La voce di Pietro Caucchioli è squillante come se fosse dietro casa, invece arriva da Tampa, città tra le più importanti della Florida resa famosa soprattutto dalle imprese dei Buccaneers, due volte vincitori del Super Bowl di football americano.
Quarantasei anni, la sua storia di corridore professionista con due vittorie in oltre 10 anni (due tappe al Giro d’Italia) ma con una particolare propensione per i grandi Giri, vedi il terzo posto al Giro del 2002 e altre due top 10 oltre a un 11° posto al Tour 2004, si era chiusa in maniera repentina e poco felice, con una squalifica per due anni per doping.
Quella vicenda, che ha lasciato segni indelebili nel suo animo fra la coscienza di errori commessi ma anche la constatazione di come quello fosse un mondo che non perdonava nulla e che anzi si accaniva contro facili vittime senza affrontare seriamente il problema, ha forse avuto influenza anche sulle sue scelte successive.
Scelte davvero coraggiose: «Chiusa la carriera, avevo iniziato a lavorare per il gruppo di Federico Zecchetto alla Alé, giravo il mondo, soprattutto nella penisola araba ben prima che questa diventasse come ora un centro nevralgico del ciclismo mondiale. Un giorno Federico mi disse che c’era l’opportunità di lavorare in America, di occuparmi della distribuzione del marchio oltre Atlantico. Avrei potuto fare la spola con l’Italia, ma sarebbe stato più difficile gestire tutto il lavoro.
Una scelta di vita
«Mi confrontai con mia moglie – racconta Caucchioli – era una decisione importante. Le dissi che la vita è un libro che ci proponeva in quel momento un capitolo diverso, completamente diverso, un’avventura nuova da vivere insieme. Lei mi ha dimostrato una grandissima fiducia, perché si trattava di cambiare completamente la nostra vita così decidemmo di vivere quest’avventura al 100 per cento, trasferirci tutti insieme».
Spostarsi in America non è cosa semplice, soprattutto se lo fai con tutta la famiglia: «Un conto è da giovane, fai un investimento su te stesso, ma quando hai la responsabilità e il peso di un nucleo familiare è un altro conto. E’ dura, non è che solo perché hai residenza e lavoro il visto ti arriva, ci sono tanti passaggi da effettuare, tanti controlli».
«I primi 18 mesi sono stati davvero pesanti, poi pian piano ci siamo abituati. Io giro tutta l’America e quindi non abbiamo tanto tempo da passare in famiglia: quando ci siamo trasferiti nel 2014 i nostri figli avevano 9 e 7 anni. Ora mia figlia è in procinto di andare al college, mio figlio ha la passione per il tennis e già gli ho detto che se davvero vuol percorrere questa strada dovrà presto tornare in Europa, perché è lì che si può emergere».
Nel ciclismo americano…
Caucchioli non ha certo dimenticato la sua passione ciclistica. Il lavoro lo coinvolge sempre in quell’ambito, la realtà nella quale vive è molto diversa da come la vediamo noi dall’altra parte dell’oceano.
«Qui – dice Pietro – la concezione ciclistica è molto diversa. Il ciclismo negli Usa è vivo più che mai, solo che ha connotati diversi, più disincantati e consoni al modo di pensare americano, all’insegna della libertà, quindi l’agonismo è spesso visto come una recinzione. Tantissimi vanno in bici per passione e cicloturismo, molti meno per agonismo.
«C’è però un altro aspetto che ho notato: qui non ci sono limiti di età, se vuoi provare a diventare ciclista per professione puoi farlo a qualsiasi età, un caso come quello di Evenepoel piovuto nel ciclismo quasi dal cielo qui sarebbe visto con normalità. Da noi se non hai esperienza fra le categorie giovanili neanche ti guardano…».
«Qual è il reale stato di salute del ciclismo americano? Molto migliore di quanto si pensi. Avete notato che i principali aiutanti di Vingegaard e Pogacar al Tour erano americani? Kuss e McNulty hanno avuto un peso notevole nella loro sfida. I corridori validi ci sono e non sono neanche pochi, resta però il fatto che il ciclismo di vertice è qualcosa di prettamente europeo e qui è visto da lontano, almeno ora…».
Armstrong e gli Usa
Già, perché Caucchioli ha vissuto direttamente tutta la parabola di Lance Armstrong, dopo il quale il ciclismo in America non è stato più lo stesso. Al di là dei giudizi morali sul suo operato, trasferendosi negli Usa Pietro ha compreso maggiormente che cosa ha significato Armstrong nell’immaginario collettivo a stelle e strisce.
«Dall’Italia – spiega Caucchioli – non ci si poteva rendere conto di quel che rappresentava: Armstrong era uno che parlava direttamente col presidente americano, che smuoveva le folle. Mai visto creare dal nulla una Granfondo con incasso da devolvere alla ricerca sul cancro e raggiungere subito oltre 10 mila iscritti.
«Con lui la Trek è passata da 100 milioni di introiti a un miliardo – riprende Caucchioli – i corridori di adesso non smuovono neanche una parte di tali interessi economici. Armstrong era un personaggio assoluto, superiore anche alle stelle del basket e del football americano, era talmente popolare che non poteva fare altro che esporsi, raccontare la verità, confessare, pagare per tutto quel che aveva fatto. E liberarsi di un peso troppo grande per qualsiasi uomo».
Il tifo da lontano
Il ciclismo resta per il veneto un grande amore, visto ormai da lontano: «Cerco di seguire, compatibilmente con il lavoro grazie anche allo smartphone, tante volte mi collego e ascolto le cronache. E’ un ciclismo diverso da quello dei miei tempi, molto più universale: allora la Gran Bretagna non aveva l’impatto che ha ora, Paesi come Slovenia, Australia, Canada erano ai margini, figurarsi gli africani…
«Emergere ora è molto più difficile. Vedo le difficoltà del ciclismo italiano, io dico che i giovani ci sono ma va anche detto che il ciclismo non ha più l’appeal che aveva ai miei tempi, quando fuori dalla nazionale rimaneva gente che vinceva classiche e corse a tappe…».
Il tempo per chiacchierare è finito, Caucchioli si rimette in viaggio per attraversare un altro pezzo di quell’immenso Paese, fatto di spazi enormi, strapopolato eppure spesso portatore di solitudine. Magari, ora che il covid non segrega più nelle case, potrebbe anche tornare in Italia, nella sua Bovolone: «Chissà, magari a Natale, perché casa è sempre casa…».