Padun: «I problemi sono alle spalle, ora guardo avanti»

05.08.2022
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Mark Padun si era lanciato in questa nuova avventura in maglia EF Education EasyPost con tutta la voglia di riscattarsi. Le prospettive hanno sempre parlato di un buon corridore che però difficilmente ha trovato la continuità necessaria per emergere del tutto. Tutto sembrava iniziato per il meglio con la WorldTour americana, uno dei team a rischio “retrocessione”

Una buona preparazione ed un debutto in Spagna al Gran Camino che aveva dato riscontri più che positivi: terzo posto nella classifica generale e vittoria di tappa nella cronometro conclusiva.

Poi, da marzo ad aprile solamente due corse: Tirreno-Adriatico e Giro dei Paesi Baschi con un DNF (un ritiro) a sancire che qualcosa non stesse andando nel verso giusto. Tra maggio e giugno ha corso al Delfinato e la Route d’Occitanie, finendo solo la prima ma in maniera completamente anonima.

La stagione di Padun era inizia bene: una vittoria (a crono) e il podio finale al Gran Camino
La stagione di Padun era inizia bene: una vittoria (a crono) e il podio finale al Gran Camino

Ennesimo stop

Incontriamo Padun al bus del team alla partenza della quinta tappa del Tour de Pologne. Volto magro e squadrato e poca voglia di scherzare, un paio di brevi battute con i meccanici e risale sul bus a sistemare le ultime cose. Quando scende ha addosso spessi occhiali neri che non lasciano trasparire alcuna emozione. 

«Ora sto bene – dice subito – ma nel mezzo sono stato malato, per un lungo periodo non riuscivo a stare bene. Ho avuto l’influenza, con quattro giorni di febbre alta, ma non era Covid, ho fatto dei tamponi ed erano tutti negativi. Fatto sta che nonostante mi fossero passati i sintomi mi sono sentito debole per le 3-4 settimane successive. Ero comunque motivato a ricercare la condizione migliore, avevo voglia di rifarmi e di essere di nuovo competitivo».

Padun (classe 1996) ci è apparso molto magro, come non si vedeva da tempo (foto Instagram)
Padun (classe 1996) ci è apparso molto magro, come non si vedeva da tempo (foto Instagram)

Altura a doppia faccia

Quando un corridore è in cerca della condizione va in altura per lavorare in maniera serena e senza distrazioni. Ma quando ti alleni senza essere al cento per cento della condizione fisica e mentale rischia di farsi del male.

«A maggio non ho corso – racconta appoggiato alla sua Cannondale bianca – sono andato in altura per quattro settimane perché volevo riprendermi ed allenarmi forte, ma quando vai in ritiro e stai male poi le cose vanno anche peggio, questo è stato un errore di valutazione mio.

«Quando sono tornato alle corse ero finito. Sono andato al Delfinato e l’ho finito per miracolo. Nei miei programmi, concordati ad inizio stagione con la squadra c’era il Tour de France, una gran bella occasione che però è sfumata a causa dei continui problemi».

Nella crono del Polonia l’ucraino si è piazzato al decimo posto
Nella crono del Polonia l’ucraino si è piazzato al decimo posto

Il prossimo futuro

Al Tour de Pologne Padun ha ritrovato compagni e corse, il sorriso arriverà, si spera. Ora Mark si gode il ritorno alle corse e qualche certezza in più e guarda ai prossimi impegni con fiducia. L’ora della partenza si avvicina e il corridore ucraino si allontana lentamente in sella alla sua bici, ma prima ci scambiamo ancora qualche battuta.

«In questi ultimi due mesi sono stato sempre meglio. Non ho fatto viaggi, sono rimasto a casa e mi sono allenato in maniera adeguata.

«Alla EF sto bene, con i compagni mi sento a mio agio e questo è un buon punto. Sono qui perché nonostante tutto potrei fare la Vuelta, ma sarà la squadra a decidere ovviamente. Spero in una buona seconda parte di stagione, è ora di avere un po’ di fortuna».

Il mondo di Pogacar nel racconto di Urska Zigart

03.08.2022
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Prima si è fatto trovare a Meaux, al via della seconda tappa del Tour de France Femmes. Poi Tadej Pogacar si è presentato nuovamente a La Planche des Belles Filles, dove la sua compagna Urska Zigart ha conquistato il 29° posto finale a 4’41” dalla Van Vleuten, migliore della sua squadra. L’avevamo incontrata all’Alpe d’Huez, il giorno dopo la legnata del Granon. Era sulle Alpi per un periodo di allenamento in vista del Tour e si era fatta trovare sul traguardo in cui Tadej avrebbe provato la prima risalita dopo la crisi.

Un’interessante intervista de L’Equipe, insieme a quello che abbiamo raccolto sulle strade francesi, offre un interessante punto di vista sulla vita di Pogacar e su come affronti i problemi.

Pogacar con Zigart al via della seconda tappa del Tour Femmes (foto B. Papon/L’Equipe)
Pogacar con Zigart al via della seconda tappa del Tour Femmes (foto B. Papon/L’Equipe)
Come sei arrivata al ciclismo?

Al liceo da qualche mese avevo problemi di anoressia, una forma abbastanza lieve. Mangiavo e mi sentivo in colpa. I miei genitori mi hanno aiutato molto e mi hanno evitato di finire in un centro specializzato, spingendomi a fare sport. Così ho iniziato a pedalare sempre di più e dopo il diploma mi hanno comprato una bici da corsa e mia madre ha chiamato il club di Lubiana, KD Rog, per vedere se potevo allenarmi con la squadra femminile. Le prime gare le ho finite sempre in ritardo, anche venti minuti. Una volta ricordo di essermi persa nel tentativo di trovare l’arrivo perché tutte le strade erano già state riaperte al traffico.

Non soffri più di anoressia oggi?

E’ una malattia mentale, può volerci molto tempo per uscirne, ma sono stata fortunata ad essere ben circondata e a non esserne stata gravemente affetta. Ne sono uscita con l’aiuto dello sport, ma è un problema che riguarda anche gli atleti. A volte, quando osservo certe ragazze o certi ragazzi, il modo in cui si comportano in relazione al cibo, mi ricorda quello che facevo io. Se posso, glielo racconto perché so che è un modo terribile di vivere. Tadej non ha mai avuto problemi con questo, ha un rapporto molto sano con il suo corpo.

Urska Zigart è nata nel 1996, corre con il Team Bike Exchange-Jayco dallo scorso anno
Urska Zigart è nata nel 1996, corre con il Team Bike Exchange-Jayco dallo scorso anno
Vi siete conosciuti attraverso il ciclismo?

Sì, nella Slovenia U23, nel 2017. Correvamo nello stesso club a Lubiana, ma non ci conoscevamo. Un giorno, durante un ritiro in Croazia, ci siamo ritrovati nello stesso gruppo a gareggiare negli sprint maschili e femminili. Lui aveva 17 o 18 anni e io due di più. Avevo già sentito il suo nome, visto che era arrivato terzo ai campionati europei di Plumelec nel 2016, ma non sarei stata in grado di dargli un volto. Alla fine della seconda serie di sprint, stavo davvero faticando, gli ho chiesto come si chiamasse e a quel punto ho capito perché stessi soffrendo così. Era già un vero talento. Eppure ricordo che nel 2017, quando arrivò 5° al Giro di Slovenia, studiava contemporaneamente perché doveva superare il diploma di maturità a fine mese. Siamo usciti insieme poco prima della sua vittoria al Tour de l’Avenir.

Come hai vissuto la sua prima vittoria al Tour de France, nel 2020, quando batté Roglic proprio a La Planche des Belles Filles?

Ero sul pullman della squadra, era l’ultima tappa del Giro Donne e non avevo quasi nessuna rete. Ho visto il suo tempo passare dal rosso al verde, ma non l’ho realizzato subito subito. Fu una giornata strana. Ero felice, ma la maggior parte della Slovenia era triste perché aveva battuto Primoz Roglic. Ci siamo sentiti un po’ in colpa e non abbiamo festeggiato questa vittoria come avremmo dovuto. Pochi giorni dopo, eravamo tutti e tre nella squadra slovena per i mondiali di Imola e nessuno sapeva cosa dire. Lo sport a volte è crudele…

Alpe d’Huez, Zigart in visita a Tadej nel giorno della prima reazione alla crisi del Granon
Alpe d’Huez, Zigart in visita a Tadej nel giorno della prima reazione alla crisi del Granon
Parlaci di Tadej…

Tadej è molto divertente, ma è stato messo sotto i riflettori molto velocemente (a 21 anni) e all’inizio ha faticato a mostrare questo aspetto di sé. Aveva paura di passare per quello che non è, mentre in realtà è molto umile. Nella sua squadra, fa di tutto per essere uno tra gli altri e perché tutti ricevano lo stesso trattamento. Penso che ciò che lo descrive molto bene, simbolicamente, sia la ciocca di capelli che spunta dal suo casco. E’ uno spirito libero, che va per la sua strada.

Insieme, avete creato il PogiTeam, una squadra di giovani corridori in Slovenia, attaccata al vostro club di Lubiana e che beneficia degli sponsor di Tadej…

In Slovenia, il ciclismo era uno sport minuscolo quando Tadej ha iniziato. In una squadra come la nostra non c’erano soldi e si doveva sempre riuscire a recuperare bici, abiti, scarpe. Avevamo solo attrezzature usate. L’idea è quella di aiutare i bambini ad essere ben attrezzati e questo forse ci permetterà di scoprire più talenti. Per il momento, questa squadra è una squadra di ragazzi ma alla fine vorremmo farne una per ragazze, magari la chiameremo Urska Team! Il ciclismo femminile è ancora tutto da costruire.

Al Giro di Slovenia, la visita era stata ricambiata da Urska
Al Giro di Slovenia, la visita era stata ricambiata da Urska
Lo scorso aprile, Tadej ha rinunciato alla Liegi per essere al tuo fianco, in Slovenia, al momento della morte di tua madre…

Gli ho detto che poteva rimanere in gara, ovviamente, ma ha preso il primo aereo per raggiungermi. Questi sono tempi dolorosi nella vita ed entrambi sappiamo che tra qualche anno ci renderemo conto di quanto fosse importante stare insieme. Più importante di una gara ciclistica. 

Tre settimane fa avete lanciato insieme una fondazione per aiutare a combattere il cancro.

Questa fondazione non è per mia madre. Vogliamo provare a raccogliere fondi per trovare cure per quante più persone possibile e permettere loro di trattarsi diversamente e, magari, di trascorrere più tempo con i propri cari. In Slovenia, dopo le sedute di chemioterapia, mia madre è stata rimandata a casa e, senza l’intervento di Inigo San Millan (medico e allenatore di Pogacar, ndr), non avrebbe potuto beneficiare delle ultime cure. Vogliamo solo che altre persone possano approfittarne.

A tutto Formolo. Intanto Ackermann vince di forza

02.08.2022
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Tour de Pologne. A Sanok, in un arrivo in volata atipico, visto lo strappo di 300 metri poco prima della linea del traguardo, vince Pascal Ackermann. Un successo di forza, voluto e cercato con tutte le energie rimaste dopo un finale ad altissima velocità. Pascal taglia il traguardo per primo e la folla, riunitasi nella piazza di Sanok, contornata da edifici rinascimentali color pastello, esplode in un boato. «Domani sarà l’Ackermann day», aveva scherzato sul palco della presentazione dei team giovedì scorso Formolo, con qualche giorno di ritardo ma potremmo dire che quel momento è arrivato.

«Quello trascorso per me è stato un periodo difficile – dice il tedesco con il volto rosso mentre si disseta avidamente da una bottiglietta d’acqua – l’infortunio patito a inizio stagione mi ha frenato. Ora sto bene, dopo il secondo posto di domenica ecco la vittoria, ci voleva.

«Il mio grande obiettivo sono gli europei, ma dovrò capire se riuscirò a far parte del team. Poi ci sarà la Vuelta, sarà dura ma la fiducia c’è e la voglia di fare bene anche».

Ackermann vince la quarta tappa del Tour de Pologne con forza e determinazione, ora sogna gli europei
Ackermann vince la quarta tappa del Tour de Pologne con forza e determinazione, ora sogna gli europei

Il solito sorriso

Il parcheggio dei bus delle squadre a Chelm, dove incontriamo Davide Formolo, è a pochi metri dal palco del foglio firma. Arriviamo nel piazzale intorno alle 10, il cielo sopra di noi è grigio e minaccia di piovere, le nuvole sono così basse che hai l’impressione di poterle stringere in una mano. Piano piano arrivano i bus dei team, uno dei primi è quello del UAE Team Emirates, con a bordo Davide Formolo e compagni. 

Davide ci accoglie seduto sulle scalette del bus, tuta della UAE Emirates, occhiali tondeggianti ed il sorriso stampato in faccia, quello non glielo toglie nessuno. «Vi va bene se facciamo l’intervista sulle scale? – ci dice, noi accettiamo, come si fa a dirgli di no? – così non metto le scarpe». Gli chiediamo subito come sta.

«Sto bene, ormai sono un affezionato del Giro di Polonia, è la mia sesta partecipazione, quando facevo Giro e Vuelta era perfetto per prepararsi perché cade esattamente ad un mese dall’inizio della seconda. Quest’anno però non farò la corsa spagnola, ma le corse in Italia quindi siamo più tranquilli non dovendo preparare una grande corsa a tappe.

«Dopo il Polonia mi sposterò in Canada e correrò lì. Prepariamo un bel finale di stagione, ci sono tante belle classiche: il Giro dell’Emilia, il Lombardia, dove aiuterò Tadej a conquistare il bis. Poi ci sono anche le due nuove gare in Veneto che sono interessanti, spero di poter giocare le mie occasioni nelle gare di casa».

Formolo non perde mai il buon umore, eccolo che scherza con i compagni durante la presentazione delle squadre
Formolo non perde mai il buon umore, eccolo che scherza con i compagni durante la presentazione delle squadre

Il Tour da casa

Quest’anno Formolo non ha corso il Tour accanto al suo amico Pogacar, lo ha visto da casa, ma il suo supporto all’amico e compagno di squadra non è mancato.

«Che gara che è venuta fuori – esclama Davide – è stata impressionante, bellissima da vedere. Il fatto che Tadej non avesse addosso la maglia gialla lo ha spinto ad attaccare sempre, lo ha fatto anche sugli Champs Elysées – ridacchia – più di così non poteva fare. Io ho visto il solito Pogacar, un corridore che attacca e che non si tira mai indietro. Non lascia nulla al caso, ha una serenità che gli permette di tentare anche queste azioni da lontano».

«Mi ricordo alla Vuelta del 2019, dove fece terzo, che eravamo caduti nella crono a squadre, doveva recuperare minuti e l’ultima settimana l’aveva fatta sempre all’attacco. Quest’anno è stato simile, questo suo modo di fare dimostra un po’ quel che è lui, un ragazzo che non ha perso la sua essenza della quale ci siamo tanto appassionati».

Davide poco prima del via della seconda tappa: Chelm-Zamosc
Davide poco prima del via della seconda tappa: Chelm-Zamosc

Due contro uno

Cosa pensa Formolo, compagno di migliaia di giornate in sella, della crisi che ha colpito Pogacar sul Granon? Una situazione anomala che sembrava non dovesse arrivare mai per lo sloveno. 

«E’ stato strano vederlo soffrire – dice con una grande risata – è ciclismo, doveva succedere prima o poi che dovesse perdere. Certo che perdere e fare secondo al Tour non è mica male – dice prolungando la risata – sarebbe bello perdere sempre così. La Jumbo-Visma aveva una bella squadra, Vingegaard è andato forte ed è stato bravo ad amministrare il vantaggio che aveva, facendo la stoccata finale quando ha vinto sull’ultimo arrivo in salita.

«Il duplice attacco della Jumbo nella tappa del Granon era inaspettato, si è trovato in una situazione diversa e dovrà imparare a gestirla, alla fine è giovane. Nel calcio c’è un proverbio che dice “O si vince o si impara” e quest’anno Tadej ha vinto un po’ meno ed ha imparato qualcosa in più».

Formolo è stato tante volte accanto a Tadej, eccoli alla Sanremo di quest’anno
Formolo è stato tante volte accanto a Tadej, eccoli alla Sanremo di quest’anno

Ci vuole pazienza

Il foglio firma chiama e Formolo parte insieme ai compagni di squadra. A pochi minuti dal via vediamo il corridore veneto parlare e scherzare con Zhao, l’addetto stampa del suo team. Davide non perde mai il buon umore e la calma, una personalità come la sua aiuta a distendere i nervi nei momenti tesi della corsa. Magari quel che è mancato alla UAE Emirates in Francia è stata proprio la serenità che Formolo è in grado di portare.

«I miei compagni hanno fatto una grande corsa – dice con serenità – ci sono state anche delle complicazioni non indifferenti. I numerosi casi Covid e qualche episodio sfortunato, come la rottura della catena da parte di Majka. Alla fine a Parigi sono arrivati solamente in quattro, non si può rimproverare nulla a nessuno. Tadej lo incontrerò in Canada probabilmente, non so ancora con precisione i suoi programmi. Dopo il Tour non sono riuscito a sentirlo, anche perché lui è tornato ed in contemporanea io sono venuto qui in Polonia».

Da segnalare il terzo posto di Jonathan Milan, il secondo in terra polacca. «Ci ho preso gusto!» dice scherzando prima di fuggire ai bus delle squadre. Il meteo minaccia pioggia, meglio mettere la testa al riparo, Il Tour de Pologne è ancora lungo. E magari anche Formolo potrà ritrovare una vittoria.

EDITORIALE / Giro-Tour, due mondi ancora lontanissimi

01.08.2022
5 min
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Secondo Elisa Longo Borghini che l’ha concluso al sesto posto, il Tour de France Femmes è stato la corsa meglio organizzata cui abbia partecipato. Per Niewiadoma, terza, si è trattato della corsa più dura, malgrado mancassero clamorosi tapponi di montagna. Per Annemiek Van Vleuten che l’ha vinto, è stato sbalorditivo rendersi conto di quanto pubblico sulle strade abbia seguito la corsa.

Si potrebbe banalizzare e tagliar corto, dicendo che dal Tour non puoi aspettarti niente di diverso. Tuttavia proprio l’intervista di Marianne Vos pubblicata ieri fa capire in che modo il Tour de France affronti le nuove sfide e come tanta bellezza sia frutto di programmazione, studio ed esperienza.

Per Longo Borghini, il Tour Femmes è la corsa meglio organizzata cui abbia partecipato
Per Longo Borghini, il Tour Femmes è la corsa meglio organizzata cui abbia partecipato

Nove anni di studio

Sono serviti nove anni, durante i quali sono stati ascoltati team, atleti, enti locali, la Federazione francese e quella internazionale e varie altre forze in campo. Poi il progetto è partito, con la guida della corsa affidata a Marion Rousse (in apertura con il capo del Tour Christian Prudhomme), ex atleta e opinionista tivù.

Avere alle spalle la logistica della gara degli uomini ovviamente aiuta, così come aiuta aver trovato un grande sponsor come Zwift, ma sarebbe riduttivo pensare che attaccando otto giorni di corsa al Giro d’Italia dei professionisti si avrebbe un risultato identico. Certo la logistica e le strutture sarebbero superiori a quelle che capita di incontrare al Giro d’Italia Donne, ma il richiamo di pubblico, il racconto e il supporto per la corsa non potrebbero essere all’altezza di chi ha iniziato a ragionarci da così tanto tempo.

Per quanto evento di un solo giorno, la precedente La Course by Le Tour veniva sostenuta, annunciata e proposta al pari di una grande classica WorldTour maschile, con adeguata copertura televisiva e sinergie pazzesche fra l’organizzatore ASO, la televisione francese e l’Equipe che traina il mondo del ciclismo francese con uno spiegamento di forze a volte impressionante.

Sfruttare la stessa logistica degli uomini ha fatto la differenza
Sfruttare la stessa logistica degli uomini ha fatto la differenza

Grandeur Equipe

Quando nei giorni del Tour Davide Cassani ha fatto su Facebook l’elenco dei motivi per cui seguire un Tour sia così diverso dal seguire un Giro, ha incluso nel discorso anche la decina di pagine che il quotidiano sportivo francese dedicava alla gara. Osservare ogni giorno gli inviati de L’Equipe dava l’esatta dimensione dello spiegamento, dell’investimento e di quale sia l’importanza dell’evento Tour per i media francesi. Allo stesso modo in cui rendersi conto che la Gazzetta dello Sport abbia seguito il Giro d’Italia con un solo inviato, per (si dice) una serie di tensioni interne fra RCS Sport e la Gazzetta dello Sport, offre la chiara percezione di quanto neppure la corsa di casa riesca a fare breccia nel giornale che un tempo la organizzava.

Il Giro Donne ha grandi potenzialità: grazie a chi lo tiene in vita, ma merita uno step in più
E’ evidente che il Giro Donne abbia grandi potenzialità: grazie a chi lo tiene in vita, ma merita uno step in più

Il Giro Donne

Sarà vero che il Giro d’Italia voglia subentrare dall’oggi al domani nella gestione del Giro Donne? Alcuni uomini dell’organizzazione sono stati presenti in corsa, ma ci sarebbero dietro il ragionamento, l’investimento e l’amore per l’evento che permetterebbe di renderlo davvero speciale? Oppure si tratterebbe di uno scatto per rincorrere il Tour senza la certezza di tenerne le ruote sino al traguardo?

Che la corsa italiana abbia diritto a qualcosa di migliore è stato lampante agli occhi degli inviati che hanno seguito e raccontato la vittoria di Annemiek Van Vleuten, anche se curiosamente anche in questo caso è parsa più qualificata la presenza dei media stranieri rispetto agli italiani. I grandi giornali hanno infatti ritenuto di non seguirla affatto e questo chiaramente diventa un freno al suo sviluppo. Non si discute la buona volontà di chi anche quest’anno ha messo in strada il Giro Donne, ma il livello tecnico a fronte di una corsa WorldTour che adesso non è più sola e deve necessariamente confrontarsi con la nuova arrivata francese.

Van Vleuten stupita per la quantità di pubblico sulle strade francesi
Van Vleuten stupita per la quantità di pubblico sulle strade francesi

La grande storia

Sia chiaro: neppure i francesi organizzano gare per passione e basta e neanche loro sono infallibili. La struttura del Tour produce utili che vengono certamente divisi, ma anche reinvestiti in nuovi eventi. Eppure quando sei là capisci che alla base c’è una spinta culturale importante. Il Presidente della Repubblica in carovana. L’accoglienza nelle sedi di tappa. La ricercatezza dei dettagli che rendono il viaggio bello quanto l’approdo. Il questionario una settimana dopo per chiederti come ti sei trovato e che cosa cambieresti. Tutto questo, unito al senso tutto francese di dover mantenere grande un evento che appartiene alla storia, richiama sulle strade fiumi di persone. A fronte di un Giro d’Italia che quanto a storia e percorsi non ha nulla da invidiare a nessuno, ma in certi momenti appare senz’anima e la gente fa sempre più fatica a distinguere fra il bello che racconta e il fastidio che genera.

Kuss e McNulty, Tour de France in chiave americana

31.07.2022
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Qualche giorno fa Pietro Caucchioli sottolineava un aspetto del Tour appena concluso: i grandi protagonisti Jonas Vingegaard e Tadej Pogacar hanno entrambi avuto un luogotenente americano, rispettivamente Sepp Kuss e Brandon McNulty (i quattro nella foto di apertura CorVos). Un sintomo abbastanza evidente della ripresa del ciclismo a stelle e strisce. Guardando la classifica del Tour si scopre che il discorso è ben più ampio.

In un Tour che alla resa dei conti si è dimostrato alquanto selettivo ci sono stati ben 4 corridori statunitensi che si sono piazzati fra il 13° e il 21° posto: Powless, proprio Kuss e McNulty e, last but not least, il giovane e sempre più promettente Matteo Jorgenson. Se consideriamo che il primo italiano è stato Simone Velasco al 31° posto è evidente come il ciclismo americano sia su una lenta ma sicura via di ripresa.

McNulty andatura
McNulty ha vissuto una giornata eccezionale a Peyragudes, ma sperava in un “regalo” dei leader
McNulty andatura
McNulty ha vissuto una giornata eccezionale a Peyragudes, ma sperava in un “regalo” dei leader

Per Brandon un podio e tanta amarezza

Osservando le tappe, la sensazione è che i due in questione, inquadrati in rigidi schemi di squadra, avrebbero potuto ottenere molto di più. Fra le pieghe delle loro dichiarazioni emerge un certo disagio. Lo ha sottolineato soprattutto McNulty raccontando a modo suo la tappa di Peyragudes. Quella del terzo successo parziale di Pogacar ma anche della strenua difesa di Vingegaard: «All’inizio della salita di Val Louron il piano era che tirassi a tutta per 15 minuti. Vedendo che tanti cedevano, ho lavorato molto di più.

«A 5 chilometri dalla conclusione – prosegue lo statunitense dell’Uae Team Emiratesho sperato sinceramente che Jonas e Tadej, non potendo ormai cambiare molto in termini di classifica, mi lasciassero vincere, ma non ci sono regali in questo sport. Mi sono dovuto accontentare del numero rosso per la combattività…».

A poco sono valse le parole di stima espresse da Pogacar al termine della vittoriosa frazione: «Brandon è una vera “bestia”. Ha fatto un lavoro meraviglioso. Era davvero in forma, è andato bene per tutto il Tour ma questa volta è stato speciale».

McNulty Peyragudes
L’americano sul podio riceve il numero rosso per la combattività: la delusione è evidente
McNulty Peyragudes
L’americano sul podio riceve il numero rosso per la combattività: la delusione è evidente

Un americano sempre disponibile

Dall’altra parte Kuss si è confermato uomo di estrema affidabilità, ma senza quella libertà che lo scorso anno gli aveva consentito di vincere una tappa. Alla Jumbo Visma l’americano di Durango (McNulty è di Phoenix) è considerato una colonna. Un uomo che mette da parte le ambizioni personali per coerenza, per essere sempre lì quando c’è bisogno, costante al fianco del leader. Rispetto allo scorso anno però è stato un Tour diverso, nel quale gli addii prematuri di Roglic e Kruijswijk hanno fatto cadere sulle sue spalle un surplus di responsabilità.

Kuss però non è uomo da lamentarsi, né da tirarsi indietro rispetto alle sue responsabilità. Un aneddoto curioso è capitato proprio nei giorni più caldi (e non solo meteorologicamente) della Grande Boucle. L’addetto stampa della Jumbo Visma voleva preservarlo dalle domande dei giornalisti, consigliandogli di andare subito a farsi la doccia passando oltre microfoni e taccuini. Sepp invece si è sempre fermato di buon grado, accettando l’aggravio di impegni dopo le dure tappe francesi.

Kuss andatura
Tantissimi i chilometri di Kuss in testa a gruppi e gruppetti, come pilota per Vingegaard
Kuss andatura
Tantissimi i chilometri di Kuss in testa a gruppi e gruppetti, come pilota per Vingegaard

Encomiabile anche se non al massimo

Come McNulty, Kuss c’è sempre, al fianco del capitano, svolgendo il suo ruolo di pesce pilota anche quando le cose non vanno. «A volte non vivo i miei giorni migliori – ha affermato il corridore del Colorado – ma non lo dico e do sempre il mio massimo, ci metto tutto quel che ho perché voglio esserci nei momenti importanti». E in certi momenti è stato davvero fondamentale. Era quella chiave che Pogacar non riusciva a scardinare, scivolando verso tattiche disperate: «Le montagne a volte sono più semplici di quanto si pensi – rispondeva a chi gli chiedeva conto del suo ritmo indiavolato, che teneva Vingegaard sempre a galla – Alla fine si tratta solo di chi ne ha di più».

Kuss Vingegaard
L’abbraccio della maglia gialla a Kuss, puntuale colonna alla quale si è appoggiato in montagna
Kuss Vingegaard
L’abbraccio della maglia gialla a Kuss, puntuale colonna alla quale si è appoggiato in montagna

Il danno dell’era Armstrong

Molti, guardando la classifica di cui sopra, gli hanno chiesto conto della situazione attuale del ciclismo americano soprattutto in raffronto al suo contro verso passato e le parole di Kuss sono state taglienti, quasi risentite: «Quando ho vinto una tappa al Tour ho ricevuto più attenzioni di quante mi aspettassi. Il ciclismo è un piccolo mondo anche se a chi c’è dentro non pare e per noi che veniamo da oltreoceano lo è ancora di più.

«Il Tour per gli americani è qualcosa di unico, anzi “è” il ciclismo. Se ci partecipi ti dicono “Oh, devi essere davvero forte per essere lì”, ma tutte le altre gare neanche le conoscono. Mi viene in mente l’era Armstrong, gli anni del doping e molti pensano che i ciclisti siano ancora come allora, ma tutto è cambiato. Il difficile però è recuperare la fiducia dopo che il danno è stato fatto e che danno…».

Ancora su Pogacar. Quali risvolti psicologici dalla sconfitta?

31.07.2022
5 min
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In primavera avevamo messo in luce la superiorità di Tadej Pogacar nei confronti dei suoi avversari. E di quanto li avesse annientati anche psicologicamente. All’epoca, con la psicologa Elisabetta Borgia parlammo di senso d’impotenza acquisita, in quanto nonostante gli sforzi degli avversari il risultato rimaneva il medesimo vista la superiorità dello sloveno. L’emblema fu la tappa del Carpegna alla Tirreno, dove stravinse letteralmente “giocando”.

Questa sconfitta cambia le cose? Mina gli equilibri psicologici del corridore della UAE Emirates? Che conseguenze può avere? Riprendiamo l’analisi dunque con la dottoressa Borgia.

Mezzo scatto e sul Carpegna Pogacar lasciò tutti sul posto. Vingegaard incluso (che fu secondo)
Mezzo scatto e sul Carpegna Pogacar lasciò tutti sul posto. Vingegaard incluso (che fu secondo)

Attacco come difesa

«Io sono rimasta piacevolmente colpita da come abbia preso la sconfitta – dice la Borgia – tu continui a vincere e sai che prima o poi questa sconfitta deve pur arrivare, ma poi quando arriva non è così semplice da gestire, visto anche la risonanza mediatica che ha.

«Il fatto che abbia esagerato un po’ nelle prime tappe, con quelle volate, quegli scatti, magari era una strategia per coprire alcune lacune che sentiva dentro di sé. Magari sapeva di avere una squadra meno forte e decimata giorno dopo giorno».

Quattro mesi dopo il Carpegna, la “resa” di Pogacar sul Granon: prima batosta della carriera
Quattro mesi dopo il Carpegna, la “resa” di Pogacar sul Granon: prima batosta della carriera

“Frittata rigirata”

La Borgia spiega che Pogacar sembra aver reagito bene alla sconfitta, ma è chiaro anche che a livello mentale un evento del genere ha un effetto importante soprattutto a livello di senso di autoefficacia, ovvero senso di padronanza.

Mentre i suoi avversari fino ad ora alla luce dei risultati a favore dello sloveno erano nel circolo del senso d’impotenza acquisita nei suoi confronti e lui invece aveva un senso di autoefficacia molto forte, adesso gli equilibri sono un po’ mutati.

«Con la sconfitta di Pogacar – riprende la Borgia – si è creato un precedente: gli altri corridori sanno che si può battere, perche questa cosa è già avvenuta. Vingegaard ha aperto un varco.

«Sia chiaro, Pogacar resta un super campione, un fuoriclasse e un bellissimo personaggio del ciclismo attuale, ma in questo Tour qualcuno ha fatto meglio di lui, quindi in ottica di prestazione si sono evidenziati dei limiti personali e del suo team».

Ieri a San Sebastian il primo ritiro stagionale per Pogacar scortato dai compagni. Era la prima gara post Tour
Ieri a San Sebastian il primo ritiro stagionale per Pogacar scortato dai compagni. Era la prima gara post Tour

Da dove ripartire…

In UAE Emirates sicuramente staranno esaminando le cause di questa sconfitta. Una delle più concrete sembra essere il caldo. Sin qui Tadej non aveva mai incontrato il caldo estremo per più giorni e forse questo agente esterno ha fatto emergere un suo punto debole. E lo si è visto anche dalla sua eccessiva perdita di sali.

«Conoscere la causa, il motivo per cui si è reso di meno aiuta moltissimo – dice la Borgia – La situazione peggiore senza dubbio è quando non si hanno risposte. Se invece si riesce ad analizzare la situazione in maniera lucida e metodica prendendo in considerazione dati oggettivi, si può capire dove migliorare e che strategie usare.

«Cosa posso fare io per superare questo ostacolo? In psicologia dello sport una regola aurea è tenere ben chiaro in testa da una parte cosa è andato bene (i miei punti di forza) e dall’altra parte cosa si può migliorare: i punti ‘deboli’ diventano obiettivi di miglioramento. E’ un approccio metodico. E di certo Tadej e il suo staff faranno tutti gli accertamenti del caso».

Pogacar Belgio 2022
Ma Tadej è un ragazzo solare e si saprà rialzare. Non va dimenticato che aveva una squadra decimata… contro una corazzata
Pogacar Belgio 2022
Ma Tadej è un ragazzo solare e si saprà rialzare. Non va dimenticato che aveva una squadra decimata… contro una corazzata

Analisi al dettaglio

Il senso di autoefficacia è stato colpito, ma non stravolto, come dicevamo. Non c’è stata una debacle totale, una controprestazione e dunque non tutto deve essere messo in dubbio. Semmai si cercherà di limare laddove si poteva fare diversamente. 

«In questo caso – spiega la dottoressa – la Jumbo-Visma è una squadra altamente all’avanguardia. Sappiamo, che gli olandesi sono metodici al massimo. Lavorano in modo veramente minuzioso direi.

«Pogacar sembra essere un atleta molto equilibrato, senza “integralismi” sembra fare tutto con molta semplicità e divertimento, ma magari c’è qualche aspetto su cui si può lavorare per crescere ulteriormente».

«Pogacar ha una mentalità da campione e lo si è visto da come ha reagito, ammettendo la sconfitta, e da come ha cercato di attaccare Vingegaard fino alla fine. A volte le sconfitte possono far cambiare atteggiamento, portando l’atleta ad essere più remissivo e meno determinato ad attaccare. Se ogni volta che mi muovo prendo una “scoppola” del genere, magari gioco di rimessa.

Tuttavia al Tour Pogacar non ha fatto così, anzi… Si è subito mostrato grintoso, voglioso di rifarsi. Ha attaccato tanto da dire: “Semmai salto io”. Ed è questa la mentalità del campione».

«Avrà qualche insicurezza in più, ma quelle le hanno tutti».

Guarnieri e Demare in Polonia. Intanto Kooij scappa

30.07.2022
6 min
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Il Tour de Pologne rappresenta la prima corsa dove si ricompone il duo, ormai indissolubile, della Groupama FDJ: Jacopo Guarnieri e Arnaud Demare. Rispettivamente ultimo uomo e velocista del team francese. I due guardano ai prossimi impegni con curiosità ma rivolgono anche uno sguardo a quanto successo al Tour de France. Per Jacopo si tratta della prima gara dopo le fatiche del Giro d’Italia, Demare, invece ha corso la Route d’Occitanie e il campionato nazionale francese. Cosa hanno fatto i due in queste settimane di pausa dalle corse?

«Arnaud è andato al mare – dice ridendo Jacopo – è andato ad allenarsi a Nizza, ha fatto un viaggetto con la moglie. Io, invece, sono andato a Livigno, non sono un grande amante del caldo e sono scappato in montagna. Sono sfuggito all’afa di questo periodo, perché obiettivamente con 40 gradi era difficile allenarsi a lungo».

Olaf Kooij coglie la sua prima vittoria nel WordlTour. Ecco un altro gioiello nato e cresciuto in casa Jumbo Visma
Olaf Kooij coglie la sua prima vittoria nel WordlTour. Ecco un altro gioiello nato e cresciuto in casa Jumbo Visma

Il ritorno in gara

Alla prima corsa dopo tanti mesi i punti di domanda sono molti, i primi chilometri servono per capire a che livello di condizione si è arrivati. Il Tour de Pologne rappresenta una bella occasione, tante volate e sette tappe, senza dislivelli troppo impegnativi.

Oggi, per esempio, c’è stata la prima da Kielce a Lublino, vinta dal giovane olandese, classe 2001, Olav Kooij del team Jumbo Visma che ha trovato così il primo successo in una corsa WorldTour ed il sesto stagionale. Alle sue spalle sono finiti Bauhaus e Meeus. L’arrivo di Lublino aveva uno strappo di 400 metri con punte al 7 per cento, forse un po’ troppo per Demare, che con il grande carico di lavoro fatto è ancora alla ricerca dello spunto che solo la gara ti può dare.

«Chiaramente la gamba è un’incognita – ci aveva detto questa mattina Guarnieri – so di aver lavorato bene, diciamo che abbiamo più di mille chilometri per capire a che livello di preparazione siamo arrivati. Non ci nascondiamo, nonostante non si corra da un po’ siamo venuti qui per vincere. Ci sono tanti velocisti, a parte quei 4-5 che erano al Tour ci sono tutti».

Ieri alla presentazione li avevamo passati in rassegna un po’ tutti: Viviani, Bennet, Ackermann, Cavendish e lo stesso Kooij, che lo scorso anno fu terzo al mondiale U23.

Un occhio al Tour

Guarnieri, in questi giorni di allenamento, non ha perso l’occasione per “studiare” la concorrenza e ha guardato con interesse al Tour, dove tanti velocisti si sono dati battaglia. Anche se la maglia verde l’ha portata a casa un certo Van Aert, che ha dominato su tutti i terreni.

«Dei velocisti direi che Philipsen – analizza insieme a noi Jacopo – è quello uscito meglio, tant’è che ha vinto lo sprint sui Campi Elisi. Ho visto tanto mal di gambe, diciamo pure che si è trattata di una delle poche volte in cui non ero invidioso di chi c’era (dice con un simpatico sorriso sul volto, ndr). Sapevamo che Van Aert avrebbe dominato, non ha fatto niente di nuovo, ce lo si aspettava, lui può fare quello che vuole».

«Per un po’ di anni i velocisti la maglia verde se la possono scordare (nel frattempo accanto a noi passa Demare e Jacopo lo guarda, ndr). Secondo me, se un velocista vince tre sprint la maglia verde passa anche in secondo piano».

Il velocista francese è stato uno dei corridori più ricercati dalla stampa alla vigilia del Tour de Pologne
Il velocista francese è stato uno dei corridori più ricercati dalla stampa alla vigilia del Tour de Pologne

Il “caso” Morkov

La Quick Step-Alpaha Vinyl, nella tappa numero 15 ha lasciato Morkov, ultimo uomo di Jakobsen, da solo. Così lui, abbandonato al suo destino, è finito fuori tempo massimo. L’impressione, vedendo le ultime due volate, era che a Jakobsen mancasse l’uomo che lo portasse agli ultimi 200 metri. Jacopo analizza con freddezza e lucidità anche questo episodio che lo riguarda da vicino, essendo anche lui ultimo uomo.

«Mah, abbandonato – ci dice – Jakobsen le occasioni di vincere le ha anche se non c’è Morkov, è giusto aspettare il leader. Gli altri uomini sono tutti importanti ma nessuno è indispensabile, nelle ultime due volate a me Jakobsen sembrava avere meno gamba. Direi che non c’è stato nulla di strano.

«Faccio l’esempio su me stesso, se dovessi rimanere indietro sarebbe giusto lasciarmi da solo. Il velocista va protetto, gli altri è un “si salvi chi può” l’ultimo uomo è fondamentale ma non vitale, riduci le possibilità di vittoria ma le mantieni. Se, al contrario fermi qualcuno ad aspettare l’ultimo uomo rischi di perderne due, non ha senso.

Caldo e salite

E’ stato un Tour de France dove il caldo ha fatto da padrone e da giudice, anche più delle salite forse. I velocisti si sono salvati, alcuni come Jakobsen sul filo dei secondi, altri con margine.

«Non mi sembrava un Tour impossibile – ci confida – ma poi la corsa va fatta, a guardare dalle mappe sembrava fattibile. A mio modo di vedere la settimana più dura era la seconda, con la tripletta sulle Alpi che ha davvero ammazzato le gambe. La terza un po’ meno, ma il caldo dei Pirenei lo si sentiva anche guardando la televisione.

«Per chiudere il discorso – dice Jacopo – Jakobsen ad una tappa è arrivato a 15 secondi dal tempo massimo e non aveva nessuno dei suoi compagni intorno. Sono scelte di squadra, mi ricordo che al Giro 2017 in quattro, tre più Arnaud siamo andati a casa e tutti ci hanno criticato, non ci si salva dal giudizio delle persone».

Intanto c’è la corsa polacca che incombe. Ua prima chance è andata per il treno della Groupama-Fdj. Se oggi i super specialisti dello sprint avevano una “mezza scusa” per non arrivare davanti, domani verso Zamosc non avranno alibi. Oltre 200 chilometri “piatti” come un biliardo o quasi. Nessuno strappo nel finale. Diciamo che oggi è stata tolta la ruggine dopo il lungo digiuno dalle corse.

Van Aert è tornato a casa con un bottino di 10 record

30.07.2022
5 min
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Gli aggettivi sono finiti. Persino l’avversario Matxin ieri ha parlato di Wout Van Aert come del corridore più forte del Tour. Allo stesso modo in cui nei giorni scorsi riconoscimenti simili gli sono venuti da tutto il mondo del ciclismo e dal pubblico che è corso ad applaudirlo nel circuito di Herentals, la sua città. Si parla di quasi 50.000 spettatori.

Eppure ci sono casi in cui i numeri descrivono la realtà meglio delle sensazioni e del colpo d’occhio. Non parliamo di dati di allenamento e gara, che pure nel suo caso sarebbe interessante conoscere, ma della misura del suo Tour de France. Che una settimana dopo è stato possibile quantificare.

1) Tre vittorie come nel 2021

Una da solo, una volta in uno sprint di gruppo, una volta nella cronometro. Proprio come l’anno scorso, Van Aert è tornato in Belgio con tre vittorie di tappa. La tipologia delle sue vittorie mostra ancora una volta la sua estrema versatilità. Con le tre di quest’anno, il suo bottino francese sale ora a nove tappe. Wout non è mai tornato in Belgio a mani vuote: anche nel 2019 in cui si è ritirato, è riuscito prima a conquistare una vittoria di tappa. Quattro Tour di fila, nove tappe vinte.

Con il figlio George, alla fine del Tour, ritrovando il clima di casa
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2) 480 punti: un record

Nessuno nella storia recente ha mai raccolto più punti nella classifica della maglia verde. Fino a sabato, Sagan era il detentore del record con i suoi 477 punti del 2018. Van Aert lo ha superato con la vittoria nella cronometro del sabato, salendo a 480 punti. In questa edizione del Tour, ha conquistato la classifica con 200 punti di vantaggio su Jasper Philipsen, anche lui belga e secondo a Parigi. Nel 2021, nonostante le quattro vittorie di tappa, Cavendish si fermò a 337 punti.

3) 20 giorni in verde

Solo dopo la cronometro di Copenhagen, Van Aert ha dovuto cedere la maglia verde al vincitore Lampaert. Il giorno dopo aveva già riparato l’errore. Van Aert ha indossato la maglia verde per venti giorni di seguito. Solo cinque prima di lui sono riusciti nell’impresa: Van Looy, Kelly, Vanderaerden, Abdoujaparov e Sagan. Solo due – Darrigade e Maertens – hanno fatto meglio e l’hanno indossata dall’inizio alla fine.

4) 8 volte tra i primi tre

Dove ha ottenuto tutti quei punti? Ovunque e praticamente ogni giorno. In ben otto tappe, più di un terzo dell’intero Tour, Van Aert è arrivato fra i prime tre di tappa. Oltre alle tre vittorie, è arrivato quattro volte secondo. Aggiungendo il settimo posto a Saint Etienne, si raggiungono nove piazzamenti nei dieci.

Tour de France 2022, Hautacam: vincendo la tappa, Van Aert avrebbe vinto la maglia a pois
Tour de France 2022, Hautacam: vincendo la tappa, Van Aert avrebbe vinto la maglia a pois

5) Un altro belga in verde

Quattordici belgi hanno preceduto Van Aert come il vincitore del verde a Parigi. Ma per l’ultimo, Tom Boonen nel 2007, dobbiamo tornare indietro di quindici anni.

6) Quinto per la maglia a pois

Sembra un dettaglio del Tour di Van Aert, ma davvero non lo è. Fino all’ultima vera salita, Van Aert ha lottato per la maglia a pois. Se a Hautacam non avesse vinto Vingegaard ma lui – sarebbe forse bastato non fermarsi per aiutarlo – il Belgio avrebbe trovato il successore di Lucien Van Impe, vincitore del Tour del 1976 e per ben sei volte della maglia a pois. Wout ha dovuto… accontentarsi del quinto posto nella classifica della montagna.

7) 42 secondi su Ganna

Questa ci fa male, perché riguarda noi. La differenza di Rocamadour è il più grande distacco fra i due a cronometro. Se Ganna è stato per anni la bestia nera di Van Aert nelle cronometro – si pensi ai mondiali in Belgio dello scorso anno – in questo Tour, Wout si è preso la rivincita. Van Aert è stato più forte dell’azzurro a Copenaghen e poi appunto a Rocamadour, dove Pippo ha dovuto concedergli 42 secondi su oltre 40 chilometri. 

La lunga fuga in maglia gialla nella prima settimana, che tanto fu criticata
La lunga fuga in maglia gialla nella prima settimana, che tanto fu criticata

8) Quinto belga nel Super Combat

Con 687 chilometri in testa al gruppo, Van Aert ha vinto due volte il premio di atleta più combattivo e poi si è portato a casa la classifica finale (per 549 chilometri è stato in fuga). Il totale delle preferenze è stato così travolgente che la formula scelta è stata quella di “unanimità di voti”, senza che ASO abbia divulgato il numero. Peccato, sarebbe stato interessante conoscerlo. Il premio ha reso alla squadra altri 20.000 euro, mentre Van Aert è stato il quinto belga a conquistare il premio. Prima di lui Pauwels, Van Looy, Merckx (quattro volte) e Wellens.

9) Quattro sprint intermedi 

La maglia verde si conquista anche quando le telecamere non girano e i fotografi non scattano. Così alle tre vittorie di tappa, si sommano quattro volate negli sprint intermedi. Più tre secondi posti e un’altra serie di piazzamenti fra i primi 10. Ci fosse ancora una maglia per i traguardi volanti, Van Aert avrebbe conquistato anche quella.

10) 130.570 euro di premi

Le vittorie, i piazzamenti, gli sprint intermedi e altri premi hanno portato a Van Aert un totale di 130.570 euro di premi. La sola maglia verde a Parigi ne vale 25.000. Il quinto posto nella classifica delle montagne ne vale per 3.500. A confronto: il numero tre della classifica finale, Geraint Thomas, ha conquistato a Parigi… solo 100.000 euro.

Bettiol fa la foto al suo Tour. Ne esce con gamba e speranza

30.07.2022
5 min
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Quando lo raggiungiamo, Alberto Bettiol è su un taxi. Sta andando all’aeroporto che lo condurrà a San Sebastian, dove oggi correrà la classica basca.

Il toscano della EF Education-EasyPost è reduce dal Tour de France. Un Tour che non gli ha regalato la gioia della vittoria ma che lascia speranze, almeno secondo noi. E tutto sommato anche secondo il diretto interessato.

A Megeve per Alberto Bettiol la consolazione del numero rosso
A Megeve per Alberto Bettiol la consolazione del numero rosso

Il bilancio francese

«In effetti questo Tour – spiega Bettiol – mi lascia belle sensazioni e belle prestazioni. Il fatto di essere riuscito ad arrivare davanti non era così scontato.

«Di certo riparto con più fiducia in me stesso. E con più fiducia nel lavorare e nel lavoro fatto. Quando passi un anno ad allenarti e non hai risultati, credetemi, che non è facile. Posso prendere la preparazione con tutt’altro approccio».

Sin qui Alberto aveva dato piccoli segnali solo al Giro di Svizzera. La sua primavera era stata costellata nuovamente da problemi di salute, questa volta legati al Covid. Non solo è andato bene Bettiol, ma è andato bene in una grande corsa a tappe e in qualche modo lui stesso ne è sorpreso.

«Certo, perché di fatto io lo scorso anno ho smesso di correre a luglio. Agosto, settembre e ottobre non mi sono allenato e non era detto che sarei potuto essere competitivo in un grande Giro. Ti serve continuità, specie per la seconda e terza settimana. E invece ne sono uscito bene».

A Losanna il quinto posto, per Bettiol è stato il momento che ha segnato la svolta
A Losanna il quinto posto, per Bettiol è stato il momento che ha segnato la svolta

La svolta di Losanna 

Un corridore per sentirsi al meglio deve superare dei passaggi obbligati: fare una buona preparazione, sapere di stare bene fisicamente, di essere in linea col peso… però perché tutto funzioni serve una scintilla. Quella scintilla Bettiol l’ha avuta nel giorno di Losanna, quando fu quinto.

«Credo che quello – racconta Alberto – sia stato un momento importante. Sin lì avevamo avuto Cort in maglia a pois, prima ancora non avevamo preso al maglia gialla solo perché Pogacar aveva vinto a Longwy, in più dovevo stare vicino a Uran e Powless.

«Quel giorno invece la squadra mi ha dato fiducia, i compagni avrebbero lavorato per me. Io ho risposto presente. Ho detto loro che stavo bene. Magari mi ero visto poco da fuori, ma ero andato bene. Nella tappa del pavé per esempio avevo lavorato per Uran. Poi chiaro che su quell’arrivo con Pogacar e Van Aert in quelle condizioni vincere sarebbe stato quasi impossibile».

Il momento in cui a Mende aveva per un attimo staccato anche Matthews (che si nota alle sue spalle)
Il momento in cui a Mende aveva per un attimo staccato anche Matthews (che si nota alle sue spalle)

Errori o emozioni

Due fughe, e di quelle buone, Bettiol le aveva azzeccate. Tatticamente secondo Garzelli nelle sue pagelle non era stato impeccabile. Soprattutto in occasione della vittoria di Cort, mentre lo stesso Garzelli dava più colpe al team nel giorno in cui Alberto fu secondo alle spalle di Matthews.

«Durante un grande Giro – ribatte Bettiol – è difficile essere sempre lucidi al massimo. Bisogna ritrovarcisi in corsa. Certi momenti sono fatti anche di emozioni, di voglia di vincere. In ammiraglia ci credevano più di me.

«Nel giorno di Matthews, mentalmente mi rivedevo la tappa di Stradella quando saltato Cavagna andavo a vincere. E così avevo fatto con lui. Invece ho trovato un corridore più forte di me, che ha resistito di più. Quel giorno ha vinto il più bravo, non il più forte. Ha stretto i denti, ci ha creduto. Spero di batterlo in Australia a casa sua… (il riferimento è ai mondiali di Wollongong, ndr).

«Riguardo alla tattica, non è vero che Powless non mi ha aiutato. Anzi, si era staccato, è rientrato ed è andato a tirare poco prima dell’ultimo strappo. Per quanto riguarda Uran, non è mai stato troppo bene in questo Tour e anche io certe volte, ho lavorato per lui convinto di non essere al top. Poi mi giravo ed eravamo rimasti in tre. E lo stesso Rigo mi ha detto: “Oh, ma guarda che vai forte”. E’ difficile da dentro».

Nel complesso per Bettiol si tratta di un buon Tour de France. Il toscano molto attivo anche a Parigi
Nel complesso per Bettiol si tratta di un buon Tour de France. Il toscano molto attivo anche a Parigi

Verso San Sebastian…

E la prima occasione per tornare ad esultare, Bettiol ce l’avrà questo sabato nella gara basca. Il toscano l’ha già affrontata una volta. Era il 2017 e ottenne un buon sesto posto. Anche in quella occasione veniva dal Tour.

«Un po’ l’hanno indurita – riprende Bettiol – non c’è più solo la Jaizkibel. Normalmente è più una classica per scalatori e simili, che per cacciatori di classiche vere e proprie. Però ci arrivo bene: non sono stanco, non ho malanni vari, mi sento in salute e consapevole di aver fatto un buon Tour quindi si può fare bene».

Un paio di giorni fa per esempio, Alberto è uscito con Simon Clarke, con Cataldo e Chirico. Ha fatto quattro ore e mezza e stavo benone. Poi certo, l’allenamento è una cosa, la corsa un’altra. Bisogna stare bene nel giorno della gara e azzeccare il momento giusto.

Bettiol e Trentin (alla sua ruota), ma anche Nizzolo, Pasqualon e Ballerini sono i “pesi massimi” della nazionale di Bennati
Bettiol e Trentin (alla sua ruota), ma anche Nizzolo, Pasqualon e Ballerini sono i “pesi massimi” della nazionale di Bennati

E verso il mondiale

Prima Bettiol ha detto una frase che ci ha riempito di grinta. Ci riferiamo al grido di battaglia lanciato non tanto a Matthews ma sul mondiale.

«Il mondiale un obiettivo? Certo che lo è. C’è sempre stato dentro di me e da quando Bennati è tornato dal sopralluogo ci sentiamo un giorno sì e uno no.

«A vederlo da qua sembra non perfetto per me, forse è un po’ troppo facile. Sembra un mondiale stile Bergen… però è un mondiale. Qualche strappo c’è, la corsa è lunga ed una vera classica. Ho un sacco di voglia di farlo, visto che sono due anni che manco. E poi abbiamo un bel gruppo e ci conosciamo da anni. Trentin che sta riprendendo ed è andato in fuga. Nizzolo e Ballerini che hanno vinto…».