Ezio non ti lasciava mai senza un caffè, tanto che a volte dicevi di no per non dare l’impressione di approfittarne. Il pullman della Uae Team Emirates, come quelli di altri autisti amici, è sempre stato il porto sicuro per i giornalisti italiani nelle corse di tutta Europa. E quando capita di fermarsi ad ascoltare i racconti dei loro autisti, capisci quanta cura ci sia dietro quel caffè e il gesto di porgerlo. Ezio quest’anno ha deciso di saltare un turno, anche se gli piacerebbe tornare per il Giro. Aveva da farsi due controlli e ora che sta bene, riprenderebbe subito il volante. Perciò, sperando da un lato che si possa restituirglielo, vogliamo raccontarlo per il fantastico 2020 che ha vissuto con Pogacar al Tour e di lì a ritroso dove la fantasia s’è voluta spingere.
«Il nostro è un ruolo importante – dice Ezio parlando degli autisti – perché ci sono tante situazioni da gestire. Dopo la corsa, se non è andata bene. La mattina prima delle partenze più complicate. Dobbiamo lasciare gli atleti tranquilli, che possano fare le loro cose. Se ci sono stati problemi, ci sono sfoghi da gestire. E poi per il resto, devi sapere tutto su partenze, arrivi, hotel, orari…».
Ezio Bozzolo, nato a Ceva in Piemonte nel 1982, è stato fino all’ultima tappa del Giro l’autista più esperto della squadra di Gianetti e Matxin. E per aggiungere un po’ di suspense, una settimana dopo la fine del Tour (vinto da Pogacar sul connazionale Roglic), era stato… prestato alla nazionale slovena per i mondiali di Imola. Con Pogacar che sembrava un bimbo beato, avendo nella nazionale femminile la sua compagna, mentre Roglic passava ogni goccia del tempo libero con la sua famiglia. Ma la storia di Ezio inizia ben prima.
Quando hai cominciato?
Ho smesso di correre da junior a causa dei risultati abbastanza scarsi. Ma il ciclismo era e restava la mia vita, per cui quando Osvaldo Bettoni (storico autista del pullman Shimano, ndr) mi propose di dargli una mano alle gare di mountain bike, presi la patente e iniziai a seguirlo. Di lì, grazie a Fabrizio Bontempi e Della Torre, direttore sportivo e massaggiatore dell’allora Lampre, iniziai a fare un po’ di giornate e si mise tutto in moto.
Ti sei mai reso conto, Ezio, di essere stato testimone diretto di momenti storici di questo sport, come Fausto Pezzi visse nel suo camper le grandi giornate di Pantani?
Me ne rendo conto adesso che ne sono fuori. Quando hai la maglia della squadra e le chiavi del pullman, sei parte della storia e non hai la percezione della straordinarietà. Ho vissuto il mondiale di Varese e anche l’ultimo Tour, per fare un esempio, ma quando sei nel vortice non riesci a gustartela.
Andiamo al Tour, penultima tappa alla Planche des Belles Filles. Cosa ricordi?
Eravamo parcheggiati in basso, sopra non si poteva andare se non con dei furgoni. Da tutto il Tour continuavo a meravigliarmi di quanto poco stress ci fosse. Era davvero bello perché c’era la consapevolezza di poter fare bene. Al via da Nizza non si pensava di vincere, ma eravamo tutti carichi. C’erano i migliori in ogni ruolo. Anche fra noi del personale, eravamo tutti affiatati. E Pogacar nel mezzo ci stava benissimo.
In che senso?
Nel senso che la sua dote è la serenità. Quel giorno è sceso dal pullman per riscaldarsi con la sua musica a manetta. Sotto, nello spazio dei meccanici davanti al pullman, c’erano Vasile e Bosio, che gli stavano montando una bicicletta bianca bellissima, che gli aveva fatto Colnago. Ma era bella davvero. Lui scende, li guarda e dice: «Perché bianca? Non ce l’avete quella gialla?». Non l’ha detto per scherzare, tanto che i due si sono fermati.
E’ il bello di quando non si ha niente da perdere…
Il giorno dei ventagli è arrivato al pullman ed è salito sui rulli. Aveva perso terreno. Ha tirato giù due maledizioni e si è messo a pedalare. Forse il momento della svolta fu proprio quello.
Ricordiamo momenti di silenzio su quel bus anche per le crisi di Aru…
Eravamo tutti coinvolti. Fabio è un ragazzo buonissimo, gentile. Solo che certe volte gli scatta qualcosa e si blocca. Nemmeno si può dire che sia un lavativo o che se ne freghi, perché si allena sempre tanto. E’ stato impossibile per noi italiani vivere con distacco i suoi passaggi a vuoto, era quasi una cosa personale. Mi ricordo Marcato che gli stava vicino e cercava di tirarlo su. E non è stato tanto per questo Tour, quanto per il primo Giro. Avevamo delle aspettative altissime, cavoli: era Fabio Aru. Tutto quello che succede agli atleti dispiace, non sono di quelli che parla dietro.
Che rapporto c’è fra autista e pullman?
Un’attenzione quasi spasmodica. In questo Borselli e Villa (rispettivamente autisti dell’Astana e del Team Qhubeka-Assos) sono dei maestri. Il pullman non è del team, è tuo. Ti scoccia se qualcuno rompe qualcosa. Ti scoccia se manca qualcosa. Fra noi autisti ci sono sempre dei grandi sfottò, come fra bambini che si sfidano per certe dimensioni…
Quali sono i pullman più belli?
Quelli fatti in Italia da Carminati e Tresca battono 10-0 gli stranieri. Il gusto e la qualità del made in Italy su quei bestioni sono così elevati, che ormai anche da fuori vengono a comprarli in Italia. E comunque, quando c’è da fare il nuovo bus, il 99 per cento delle indicazioni le dà l’autista. Perché magari lo fai senza darlo a vedere, ma oltre ad avere l’esperienza del tuo, hai sbirciato e studiato quelli degli altri. Si prendono spunti e poi si adotta la soluzione migliore.
Bus decisivi la mattina di Morbegno…
Se quel giorno non c’eravamo noi della Uae, i pullman non si trovavano tanto presto. E a quel punto i corridori ne avrebbero avuto parecchio di tempo da aspettare…
Perché?
Avevamo appena preso la superstrada per andare verso l’arrivo e per fortuna la telefonata di Marzano che ci richiamava è arrivata prima delle gallerie. Ci siamo fermati praticamente in mezzo alla strada, subito prima dello svincolo, e fortunatamente gli altri si sono incolonnati dietro di noi. A quel punto siamo tornati indietro alla svelta.
Però, nonostante i dovuti ringraziamenti per i tanti caffè, un po’ il pullman è diventato una fortezza inespugnabile se vuoi parlare con un corridore…
Questa è una cosa che sembra strana anche a me, anche se i nostri addetti stampa hanno sempre organizzato degli appuntamenti per i giornalisti. Ma se posso, mi dà fastidio vedere la gente che sta per un’ora là sotto, senza che i corridori scendano per un saluto, una foto. C’è anche di peggio nella vita e avere un ruolo pubblico fa parte del loro lavoro, anche se si sta lavorando per tenerli sempre più chiusi, col rischio di perdere il rapporto col pubblico. Quando avevo Ballan, Petacchi oppure Bruseghin era diverso. Magari perché non c’erano i fantastici cellulari di oggi, ma a quei campioni piaceva stare in mezzo alla gente…