Le storie di Gabriele Sol(a), primo addetto stampa d’Italia

05.12.2023
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ROMA – In città per assistere a un musical al Teatro Brancaccio che vede sua figlia Giulia Sol come protagonista, Gabriele Sola si presta al racconto, che parte dal ciclismo e arriva alla sua nuova vita (nella quale è incluso anche il cambio del cognome). Un passo per volta, tuttavia. Quando non c’erano gli addetti stampa, se con il corridore avevi sufficiente confidenza, l’intervista si faceva in camera oppure ai massaggi. Altrimenti, se il compagno di stanza stava riposando, ci si dava appuntamento nella hall. I cellulari non c’erano, i social e i loro ideatori erano ancora embrioni. In questo quadro decisamente nostalgico, Gabriele Sola fu il primo degli addetti stampa italiani.

Dopo essersi dimesso dalla Regione Lombardia rinunciando al vitalizio, Gabriele Sol è oggi un mental coach
Dopo essersi dimesso dalla Regione Lombardia rinunciando al vitalizio, Gabriele Sol è oggi un mental coach

Un giornalista della radio

La Mapei aveva appena salvato la Eldor-Viner di Marco Giovannetti, subentrando come sponsor nel 1993. E quando successivamente si trattò di strutturare la squadra a cubetti che, in un modo o nell’altro, avrebbe fatto la storia del ciclismo italiano, Giorgio Squinzi si guardò intorno e decise di introdurre qualcuno che facesse da filtro nei rapporti con i media. Ai tempi si ragionava di grandi giornali, riviste, radio e televisioni. E l’unica squadra ad essere già dotata di una figura del genere era la Banesto, che per fare muro attorno a Miguel Indurain aveva investito del ruolo Francis Lafargue.

«In realtà – ricorda Gabriele con un bel sorriso – la figura che era stata individuata da Squinzi era lo stesso Giovannetti. Lo aveva sempre apprezzato, è una persona talmente ricca su piano personale e bravo nelle relazioni, che la scelta era caduta su di lui. Credo però che Marco in quella fase avesse compreso che non era quello che desiderava fare e declinò l’offerta. Io arrivai a fine 1995. Nel frattempo avevo lavorato con RTL102,5 e avevo iniziato una collaborazione con Telemontecarlo, che faceva la trasmissione Ciclissimo con Davide De Zan. Mapei era uno degli sponsor, quindi ci fu modo di conoscersi e da lì partì il progetto».

Fino a quel momento, il solo team con un addetto stampa era la Banesto, con Lafargue per Indurain (foto El Diario Vasco)
Fino a quel momento, il solo team con un addetto stampa era la Banesto, con Lafargue per Indurain (foto El Diario Vasco)
Qual era lo scopo? Avvicinare la stampa alla squadra o tenerla lontana?

Gestire la stampa. A volte avvicinarla, tenerla lontana mai. Credo che uno degli aspetti che portò alla scelta del sottoscrittore fu proprio il fatto che venissi dal mondo del giornalismo. L’anno precedente ero al Tour de France e ci fu un incidente diplomatico con Rominger.

Cosa accadde?

Da bravo giornalista rampante, gli arrivai davanti dopo una cronosquadre che non era andata particolarmente bene e gli feci una domanda secca. Tony, che parlava benissimo italiano, mi rispose in inglese o francese, dicendomi: «Ma è possibile che un giornalista al Tour de France mi faccia una domanda in italiano? Forse è il caso che tu vada a fare il Giro d’Italia». Mi trattò malissimo. Immaginate la sorpresa quando al primo giorno di lavoro in Mapei, mi ritrovai a lavorare con lui.

Quale compito ti fu affidato?

Mi fu chiesto di mediare. L’idea era di agevolare l’interazione tra tutte le parti, facendo in modo che si trovassero dei punti di equilibrio. Quindi in alcuni momenti è capitato di dover limitare un po’ la stampa, in altri è stato il contrario.

La Mapei nacque per la spinta del patron Giorgio Squinzi, che creò un patto di acciaio con Aldo Sassi
La Mapei nacque per la spinta del patron Giorgio Squinzi, che creò un patto di acciaio con Aldo Sassi
Per il ciclismo italiano era un periodo di grande popolarità e grandi campioni, non c’erano ancora i social. Forse era davvero un altro mondo…

Manco da parecchio, ma forse in quel periodo c’era più rispetto delle reciproche esigenze. C’era un rapporto di calore umano, a volte anche conflittuale. C’erano tensioni, ma anche momenti meravigliosi di unione. Il racconto dello sport veniva trasposto in una dinamica molto accesa, oggi molto meno. Leggo ancora i giornali e mi sembra che su quel versante sia tutto un pochino impoverito. E questo nonostante ci siano più strumenti per interagire. Anche i social, usati in un certo modo, potrebbero consentire un’interazione migliore. Il fatto che non sia più così forse arriva anche alla gente, perché alla fine diventa tutto un po’… plasticoso. Un certo stile va bene per le altre discipline, non per il ciclismo.

Percepivi nei corridori la voglia di raccontarsi?

Allora (sorride, ndr), c’erano corridori e corridori. Franco Ballerini era un grande narratore. Percepivi davvero il piacere di raccontare, non lo faceva per esibizionismo, come alcuni suoi colleghi di cui non faccio il nome. Franco aveva il piacere di condividere con i giornalisti l’esperienza che viveva. E quando raccontava, ti sembrava essere in bicicletta con lui, come se volesse rivelarti le sensazioni più profonde e autentiche del suo vivere il ciclismo. Soprattutto al Nord.

Franco era una grande eccezione?

Di sicuro, c’erano quelli che tendevano a sgomitare per farsi vedere e anche quelli estremamente riservati e chiusi, che quasi consideravano il dover incontrare i giornalisti un dovere ingiustificato. E allora toccava a me spiegargli che facesse parte del loro lavoro e che la giornata non finiva nel momento in qui tagliavano il traguardo. Ho avuto a che fare con persone molto diverse, con cui negli anni si sono create belle interazioni.

Bartoli vince la Freccia Vallone 1999 sotto la neve: Gabriele ricorda distintamente il freddo di quel giorno
Bartoli vince la Freccia Vallone 1999 sotto la neve: Gabriele ricorda distintamente il freddo di quel giorno
Qualche esempio?

Quella con Gianni Bugno, che poi è stato padrino di mio figlio. Col tempo abbiamo fatto alcune cose molto belle. Mi piace pensare che il Gianni della Mapei fosse diverso da quello degli anni precedenti. E poi Bartoli, con cui ho vissuto una complicità bellissima. Michele era talmente immerso nel trip della competizione, che con lui creai una specie di routine. Per 2-3 minuti dopo l’arrivo, andava blindato. A quel punto, una volta sbollita l’adrenalina, tornava una persona meravigliosa. Una delle persone più belle e autentiche che abbia conosciuto nel mondo del ciclismo. E questo a volte è stato il suo problema nelle relazioni con i giornalisti, perché era davvero schietto. Arginarlo nel dopo gara era un modo per tutelarlo soprattutto da se stesso… 

Quali sono gli episodi che porti con te?

Ce ne sono diversi. Uno proprio con Michele, quando vinse la Freccia Vallone del 1999 sotto una nevicata terribile. Dopo l’arrivo era veramente intirizzito e mi ricordo che gli diedi il mio giubbino. Mi guardò come per dire «Grazie». Non me lo disse, bastò lo sguardo. Invece un episodio da ridere ci fu proprio con Bugno.

Cosa successe?

Un giorno al Tour de France, c’era la crono e come al solito ci dividevamo per seguire i corridori. Io di solito ero dietro qualche gregario, invece la sera prima Gianni chiese che seguissi lui. A me prese un colpo. Gli dissi: «Gianni, sei sicuro? Io ho due mani sinistre, non sono capace di aiutarti. Se capita una cosa alla bicicletta, sei fritto…». Lui invece disse che non avrebbe fatto la crono al massimo e così il giorno dopo mi misi nella sua scia con la mia Ulysse tutta cubettata.

Bugno è stato uno degli atleti seguiti da Gabriele Sol, che ne è poi diventato amico
Bugno è stato uno degli atleti seguiti da Gabriele Sol, che ne è poi diventato amico
Andò bene?

Era pieno di tifosi in mezzo alla strada. Faceva veramente paura, perché lui era popolarissimo in Francia. A un certo punto però alza la mano, problema meccanico: terrore. Mi avvicino. Lo affianco. E lui mi fa: «E’ un Ecureuil». E mi descrive la marca e le caratteristiche dell’elicottero della televisione che lo stava inquadrando dall’alto. Questi sono due episodi personali, ma ci sono state anche fasi più complesse.

Ad esempio?

Eravamo al Tour e Rominger era particolarmente in difficoltà. Non stava bene e cominciava a perdere sicurezza nei suoi mezzi. Poiché è molto intelligente, creammo una sorta di narrazione parallela a quella reale. Non si negò mai all’attenzione dei media, solo che per proteggerlo decidemmo di raccontare una versione che non rivelasse al mondo esterno il suo momento di difficoltà.

Per finire, che personaggio è stato per te Giorgio Squinzi?

Fantastico. Io ero tra i pochi che spesso veniva chiamato nel suo ufficio al sesto piano. E nel momento in cui il ciclismo entrava nella sua stanza, era come se si accendesse la luce. E’ stato un grandissimo imprenditore con lo stress delle sfide adeguate al suo ruolo. Ma quando veniva alle corse, guai se non c’era la pastasciutta aglio, olio e peperoncino fatta da Giacomo Carminati. C’era tutto un insieme di rituali, complicità e situazioni che lui viveva intensamente. L’ammiraglia, il pullman, iIl rapporto con il corridore e con tutti i membri dello staff. Viveva tutto con grande generosità e si stupiva di vedere che per altri non fosse lo stesso. Io non l’ho mai vissuto nei panni di presidente di Confindustria o in una trattativa importante, ma credo che lo Squinzi visto nel ciclismo, fosse il vero Squinzi.

Mondiale di Varese, Bettini e Gabriele Sol, che faceva parte dell’organizzazione: per entrambi l’ultima corsa
Mondiale di Varese, Bettini e Gabriele Sol, che faceva parte dell’organizzazione: per entrambi l’ultima corsa
Perché finì?

Nel 1999 venni contattato dalla Juventus. C’era la possibilità di prendere il posto di capo ufficio stampa e io mandai il curriculum. Questa cosa credo non la sappia praticamente nessuno. Mi chiamarono a fine Vuelta. A ottobre ci furono tutti i colloqui e alla fine scelsero me. Avrei iniziato il 2 novembre del 1999, senonché mia moglie si mise di traverso. Non voleva andare a Torino. Giulia aveva appena quattro anni e alla fine rinunciai. Solo che lo avevo già detto a Squinzi. Lui non era stato entusiasta, mi aveva lasciato andare a malincuore, essendo per giunta milanista. Così quando tornai indietro, mi aprì le porte, però percepii che le cose erano cambiate. Perciò nel 2000 aprii la mia agenzia e iniziammo a seguire la Liquigas, una parte della comunicazione internazionale per il Tour de France e nel 2008 i mondiali di Varese.

Sappiamo della carriera politica in Regione Lombardia e ora del tuo lavoro di mental coach. Hai mai sentito la mancanza del ciclismo?

La parentesi politica fu istruttiva è un po’ distruttiva. Sono felice di seguire alcuni corridori, ma con la conoscenza attuale, mi piacerebbe essere più dentro al mondo del ciclismo: il cuore è lì. Non vengo più alle corse, perché rischio di star male e quindi me le guardo in TV. E nel frattempo abbiamo anche cambiato nome. Abbiamo seguito nostra figlia Giulia. Lavorando come artista a Roma, ha scelto come nome d’arte Giulia Sol. Finché un bel giorno, dato che come mental coach lavoro in tutta Italia e faccio pubblicità sul web, ho pensato che chiamarsi Sola non fosse un bel biglietto da visita. Così siamo andati dal Prefetto e abbiamo tutti cambiato cognome. Esattamente un anno fa sono diventato Gabriele Sol, ma per il resto giuro che sono sempre lo stesso.

Quanto si sta comodi nel salotto di Lefevere…

18.01.2023
3 min
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«Se io fossi un corridore da classiche – dice Tafi – vorrei correre là. La squadra di Patrick Lefevere è un riferimento. Magari non è la Jumbo Visma con tutti quei soldi. Però per le classiche e i velocisti sono i numeri uno. Cavendish è andato via, ma è dovuto tornarci per essere di nuovo protagonista».

La squadra ideale

Si diceva l’altro giorno, scrivendo il pezzo sui consigli di Tafi a Ballerini per la Roubaix, di come il discorso avesse preso il largo, andando a esplorare perché il canturino avrà vantaggi dal correre in un simile squadrone. Andrea con Lefevere ha corso, quando il manager belga era a sua volta alla Mapei e con lui ha centrato proprio la Roubaix.

«Nel suo gruppo – spiega – ci sono persone che danno la giusta motivazione. Se arrivi là che sei un buon corridore, sono capaci di aumentare le tue potenzialità. Sarebbe nuovamente la mia squadra, come fu a suo tempo. Se fossi ancora un corridore per quel tipo di corse, le classiche, starei lì anche a costo di guadagnare un po’ meno. Puoi andartene per monetizzare, ma il rischio di sparire è troppo alto. Meglio avere attorno la squadra con cui essere protagonista».

Roubaix 1999, vince Tafi. Ai suoi lati, Peeters e Steels, ancora oggi colonne portanti del team di Lefevere
Roubaix 1999, vince Tafi. Ai suoi lati, Peeters e Steels, ancora oggi colonne portanti del team di Lefevere

L’occhio ai Giri

Con Lefevere ammette di sentirsi spesso. Tafi continua a frequentare i luoghi del Nord e quando si fa parte della cerchia di quei campioni, anche dopo anni ci si sente sempre parte della famiglia. Si gode di un riconoscimento speciale. Quello della gente che ti ferma per un autografo, quello dell’ambiente.

«E’ vero – ammette – con Patrick ci sentiamo spesso e mi diceva che adesso sta spostando l’asticella anche verso le corse a tappe. Se hai un Evenepoel così, non puoi fare diversamente. E di recente mi ha detto che se avesse il budget delle squadre più blasonate, riuscirebbe a comandare anche nei Giri. E’ un motivatore, sa come fare la squadra. Ogni strategia che mettono in atto è certamente per trarne vantaggio anche sul piano commerciale, ma anche per creare l’amalgama giusta. E a questi livelli la motivazione fa la vera differenza».

Quarta tappa del California 2007, vinta da Bettini per tanto così allo sprint su Gerald Ciolek
Quarta tappa del California 2007, vinta da Bettini per tanto così allo sprint su Gerald Ciolek

Amico di tutti

«E poi avete fatto caso a una cosa?». Tafi rilancia e la curiosità ci coglie: a cosa avremmo dovuto fare caso?

«Nonostante sia uno dei manager di maggior prestigio -risponde con l’arguzia toscana – Patrick riesce ad essere amico di tutti. Non se la tira, ha sempre una battuta per chiunque. Conosce tutti e si ricorda di tutti. A distanza di tanti anni, ha un carisma incredibile. “Sono il manager – dice spesso – ma so anche stare con la squadra”. Si è circondato di persone fatte a sua immagine e trasmette loro la sua personalità. In questo modo la squadra ha sempre l’ambiente giusto».

Bettini e Garzelli ricordano la Liegi del 2002: la doppietta Mapei

24.04.2022
6 min
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Alla Liegi-Bastogne-Liegi del 2002, sul traguardo di Ans, ci fu uno degli arrivi più iconici della storia del ciclismo: la doppietta storica della Mapei, con protagonisti Bettini e Garzelli. In quella che viene definita come la “Classica degli italiani” e mai nome fu più azzeccato. Se allarghiamo l’occhio sull’ordine di arrivo si nota come nei primi 5 posti sventoli la bandiera tricolore. Dietro al duo della Mapei si piazzarono: Ivan Basso, Mirko Celestino e Massimo Codol.

Sono proprio Stefano e Paolo, che a vent’anni di distanza, ricordano quella giornata. I giorni precedenti, gli scherzi, i pensieri della sera prima e l’emozione di aver scritto un pezzo di storia, nella terra che ha accolto tanti migranti dal nostro Paese. Che nelle miniere del Belgio hanno lottato e sofferto, e per un giorno, si sono presi una gran bella rivincita: quella di vedere il Belgio inchinarsi alla forza del ciclismo italiano.

Paolo Bettini sul podio della Liegi in mezzo a Garzelli a sinistra e Basso a destra
Paolo Bettini e Stefano Garzelli sul podio della Liegi 2002

Il ricordo del “Grillo” 

«La Liegi è sempre stata una corsa speciale per me – racconta Bettini – da quando l’ho vinta per la prima volta nel 2000. Lì ho capito che avrei potuto fare grandi cose nel ciclismo, e così è stato. Nel 2002 siamo arrivati con un progetto di squadra ben preciso, Io ero l’uomo deputato a vincere, mentre “Garzo” (Stefano Garzelli, ndr) era venuto a supportarmi. Anche perché proprio lì sarebbe arrivata la seconda tappa del Giro d’Italia (tappa vinta proprio da Stefano, ndr)».

«Già dai giorni precedenti alla corsa – riprende Paolo – si respirava un’aria particolare. Durante la ricognizione del venerdì eravamo arrivati all’attacco del San Nicolas, nel pieno del quartiere degli italiani. Curva a destra, comincia la salita, e ci tuffiamo nel cuore della comunità italiana in Belgio, era pieno di bandiere tricolori, uno spettacolo immenso. Si respirava proprio la voglia di rivincita, del legame profondo che quelle persone avevano con la loro terra di origine».

22 giorni dopo Stefano Garzelli trionfò sullo stesso arrivo nella seconda tappa del Giro d’Italia
22 giorni dopo Stefano Garzelli trionfò sullo stesso arrivo nella seconda tappa del Giro d’Italia

E quelli del “Garzo”

Non è raro fare progetti la sera prima di una corsa così importante, un po’ per stemperare la tensione, un po’ perché sognare non costa nulla. E mai come prima di quella Liegi le parole avevano anticipato la realtà.

«La sera prima in hotel – dice Garzelli – immaginavamo la corsa, pensavamo dove attaccare e che sarebbe stato bello arrivare insieme sul traguardo. Se ci penso mi viene la pelle d’oca, un conto è sognarlo ma realizzarlo…

«Quando correvamo, la sera prima della gara si passavano tanti bei momenti insieme, si scherzava e si rideva di tutto. Capitava di parlare della corsa e di come sarebbe stata o di come speravamo potesse andare, ricordo che quella sera c’era qualcosa di magico nell’aria e così è stato».

Paolo Bettini ha corso con la Mapei fino al cambio nome avvenuto nel 2003, poi ha continuato con la QuickStep fino al ritiro, avvenuto nel 2008
Paolo Bettini ha corso con la Mapei fino al cambio nome avvenuto nel 2003

La corsa

«Il nostro atteggiamento in gara è stato azzardato – confessa il due volte campione del mondo –  avevamo visto che ad 80 chilometri dall’arrivo il gruppo era ancora folto. Così Stefano ed io, sulla Cote du Rosier, ci siamo guardati e abbiamo detto “meniamo!”. Abbiamo tirato fuori il primo gruppo, in cui c’erano già tanti italiani, su 30 corridori eravamo in 15. 

«Sul San Nicolas – spiega Paolo – avevo paura che Garzelli potesse saltare e che mi mettessero in mezzo. Abbiamo voluto tastare il polso dei nostri avversari e ho detto a Stefano di allungare, nessuno lo ha seguito e così ho capito che erano tutti cotti. Allora con un’azione di potenza ho deciso di riportarmi sotto, consapevole che se mi avessero seguito avrei dovuto rallentare e far lavorare gli altri. Invece, nessuno ci ha seguito e una volta insieme abbiamo “menato” fino agli ultimi 600 metri».

«In 18 anni di carriera non sono mai andato così forte come quel giorno – riprende con un entusiasmo ancora vivo Stefano – su 70 chilometri di attacco ne ho passati 40 davanti a fare l’andatura. Sulla Redoute ho fatto un bel forcing e ho scremato ancor di più il gruppetto. Sul San Nicolas, Paolo ha fatto qualcosa di davvero intelligente dal punto vista tattico. Mi ha fatto allungare e poi, visto che si sentiva ancora bene, ha allungato anche lui rientrando in solitaria». 

Tutti per uno ed uno per tutti

«In Mapei – racconta Bettini – non si sarebbero mai permessi di dirci chi doveva vincere o meno. Per questo la considero una vittoria tripla: per Stefano, la Mapei e per me. Se guardate bene le immagini si nota che io mi tolgo l’auricolare della radiolina per la parte finale, guardo Stefano e lo ringrazio con un cenno».

«Ricordo che all’ultimo chilometro – replica Garzelli – il direttore sportivo ci ha fatto i complimenti e poi ci ha detto di giocarcela. Io ero stanco e più lento in volata di Paolo, lui poi era il capitano unico di giornata e meritava la vittoria. Ho dato il cento per cento per la squadra e la mia condizione mi ha permesso di conquistare il secondo posto. Non mi sono mai tirato indietro nel lavorare per un compagno ed un amico come Paolo, questo è il vero spirito di squadra».

Garzelli ha corso due stagioni con la Mapei: nel 2001 e nel 2002
Garzelli ha corso due stagioni con la Mapei: nel 2001 e nel 2002

Un movimento cambiato

A 20 anni di distanza la Liegi ha smesso di essere la classica degli italiani, l’ultima vittoria risale al 2007 con Di Luca. Qualche piazzamento nelle ultime edizioni (il secondo posto di Nibali e Formolo rispettivamente nel 2012 e nel 2019 e poi nulla).  

«E’ un po’ la sindrome del ciclismo italiano – dice Garzelli – la generazione mia e di Bettini aveva un’abbondanza incredibile di talenti. Ora facciamo più fatica, ma non lo reputo un fatto generazionale, semmai “evolutivo”. Il ciclismo in Italia non è cresciuto di pari passo rispetto a quello estero rimanendo ancorato a certe tradizioni. La mancanza di una squadra WorldTour sicuramente ha contribuito al declino del movimento».

Bettini con Ernesto Colnago, la Mapei ha corso con le sue bici
Bettini con Ernesto Colnago, la Mapei ha corso con le sue bici

«Se ci pensate – prosegue – i ragazzi italiani vanno forte da junior e under e quando passano professionisti si perdono. Forse in queste categorie si spremono troppo i corridori e si cerca subito il risultato perché gli sponsor vogliono questo. Io sono passato professionista a 23 anni, ora se non passi a 20 sei considerato scarso, i ragazzi, soprattutto così giovani, sentono la pressione. La mia impressione è che la categoria under 23, in Italia, non esista più. Ora i team fanno le squadre Development, non è una novità, la Mapei l’aveva fatta 20 anni prima. Però in queste squadre i ragazzi sono seguiti con l’obiettivo, e la sicurezza di lavorare per entrare nella squadra WorldTour dopo un bel percorso di crescita. Da noi si lavora per il tutto e subito e così i ragazzi li bruci».

Dal Vc Mendrisio alla Biesse-Carrera, la nuova sfida di Nicoletti

20.10.2021
7 min
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Ventuno anni nella stessa formazione sono tanti per il mondo del ciclismo. Forse non sono un record, ma poco ci manca se sei un direttore sportivo. Dario Nicoletti dopo una permanenza lunghissima – una vita sarebbe il caso di dire – nel Velo Club Mendrisio ha deciso di provare una nuova avventura.

Il 54 enne ex professionista – dal 1991 al 1997 vestendo le maglie di Lampre-Colnago, Mapei ed Mg-Technogym con due vittorie – si è affidato ad un post molto profondo su un proprio profilo social per descrivere le sue emozioni nel lasciare la squadra elite/under 23 svizzera. E’ difficile trovarne scritti dai dirigenti. Ci ha incuriosito, meritava un approfondimento, anche perché uno come lui ha tanto da dire sui giovani. Nel 2022 sarà sull’ammiraglia della rinnovata continental Biesse-Carrera.

Nicoletti è stato pro’ dal 1991 al 1997: qui con la Mg alla Roubaix del suo ultimo anno
Nicoletti è stato pro’ dal 1991 al 1997: qui con la Mg alla Roubaix del suo ultimo anno
Dario, come si fa a stare così tanto tempo nella stessa formazione?

Non ho mai avuto l’ambizione di fare solo ciclismo. Gli impegni di lavoro con quelli di diesse si conciliano bene. Detto questo, quando stai bene in un ambiente il tempo vola. Al Velo Club mi sono sempre trovato alla grande, ho fatto i primi dieci anni seguendo gli juniores e gli altri undici con i dilettanti. Hanno una filosofia svizzera dove nessuno pretende per forza risultati. Poca pressione. Ti lasciano lavorare con tranquillità, con metodo. Perché poi, appunto, i risultati arrivano da soli. 

La tua storia col Mendrisio come inizia?

Appena ho smesso di correre sono andato a lavorare in Mapei e sono tutt’ora nel settore di ricerca e sviluppo dell’azienda. Il patron Giorgio Squinzi, che avevo conosciuto quando ho corso per lui (quattro stagioni, ndr), mi ha sempre incoraggiato a lavorare con i giovani. Mi sono sempre tenuto in contatto con lui anche se dal 1998 al 2000 non ho fatto nulla, volevo capire cosa diventare da grande. Poi nel 2001 Mauro Antonio Santaromita (ex pro’ dal 1986 al 1997 e suo ex compagno nella Mg-Technogym, ndr) mi ha illustrato il progetto del Velo Club ed ho iniziato. Squinzi, dopo che nel 2002 la squadra professionistica chiuse, iniziò a sponsorizzare noi. Insomma, è stata una seconda famiglia.

Parlacene…

La persona a cui sono più legato è senza dubbio Alfredo Maranesi. Lui ha fatto il manager, il direttore sportivo, ora è il presidente, ma è un factotum della società. Mi ha sempre permesso di lavorare con serenità richiedendomi solo impegno e di tenere alto il nome di Mendrisio. Ringrazio davvero Alfredo di tutto. Poi vorrei ringraziare anche il nostro ultimo sponsor Immoprogramm (agenzia immobiliare di Bellinzona, ndr), il cui titolare è un grande appassionato di ciclismo, che è entrato a metà 2021, rinnovando anche per l’anno prossimo.

Davide Botta, classe 1997 (qui alla Coppa Agostoni), sostituirà Nicoletti sull’ammiraglia del VC Mendrisio
Davide Botta, classe 1997 (qui alla Coppa Agostoni), sostituirà Nicoletti sull’ammiraglia del VC Mendrisio
Ora però Maranesi come farà senza di te?

In realtà avevamo già previsto una soluzione interna. Verrò sostituito da Davide Botta che ha corso con noi in queste ultime stagioni, andando forte. E’ un classe ’97, già in gara per me era una sorta di braccio destro, di regista. Studia Scienze Motorie e nel 2020 durante il lockdown ha fatto il corso da direttore sportivo. Quindi il passaggio di testimone è stato piuttosto naturale.

In questi ventuno anni ti erano arrivate offerte da altre società?

Sì, da una continental tanti anni fa. Non mi convinceva però il progetto di chi mi aveva contattato e risposi di no senza nemmeno pensarci un secondo. Ci avevano anche contattato alcune squadre per fare una fusione con noi, senza concludere mai nulla.

Come mai invece hai accettato la proposta della Biesse-Carrera?

Si è creata questa nuova occasione di lavoro quando in primavera mi ha chiamato Marco Milesi, il loro diesse. Ci conosciamo bene, siamo stati compagni da dilettanti nel ’90 (nel Gs Diana Calzature-Colnago, ndr) e so che si può lavorare bene con lui. E’ molto bravo e preparato. Ero indeciso perché ero molto attratto da una parte e dall’altra mi dispiaceva staccarmi da Alfredo.

Come hai sciolto i dubbi?

Innanzitutto ci tengo a dire che non ho avuto alcun problema con Alfredo. Ne ho parlato proprio con lui, gli ho chiesto consiglio. Mi ha detto che non mi avrebbe ostacolato per farmi vivere una nuova esperienza. Così abbiamo concordato che probabilmente, con la buona stagione disputata e col passaggio al professionismo di alcuni nostri ragazzi, eravamo arrivati alla fine di un ciclo

E’ stato un bel 2021 per voi. Il danese Hellemose passerà nella Trek-Segafredo e Alessandro Santaromita andrà alla Bardiani. Sono del 1999, ci parli di loro?

Anche altri ragazzi sono andati molto forte. Asbjorn (Hellemose, ndr) è uno di quei corridori che te ne capita uno ogni tanto. Pensate che nel 2019 scrisse a diverse formazioni per provare a correre in Italia. Gli rispondemmo solo noi. Venne giù dalla Danimarca a sue spese e gli feci correre il Gp Somma a fine ottobre dandogli assistenza. Chiesi ai miei ragazzi come fosse andato e mi risposero che era da prendere al volo. E’ uno scalatore moderno, estremamente continuo, che va forte un po’ ovunque anche se vince poco. E’ acerbo, ha parecchi margini di crescita. E’ stato molto bravo e svelto Luca Guercilena che, dopo averlo visto e valutato, ne è rimasto colpito. Gli è piaciuto e gli ha offerto subito il contratto vincendo la concorrenza della Deceuninck.

E per Santaromita com’è andata?

A maggio ero a Cittadella per la partenza della 14ª tappa del Giro, quella dello Zoncolan. Incontro Bruno Reverberi che mi fa una battuta: «Hai uno scalatore da darmi?». Santaromita, gli rispondo io. E lui mi chiede se sia il figlio di Mauro e nipote di Ivan (ex pro’ dal 2003 al 2019 e campione italiano nel 2013, ndr). A quel punto iniziano a seguirlo dal Giro U23 in poi. Alessandro è un ottimo corridore che è andato forte ed è molto regolare. Purtroppo anche lui vince poco, ma è sempre là davanti. Farà bene. 

Ne avete avuti altri di professionisti che sono transitati dal Velo Club Mendrisio.

Certo. Lo stesso Ivan Santaromita, ma prima Steve Morabito, Michael Albasini e Gregory Rast. Gli ultimi sono stati Matteo Badilatti e Gino Mader. In totale abbiamo fatto passare una ventina di corridori.

Hellemose ha corso il Giro di Sicilia aiutando Nibali vincitore finale
Hellemose ha corso il Giro di Sicilia aiutando Nibali vincitore finale
Parliamo di ciò che troverai nella Biesse-Carrera. 

Saremo una continental di 12 ragazzi. I confermati sono Villa, Gobbo, Belleri, Bonelli e Ciuccarelli. Un nuovo arrivo sarà Martin Svrcek, che ha già firmato con la Deceuninck fino al 2024, ma che dovrebbe stare con noi fino a giugno 2022. Praticamente hanno fatto un’operazione come la UAE con Ayuso alla Colpack-Ballan. Però Lefevere (general manager della squadra belga, ndr) recentemente mi ha detto che ce lo lascerà fino ad agosto, forse tutto l’anno. Tutto andrà in base ai risultati. Ci saranno due promettenti danesi del 2001. Mattias Nordal che mi porto dietro dal Mendrisio e Anders Foldager che mi ha segnalato Hellemose. Poi avremo altri ragazzi interessanti. Roda, Motta e Borlini. Tra i confermati c’era anche Matteo Carboni ma purtroppo pochi giorni fa ci ha comunicato che smette di correre. Quindi siamo alla ricerca di un dodicesimo uomo.

Roster importante. Quali saranno gli obiettivi?

Principalmente quello di lavorare bene, visto che faremo da squadra “satellite” della Deceuninck per i prospetti più interessanti. Non avremo eccessive pressioni, cercheremo di farci vedere nelle gare con i professionisti e di confermare i buoni risultati che sono stati centrati nel 2021. 

Azzurri a Leuven. Si parla di vento, curve e Belgio spaccato

23.09.2021
5 min
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Gli azzurri si sono appena alzati da tavola, il mattino è stato bello ma impegnativo. Nel solo giorno in cui si poteva provare il percorso della corsa su strada, gli uomini di Cassani sono usciti di buon’ora. Da Anversa sono arrivati a Leuven. Si sono preparati. E finalmente hanno iniziato a girare sul tracciato dalle mille curve che nei prossimi tre giorni assegnerà cinque maglie iridate. Clima mite, un po’ di vento. Quando il Belgio ti accoglie in questo modo, ti verrebbe da venirci a vivere. Poi ricordi le giornate gelide d’inverno e ti dici che non è il caso.

Colbrelli: rischio vento

Colbrelli parla poco. Oggi per lui c’è stata una bella razione di chilometri e nell’ottica di arrivare alla corsa senza rimpianti, ogni energia va preservata con cura.

«Provandolo senza traffico – dice – il percorso è molto veloce, ma con tanti rilanci e tante curve. Gli strappi in città non sono duri, sono molto brevi. Invece il circuito a metà, quello dei quattro giri e gli strappi in pavé, è già diverso. E’ abbastanza veloce, ma oggi c’era un po’ di vento in cima agli strappi dove si farà la differenza e lì fa male.

«Fa male – dice dopo una breve pausa – perché se esci dopo la ventesima posizione, sono cavoli. Bisogna correre nelle prime 20-30, altrimenti rischi di rimanere fuori se una squadra attacca».

Per lui che può attaccare e giocarsela in volata, le attenzioni dovranno insomma essere doppie. E comunque vedendolo passare nel tratto cittadino, non è passato inosservato il fatto che abbia provato rapporti e traiettorie. Il campione d’Italia e d’Europa è super concentrato, lo lasciamo al riposino pomeridiano.

Colbrelli e Nizzolo sono due probabili frecce all’arco di Cassani
Colbrelli e Nizzolo sono due probabili frecce all’arco di Cassani

Trentin: tanto veloce

Però arriva Trentin, che ha ugualmente voglia di riposare, ma si ricorda generosamente degli amici.

«Ero venuto a vederlo dopo il Giro di Slovenia – dice – ma non mi ero reso conto di quanto fosse veloce. Aumenta la velocità e di riflesso aumenta la tecnicità. La prima parte da Anversa sarà il classico trasferimento da Fiandre o da mondiale, a meno che domenica non ci sia vento. Mentre il circuito fuori si farà sentire, ma oggi il vento era… stupido. Contrario in cima al primo strappo, laterale sul secondo e a favore nel venire verso Leuven…».

Se piove, un’altra Glasgow

Par di capire, sentendolo parlare che i giochi si faranno nel tratto cittadino, fra gli strappi e le tante curve del percorso.

«Quando entri in città – dice – resti a lungo nella posizione che hai preso. E con un Van Aert così forte, bisogna stare attenti che il Belgio non provi a portarlo in carrozza sino alla fine. Vedo una volata di gruppetto, su un rettilineo in cui conta avere le gambe più che essere veloci. Ma vedo anche il colpo di mano, perché negli ultimi 7-8 chilometri ogni punto è buono. Non escludo affatto che Van der Poel possa attaccare da lontano, ma non avrà troppa libertà, lo seguirebbero in tanti. E comunque, se va via la fuga, c’è un solo pezzo di 2 chilometri in cui inseguire. Il resto è da mal di testa.

«E se piove, viene fuori un’altra Glasgow (la corsa in cui vinse i campionati europei del 2018, ndr). Non è un problema di asfalto, ma se già sull’asciutto prendi una frustata, figuratevi col bagnato. La vittoria mi ha tranquillizzato, sapevo di stare bene, ma così è diverso. E se serve, la responsabilità della corsa posso prenderla anche io. L’ho sempre fatto».

Trentin arriva ai mondiali di Leuven forte della vittoria al Trofeo Matteotti
Trentin arriva ai mondiali di Leuven forte della vittoria al Trofeo Matteotti

Nizzolo, occhio alle scelte

Se Colbrelli e Trentin sono i due guastatori, all’appello non può mancare l’uomo veloce del gruppo, quel Giacomo Nizzolo anche lui campione europeo. Che sta bene, ma va cauto con le dichiarazioni per evitare fraintendimenti.

«Il percorso è molto tecnico – dice – non troppo duro, ma selettivo anche con le tante curve. Verrà fuori una grande selezione, per cui sarà bene non andare più indietro della 40ª posizione, altrimenti diventa veramente difficile. Non so cosa deciderà Cassani nella riunione, ma la sensazione è che sia meglio fare la corsa che subirla. Io sto bene, vedremo che tipo di consegna mi sarà assegnata. E intanto sto pensando ai materiali. Io sono di quelli delle scelte estreme. Cerchi altissimi, gomme gonfie al limite, rapporti lunghi. Forse questa volta, viste le curve e i rilanci dovrò rivedere qualcosa. Ma non la guarnitura, al 54 non rinuncio…».

Puccio, Belgio spaccato

E poi, dopo tre potenziali protagonisti, arriva la fanteria. Chi tira su un percorso così nervoso se c’è da chiudere un buco? Puccio se la ride, non si sa ancora quali saranno le riserve, ma se c’è da lavorare…

«Il percorso in città – dice il luogotenente di lusso del Team Ineos – è veloce e pieno di curve, ma mi preoccupa più il tratto sui muri. Lo fai quattro volte e anche il pezzo di raccordo con la città si fa rispettare. Quando ci sono quelle strade, in Belgio non c’è mai nulla di scontato, soprattutto col vento. Non so se valga la pena entrare nelle fughe o aspettare, dipende da che corsa vuoi fare, perché è lungo (il mondiale misura 268,3 chilometri) e rischi di scoprirti troppo. Bisognerà capire il Belgio, che ha un problema. Non so se correranno tutti per Van Aert, qualcuno pensa che Evenepoel potrebbe attaccarlo. E in quel caso, sommato alla paura di Wout di fare secondo, per noi è un vantaggio. Ma se devo dire, credo che le azioni decisive ci saranno l’ultima volta che si faranno i muri e si rientrerà nel circuito con due giri e mezzo da fare. A quel punto la corsa sarà chiusa per quelli dietro e davanti se la giocheranno…».

Carminati, finisce davvero il romanzo della Mapei?

23.09.2021
6 min
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«Questo dovrebbe essere l’ultimo anno – dice Carminati e la voce un po’ trema – poi probabilmente non vedrete più il pullman della Mapei ai mondiali».

Finite le crono, la carovana si sposta da Bruges a Louvain e anche il pullman blu con i cubetti ha preso la via della cittadina universitaria alle porte di Bruxelles, in cui si svolgeranno le prove su strada. Giacomo Carminati, bergamasco di 69 anni, è la faccia dell’azienda milanese. Lo era accanto a Giorgio Squinzi e lo è diventato a maggior ragione da quando il dottore se ne è andato. Il pizzo ormai bianco, la solita simpatia coinvolgente, il sorriso gentile. Chiusa la squadra, Mapei allestì il pullman per portare il marchio in giro per l’Europa e Carminati smise di trasportare corridori e cominciò ad accogliere clienti e uomini d’affari. Ma voi avete idea di quanti e quali campioni hanno viaggiato con lui dal 1994 al 2003?

La campagna del Nord era un momento chiave: qui nell’Arenberg
La campagna del Nord era un momento chiave: qui nell’Arenberg

Testimone privilegiato

I guidatori dei pullman sono i testimoni della storia. Nei loro mezzi si respirano le grandi vigilie e le tensioni, i brindisi e le cocenti sconfitte. Se potessero raccontare tutto, le loro storie sarebbero best seller, ma hanno fatto voto di discrezione e per questo i corridori li adorano. Nei giorni scorsi sono passati di qui Johan Museeuw e Paolo Bettini e l’abbraccio riservato a Carminati è stato quasi toccante. Vi abbiamo raccontato di Federico Borselli e di Ezio Bozzolo, ma nessuno ha l’esperienza del bergamasco. Che lavorava alla Gatorade di Stanga e un bel giorno ricevette una telefonata…

Una telefonata che ti cambiò la vita?

Potete dirlo forte. Era novembre del 1993 e mi chiamò Marco Giovannetti, che era stato con noi fino all’anno prima. Mi disse che c’era un grosso sponsor di nome Mapei che era interessato a me per gestire il parco automezzi e mi chiese se volessi incontrarlo. Fu così che vidi per la prima volta Giorgio Squinzi, che aveva già deciso di entrare nel ciclismo. Conversammo a lungo e trovammo l’accordo, ma non dicemmo una parola sui soldi. Seppi in seguito che quando uscii chiamò l’amministrazione e disse di darmi qualunque cifra avessi chiesto.

Ricordi il primo pullman?

Ne trovammo uno usato di due anni e lo facemmo allestire dalla Vas a Firenze. Ero giù quattro giorni a settimana per seguire i lavori e così nacque il pullman che utilizzammo dal 1994 al 2002. Nel 2006 invece se ne fece un altro per i mondiali di calcio, quando Mapei sponsorizzò la nazionale.

Quanti corridori sono saliti sul tuo pullman?

Impossibile dirli tutti. Da Rominger a Ballerini, Tonkov, Bettini, Bartoli, Museeuw, Tafi… Quanti sono stati i campioni della Mapei? Erano tutti miei corridori e non ho mai avuto una discussione. O meglio, una c’è stata e con il mio corridore preferito: Gianni Bugno, che per me era Dio in terra.

Ballerini ha vinto la prima Roubaix, Bortolami si congratula, Carminati è lì
Ballerini ha vinto la prima Roubaix, Bortolami si congratula, Carminati è lì
Oddio, che cosa gli hai fatto?

Che cosa fece lui a me… Si arrivava in salita in una strada stretta, pioveva. I pullman non potevano salire, per cui mi feci prestare un’auto dall’hotel e andai su ad aspettarlo. Lui voleva vincere, ma finì dietro Fondriest. Quando tagliò il traguardo, mi chiese dove fosse il pullman e quando sentì che non c’era, cominciò a urlare davanti a tutti. Mi ferì. A cena gli dissi di non permettersi mai più, che sennò li avrei lasciati tutti in mezzo alla strada. Lui capì, si scusò e mi diede un abbraccio.

Come mai tanta intesa?

Forse perché ho corso fino ai dilettanti, prima che un incidente mi costringesse a smettere e quindi capisco i sacrifici che fanno. Facevo 180 giorni all’anno in giro sul pullman, con tante soddisfazioni e guidando, che era la mia passione. Prima di arrivare al ciclismo, avevo fatto sei anni guidando i bus turistici.

Il pullman è sacro?

La prima cosa che dicevo ai corridori era di badare alla pulizia e devo dire che ci sono stati sempre attenti, forse sapevo farmi rispettare. Con alcuni poi si creava un legame speciale, con Rominger per esempio. Voleva che gli preparassi io il rifornimento con la banana pelata, perché i massaggiatori la facevano la sera prima e quando apriva la stagnola, era annerita. E poi voleva che andassi io agli arrivi, facevo anche quello.

Ballerini?

Mi ricordo un anno, forse proprio il 1994, in cui si ritirò dal Giro per l’allergia. Continuavo ad andare nella sua stanza per vedere come stesse e lo trovavo sempre con un asciugamano sulla testa. Continuai a seguirlo anche quando prese la passione dei rally. Una volta tornavamo verso casa con l’ammiraglia della nazionale e gli chiedevo perché mai insistesse a rischiare con le corse. E lui rispose che aveva comprato quel famoso collare che gli avrebbe dovuto salvare la vita…

Festa Mapei per la vittoria della Roubaix di Tafi
Festa Mapei per la vittoria della Roubaix di Tafi

Si interrompe. Gli sguardi si incrociano. Lo ricordiamo a Roubaix quando Franco vinse per la prima volta sulle pietre. Certe ferite fanno fatica a guarire.

Ti ricordi le prove alla Foresta di Arenberg?

Li portavo là, si cambiavano, prendevamo il caffè con i giornalisti che ci aspettavano e poi partivano per fare il finale. La campagna del Belgio era bellissima, si stava bene. Respiravi aria di ciclismo. Ci sarebbe stato bene anche Ganna in quella squadra, è un ragazzo favoloso. L’altro giorno è venuto a prendere il caffè anche suo padre, assieme a Giovanni Lombardi.

E Bettini?

Ricordo la prima Liegi che vinse. Mi abbracciò e si mise a piangere. Quel giorno iniziò la sua scalata. A Paolo sono molto legato, ogni volta che vado in Toscana, passo a trovarli tutti. Ho dormito nell’agriturismo di Tafi, ma quando ho provato a pagare ha detto che si sarebbe offeso. Ho dormito anche nell’hotel di Giovannetti, ma non mi sono fatto riconoscere. Il giorno dopo l’ho trovato a colazione e gli ho fatto una sorpresa. Sono rimasto tutto il giorno, mi ha portato a vedere l’hotel che stava per comprare.

Cosa ricordi del dottore?

Squinzi veniva tutte le domeniche a casa mia e uscivamo in bici. Era appassionato, aveva le nostre stesse sensazioni prima di una gara. Gli piaceva vedere l’impegno e la preparazione dei corridori. Aveva un modo di fare talmente garbato che riusciva a stare in mezzo a loro senza farsi notare e quando parlava, ci dava una carica pazzesca.

Dici che sarebbe mai tornato al ciclismo?

Credo di sì. Quando successe la positività di Garzelli, mi chiamò e mi disse che il giorno dopo avrei letto sui giornali che la Mapei chiudeva a fine anno. Voleva che lo sapessi da lui, era rimasto troppo deluso. Quando si seppe, Zabel venne a propormi di lavorare per la Telekom, ma il dottore si inventò il pullman commerciale e rimasi. Sono convinto che sarebbe rientrato, se ne parlava continuamente. Gli mancava la bici, era contento di uscire con noi perché con i miei amici non si parlava di lavoro. Glielo dicevamo di curarsi, lui continuava a rimandare finché non fosse finito il mandato in Confindustria.

Il racconto di una vita in Mapei, con Carminati nel salottino del “suo “pullman
Il racconto di una vita in Mapei, con Carminati nel salottino del “suo “pullman
Quando l’hai visto per l’ultima volta?

Andai a trovarlo nel 2019 prima dei mondiali di Harrogate assieme a Bugno. Era contentissimo, mi abbracciò. Poi a un certo punto ci disse di andare perché doveva prendere le sue medicine e aggiunse che non ci saremmo più visti. Sono stato per tre giorni con il mio camper fuori dalla camera ardente.

Cosa sarà di questo pullman?

Se viene confermato che non serve più, penso che sarà venduto. E’ l’ultimo superstite di una grande storia, tutti vengono a trovarci, perché è la casa di tutti. Quando arrivavamo i primi anni, si spostavano per lasciarci passare e applaudivano. Per i corridori era una comodità.

Se lo vendono, chissà quanti segreti porterà con sé…

Ho sempre assistito a tutto, so tante di quelle cose… Sembrava una famiglia più che una squadra, difficilmente c’erano discussioni. Poi le radioline hanno un po’ cambiato le cose, togliendo di mezzo l’improvvisazione. Ma se lo vendono, ai mondiali non rinuncio. Continuerò a girare col mio camper. In qualche modo continueremo a salutarci ogni anno…

Non solo Jumbo, 20 anni fa c’era la Mapei giovani…

07.08.2021
5 min
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L’articolo sull’Academy della Jumbo Visma e su come lavorino con i giovani e il team development e ci ha fatto rivenire alla mente la Mapei Giovani. Quello fu un progetto davvero innovativo. Un progetto che col senno del poi lanciò moltissimi personaggi di spicco. Sono passati da lì corridori come Fabian Cancellara e Filippo Pozzato, ma anche tecnici Roberto Damiani e Luca Guercilena. Di quello staff faceva parte anche un tecnico, bravissimo, che spesso lavora nell’ombra e che all’epoca era giovanissimo: Andrea Morelli.

Oggi lui è una colonna portante del Centro Mapei ed è la persona ideale per ricordare quella avventura, ma anche per capire come lavoravano. Furono quattro stagioni (dal 2000 al 2003) molto costruttive.

Andrea Morelli, Fabian Cancellara
Andrea Morelli con Fabian Cancellara, qualche stagione dopo gli anni della Mapei: rapporti sempre buoni
Andrea Morelli, Fabian Cancellara
Andrea Morelli con Fabian Cancellara, qualche stagione dopo gli anni della Mapei: rapporti sempre buoni

Rivoluzione Mapei

«Il progetto Mapei giovani nasce a cavallo del 1999-2000 – spiega Morelli – ha anticipato i progetti attuali delle squadre che lavorano con i ragazzi. L’idea era di centralizzare il monitoraggio degli atleti, soprattutto per quel che riguarda la preparazione, visto che qualcuno aveva dei preparatori esterni. Si davano delle linee guida generali sulla vita da tenere anche oltre la bici, ma certo per vedere se il corridore faceva il furbo avresti dovuto vivere con lui notte e giorno. E non era semplice.

«L’idea di Squinzi e Sassi fu rivoluzionaria. Si voleva far crescere l’atleta a 360°, avere un gruppo omogeneo e da lì la squadra giovani. Capirono per primi che se non hai una base su cui costruire poi è difficile mantenere un alto livello tra i grandi».

Aldo Sassi e Giorgio Squinzi, alla presentazione della Mapei-Quick Step nel 2001
Aldo Sassi e Giorgio Squinzi, alla presentazione della Mapei-Quick Step nel 2001

L’importanza del vivaio

Il vivaio resta un qualcosa di centrale. E sempre di più è così. Lo vediamo con i grandi team WorldTour attuali, ma anche nel calcio e persino nella F1, ci sono le cosiddette Academy, anche la Ferrari ne ha una.

«Anche il calcio che ha più risorse economiche lo sta facendo. Guardiamo il Sassuolo per esempio con Generazione S. Oggi si analizzano i dati di alcuni allievi e se sono buoni li fai allenare come i pro’. No, noi volevamo un vivaio allargato per far crescere i corridori con gradualità. All’epoca, per capacità o per fortuna, avevamo tante squadre satellite. Ho detto per fortuna perché Mapei essendo così grande e internazionale spesso aveva dei rivenditori privati che sponsorizzavano delle società. Un anno tra junior e dilettanti avevamo 18 team. Iniziava ad essere un bacino ampio.

Anche oggi come allora tanti campioni passano dal Centro Mapei Sport, ecco Elisa Longo Borghini
Anche oggi come allora tanti campioni passano dal Centro Mapei Sport, ecco Elisa Longo Borghini

Okay la cultura, ma i test…

La Jumbo valuta i corridori dai dati e anche sotto il profilo umano, andando a casa dei genitori, esaminando anche l’aspetto culturale. La Mapei giovani come faceva?

«Sicuramente i tempi sono cambiati e l’aspetto esterno al ciclismo è importante, ma i dati restano fondamentali. Bisogna vedere i risultati storici e i risultati in laboratorio, perché comunque se non hai quei valori fisiologici non puoi andare avanti. Poi ci sono le capacità: guidare bene la bici, leggere la corsa, avere testa… ma se non hai il “motore” è difficile che tu possa diventare corridore. E poi gli interessi di un corridore nel privato possono essere diversi. C’è quello super informato che studia e quello che invece vuole salire in sella e basta. E’ anche una mentalità diversa da soggetto a soggetto: meno pensieri, meno stress, essere più rilassato…».

In ammiraglia Mapei anche Roberto Damiani, qui con Bettini
In ammiraglia Mapei anche Roberto Damiani

Una fitta rete di scouting

«Nei nostri screening fisiologici si vedeva che Cancellara anche da junior aveva dei valori molto alti per appartenere a quella categoria. Sapevi che poteva diventare qualcuno. E lo stesso, in tempi più recenti, Ganna.

«Noi i ragazzi li trovavamo come ho detto tramite le nostre squadre satellite, ma poi anche grazie ai nostri tecnici e talent scout, o il passaparola che vale ancora molto. Magari c’era un U23 che non vinceva tanto ma era costante e otteneva bei piazzamenti. Individuati i soggetti si faceva loro un test.

«Mettiamoci che Mapei aveva interessi economici anche all’estero. E quindi era interessata ad altri mercati. Ecco che dal’Ungheria arrivò Bodrogi, dall’Inghilterra (che non era la potenza ciclistica di adesso, ndr) arrivò Wegelius, individuammo già anni prima Vandenbroucke in Belgio, Rogers dall’Australia… Poi non è detto che il corridore diventi un campione. Anche da noi ci furono dei casi di gente durò una stagione o due.

«I ragazzi erano seguiti da Guercilena e Damiani. Prendemmo Cancellara e Pozzato direttamente dagli juniores. Oggi è quasi la normalità, all’epoca fu un caso eclatante. Ma l’idea della crescita graduale fu subito centrale. Ed è questa forse la cosa che manca di più oggi, quando vedi questi ragazzini che passano dagli junior al WorldTour. Noi facevamo delle brevi corse a tappe di 3-4 giorni e ogni anno un po’ di più fino alle corse di “prima categoria“.

«Per esempio Cancellara. Al primo anno – dice Morelli mentre ogni tanto fa delle pause e verifica i vecchi dati – fece il Recioto, il Circuito Franco Belga e qualche altra gara. Nel 2001: Algarve, Tour di Rodi, Noekere, Gp Berna, Alentejo, Slovenia, Ain e altre gare singole. O Pozzato: nel 2000 fece gli Etruschi, Almeria, una corsa a tappe in Austria e l’anno dopo il Giro del Lussemburgo, quello di Danimarca, il Limousin, delle gare in Giappone».

Meno conoscenze sull’alimentazione, ma grande collaborazione con Enervit già in quegli anni
Meno conoscenze sull’alimentazione, ma grande collaborazione con Enervit già in quegli anni

Alimentazione e ginnastica

«Non c’erano certo le conoscenze che ci sono adesso sull’alimentazione – spiega Morelli – Si davano delle indicazioni generali, c’era la plicometria e lì finiva. Tuttavia Sassi collaborò molto con Enervit e già riuscimmo a dare delle indicazioni in tal senso. Semmai il problema di quegli anni era lo stacco invernale che era davvero lungo. E si vedevano anche casi di gente che metteva su 7-8 chili. Oggi al massimo riposano dieci giorni in totale e poi già riprendono con altre attività.

«Anche la palestra serviva quasi più come attività alternativa che per la preparazione vera e propria. C’erano i classici esercizi per l’irrobustimento della parte superiore e quelli più mirati per la bici.

«Mapei Giovani era un progetto di “evidence based coaching” cioè l’insieme di dati scientifici ed esperienze sul campo. Per esempio avevi visto e capito che quel determinato allenamento faceva bene, ma c’era già un riscontro scientifico».

Serge Parsani, Paolo Bettini 2006

Stanno schiacciando il direttore sportivo

01.01.2021
5 min
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A Bergamo fa freddo, Parsani si ripara dietro alla barba bianca da direttore sportivo in pensione e torna a casa dopo la visita a mamma Rosetta, che ha da poco compiuto 99 anni.

«Le dico sempre di arrivare alla tripla cifra – sorride – poi potrà andare dove vuole. A volte molla un po’, come un velocista in salita. Poi però rientra. Quando giochiamo a scopa, non la faccio vincere perché così reagisce. Non le piace perdere. E’ la mia vita da pensionato. Non mi annoio, a casa trovo sempre qualcosa da fare. In più ho un nipotino che si chiama Leonardo e ha stravolto la mia vita, ma mi distoglie da tutti i problemi. Vado a prenderlo all’asilo e passo ogni giorno due ore con lui. E non penso ad altro…».

Serge Parsani, bergamasco nato in Francia, classe 1952. Nella foto di apertura è con Bettini dopo il mondiale di Salisburgo 2006. Da professionista ha corso dal 1974 al 1983 alla Bianchi-Piaggio, accompagnando Felice Gimondi negli ultimi 6 anni di carriera. Poi è salito in ammiraglia, guidando alcune fra le squadre più importanti degli anni 90: Gewiss-Bianchi e Mg-Gb, l’Ascis-Cga, la Mapei, la Quick Step e la Katusha, chiudendo poi la carriera con Scinto.

Nelle ultime settimane abbiamo parlato con qualche team manager e parecchi direttori sportivi, rendendoci conto di quanto sia cambiato il mondo. C’è chi li considera il cuore della squadra. Chi (a microfoni spenti) ti dice che la loro unica funzione è impedire che i corridori rompano le scatole. Chi li mette al centro del progetto e chi si accontenta che guidino l’ammiraglia. Rispetto al resto del mondo, l’Italia è ferma a un retaggio antico, ma il nuovo non è sempre garanzia di qualità. Per questo abbiamo chiamato lui. Perché è nato nelle squadre del primo Ferretti. Ha visto nascere la Mapei, antesignana degli squadroni di oggi. Ha vissuto le ingerenze straniere alla Katusha. E alla fine ha fatto i conti con i mezzi limitati della Farnese.

Mapei, Coppa del mondo 2002
Bettini conquista la Coppa del mondo 2002 e la Mapei si scioglie. Sul palco del Lombardia anche i compianti coniugi Squinzi e Aldo Sassi
Mapei, Coppa del mondo 2002
Lombardia 2002, Bettini festeggia la Coppa e la Mapei si scioglie
Dicci Serge, come la vedi oggi la figura del direttore sportivo?

Partiamo da com’era. I miei inizi sono stati un po’ in sordina alla Gewiss-Bianchi, alle spalle di Ferretti, dato che ero ancora dipendente Bianchi. Oggi uno come Giancarlo non c’è più, direi purtroppo, pur rendendomi conto che sarebbe impossibile. Giancarlo era manager, direttore sportivo, responsabile del marketing. Faceva tutto lui. Oggi nelle squadre si sono differenziati i ruoli, probabilmente è necessario, ma in tanti casi manca il collante fra gli stessi.

In Italia siamo ancora fermi alla figura che accentra…

In Italia purtroppo ci sono soltanto quattro squadre professional. Se il ciclismo mondiale fosse solo questo, allora sarebbe uno sport molto povero, perché parliamo di manager incapaci di restituire allo sponsor tutto quello che il ciclismo riesce a dare. Del resto non si spiega perché non abbiamo più squadre WorldTour, visto che prima i campioni erano tutti qua. Bisognerebbe che tanti si facessero un esame di coscienza.

All’estero è diverso?

Ci sono manager all’altezza, che non vogliono essere dentro in tutto. Magari informati, ma lasciano le decisioni ai responsabili delle singole aree. Il modello Ferretti poteva funzionare in quegli anni, con lo sponsor che sceglieva la persona e gli dava carta bianca. Il ciclismo di oggi si è allargato, quello italiano no. E lo stesso mi viene da applaudire chi riesce a mettere insieme queste piccole squadre, perché pur senza grosse sostanze offre la possibilità a qualche giovane di farsi vedere.

Senza grosse sostanze, il tecnico riesce ancora a progettare o ha poco margine?

Quello che fa il tecnico è da capire, anche quando ci sono tanti soldi. Quando vedo che una squadra WorldTour ha 10-12 direttori, la figura perde di centralità e importanza. Non sei più il punto di riferimento per i corridori. Fai pochi giorni con ognuno, non riesci nemmeno a capire che carattere abbiano. Il corridore di 20 anni fa ti diceva che il tale direttore sportivo era stato o non era stato importante per la sua crescita e i suoi risultati, oggi fanno fatica a ricordarseli.

Qualcuno bravo però si distingue ancora…

Vedo Martinelli, che è un bravo diesse e non deve più fare le veci del manager, ma spesso è schiacciato dall’entourage kazako. Puoi programmare quello che vuoi, formare il gruppo, ma se i capi decidono che vogliono tre dei loro nella squadra del Tour, devi portarli. A me è successo in Katusha, quando bisognava dare spazio ai russi, perché a loro fa più comodo un russo che fa decimo, di uno spagnolo che vince. Come fai a conquistarti la fiducia dei corridori, se all’ultimo momento devi lasciarli fuori per queste imposizioni? E poi ci sono tutti gli altri…

Serge Parsani 2020
Così oggi Parsani con la sua barba. Il bergamasco ha compiuto 68 anni ad agosto
Serge Parsani 2020
Serge Parsani e la sua barba bianca
Di chi parli?

Allenatore. Nutrizionista. Osteopata. Mental coach. Il direttore sportivo deve mettersi in fila e non vengano a raccontarmi che basta una videoconferenza. Il rapporto con i corridori sanno tenerlo in pochi. Alla Mapei, ciascuno col suo gruppo, si riusciva ancora.

Ecco bravo, la Mapei. E’ stata la prima squadra di un certo tipo.

La Mapei è stata il moderno senza tralasciare l’antico. C’erano tutte le strutture, di preparazione e tecniche, ma riuscimmo a mantenere il ruolo delle persone. La squadra era nata dalla visione di Aldo Sassi. Squinzi magari entrava nel merito dei risultati, ma non ha mai interferito sulla gestione degli atleti, pur volendo sapere tutto. Quando eravamo in Australia, face il conto del fuso orario e mi chiamava per sapere come stessero i ragazzi.

Ora lo sponsor è lontano, in effetti.

Sono meno coinvolti. Non so se per loro disinteresse o per scelta. Il ciclismo ha sempre dato una visibilità esagerata. L’inverno dopo la chiusura della Mapei, fummo invitati alla festa di fine anno dell’azienda. E Squinzi disse che per l’assenza della squadra il fatturato era calato del 15 per cento. Non so se Segafredo sia più appassionato al basket o al ciclismo, ma è strano che un’azienda così faccia il secondo nome in una squadra americana.

Perché strano?

Perché nonostante l’allargamento dei confini, i grandi Giri e le classiche più importanti le abbiamo noi, la Francia e la Spagna. L’Italia merita di avere 3 squadre WorldTour, altro che storie…

Ammettilo, ti manca la vita del direttore sportivo?

Adesso non più tanto. All’inizio, quando cominciai a vedere che arrivavano le corse giuste, un po’ mi pesò essere fuori. Poi capisci che il momento è finito e te ne fai una ragione…