Con la schiena non si scherza: Fondriest lo sa bene. E Vdp?

28.01.2022
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Un bel mistero avvolge la ripresa di Van der Poel che ha lasciato il ciclocross per recuperare e dirigersi verso la stagione su strada. Non è stata ancora fissata alcuna data per il debutto. Mathieu ha subìto un intervento al ginocchio, per la conseguenza di una caduta in allenamento, e adesso sta facendo i suoi esercizi per rinforzare la schiena. Il pasticcio, se di pasticcio si è trattato, si è innescato probabilmente al momento di riprendere dopo la caduta di Tokyo.

Anche Van der Poel a Tokyo ha battuto il coccige: è mistero sul suo ritorno
Anche Van der Poel a Tokyo ha battuto il coccige: è mistero sul suo ritorno

L’esperienza di Fondriest

La schiena è una cosa seria. E così… masticando la storia dell’olandese della Alpecin-Fenix, siamo arrivati alla porta di Maurizio Fondriest (in apertura nell’inverno da campione del mondo), cui la schiena non trattata a dovere ha condizionato la carriera e che è per giunta anche un uomo immagine di Alpecin. Sono altri tempi e altre sono le conoscenze in materia, ma la schiena resta sempre una cosa seria.

«E’ davvero una cosa seria – sottolinea il trentino – che si innesca su eventuali predisposizioni dei singoli. Io ad esempio anche da piccolo avevo dei dolorini. Da militare facevo fatica a stare tanto in piedi. Diciamo che la schiena era la parte debole del mio corpo, ma i guai cominciarono nel 1988 quando caddi al Giro del Trentino e battei il coccige. Vai giù, batti forte, ci sta che il coccige faccia male. Ma ripartii e quell’anno vinsi anche il mondiale. Eppure l’anno dopo cominciarono i problemi, con un dolore fisso nella zona lombare. Sono cose che ricostruisci dopo, perché quando ci sei dentro non te ne rendi conto. Erano anche anni in cui non si faceva un gran lavoro su addominali e dorsali come oggi. Io andavo in bici d’estate e sciavo d’inverno. Mi era sempre bastato, per questo oggi ai miei ragazzi raccomando di lavorare bene in palestra…».

Mathieu, viene da chiedersi, lavora tanto in palestra oppure preferisce lavorare solo sulle sue bici da strada, da cross e sulla mountain bike? Il discorso va avanti, il ricordo prosegue.

Che cosa successe?

Nell’inverno del 1990 ero in vacanza in Messico e a saltare nelle onde presi il colpo della strega. Tornai in Italia piegato e iniziai la preparazione con la schiena in crisi. Pedalavo con un chiodo conficcato nel gluteo. Facevo stretching, mi allungavo, ma il dolore non diminuiva. Cavoli, mi dicevo, ho appena firmato con la Panasonic, non posso dirgli che sono malato. Ma proprio gli olandesi mi portarono da un osteopata.

Per fortuna…

Infatti le cose un po’ migliorarono. Poi andai da un fisioterapista in Belgio e quello trattò il gluteo e mi fece saltare dal dolore e si raccomandò che andassi regolarmente in palestra. E qui commisi l’errore fatale, ora posso dirlo.

Vale a dire?

Feci due giorni di esercizi e poi dissi basta. Non credetti che con quel lavoro specifico avrei risolto i miei problemi e sbagliai. Se il mal di schiena discende da un problema scheletrico, lavorando sui muscoli puoi rinforzare la zona. Oggi faccio 4 giorni a settimana di lavoro specifico, allora ero giovane e forte e pensai che ne sarebbero bastati due in tutto. Fu un errore, ma non c’era minimamente in giro la stessa competenza di oggi.

Van der Poel è rientrato nel cross senza aver sanato il problema alla schiena e ha dovuto fermarsi del tutto
Van der Poel è rientrato senza aver sanato il problema alla schiena e ora è fermo del tutto
A Mathieu può essere successa la stessa cosa?

Ho sentito in Alpecin, ma sono super abbottonati. Non so bene le origini del problema. Magari si tratta di altro. Però una cosa che vedo ancora spesso lavorando a contatto con gli atleti è voler riprendere subito dopo un incidente. Lui è ripartito subito su strada e poi nel cross, ma non è più stato lo stesso. Quando nel 1994 fui operato per un’ernia, sui giornali si parlò di recupero record, ma a cosa servì alla fine? Feci altri risultati per il mio carattere, ma continuai a fare danni al mio corpo.

Effettivamente la voglia di rientrare lo ha portato a correre nel cross e forse poteva farne a meno…

La foga di tornare si ritorce contro. Quando la schiena fa male, perdi anche forza nelle gambe. E poi mettiamoci che per il suo modo di correre, sempre così prepotente, se hai un minimo cedimento, rischi di pagarlo caro. Questi ragazzi, come Mathieu e lo stesso Van Aert, hanno un superfisico, ma a forza di insistere potrebbero pagarla. E’ bene che abbiano deciso di fermarlo per curare a dovere il recupero.

Fax e dogane: quando in Olanda ci andò Fondriest

09.12.2021
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Garofoli prima e adesso Francesca Barale, Lorenzo Milesi e Davide Ursella. Aumentano gli italiani con la valigia che scelgono l’Olanda e le maglie del Team Dsm. Puntano al professionismo nel WorldTour e la squadra dalle maglie nere con sede a Sittard ha messo in atto una massiccia campagna di reclutamento. Se va bene, hanno trovato il corridore del domani. Se non va, ci abbiamo provato. Anni fa, esattamente nel 1991, lo stesso percorso lo fece Maurizio Fondriest. Il trattato di Schengen era stato appena firmato, ma sarebbe entrato in vigore nel 1995. Perciò alle dogane dovevi fermarti e mostrare i documenti. Il WorldTour e lo scambio di uomini e abitudini erano lontani dal venire, per cui ogni Paese aveva le sue.

Quando nel 1991 passa in Olanda, Fondriest ha già alle spalle il mondiale vinto nel 1988 a Renaix
Quando nel 1991 passa in Olanda, Fondriest ha già alle spalle il mondiale nel 1988

«C’erano corse e squadre in Spagna, Francia, Italia, Belgio e Olanda – ricorda il trentino – e di base ognuno correva nel suo Paese. Giusto belgi e olandesi si spostavano di più, perché non avevano un gran calendario. La Gatorade e la Carrera facevano sempre il Tour, qualche volta andavano Ariostea e la Del Tongo e semmai si facevano le classiche. L’Alfa Lum andava in Spagna perché c’era in squadra Lejarreta e Franchini si faceva invitare. I corridori italiani stavano in Italia, dove arrivavano spesso da tutta Europa, a partire dalla Settimana Siciliana di febbraio. Per questo non c’era l’esigenza di partire. Ricordo che mi cercò prima Fignon perché andassi con lui alla Castorama in Francia. Dissi di no, poi finii con l’andare in Olanda…».

Racconta…

Mi ricordo bene il periodo in cui decisi. Avevo vinto il mondiale nel 1988, avevo finito con la Del Tongo, eppure solo la Carrera si era interessata. Invece erano venute offerte interessanti da Panasonic, Tvm e Once. Mi incontrai con Manolo Saiz, c’era anche Lejarreta con cui avevo corso alla Alfa Lum, ma mi resi conto che non avrei fatto le classiche, proprio perché le squadre spagnole correvano soprattutto in Spagna. Così scelsi la Panasonic, che era la squadra più forte al mondo in quel periodo, con Planckaert come diesse e Peter Post manager. La Tvm era più un carrozzone, anche se c’era appena stato Phil Anderson, ai tempi fortissimo.

Altri tempi…

Tutto diverso, mi mandavano programmi e comunicazioni via fax. Facemmo un ritiro in Olanda, pieno di olandesi, fiamminghi, qualche russo, dei tedeschi e due italiani: il sottoscritto e Marco Zen che avevo portato con me. Oggi anche nei team stranieri c’è personale italiano, allora lassù c’erano solo olandesi e belgi. La lingua ufficiale del ciclismo era il francese, ma loro non lo conoscevano a parte un po’ i belgi. Non si facevano ritiri in primavera, si andava solo qualche giorno per le visite.

La Panasonic era uno squadrone. Qui con Van Lancker, vincitore di Liegi e Amstel, e Ludwig oro a Seoul 1988
La Panasonic era uno squadrone. Qui Fondiest con Van Lancker, vincitore di Liegi e Amstel
Il periodo più lungo che passavi al Nord?

Un mese interno per le classiche. I corridori del posto dopo le corse se ne tornavano a casa, io ero ospite a casa di Planckaert o da Allan Peiper. Quando siamo stati ai mondiali di Leuven, sono stato a trovare Planckaert e abbiamo dormito di nuovo nella stanza che mi dava a quel tempo. Ricordo che giocavo con sua figlia che aveva 3 anni, adesso ha anche lei un bimbo…

Oggi l’alimentazione nei team è… codificata, com’era nel 1991?

Riguardata con gli occhi di oggi, viene da ridere. Quando arrivai da Planckaert, la sera a cena mangiavano pane, prosciutto e marmellata. Dopo un po’ però mi impuntai, io ero già attentissimo. Per cui ottenni di mangiare pasta e quel che mi serviva. Però loro andavano forte lo stesso, anche mangiando a quel modo. Anche prima delle corse, andavano in hotel e ordinavano. Diciamo che dopo un po’, li ho convinti a cambiare.

Serviva spirito di adattamento, insomma?

Per forza. E chi meglio sapeva gestirsi, otteneva i risultati migliori. Adesso invece c’è il massimo della professionalità e li seguono uno ad uno: impossibile sbagliare.

Per cui anche andare in Olanda al primo anno da under 23 è diverso…

E’ cambiato tutto. Fosse per me, per regolamento dovrebbero fare almeno due anni da under 23, con un calendario su misura. Invece le WorldTour cercano ragazzi giovani, a scapito delle squadre e delle gare giovanili. Poche continental sono attrezzate nel modo giusto. Il loro ruolo è importante, ma devono cambiare mentalità. Un conto è fare qualche corsa tra i professionisti, un conto è farci il calendario completo. Si finisce col prendere delle mazzate che di sicuro non fanno crescere.

Cosa consigli ai tuoi giovani?

Ho mandato Andreaus al Cycling Team Friuli, perché lavorano bene e stanno diventando la squadra di riferimento del team Bahrain Victorious. La Dsm si accaparra tanti corridori, ma non tutti possono andare bene nelle corse che trovano lassù. Qui da noi, magari mancano giorni da ventagli, ma l’Italia è il Paese migliore per fare esperienza. Abbiamo tutto, uomini, corse e territorio. Peccato che ci manchino almeno altre due squadre professional…

EDITORIALE / Finché si attaccano al pullman e ai ricordi…

06.09.2021
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Fra i temi che tengono in ansia una parte della stampa – in questo scorcio d’estate che conduce agli europei, ai mondiali e poi all’autunno – ci sono il pullman azzurro e il nome del prossimo tecnico della nazionale. Interesse legittimo, va detto, e curiosità giustificata nel secondo caso dal modo un po’ goffo con cui la federazione ha gestito la comunicazione legata al cosiddetto caso Cassani.

Però come accade quando si insiste tanto sullo stesso tasto, dopo un po’ ti assale il dubbio che forse il pianista non sappia cosa farsene del resto della tastiera. Se davvero tutto ciò che basta per essere felici è sapere se il tecnico azzurro sarà Fondriest oppure Pozzato e sottolineare che forse il pullman azzurro ha già fatto parecchi chilometri, allora il presidente della Fci Dagnoni può davvero dormire sonni tranquilli. E le ragioni sono due. La prima è che se queste sono le sole contestazioni, allora forse sul resto sta lavorando bene. La seconda è che magari non saranno tanti a disturbarlo su temi più urgenti e di difficile soluzione.

Richiamare la memoria di Martini non serve se non ci si attiene alle sue parole. Qui, Alfredo con Pozzato
Richiamare la memoria di Martini non serve se non ci si attiene alle sue parole. Qui, Alfredo con Pozzato

L’eredità di Martini

Per dare la linea su colui che dovrebbe guidare la nazionale, a un certo punto si sono tirati in ballo Martini e la sua storia. E’ bene dire subito che per chi scrive queste righe, Alfredo è stato uno straordinario maestro di vita. E forse proprio per questo, ricordandone gli insegnamenti, una sua frase continua a tornare alla memoria.

«Quando sono davanti a dei giovani – amava dire Alfredo – mi rendo conto che a loro non interessa sapere che cosa accadeva ai miei tempi, ma sentire da me quello che potrebbe succedere domani».

Alfredo guardava avanti, lo ha sempre fatto. Non è mai stato ancorato al passato per paura del futuro. E magari avrebbe letto con interesse e reagito con veemenza al singolare momento del nostro ciclismo in cui frotte di giovani talenti vengono mandate allo sbando senza alcuna tutela credibile.

Sul podio finale del Lunigiana, il presidente Dagnoni
Sul podio finale del Lunigiana, il presidente Dagnoni

Problema juniores

E’ questo uno dei primi fronti, presidente Dagnoni. Ne parlammo con Amadio appena venne nominato. Era il 18 maggio, Roberto ricorderà di certo. A noi del pullman e del nome del cittì interessa, ci mancherebbe, ma preferiamo guardare avanti.

Il primo comma dell’articolo 3 della Normativa per l’abilitazione all’esercizio dell’attività di corridore professionista prescrive che per ottenere l’abilitazione, i corridori devono aver gareggiato con continuità nelle categorie agonistiche direttamente disciplinate dalla Federazione e dell’UCI nei tre anni sportivi antecedenti a quello per il quale si chiede l’abilitazione (tre anni come corridore under 23 e/o élite o un anno come corridore junior e due anni come corridore under 23).

E’ una regola che c’è da sempre. I procuratori e i team manager interessati si affrettano a dire che ce l’abbiamo solo in Italia. Vero, però ce l’abbiamo. Come abbiamo il divieto di usare la tenda iperbarica e non la usiamo. Non in Italia, almeno. E’ una regola che ad esempio impedirebbe alle squadre professionistiche di tesserare corridori direttamente dagli juniores, come sta regolarmente accadendo, proponendo loro un contratto da professionista.

Anche la limitazione dei rapporti oggi viene spesso aggirata. Qui Lorenzo Giordani, che corre e si allena con quelli giusti…
Anche la limitazione dei rapporti oggi viene spesso aggirata. Qui Lorenzo Giordani, che corre e si allena con quelli giusti…

Incubo Remco

Mandare così tanti ragazzini allo sbando è la quasi garanzia di non trovare mai più un Nibali, un Simoni, persino un Cipollini o un Pantani. Nomi, non a caso, di grandi campioni che hanno fatto la loro trafila fra gli juniores e i dilettanti, avendo il tempo necessario per maturare e sbocciare. Invece siamo tutti qui a cercare il novello Evenepoel, costi quel che costi. Quanto avranno smesso di correre prima che ne se ne sia trovato uno?

Non vi dice niente il fatto che sull’arrivo di Fosdinovo al Lunigiana, ben 10 juniores abbiano fatto meglio di Pogacar che 5 anni fa vinse la corsa? Va bene il miglioramento della specie, ma quanto si sta già spingendo sul gas, con alimentazione e preparazione magari già dagli allievi, perché questi ragazzi facciano già gola a qualche team professionistico?

Perciò presidente, aspetteremo il primo ottobre per sapere chi guiderà i nostri professionisti e anche il settore velocità, sperando che nel frattempo il pullman azzurro funzioni bene e mandando un bel ringraziamento a Vittoria che per anni ha messo a disposizione il suo. Ma nel frattempo, ci fa sapere come intende muoversi su questo fronte?

Fondriest, a breve l’incontro. E poi sapremo se sarà lui il cittì

25.08.2021
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Neanche il tempo che uscisse l’indiscrezione e la pioggia dei messaggi ha inondato il telefono di Maurizio Fondriest, 56 anni, candidato prescelto come cittì della nazionale dei professionisti che a ore avrà un incontro con la struttura federale per capire che cosa gli proporranno. E’ chiaro che ci sia più di un’idea e che molto probabilmente le cose andranno così, ma c’è prima tutta una serie di tasselli da mettere a posto. Primo fra tutti il suo impegno con un gran numero di atleti che in lui e in Paolo Alberati hanno riposto fiducia per la loro crescita nel ciclismo e dovranno rassegnarsi a fare senza.

Maurizio sta vivendo giornate complicate, la presenza della Federazione in Val di Sole per i mondiali di mountain bike renderà se non altro più agevole la logistica dell’incontro, dato che nel weekend il campione del mondo di Renaix 1988 partirà per due settimane.

Cordiano Dagnoni e Maurizio Fondriest si conoscono da un pezzo. Maurizio lo ha sostenuto alle elezioni Fci
Cordiano Dagnoni e Maurizio Fondriest si conoscono da un pezzo. Maurizio lo ha sostenuto alle elezioni Fci
Che cosa manca perché ci sia la fatidica firma?

Che me lo chiedano ufficialmente. Quando poi questo accadrà, dovrò fare le mie valutazioni in base a quello che potrò fare come cittì.

Fai il prezioso oppure ci sono davvero degli impedimenti?

Ho un impegno morale con i miei corridori, dovrò vedere cosa fare. Per alcuni juniores sono un riferimento. E’ vero che passano under 23 e non ho da trovargli un contratto, ma il nostro lavoro con loro è farli crescere. Seguire la preparazione. Confrontarci dopo le gare. Provare a farne dei corridori perché un giorno possano diventare professionisti e a quel punto proporli a squadre che sappiano valorizzarli. E’ un ruolo importante che mi sono costruito negli anni e a cui tengo.

Ci sono anche altri impegni con sponsor, probabilmente…

C’è Alpecin di cui sono immagine. C’è Mediolanum. C’è la collaborazione con le crociere della Gazzetta. Non posso alzarmi una mattina e dire a tutti che dovranno arrangiarsi. E poi voglio vedere se con la mia mentalità sarò compatibile con quello che mi proporranno.

E’ un incarico che ti sarebbe sempre piaciuto, questo si sa…

Certo, ma come ho appena detto a mia moglie, non voglio andare avanti nel pensiero finché non saprò esattamente di cosa stiamo parlando. Ho parlato di questo anche con Cassani, che fino al 30 settembre è il cittì della nazionale, con cui sono da sempre in ottimi rapporti. 

Si parlò di te come cittì anche prima della nomina di Ballerini e poi saltasti nuovamente fuori prima che venisse scelto proprio Cassani.

Il mio nome viene spesso fuori, ma di fatto anche in quelle occasioni nessuno mi disse nulla. Chi mi dice che assieme a me in queste settimane non abbiano parlato anche con altri? Ma per me non è un problema.

Che rapporti hai con Dagnoni?

Ero andato a trovarlo nel suo ufficio tempo fa assieme a Giuseppe Saronni, per il progetto sui campioni del mondo. Beppe era curioso di vedere che cosa avesse in mente, ma di questa cosa non si è proprio parlato. Siamo amici, siamo stati in stanza insieme alla mia prima convocazione in nazionale. Andai a fare il Giro di Grecia con gli stayer, guidati da Domenico De Lillo, e divisi la stanza con lui. Sono passati tanti anni e durante le elezioni federali ho spinto per lui, perché credo che sia una persona in gamba con delle buone idee.

Se la proposta ti convince, credi che la situazione più insormontabile sia quella legata ai corridori che segui?

Da una parte è complicato, ma Paolo (Alberati, ndr) è cresciuto tanto in questi anni. Credo che facendo le giuste mosse, si potrebbe organizzare la mia uscita.

A breve l’incontro. Poi probabilmente Maurizio si prenderà il suo tempo per decidere. Con lui, come Vialli per Mancini sulla panchina della nazionale di calcio, potrebbe arrivare con un ruolo di importante consulenza anche Gianni Bugno. Ma una cosa è certa, il lavoro per rifondare l’attività della nazionale per come la immaginano Dagnoni e Amadio richiede tempo. Come ha appena detto anche lui però, stiamo a vedere che proposta gli faranno. E se, come sempre Maurizio ha fatto notare, nel frattempo la Federazione ha portato avanti altre piste.

Ehi Alberati, ma chi è questo Buitrago?

28.07.2021
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«Un paio di giorni fa visto che era qui da me nel Parco Ciclistico Etna ad allenarsi in altura, gli ho fatto fare un test, in accordo col suo team ed il suo allenatore Aritz, e sono usciti dei valori speciali. Un qualcosa del genere non hai la fortuna di vederlo sempre». Chi parla è Paolo Alberati e il soggetto in questione è Santiago Buitrago, giovane colombiano che corre nel team Bahrain-Victorious

Paolo Alberati, oltre ad esserne il manager insieme a Maurizio Fondriest e ad Andrea Bianco, è anche il suo punto di riferimento qui in Europa o comunque un consigliere fidato. Fino a qualche giorno fa, come detto, “Santi” era “a casa” di Alberati in Sicilia, e più precisamente in ritiro sull’Etna. L’obiettivo? Preparare il finale di stagione. Per ora sembra non essere stato inserito nella squadra che andrà alla Vuelta, ma nulla è perduto. «Santiago ci tiene molto – ha detto Alberati – E’ lì che l’anno scorso ha fatto la sua prima grande corsa a tappe. E non era al top, aveva anche tre chili in più di adesso. Vorrebbe fare bene San Sebastian e appunto andare alla Vuelta».

Buitrago in allenamento sulle strade siciliane in compagnia di Canaveral della Bardiani
Buitrago in allenamento sulle strade siciliane in compagnia di Canaveral della Bardiani

Dalla Colombia all’Italia

«L’ho scoperto come sempre con l’aiuto di Andrea Bianco, mio amico esperto di ciclismo che da molti anni vive in Colombia a Bogotà. Mi ricontattò nel 2015 suggerendomi un ragazzino che era sprecato per fare “solo” Mtb. Quel ragazzino era Egan Bernal. Da lì abbiamo iniziato a lavorare insieme. Negli anni sono arrivati Sosa, Rivera, Osorio e adesso Buitrago. Mi fido molto di Bianco. Non andiamo a vedere solo i risultati ma chi ci sembra possa avere più potenziale.

«Così a marzo 2018 Buitrago arriva in Italia. Lo mando al team Cinelli di Francesco Ghiarè (adesso all’Area Zero), tra Toscana e Liguria. Lui gli dà casa e sostegno e noi continuavamo ad allenarlo. Ricordo che facemmo un test nel mio studio a Perugia, appena arrivato, e siglò un Vo2 Max superiore ad 80. E infatti si piazzò subito, fece anche una vittoria. Così lo segnalammo ad alcune squadre WorldTour. Dopo il Giro della Valle d’Aosta, che finì quarto, la Bahrain lo mise sotto contratto: un triennale con salario ad incremento nelle stagioni successive».

Adesso Buitrago ha la residenza ad Andorra e questo visto i tempi di pandemia gli ha semplificato non poco la vita con le varie restrizioni per quel riguarda i voli. In più lassù, tra i Pirenei, si sente anche un po’ alle quote di casa (è della regione di Bogotà).

Buitrago alla Settimana Internazionale Italiana
Buitrago alla Settimana Internazionale Italiana

Il via libera di Caruso

Ma noi Buitrago lo abbiamo “scoperto” soprattutto alla Settimana Internazionale Italiana. In Sardegna doveva aiutare Padun.

«Ma è successo – riprende Alberati – che Santiago, che è molto rispettoso ed educato, stava bene. Dopo la prima tappa Pellaud aveva preso la maglia dei Gpm. Così il giorno dopo mentre stavano facendo una salita, chiede a Damiano Caruso se poteva scattare per prendere i punti del Gpm. Allora Damiano, che anche se era in azzurro era pur sempre un riferimento della Bahrain, gli dice: okay, mettiti dietro. Accelera, lo porta fuori, Buitrago fa la volata e va a prendersi i punti. Da quel momento ha messo la maglia di miglior scalatore nel mirino Riuscendo a portarla a casa (foto apertura, ndr). Già in passato Caruso mi aveva detto: tienilo da conto che questo è buono!».

Buitrago a crono: non va male ma deve migliorare
Buitrago a crono: non va male ma deve migliorare

Scalatore ma non troppo

Ma Buitrago è uno scalatore puro? Secondo Alberati no. E’ sicuramente un corridore molto forte in salita, ma se messo bene sulla bici da crono può difendersi alla grande.

«Santiago è alto 174 centimetri per 60 chili e quando sta bene ha più di 400 watt alla soglia nel test Conconi. Come anticipato se ben messo può fare bene a crono, come il Quintana dei tempi migliori. In più non ha bisogno di mezzo gruppo per restare davanti. In tal senso lo hanno aiutato molto le corse in Toscana. Lì i percorsi sono nervosi, le salite sono corte e vanno prese davanti. Pensate che ha ancora il Kom sul Lamporecchio. Ce l’hanno lui e Fiorelli, che non è propriamente scalatore! Per me potrà presto arrivare nella top ten di un grande Giro».

Buitrago, avendo corso in Italia, aveva la tessera sanitaria e grazie all’aiuto di Alberati è riuscito a fare il vaccino per il Covid a Pedara (Ct)
Buitrago, avendo corso in Italia, aveva la tessera sanitaria e grazie all’aiuto di Alberati è riuscito a fare il vaccino per il Covid a Pedara (Ct)

Serietà al massimo 

Dicevamo di un ragazzo, classe 1999, molto educato e rispettoso.

«Anche taciturno direi – confida Alberati – preferisce stare zitto che spararle grosse. In più ascolta. Qualche sera fa eravamo a cena. Tutti hanno preso la pizza e lui un’insalata e del prosciutto. Stessa cosa in piscina. Tutti hanno fatto il bagno, lui no. Non vuole uscire dai binari. Vuol fare bene, ha voglia. Rispetto a molti nostri ragazzi non hanno la casa e la famiglia a 10′ di macchina. Sanno che hanno una sola grande opportunità e se la vogliono giocare bene».

Fondriest 2021

E Fondriest: «Crono brevi? Comanda lo spettacolo in Tv…»

22.06.2021
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Maurizio Fondriest non è certo famoso per essere stato un grande cronoman, la sua splendida storia ciclistica l’ha costruita nelle classiche, eppure è stato capace di accarezzare la gloria imperitura proprio in una gara contro il tempo, ai primi Giochi Olimpici riservati ai professionisti, ad Atlanta nel 1996, finendo ai piedi del podio.

«La mia sfortuna fu di correre con la strada bagnata – ricorda il trentino – altrimenti sarei salito sul podio, riuscii a realizzare un tempo clamoroso grazie alla guida, all’approccio delle curve, perché anche quello è un elemento che può fare la differenza. Era però una cronometro diversa da quelle che si affrontano oggi, più lunga, anche se il vento stava già cambiando».

Già, perché la lunghezza delle cronometro (ma delle prove ciclistiche in generale, possiamo dire) non è la stessa di allora, o ancor più degli anni precedenti. Non c’è bisogno di risalire ai tempi eroici del secondo dopoguerra, quando le gare a cronometro iniziarono a entrare in pianta stabile nei grandi Giri, basti ricordare ad esempio il 1987, quando Stephen Roche si aggiudicò la crono di Futuroscope al Tour lunga ben 87,5 chilometri, oppure quando nel 1991 Indurain batté Bugno e Chiappucci anche grazie alle crono di 73 e 57 chilometri.

Roche Tour 1987
Stephen Roche trionfatore alla crono di Futuroscope, ben 87,5 km nel 1987. Altri tempi…
Roche Tour 1987
Stephen Roche trionfatore alla crono di Futuroscope, ben 87,5 chilometri nel 1987. Altri tempi…

Cera una volta la crono da 87,5 chilometri…

Il Giro? Pur senza raggiungere questi numeri, anche la corsa rosa ha avuto chilometraggi importanti: nel 1980 Bernard Hinault mise al sicuro il trionfo nella crono di Turbigo, pur finendo dietro a Saronni dopo 50 km oppure nel 2000 quando a Bibione si corse una crono di 45 chilometri. C’è però da fare una distinzione, a proposito delle gare contro il tempo.

«Io credo che una crono tra i 40 e i 50 chilometri sia la distanza giusta per una gara titolata – riprende Fondriest – dai mondiali alle Olimpiadi, ma nei grandi Giri le crono lunghe rischiavano di ammazzare la corsa, creare distacchi troppo importanti a favore degli specialisti e togliere spettacolo».

Maurizio Fondriest
Maurizio Fondriest nella cronometro individuale ad Atlanta 1996, un quarto posto ancora amaro
Maurizio Fondriest
Maurizio Fondriest nella cronometro individuale ad Atlanta 1996, un quarto posto ancora amaro

Tecnica e spettacolo, il giusto equilibrio

Proprio questo, lo spettacolo, è una discriminante che nel ciclismo odierno non può essere sottovalutata, anzi regola fortemente i suoi processi: «Bisognerebbe trovare il giusto mix, contenere i tempi ma al tempo stesso mantenere le giuste caratteristiche tecniche. Le grandi classiche, per fare un esempio, non si sono piegate a questa legge e gli albi d’oro sono sempre firmati da grandi corridori. Non mi pare che la gente si lamenti per questo…».

La gara olimpica del 28 luglio sarà su 44 chilometri: «E’ una distanza equa per una cronometro, che lascia spazio a più corridori. In una gara del genere ci può stare la giornata storta di un favorito come l’exploit di una sorpresa, ma sarà sempre una sorpresa relativa, perché il podio uscirà sempre da una ristretta cerchia di meno di 10 nomi. L’importante è esserci, fra questi».

Sicuramente c’è Ganna: «Molti si sono preoccupati della sua sconfitta ai campionati italiani, ma solo lui sa come sono andate realmente le cose, perché è chiaro che il suo obiettivo non erano e non potevano essere quelli. Una giornataccia può rientrare nell’ordine delle cose, in fin dei conti anche Evenepoel e Campenaerts hanno perso il titolo belga contro Lampaert, che nessuno pronosticava. A Torino, al Giro, Ganna era andato fortissimo, ma veniva da cocenti sconfitte, non credo ci sia da fasciarsi la testa».

Ganna Tricolori 2021
Filippo Ganna, solo quarto ai Tricolori di Faenza, una sconfitta che a 35 giorni da Tokyo ha validi motivi
Ganna Tricolori 2021
Filippo Ganna, solo quarto ai Tricolori di Faenza, una sconfitta che a 35 giorni da Tokyo ha validi motivi

Eppure, quel giorno, con un po’ di fortuna…

Sul chilometraggio Fondriest ha ancora qualcosa da dire: «Proviamo a ribaltare il discorso e a guardare alla durata, invece che alla distanza: 20 minuti a tutta, fuori soglia, riescono a farli pressoché tutti, già a 30 minuti c’è una distinzione, a 40 devi essere uno specialista. Per questo credo che una cronometro di almeno 40 chilometri sia sufficiente per far emergere i reali valori».

Prima di chiudere la piacevole chiacchierata, Fondriest però vuole togliersi un sassolino dalla scarpa: «E’ vero che non ero uno specialista, ma nelle crono sono sempre andato abbastanza bene, nei grandi Giri finivo sempre nei primi 15 e al Trofeo Baracchi, crono a coppie che si correva oltre gli 80 chilometri, un anno rischiai di vincere insieme all’australiano Allan Peiper. Io rientravo in quella cerchia di 10 papabili di cui parlavamo prima, che con un po’ di fortuna può vivere la gara della vita. Io la sfiorai, la assaporai per brevi istanti».

Fondriest, quel 20 marzo impossibile da dimenticare

20.03.2021
4 min
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Consuetudini, rituali e musica: tutto ciò che capita prima di una gara. Se poi questa è la Milano-Sanremo allora devi fare attenzione a tutto, anche ad eventi inattesi che possono trasformarsi in stimoli.

L’avvicinamento di Maurizio Fondriest alla Classicissima datata 20 marzo 1993 – che sarà la sua stagione migliore in assoluto – è di quelli da sogno. Il trentino è il favorito principale grazie alle 5 vittorie appena conquistate (saranno poi 25 a fine anno): una tappa alla Vuelta Andalucia, una in Sicilia alla Settimana Internazionale, infine due tappe e la classifica generale alla Tirreno-Adriatico.

Erano altri tempi rispetto al ciclismo di adesso, tra l’ultima frazione della corsa dei Due Mari e la Sanremo ci sono solo tre giorni e Fondriest in quel lasso di tempo ha altro a cui pensare: sua moglie Ornella è incinta, ha il termine fissato per gli ultimi giorni di marzo e lui chiama a casa più volte per sapere come sta. Tutto tranquillo, si aspetta quella scadenza senza alcuna avvisaglia particolare.

Erano altri tempi. Le squadre non avevano gli attuali motorhome e Fondriest arriva alla partenza con le ammiraglie della Lampre-Polti ma la giornata è iniziata molto prima. Qui parte il suo ricordo di quella incredibile giornata.

Nel 1988 Maurizio era arrivato secondo alle spalle di Fignon
Nel 1988 Maurizio era arrivato secondo alle spalle di Fignon
Maurizio eri il più pronosticato di quella Milano-Sanremo, che vigilia è stata?

Unica, che non scorderò mai, che per certi versi fa il paio al post-vittoria del mondiale di Renaix, con Ornella, al tempo fidanzata, sempre protagonista. Fu una mattinata frenetica che non ho mai più vissuto e forse in pochissimi lo hanno fatto.

Perché?

Venivo da un grande inizio di stagione, stavo bene. La sveglia era suonata presto, perché allora le corse arrivavano attorno alle 16, quindi la colazione l’abbiamo fatta verso le 6,45. Un po’ di riso e un po’ pasta, la solita colazione che facevo per gare di questa portata. Abbiamo ricontrollato il meteo. Poi ho telefonato a casa per sentire se ci fossero novità e mi ha risposto mia suocera dicendomi che mia moglie era in ospedale e che soprattutto ero diventato papà di Maria Vittoria. Non ho capito più nulla, ero euforico, volevo sentire Ornella. Sono riuscito a chiamare il reparto e ho lasciato all’infermiera il mio numero di cellulare, uno dei primissimi che esistevano, chiedendo di farmi richiamare. Finalmente ci siamo sentiti, lei e mia figlia stavano bene. Ci siamo avviati verso il raduno che avevo già vinto.

Cosa intendi? C’era in ballo ancora una gara alla quale puntavi forte, dove eri arrivato secondo battuto da Fignon nel 1988 e quinto nel ’90.

Avevo la mente sgombra, quella notizia mi aveva tolto la tensione. Attenzione, l’avrei disputata proprio come poi l’ho corsa, ma senza ulteriori pressioni. Ero vivace. Già al podio firma in Piazza Duomo lo speaker aveva annunciato che ero appena diventato padre, tutti si complimentavano con me, anche quando tornai alle ammiraglie. In effetti avevamo meno privacy rispetto ad oggi, ci cambiavamo in macchina ed era un po’ più stressante il contatto con gli appassionati perché era più difficile concentrarsi. Riuscii tuttavia ad isolarmi mettendomi comodo sui sedili e ascoltando la musica che mi piaceva di più o di quel periodo. Nelle cuffie avevo Phil Collins e i Genesis, Queen, Rem, Zucchero e Tozzi. Tutta gente da Sanremo, insomma…

Uno scatto secco sul falsopiano del Poggio e tanti saluti al gruppo…
Uno scatto secco sul falsopiano del Poggio e tanti saluti al gruppo…
E in corsa com’è andata?

In gruppo passavo nei pertugi con un briciolo in più di spavalderia. Sono stato attento a non perdere posizioni e a tutto quello che succedeva, proprio come avevamo ripetuto durante la riunione tecnica con Pietro Algeri, Maurizio Piovani e Giuseppe Saronni.

La gara finisce così. A un chilometro dallo scollinamento, quando il gruppo riprende Inaki Gaston sul Poggio, scatta forte Fondriest che aumenta in progressione e inizia la discesa con 10” di vantaggio. In vista del traguardo si gode il momento, gli applausi e il successo da dedicare a Maria Vittoria. Trionferà con 4” sul povero Gelfi e 9” su Sciandri che regola il gruppo in volata. 

Maurizio, per chiudere, un pronostico secco per questa Milano-Sanremo.

Mathieu Van der Poel.

Forse perché ti ricorda un po’ te da giovane?

Lui è un fenomeno, va messo nella categoria dei fuoriclasse e fra un po’ di anni vedrete quanto avrà vinto ancora. In effetti ci somigliamo come caratteristiche ma lui è molto più forte di me e gliel’ho detto. Ho corso contro suo padre e l’anno scorso alla presentazione della Alpecin-Fenix (Fondriest è testimonial della Alpecin, ndr) Adrie diceva a suo figlio chi fossi. Lui allora è andato su internet a vedere i miei risultati, poi si è girato verso suo padre e gli ha detto: «Oh, guarda che lui ha vinto molto più di te!». Ecco, preparatevi: per me lui non aspetterà la volata.

Olimpiadi

Olimpiadi tutti le vogliono, ma in passato…

26.12.2020
4 min
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Olimpiadi, tutti le vogliono. Potrà sembrare scontato oggi. Ma non è sempre stato così, almeno nel ciclismo o nel calcio, sport che vantano tradizioni differenti da atletica leggera o scherma.

Per il ciclismo è (o era?) il titolo iridato la massima competizione. Tuttavia da quando ad Atlanta 1996 si sono aperte le porte ai professionisti le cose sono cambiate. Non subito, ma sono cambiate. Sono cresciuti interesse e appeal da parte dei media e soprattutto dei corridori stessi.

Una lista di campioni

Oggi non c’è un atleta della nuova generazione che non ci faccia un pensierino. Ricordiamo quel che fecero Thomas, Froome e Wiggins per Londra 2012. Quanto le desiderava Nibali in Brasile. Cosa ha fatto Van Avermaet su un percorso che non era adatto alla sua stazza, sempre a Rio. 

Il vento è cambiato davvero nel 2004, grazie al successo di Paolo Bettini, che le preparò al dettaglio. Prima erano soprattutto quei Paesi in via di sviluppo a crederci di più, anche se poi a vincere erano sempre i grandi.

Maurizio Fondriest
Maurizio Fondriest nella cronometro individuale ad Atlanta 1996
Maurizio Fondriest
Fondriest nella crono di Atlanta 1996

Fuglsang è l’ultimo della lista ad aver dichiarato il suo interesse per Tokyo. Van Avermat vuol difendere il titolo, Van der Poel le vuole, ma quelle in Mtb, Van Aert anche ha alzato la mano, Lutsenko ha una potenza di fuoco alle spalle schierata dal Kazakhstan come avvenne per Vinokourov in più occasioni. Ci sono poi Alaphilippe, la schiera dei colombiani, Hirschi, Kamna, i due sloveni terribili. Insomma una lista infinita. Una lista che ad Atlanta 1996 non sarebbe esistita.

Fondriest ad Atlanta

Maurizio Fondriest vi partecipò a quei Giochi. I primi dei pro’, come detto. Il trentino ammette che non furono così sentite quelle Olimpiadi. Magari avrebbe più desiderato farle nel 1984, quando era dilettante.

«Non sapevamo come sarebbe stata la corsa – racconta Fondriest – c’erano squadre con meno corridori e un ambiente diverso. Vinse Pascal Richard, ma in gruppo c’erano anche tanti dilettanti dei Paesi meno grandi. Non ho un grande ricordo perché quando arrivammo non c’erano i pass per il Vvillaggio Olimpico. I colleghi della pista ci dissero che non era un granché. Il Coni ci trovò così un hotel in centro. Uscivamo la mattina e rientravamo la sera. Facevamo tutto a Casa Italia: mangiare, massaggi, deposito bici, allenamenti.

«Quindi non abbiamo vissuto il clima olimpico e non abbiamo visto gli atleti degli altri sport. E poi ho fatto quarto nella crono! Quel giorno ho perso per via del meteo, ci divisero in due gruppi io capitai in quello che corse con la pioggia. Avevo i tubolari da 20 sul bagnato. Non ho mai guidato bene come quel giorno. Broccardo che mi seguiva dalla macchina faceva: ora va giù, ora cade. Me lo disse dopo la corsa chiaramente.

«Anche Alfredo Martini non era teso come per i mondiali. Mangiava con noi e ci raccontava le barzellette, non aveva mai fatto così».

Nibali
Rio 2016, parata di campioni in testa: (da destra) Nibali, Majka, Fuglsang, Zeits
Nibali
Nibali a Rio de Janeiro 2016

La perla mancata di Nibali

«Molti corridori però preferiscono ancora la maglia iridata – dice Fondriest – Bettini quando ne parla racconta più della gara che dell’atmosfera olimpica, ma lui ha corso otto anni dopo di me e le cose erano già cambiate.

«Il ricordo di Nibali a Rio? La sua caduta. Quella è la mia immagine di quei Giochi – dice Fondriest – si fa presto a dire doveva rischiare di meno. Ma sei al limite e poi lo diciamo adesso. Mi dispiace che non abbia vinto perché sarebbe stata la perla della sua carriera. E gli avrebbe dato quella visibilità in più che purtroppo non ha e si merita, perché questo ragazzo ha un palmares incredibile ed è un patrimonio del nostro ciclismo».

L’interesse è alto. Anche culturalmente i ragazzi di oggi sono cresciuti con le Olimpiadi che vedevano protagonisti i professionisti, i loro idoli. Per i corridori questa corsa conta moltissimo. Alaphilippe ha detto che vale più di un mondiale. Valverde vorrebbe continuare solo per disputare i Giochi. Van Aert, forte anche di una cultura sportiva tipica del Nord Europa, non pensa ad altro. La sfida è aperta. Sarà una lunga corsa e ascoltare il parere di Fondriest ci ha fatto capire quanta strada sia stata fatta da allora.

Sorpresa Fondriest: «Volevo essere Bugno»

08.11.2020
3 min
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Il campione trentino racconta che cosa significhi vincere un mondiale a 23 anni e perché la vita possa diventare improvvisamente complicata. L'esempio di Bernal e l'attenzione che si dovrà fare con Pogacar. I suoi errori come esempio per i ragazzi che segue. L'analisi attenta delle proprie potenzialità, per non rischiare di snaturarsi, perdendo le proprie armi migliori.

Dopo aver ascoltato Moreno Argentin, ecco un incontro moto interessante con Maurizio Fondriest. Il trentino ribatte sugli stessi concetti e lo fa con toni davvero convincenti, ripetendo le lezioni che quotidianamente ripropone ai ragazzi di cui si occupa.

Il Tour da giovani

I corridori che hanno vinto i grandi Giri da giovani di solito finiscono presto la carriera. Accadeva una volta, sarà ancora così?

«Non so se sia un dato statistico – dice Maurizio – o sia la realtà. Le corse a tappe logorano il fisico e sottopongono a un grande stress. Il problema di solito inizia l’anno dopo, quando tutti iniziano ad aspettarti. Prendete Bernal, che sembrava destinato a vincere Tour a ripetizione. E stiamo attenti a Pogacar, lo gestisca bene la sua squadra, perché fra un po’ tutti cominceranno ad aspettarlo al Giro, al Tour, alla Vuelta. Non tutti riescono a reggere simili pressioni e a 20 anni è ancora più difficile».

Maurizio Fondriest, Milano Sanremo 1993
Fondriest conquista così la Milano Sanremo del 1993
Maurizio Fondriest, Milano Sanremo 1993
Conquistata la Milano Sanremo del 1993

Iridato a 23 anni

Maurizio ha vinto il mondiale a 23 anni, nel 1988 a Renaix, e ricorda bene le interviste e tutte le occasioni in cui un piazzamento veniva dipinto come una sconfitta o dovesse essere forzatamente il favorito in ogni corsa cui prendeva parte.

«Nell’anno da campione del mondo – dice – ho vinto tre gare e fatto 12 secondi posti. Si potrebbe pensare a una stagione mediocre, ma non lo fu. Perché quei 12 piazzamenti furono dovuti a volte ad avversari più forti di me, ma nella maggior parte dei casi ad errori nell’impostare la volata, perché avevo l’ansia di dimostrare che anche da campione del mondo avrei potuto vincere». 

Imparare dagli errori

Come se ne esce? Esiste una ricetta da indicare a Pogacar, Bernal, Geoghegan Hart e Hindley affinché la testa resti salda e non si faccia distrarre dalle sirene?

«Le epoche sono diverse – dice Maurizio – però la base dell’allenamento e della fatica è sempre la stessa. Oggi forse è anche più difficile, perché le distrazioni sono veramente tante. Ai miei ragazzi spiego gli errori che ho fatto io, perché possano difendersi. La cosa che noto è che queste cose si ripetono. Ciclicamente, si ripetono sempre uguali».

Attenti ai cambiamenti

Tante volte, prima di chiudere, gli errori nascono anche nella testa del corridore e del suo entourage, quando si decide di voler salire di livello ricercando numeri che non si possiedono.

«Anche io avrei voluto essere un corridore da corse a tappe – sorride – anche io volevo essere come Gianni Bugno. Andare forte in salita come lui, ma non era la mia caratteristica. Ho provato a preparare un Giro e ho fatto settimo (nella foto di apertura è con Laurent Fignon al Giro d’Italia del 1989, vinto dal francese, ndr). Ho fatto 15° in un Tour de France. Ma ero al limite e lo sapevo sin da giovane. Al Giro dei dilettanti prima di passare vinsi tre tappe e in salita ero con i più forti, ma mai con i migliori. E questo va capito subito. Perché puoi provare ad andare più forte in salita, ma se poi perdi la tua velocità e non vinci più corse, che cosa te ne fai?».