° posto, dimostrando di essere già ai vertici della categoria
In Coppa a Hoogerheide Viezzi aveva colto il 3° posto, dimostrando di essere già ai vertici della categoria
A proposito di multidisciplina, anche i due ragazzi italiani sposano il ciclocross con la strada, mentre una volta si rimaneva prevalentemente nell’offroad. E’ un’evoluzione naturale e conclamata secondo te?

Io penso di sì. Ormai nella mountain bike o sei Pidcock oppure non ci vivi, non hai quelle possibilità economiche che ti dà la strada, infatti anche i bikers di livello si stanno convertendo. Nel ciclocross però girano molti più soldi che nella mountain bike perché nel Nord Europa ci hanno costruito sopra un vero circo, con team professionistici che guadagnano molto e possono pagare. Gli stessi fratelli Pezzo Rosola hanno deciso di andare contro la tradizione famigliare e Kevin spesso ha ammesso di essere rimasto nella mtb oltre il dovuto.

Agostinacchio ora lo vedremo su strada e chiaramente avrà tutti gli occhi puntati addosso…

Farà bene anche lì, ne sono sicuro e anzi non vedo l’ora, perché vederlo in gara è un vero piacere per gli occhi.. E’ un predestinato, proprio come Viezzi.

Cos’è cambiato nelle scelte di Pidcock? Proviamo a capire

03.02.2025
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Prime corse, primi dislivelli degni di nota e Pidcock timbra subito il cartellino. Materiali e bici differenti, ma qualcosa è cambiato anche nel fitting del corridore britannico.

Scott Addict RC e Foil a disposizione (le due vittorie la ha ottenute con la nuova Addict), trasmissione Sram Red e ruote Zipp, tubeless Vittoria. Grazie al contributo del suo meccanico Edgar Coso Ferrer vediamo però cosa (e se) è cambiato rispetto al bikefitting usato fino all’anno passato.

I materiali a disposizione di Pidcock

Appena entrato nell’orbita del Q36.5 Pro Cycling Team, a Pidcock è stata fornita la nuova versione della Scott Addict RC, in una livrea particolare: non la medesima in dotazione alla squadra. Durante i primi ritiri sono arrivate le bici ufficiali e alla Addict si è aggiunta anche la Foil: la prima da usare per le corse con i dislivelli importanti, la Foil per le tappe pianeggianti e vallonate.

Durante i test invernali il corridore britannico ha usato per la maggiore il plateau 54-41 e la scala pignoni 10-33 posteriore, combinazione utilizzata anche all’ALUla Tour. La trasmissione è Sram Red, il power meter Quarq, pedali Shimano e sella Prologo Scratch M5 PAS (forse non ufficiali, ma evidenti, entrambi usati in precedenza sulla Pinarello). Le ruote Zipp 454 NSW, con tubeless Vittoria Corsa Pro da 28 millimetri di sezione. Spicca inoltre il reggisella con il massimo arretramento disponibile e le pedivelle da 165 (in precedenza usava le 170).

Edgar Coso Ferrer, meccanico della squadra svizzera in cui da quest’anno milita Pidcock (foto Team Q36.5)
Edgar Coso Ferrer, meccanico della squadra svizzera in cui da quest’anno milita Pidcock (foto Team Q36.5)
Quando avete messo in misura le bici di Pidcock?

Dal primo di dicembre in avanti abbiamo iniziato sulle bici di Pidcock, immediatamente dopo il suo arrivo ufficiale. Come è facile pensare abbiamo aspettato i telai da Scott. Dal primo ritiro siamo andati a tutta per preparare le bici ufficiali, da allenamento e gara.

Rispetto a quella da lui usata al Team Ineos, avete fatto delle variazioni?

Le misure sono rimaste identiche, solo qualche piccolo aggiustamento legato alle geometrie della bici, differente tra Scott e Pinarello, ma le misure sono quelle anche per richiesta del corridore.

Un arretramento della sella che sembra fuori tempo!

Lui pedala in questo modo, comunque ben centrato sulla bici e sul piantone, ma con una sella molto scaricata verso il retro. Potrebbe usare una bici di una misura maggiore, invece preferisce una taglia più piccola, arretrare la sella e usare un attacco manubrio lungo.

La taglia delle sue bici e quanto pesano?

Taglia XXS per Addict e Foil, potrebbe usare anche una XS, ma preferisce la XXS. La Addict è a norma UCI, 6,8 chilogrammi nella versione pronto gara, con il numero ed il trasponder applicati. La sua Foil è 7,09: entrambe a parità di allestimento con le ruote Zipp 454 NSW.

La lunghezza delle pedivelle che usa Pidcock?

165 millimetri, una delle primissime richieste, forse la prima che ci ha fatto quando abbiamo preparato tutti i componenti per le sue bici.

Ha fatto delle richieste in termini di bike fitting e per il montaggio delle bici?

Non ha avanzato richieste particolari, anche se è lampante il suo essere attento e curioso. Parla poco e sa quello che vuole, ascolta sempre, ma alla fine è lui che decide. Si percepisce che è convinto delle sue scelte, ed è molto professionale. Inoltre chiede molte informazioni sulle bici e sulla tecnica in genere.

Una Addict RC in mezzo alle Foil RC dei compagni
Una Addict RC in mezzo alle Foil RC dei compagni
C’è una delle due bici che considera primaria?

Per lui è la Addict la bici numero uno, la scelta principale. In diverse occasioni ha fatto apprezzamenti sulla reattività, facilità di guida e prontezza della bici, nervosa e scattante come lo è lui.

Van der Poel fa sette, Agostinacchio ci regala un’impresa

02.02.2025
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Finisce che nel giorno in cui tutti attendevano Van der Poel e Van Aert, il ricordo più bello dei mondiali di Leivin ha lo sguardo allegro, commosso e anche divertito di Mattia Agostinacchio, campione del mondo juniores di ciclocross, già campione d’Europa. E se la gara dei grandi ha confermato un copione così prevedibile da non essere particolarmente emozionante (per i non olandesi e i non tifosi di Van der Poel), la rincorsa dell’azzurro al titolo mondiale è stata rocambolesca come si addice a un’impresa.

«Sono partito anche bene – dice Agostinacchio sorridendo – direi in seconda posizione. Poi però me ne sono successe di tutti i colori, pur consapevole, avendo visto il percorso, che non si dovesse commettere il minimo errore. Ho rotto una scarpa. Mi si è abbassata la punta della sella. Ho bucato due volte. Però non ho mai mollato. E quando ho visto che all’inizio dell’ultimo giro avevo 10-15 secondi dal francese, mi sono detto: adesso o mai più».

Le ultime gare di Coppa non erano state il massimo per Agostinacchio: l’emozione ora è fortissima
Le ultime gare di Coppa non erano state il massimo per Agostinacchio: l’emozione ora è fortissima

Le parole di Pontoni

Questa è la storia di un giorno che Agostinacchio farà fatica a dimenticare, venuto dopo la delusione per la Coppa del mondo sfumata in extremis. Ma Pontoni ci aveva visto lungo, prevedendo che quella rabbia sarebbe stata benzina sul fuoco per il giorno di Lievin.

«Con Daniele ho un buonissimo rapporto – va avanti Agostinacchio – ed è capitato più di una volta che mi abbia ricordato i miei valori, anche quando ero io il primo a dimenticarli. Ero molto dispiaciuto per la Coppa, ma dentro di me sapevo che la forma continuasse a essere buona. C’è voluto un giorno per mandare via la delusione, poi ho spazzato via tutto e ho messo la testa sul mondiale».

Il fango ha reso le rampe più ripide scivolose e poco pedalabili: Agostinacchio non ama queste condizioni
Il fango ha reso le rampe più ripide scivolose e poco pedalabili: Agostinacchio non ama queste condizioni

L’ultimo giro a tutta

Peccato per la brutta sorpresa quando, arrivato in questo spicchio di Francia al confine con il Belgio, si è reso conto che il percorso disegnato dai francesi non gli piacesse neanche un po’ e ancor meno gli andava a genio il fango.

«I primi giri che vi abbiamo fatto sopra – sorride Agostinacchio – non mi hanno dato sensazioni buonissime, perché il fango non mi piace proprio. Però era quello e lo abbiamo affrontato, con le scelte tecniche che avevamo deciso alla vigilia e senza cambiare nulla per il giorno di gara. Se cambi proprio il giorno del mondiale, rischi di combinare dei disastri. Quando siamo arrivati all’ultimo giro e ho deciso di attaccare il francese, non mi sono messo a pensare a un punto in particolare. Si doveva fare la differenza su ogni metro. Per cui, quando l’ho preso e poi l’ho staccato, non mi sono più voltato sino alla fine. I francesi mi sono simpatici, anche quelli con cui mi trovo a lottare. In realtà credo di avere buoni rapporti con tutti…».

Oltre la sofferenza

E’ stata la gara più combattuta, ben più di quella degli elite. Il cittì Pontoni è d’accordo e tira le somme, dicendosi soddisfatto e fregandosi le mani per il domani che ci attende e anche per il dopodomani. Gli accenniamo le parole di Mattia sul suo ruolo di fine psicologo.

«A volte Mattia – dice Pontoni – ha bisogno di supporto psicologico più che del resto. Ha gambe e tecnica da vendere. Solo che come i grandi campioni, si spaventa e ha paura di essere giudicato dall’esterno. Va stimolato, anche se oggi c’erano poche cose che potevi dirgli. Sapevo che dovevamo crederci fino in fondo, perché aveva fatto la stessa rimonta a Zonhoven. Non ha ancora 18 anni, ma ha una qualità rara. Quando arriva al limite, riesce a varcarlo per i secondi necessari a fare la differenza. Oggi all’inizio dell’ultimo giro ha visto il fondo del barile, era ormai al buio, ma è riuscito ad andare oltre, aprendosi un portone. Oltre a lui, sono andati bene tutti gli altri. Grigolini, ma anche Pezzo Rosola che senza la caduta sarebbe finito nei cinque, al pari di Giorgia Pellizotti che era da medaglia. Grande gara anche di Viezzi, che al primo anno mi ha davvero colpito e bellissimo il Team Relay, specialità che mi piace tantissimo. Riparto soddisfatto, grato al mio staff, al team performance e alla presenza del presidente Dagnoni e di Roberto Amadio. Ci ha fatto piacere averli con noi e sono stati uno stimolo ulteriore».

Le chiavi del successo

Quando ha tagliato la linea di arrivo e anche ora che ci stiamo parlando, la sensazione è che Mattia Agostinacchio, 17 enne di Aosta, non si sia reso conto di cosa abbia combinato. Pur avendo vinto già il campionato europeo e avendo quasi portato a casa la Coppa del mondo, il mondiale è un obiettivo così alto da far tremare le gambe.

«Se tre mesi fa mi avessero detto dove sarei arrivato – ammette con un sorriso – non ci avrei creduto. Penso che la chiave di volta siano stati la maturazione atletica e gli allenamenti, ma da qui a pensare che avrei vinto il mondiale, il passo è lungo. Per questo faccio fatica a dire a cosa pensassi tagliando il traguardo e nemmeno mi ricordo chi sia stata la prima persona che ho visto. C’era tutto lo staff. Poi ricordo di aver salutato mio padre, che era qui a Lievin, ho chiamato mia madre e mio fratello che non sono potuti venire. Ho chiamato il mio procuratore. Sul podio ero emozionato, ma c’è una foto con la mano sugli occhi in cui stavo ridendo, non piangevo. Adesso però si torna a casa. Domani lo passo tutto nel letto a dormire. Poi mi riposo e solo poi penserò alla stagione su strada con la Trevigliese. Una cosa per volta, però. Oggi ho vinto il mondiale di ciclocross».

L’erede di Pozzovivo… secondo Pozzovivo

02.02.2025
5 min
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Chi sarà l’erede di Domenico Pozzovivo? Diciamo che la foto di apertura un bell’indizio ve lo ha dato! Parliamo di scalatori, ovviamente, quei ciclisti dal fisico minuto, dal grande rapporto potenza/peso e da un’attitudine innata alle salite. Nell’attuale ciclismo, dove gli scalatori puri si vedono sempre meno, esiste qualcuno che possa raccogliere la sua eredità? Un ciclista che per caratteristiche fisiche e tecniche possa avvicinarsi al lucano?

Lo abbiamo chiesto direttamente a Domenico. Con i suoi 165 centimetri per 53 chili e vent’anni di carriera da professionista, Pozzovivo è stato un grimpeur amato ovunque. Il tifo sulle strade del Giro d’Italia, ma non solo, lo ha dimostrato.

Domenico Pozzovivo (classe 1982) ha disputato l’ultimo Giro nel 2024. Quanto calore per lui
Pozzovivo (classe 1982) ha disputato l’ultimo Giro nel 2024. Quanto calore per lui
Domenico, chi può essere il tuo erede per misure, mentalità e modo di affrontare la salita? Tu eri uno scalatore puro, puro e non è facile trovarne come te…

Eh già, ma penso che sia anche una fortuna per loro! Assomigliarmi solo in parte può essere un vantaggio, oggi gli scalatori devono avere anche altre caratteristiche. Poi dire a un giovane che deve fare vent’anni di carriera come la mia è una grande responsabilità. Se ci limitiamo a parametri semplici come altezza e peso, Matteo Fabbro sembrava il più tagliato per questa successione. Ho pedalato vicino a lui e vedevo come affrontava le salite, il tipo di rapporti che spingeva. Ma non c’è solo lui…

Sulla spalla di chi altro appoggi la lama della spada?

Senza andare troppo lontano, nella mia regione c’è Alessandro Verre. Anche lui mi somiglia parecchio rispetto ai parametri fisici (e anche nella meticolosità, ndr). Con la differenza che Alessandro ha anche uno spunto più esplosivo rispetto a me, venendo anche dal ciclocross. Si alza un po’ di più sui pedali. Le misure antropometriche sono simili alle mie e potrebbe davvero essere uno scalatore puro di alto livello. Deve insistere e continuare a lavorare.

Tra i suoi eredi il lucano vedeva anche Fabbro (167 cm per 52 kg). Il friulano però ad oggi è senza team
Tra i suoi eredi il lucano vedeva anche Fabbro (167 cm per 52 kg). Il friulano però ad oggi è senza team
Lo scalatore puro è una figura che sta scomparendo?

Pochi anni fa c’è stata l’ondata dei colombiani che aveva riportato in auge questo tipo di corridori. Se dovessi dire chi mi assomigliava di più, tra loro ce n’erano tantissimi. Il loro modo di pedalare e di affrontare le salite era davvero simile al mio. Adesso però ci sono meno talenti emergenti dal Sud America e lo scalatore puro sembra in disuso.

Chiaro…

Oggi si cerca un corridore più completo, che possa difendersi in uno sprint ristretto e che a cronometro non perda minuti. Il ciclismo attuale vuole atleti in grado di gestire meglio tutte le situazioni di gara, anche se questo significa rinunciare allo scalatore puro.

Essere scalatori non è solo una questione di fisico, ma anche di mentalità?

Assolutamente. Anche adesso che ho smesso di correre, se esco in bici faccio sempre almeno 400-500 metri di dislivello all’ora. Ci sono corridori che possono tranquillamente fare un giro del lago di Como, per dire, senza nemmeno arrivare a 1.000 metri di dislivello. Io non ci riuscirei, dovrei impormelo. Questo è già un segnale chiaro della differenza tra chi ha mentalità da scalatore e chi no.

Verre (169 cm per 59 kg) è cresciuto nel mito di Pozzovivo: questa investitura ad erede sembra un segno del destino
Verre (169 cm per 59 kg) è cresciuto nel mito di Pozzovivo: questa investitura ad erede sembra un segno del destino
Una volta gli scalatori limavano le viti, foravano il manubrio per risparmiare grammi…

Oggi se c’è qualcuno che in gruppo controlla ossessivamente il peso della bici e dei componenti è quasi sempre uno scalatore, perché ogni grammo fa la differenza. E oltre certi limiti pochi etti possono davvero incidere, perché in percentuale quei grammi rispetto ad un passita di 80 chili contano di più.

Hai citato Fabbro e Verre, ma ci sono altri giovani italiani o stranieri che vedi come possibili eredi?

Restando in Italia, ci sono scalatori forti, ma pochi con la mia taglia e puri. Pellizzari e Piganzoli, ad esempio, hanno una grande attitudine alla salita, ma sono più completi. Mentre tra gli stranieri, l’anno scorso mi ha colpito Van Eetvelt, piccolo e ben tagliato per le salite. Ha già fatto vedere ottime cose e ha più esplosività di me. Il suo modo di pedalare anche è simile al mio.

A proposito del modo di pedalare in salita: questo sta cambiando?

Sì, e cambierà sempre di più. L’accorciamento delle pedivelle e le nuove scelte biomeccaniche portano anche lo scalatore puro a modificare il proprio stile. I corridori più alti e longilinei hanno trovato grandi vantaggi con i nuovi rapporti e una cadenza più alta, ma anche per lo scalatore puro ci sono miglioramenti. Io ho il rimpianto di aver scoperto queste filosofie biomeccaniche solo a fine carriera, senza poterci lavorare molto. Aumentare la cadenza aiuta a essere più freschi nel finale.

Giro 2022, la corsa rosa passa sulle strade di Verre e Pozzovivo
Giro 2022, la corsa rosa passa sulle strade di Verre e Pozzovivo
Torniamo a Verre, che consiglio daresti a Verre per crescere come scalatore?

Deve trovare la sua dimensione nei grandi Giri. Sono le lunghe salite della terza settimana a dare valore a uno scalatore. E attenzione: non è vero che la salita piaccia sempre a uno scalatore. Anche questa figura, a volte, ne ha abbastanza. E andare forte su quelle salite ti consacra come grande scalatore.

Qual è la salita iconica della tua zona che Verre dovrebbe affrontare più spesso?

Monte Viggiano. Fu affrontata anche al Giro d’Italia nella tappa di Potenza. Per l’occasione venne asfaltata, prima era una salita da capre, sia per le pendenze che per il fondo stradale. Ora è piacevole. Alessandro dovrà farsi una bella mangiata di Monte Viggiano per diventare ancora più forte.

Skerl: l’esperienza in Australia e un grazie al CTF

02.02.2025
5 min
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L’esordio di Daniel Skerl con la maglia del team Bahrain Victorious è avvenuto al Santos Tour Down Under, dal quale è rientrato martedì. Un viaggio lungo per la sua prima gara da professionista, un’esperienza che gli ha permesso di aprire gli occhi e capire cosa vuol dire correre nel WorldTour. Anche se prima c’è da smaltire la trasferta. 

«Sto recuperando dal jet lag – racconta mentre si trova a casa – a dire il vero non è stato così pesante, mi sarei aspettato di peggio. Era la prima volta che andavo a correre tanto lontano da casa, la trasferta più lunga in passato era stata in Belgio (dice con una risata, ndr)».

Daniel Skerl ha fatto il suo esordio nel WorldTour al Santos Tour Down Under
Daniel Skerl ha fatto il suo esordio nel WorldTour al Santos Tour Down Under

Gamba ancora da costruire

Partire con il Santos Tour Down Under a gennaio è sempre impegnativo, per due motivi: il primo è la preparazione accelerata. Infatti i corridori devono forzare già la mano nel ritiro di dicembre e ogni minimo intoppo si sente doppiamente. A seguire, a rendere difficile arrivare pronti all’appuntamento australiano sono la trasferta e l’ambientamento.

«L’esperienza in sé – dice ancora Skerl – è stata molto bella e abbiamo fatto una cosa molto buona, ovvero arrivare dieci giorni prima della corsa. Non mi era mai capitato di stare così tanto in un Paese nel quale avrei corso, questo mi ha dato modo di visitare un qualcosa. Di solito quando si corre non si ha modo di alzare la testa dalla lingua di asfalto sulla quale scorrono le ruote. Un giorno siamo stati in un Parco Nazionale nel quale abbiamo visto tutti gli animali autoctoni in libertà. In gara sono arrivato senza la migliore delle preparazioni».

Skerl e i compagni della Bahrain Victorious sono stati dieci giorni in Australia prima della corsa, un modo per scoprire il luogo
Skerl e i compagni della Bahrain Victorious sono stati dieci giorni in Australia prima della corsa, un modo per scoprire il luogo
Come mai?

A dicembre ho avuto due settimane di dolore al ginocchio, niente di grave però ho dovuto rallentare la preparazione. Non ero al meglio. Per la squadra alla fine è stata una trasferta positiva nella quale abbiamo avuto un po’ di sfortuna nelle prime due tappe, ma poi siamo riusciti a trovare due bei piazzamenti con Bauhaus. 

Per te invece che esordio è stato?

Era la prima gara con la Bahrain e inoltre era di categoria WorldTour. In sé le tappe non erano durissime, anche se nel momento in cui il gruppo apriva il gas la fatica si faceva sentire. In questo, il passaggio da una formazione continental a una WorldTour si sente.

Prima di partire la visita di un parco nazionale, con il tempo di farsi un nuovo amico
Prima di partire la visita di un parco nazionale, con il tempo di farsi un nuovo amico
Cosa intendi con “aprire il gas”?

L’intensità che si mette nei momenti cruciali e come lo si fa. Approcciare le volate era molto impegnativo, gli ultimi venti chilometri si facevano a manetta, con la parte finale sopra i sessanta chilometri orari di media. Si faceva fatica anche a stare in gruppo. 

I percorsi com’erano?

Penso di aver fatto gare più impegnative nelle mie esperienze precedenti tra i professionisti con il CTF. In Australia la tappa con maggiore difficoltà è stata la terza, nella quale c’era una salita nei primi chilometri, che abbiamo fatto a tutta perché la fuga non era ancora andata via. Poi è calato il ritmo e siamo andati del nostro passo. Nel finale ho fatto gruppetto con i velocisti, c’era anche Welsford. 

Al Tour Down Under, la Bahrain Victorious aveva in Bauhaus il suo velocista di punta
Al Tour Down Under, la Bahrain Victorious aveva in Bauhaus il suo velocista di punta
Ti sei trovato subito bene in corsa?

Rispetto alle gare under 23 la gara si svolge in maniera più tranquilla e lineare, in gruppo non c’è mai quella lotta tutti contro tutti. Correre con accanto certa gente come Geraint Thomas o Kwiatkowski fa un certo effetto, ma una volta che attacchi il numero passa in secondo piano.

Che ruolo avevi per questa tua prima uscita?

Aiutare Bauhaus a trovare il posizionamento per le volate, il suo ultimo uomo era Arndt che lo accompagna da tanti anni. Per me è stato meglio agire lontano dal traguardo così ho avuto modo di capire come si approcciano le volate nei professionisti.

Le tappe australiane non erano impegnative ma nelle fasi salienti il ritmo si alzava vertiginosamente, bisogna prendere le misure
Le tappe australiane non erano impegnative ma nelle fasi salienti il ritmo si alzava vertiginosamente, bisogna prendere le misure
E come si fa?

Per quello che ho visto al Tour Down Under c’è un treno che comanda, in quei giorni era la Red Bull-BORA- hansgrohe di Welsford. Dietro si crea la bagarre per prendere le ruote e la cosa più importante da fare è imparare a limare. La cosa più difficile è fare gli ultimi cinque o sei chilometri a velocità folli e poi riuscire a lanciare la volata. 

Dopo tanti anni un corridore di Trieste torna nel professionismo.

E’ una cosa che mi rende orgoglioso, in Friuli ci sono tanti atleti di livello ed entrare in questo circolo mi fa piacere. Speriamo di essere un esempio per i giovani ad andare in bici. Essere qui mi fa sentire di aver realizzato un sogno, ed avere l’occasione di fare il ciclista come lavoro mi dà la spinta per lavorare al massimo ogni giorno. Un grande grazie lo devo al CTF perché ho corso dieci anni con loro e mi hanno fatto crescere parecchio, senza mai lasciarmi andare. Quando ho firmato con il Bahrain devo ammettere che ho pensato anche a loro.

Trentin a metà fra la Tudor che cresce e la politica immobile

02.02.2025
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Ancora un mese prima del debutto. Qualche giorno a casa, poi Trentin andrà sul Teide a prepararsi per la Omloop Het Nieuwsblad da cui inizierà la quattordicesima stagione da professionista. Il trentino è a Monaco e dopo il suo allenamento di cinque ore, ne ha fatta una in più sulla mountain bike assieme al figlio Giovanni. Nel frattempo il Tudor Pro Cycling Team ha iniziato l’anno col passo giusto, vincendo con l’atteso Hirschi e il sorprendente Florian Stork.

«La squadra sta evolvendo bene – dice col tono posato (in apertura Trentin nella foto Tudor Pro Cycling) – sono stati fatti dei begli acquisti. Grossi nomi, gregari di esperienza come Haller e ragazzi dal vivaio. E’ una squadra che vuole crescere, ma sappiamo che c’è tempo per diventare WorldTour, quindi si possono fare dei bei passi ragionati».

La prima vittoria 2025 della Tudor è venuta al Gp Valencia da Marc Hirschi
La prima vittoria 2025 della Tudor è venuta al Gp Valencia da Marc Hirschi

Preparazione mirata

Intanto si lavora, ogni anno cambiando qualcosa, perché non puoi pensare di fare sempre lo stesso e pretendere che funzioni. La chiave cui fanno ricorso gli allenatori è proprio questa: introdurre ogni anno le variazioni che stimolino aspetti su cui c’è ancora margine.

«Il mio preparatore – spiega Trentin – ha riguardato l’andamento delle classiche 2024 e abbiamo basato il lavoro di forza della prossima primavera sulle esigenze delle corse che dovremo fare. Se vinco, significa che ci ha preso. Quello che c’è di diverso quest’anno è anche che con l’arrivo dei grossi nomi, in squadra c’è l’entusiasmo di correre per capitani che possono vincere e questo stimola tutti e fa sì che il punteggio della squadra cresca. Poi è chiaro che correndo in una professional, si debbano attendere gli inviti e la prossima è la settimana delle wild card. Saremo alla Roubaix, che per me potrebbe essere un obiettivo, cercando di avere l’avvicinamento più adatto. Confido che le idee si schiariscano a breve, anche chi organizza le corse sarà ansioso di sapere quali corridori avrà al via. Intanto vado in altura l’8 febbraio e ci resterò fino al 22».

La seconda vittoria del team elvetico è arrivata grazie a Stork al Trofeo Serra Tramuntana
La seconda vittoria del team elvetico è arrivata grazie a Stork al Trofeo Serra Tramuntana

La politica immobile

Non sono rimasti tanti i corridori del 1989 ancora in gruppo, quelli che resistono sono uomini che lasciano il segno come Matteo oppure Ulissi, mentre intorno il gruppo si riempie anno dopo anno di facce nuove che arrivano e spesso se ne vanno.

«L’esperienza paga – sorride sornione – anche se il ciclismo si è spostato verso i giovani, ha fame di volti nuovi. Costringono gli allievi a passare in grandi squadre juniores, dove devono andare come pro’. E se non passi entro due anni, non ti guarda più nessuno. E’ un concatenarsi di cose, che coinvolgono i team manager e i procuratori. Il problema è che perderemo tanti ragazzi. Se ne parla, ma è una cosa che non cambia. Come pretendere di ottenere rispetto sulle strade. L’unico modo perché qualcuno si muova è che tirino sotto il figlio di qualche politico, sembra brutto da dirsi, ma ci sono morti di serie A e morti di serie B. Solo quando vengono colpiti da vicino, si muovono subito».

Trentin si accinge a iniziare la seconda stagione in maglia Tudor Pro Cycling, la sua 14ª da pro’
Trentin si accinge a iniziare la seconda stagione in maglia Tudor Pro Cycling, la sua 14ª da pro’

I corridori non parlano

Il tema è caldo, la frase è brutale e descrive l’esasperazione di chi ci ha messo più volte la faccia e si è visto ricambiare con il silenzio. La morte di Sara Piffer è ancora nell’aria, trentina come Matteo che ammette di avere quasi fastidio a leggere i notiziari per il dolore di ogni volta e il fastidio per il silenzio degli altri.

«Perché i corridori non dicano nulla – commenta Trentin – sarebbe una domanda da fare a chi non dice mai niente. I corridori e anche gli organizzatori, ci vorrebbe poco a mettere da tutte le parti un cartello per il rispetto dei ciclisti. Tutto il mondo del ciclismo deve metterci la faccia, tutti insieme. Come i ferrovieri italiani, che stanno facendo come i francesi, si stanno fermando tutti. Ma la situazione non è solo italiana, anche in Spagna quest’anno l’abbiamo rischiata più di una volta. Anche là si vede che hanno mollato l’attenzione, mentre prima erano più attenti. Il solo modo per stroncare certe abitudini è fare multe pesanti, toccarli nelle tasche, ma è qualcosa che faticano a fare per paura di non essere rieletti. Hanno paura a chiudere i centri e imporre il limite dei 30 all’ora, senza rendersi conto che nelle città in cui è stato fatto, la gente è contenta. Come qui a Monaco. Cosa ci vorrebbe a lasciare le auto a casa e usare i mezzi pubblici? Invece tutti reclamano il loro diritto a usare l’auto e la città è bloccata. Solo che continuo a ripetere le stesse cose da anni e ci credo poco che possano cambiare…».

Il Lunigiana di Della Tommasina: emozioni a fior di pelle

01.02.2025
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Daniele Della Tommasina è uno dei volti del Giro della Lunigiana, lo ha corso quando era junior nelle edizioni del 1994 e 1995. La maglia era quella della Rappresentativa Ligure, praticamente questa corsa è sempre stata quella di casa. 

«Nella prima edizione che ho fatto da corridore – ci racconta Della Tommasina – il vincitore fu Danilo Di Luca, mentre l’anno successivo toccò ad Alessandro Brendolin. Io ho avuto la fortuna e la bravura di indossare per un giorno, nell’edizione del 1995, la maglia dei traguardi volanti. L’ho poi persa nelle tappe successive a causa di una foratura».

A sinistra Daniele Della Tommasina al Giro della Lunigiana del 1994
A sinistra Daniele Della Tommasina al Giro della Lunigiana del 1994

Cambiamenti

L’ultimo Giro della Lunigiana corso da Della Tommasina è stato esattamente trent’anni fa. Nel corso del tempo la gara ha subito dei cambiamenti e delle modifiche nel percorso, ma non nel significato che ricopre per chi la vive a due passi da casa. 

«Entrambi i percorsi – racconta ancora Della Tommasina – sia quello del 1994 che del 1995 erano molto impegnativi. Nel ‘94 una delle tappe arrivava in cima a Campo Cecina, una salita di venti chilometri sulla quale vinse Giuliano Figueras. Ora i percorsi sono meno duri. Inoltre noi correvamo su cinque giorni, non su quattro. Lo svolgimento era lo stesso e i chilometri per tappa erano simili. Chiaramente nel complesso erano di più. L’arrivo storico dell’ultima tappa era quello di Casano, dove hanno vinto figure come Evenepoel e tanti altri ragazzi poi diventati grandi campioni».

Dopo dieci anni dall’ultima volta Della Tommasina è tornato al Lunigiana come diesse
Dopo dieci anni dall’ultima volta Della Tommasina è tornato al Lunigiana come diesse
Cosa voleva dire per un ligure correre il Giro della Lunigiana?

Per me era un crescendo di tensione ogni volta. Anche noi avevamo il nostro albergo e facevamo una settimana tutti insieme. 

Sfruttavate il vantaggio di correre in casa?

Vivendo e allenandoci su quelle strade ogni giorno, avevamo la mappa stampata in testa, conoscevamo ogni curva. Cercavamo di sfruttare qualsiasi cosa in nostro possesso per avvantaggiarci. Durante la preparazione, un mese prima della corsa, facevamo la simulazione di tre o quattro tappe. I ragazzi della Rappresentativa Ligure che arrivavano da lontano, come Genova o Ventimiglia, restavano a dormire da me o da qualche diesse.

Questo lo storico traguardo di Casano, dove hanno vinto tutti i grandi del Giro della Lunigiana (foto Giro della Lunigiana)
Questo lo storico traguardo di Casano, dove hanno vinto tutti i grandi del Giro della Lunigiana (foto Giro della Lunigiana)
Tu poi ci sei tornato al Lunigiana come diesse dal 2006 fino allo scorso anno…

Anche dopo più di dieci anni, le emozioni erano le stesse. La tensione dei giorni prima, l’attesa, i preparativi… Anche dalla macchina la passione è rimasta uguale, anche se ho imparato man mano a gestire tutto. I primi anni da diesse non è stato semplice, con il passare delle edizioni ho imparato a gestire meglio la tensione sia mia che dei ragazzi. 

Quali sono le emozioni che ti ricordi maggiormente?

Se chiudo gli occhi mi rivedo ragazzo e mi viene la pelle d’oca. Ho sempre vissuto il ciclismo così, in maniera emotiva. Ricordo tutto: l’attesa per la tappa, la paura per le salite più impegnative. Sapete, non ero esattamente uno scalatore (ride, ndr). Forse il ricordo più doloroso è quando ho perso la maglia dei traguardi volanti. Quel giorno bucai e dovetti rincorrere per tutta la tappa e non ci fu modo di fare punti. 

Durante i tanti anni da diesse si sono susseguiti molti giovani che poi sono diventati grandi corridori

Durante i tanti anni da diesse si sono susseguiti molti giovani che poi sono diventati grandi corridori

Una volta salito in macchina che cosa hai cercato di portare?

Innanzitutto ci tengo a dire che i ragazzi di oggi vivono questa gara con lo stesso pathos, non è vero che manca la grinta e la voglia. In ammiraglia i primi anni portavo la stessa grinta che avevo sempre messo sui pedali. Inconsciamente ho provato a riappropiarmi di quella maglia che mi era sfuggita da corridore. In alcune occasioni siamo anche andati vicini alla vittoria, come con Crescioli nel 2021. 

Sfumata per poco.

Nella prima tappa Crescioli cadde e nel rientrare spese molte energie, cosa che pagò nel finale e perse venti secondi da Lenny Martinez. Quel divario rimase invariato fino alla fine, fu un grande rammarico perché senza la caduta chissà come sarebbe andata

Una delle sfide più appassionanti degli ultimi anni è stata quella tra Lenny Martinez e Ludovico Crescioli
Una delle sfide più appassionanti degli ultimi anni è stata quella tra Lenny Martinez e Ludovico Crescioli
Il tuo percorso da diesse è stato lungo, com’è cambiato?

I primi anni avevo mio padre accanto, poi con il Team Casano sono arrivati Di Fresco, Mansueto e Castagna. Si è costruita un’equipe completamente a sostegno dei ragazzi con tante figure importanti e tecniche.

Da Basso a Simoni. Anche Gilberto lancia suo figlio nella mischia

01.02.2025
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Se Santiago Basso da una parte inizia il suo impegno in un team prestigioso come la squadra development della Bahrain Victorious, l’amico-rivale Enrico Simoni non è da meno e si appresta ad affrontare la sua prima stagione nelle file della MBH Bank Ballan CSB, con cui suo padre Gilberto collabora dallo scorso anno. Per il trentino, cresciuto nell’Unione Sportiva Montecorona, è un gran salto, entrando a far parte di un team continental che svolge una gran quantità di attività all’estero.

Enrico Simoni con papà Gilberto e mamma Arianna. La scelta del team è stata tutta sua
Enrico Simoni con papà Gilberto e mamma Arianna. La scelta del team è stata tutta sua

Un salto che riempie d’orgoglio papà Gilberto e fa un certo effetto rivedere i cognomi Basso e Simoni sfidarsi sulle strade a un po’ di lustri di distanza da quanto Ivan e lo stesso Gibi facevano, infiammando le folle per uno di quei dualismi sui quali il ciclismo italiano ha vissuto e dei quali si sente sinceramente la mancanza. Gilberto, orgoglioso dei passi che suoi figlio sta facendo, ammette che una certa responsabilità in questo ce l’ha…

«E’ stato coinvolto da noi – racconta il trentino – facendo parte di una famiglia nella quale la bici ha sempre avuto un peso non indifferente. A parte il mio lavoro, tutti siamo sempre andati in bici, abbiamo respirato questa passione ed era facile farsi coinvolgere. Io ho sempre voluto che i miei figli facessero sport, poi il discorso della carriera è un’altra cosa».

Per il diciottenne Enrico Simoni il passaggio alla MBH è un grande salto, per affrontare i professionisti
Per il diciottenne Enrico Simoni il passaggio alla MBH è un grande salto, per affrontare i professionisti
Ti rivedi un po’ in lui, nelle sue sensazioni affrontando questo mondo?

Difficile dirlo, perché il ciclismo nel frattempo è diventato tutt’altro. Io mi rivedo in tutti i ragazzi che affrontano quello che ho affrontato io, ma mi accorgo che le differenze sono enormi, oggi allievi e juniores non sono certo quelli dei miei tempi, devi impegnarti molto più di quanto facevo io. E vedendo quel che ha fatto e fa Enrico, la differenza è evidente.

Ma tecnicamente quanto ha preso da te?

Un po’ mi assomiglia, intanto non ha paura di far fatica, ama la salita, non è certo un velocista. Ma è ancora un corridore grezzo, che approda adesso nel ciclismo che conta e che va plasmato. Intanto vedo che non teme l’allenamento, che in salita è portato alla resistenza e quindi ben strutturato per quelle lunghe. Anche da junior ha vinto in salita, al Bottecchia ha fatto pian piano il vuoto.

Enrico è uno scalatore come il padre, ma con un fisico diverso, più slanciato
Enrico è uno scalatore come il padre, ma con un fisico diverso, più slanciato
Fisicamente?

E’ già 10 centimetri più alto di me, ma il suo fisico è asciutto, tipico da scalatore.

Il suo 2024 come lo hai visto?

Nella prima parte dell’anno non bene, non trovava mai la condizione per problemi fisici, poi finalmente è arrivata la pace e con essa i risultati, con ottimi piazzamenti oltre alla vittoria di Piancavallo. Anche quelli hanno influito, catalizzandogli addosso i fari dell’attenzione. Ed è stato un bene, passare senza risultati poteva dargli qualche contraccolpo psicologico.

Simoni al centro sul podio di Piancavallo, fra Cobalchini (2°) e Manfe (3°)
Simoni al centro sul podio di Piancavallo, fra Cobalchini (2°) e Manfe (3°)
Approvi la sua scelta come team?

Sì, è ideale per il suo percorso. Lo aiuterà a crescere mentalmente, a prendere più consapevolezza dei suoi mezzi. Sono anche contento che sia in un team italiano: spesso vengono un po’ bistrattate le nostre squadre, ma bisogna anche pensare che sono l’humus della nostra attività, a finire in un team straniero è sempre una minoranza.

Il suo cammino è diverso dal tuo?

Profondamente. Io alla sua età subivo meno condizionamenti, anche perché vedo che i ragazzi hanno addosso un peso che noi non avevamo, i social, il fatto di essere sempre sotto l’occhio della comunità. Servono le persone giuste intorno per farli crescere e non parlo solamente a livello ciclistico. Io mi sono costruito, ma non ero così pressato alla sua età, chi ha 18 anni oggi fa già la vita de corridore con un margine di errore davvero minimo.

La vittoria al Trofeo Bottecchia di Piancavallo è stata la sua perla del 2024
La vittoria al Trofeo Bottecchia di Piancavallo è stata la sua perla del 2024
Non t’incuriosisce il fatto che con Santiago Basso si ripropone quella rivalità di famiglia?

Effettivamente è strano, ma ci sono anche altri, so che tutti loro fanno gruppo, confrontano spesso le loro esperienze. I nostri figli portano addosso un nome pesante, che accresce l’attenzione su di loro, ma non c’è mai un destino uguale all’altro, non faranno mai quello che abbiamo fatto io e Ivan perché siamo in un’altra epoca. E non lo dico come qualità di risultati, potranno anche fare meglio. Noi come genitori possiamo solo aiutarli a trovare la loro identità.

Il cognome lo ha mai sentito come un fastidio?

Diciamo che un po’ ne risente, il sentire sempre “figlio di Gilberto” non gli fa piacere, proprio perché vuole trovare una sua strada indipendentemente da me. Ora che la sua carriera prende inizio, spero che possa aiutarlo ad affrancarsi da questa situazione.

Basso e Simoni nella celebre tappe del Mortirolo al Giro 2006, che fece esplodere la rivalità
Basso e Simoni nella celebre tappe del Mortirolo al Giro 2006, che fece esplodere la rivalità
I rapporti con lui come sono, vi confrontate su temi ciclistici?

Sì, lui ascolta, ammetto anche che in certi casi mi sono un po’ imposto, come sul fatto di non prendere quello che appare in Rete come oro colato. Mi sono sempre raccomandato di gestire le emozioni e affrontare le responsabilità dell’appartenenza a un team. Ma anche di continuare a vivere il ciclismo come un piacere, perché è ciò che lo rende speciale.