«Alle mie compagne ho detto subito che ero la Pimpa fatta e finita, ma in Spagna non esiste quel cartone animato. Mi hanno guardato felici e stranite». Se conosciamo un poco Cristina Tonetti ci avremmo scommesso forte su questa battuta quando alla fine della prima tappa del Tour Femmes ha indossato la maglia a pois.
Un’azione di alto coraggio per un basso “gpm” posizionato in… vetta al tunnel sulla Mosa. Ma se corri in Olanda quelle strade (in questo caso un sottopasso di venticinque metri sotto il livello del mare, anzi del fiume) diventano le salite di giornata e se sei in gara al Tour de France stai certo che nessuno ti regala nulla. Così Tonetti a Rotterdam ha azzardato il colpo portandolo a termine per la gioia della sua Laboral Kutxa. La nostra chiacchierata con la 22enne brianzola parte da qui, anche per fare un confronto su Vuelta, Giro Women e Tour Femmes, i tre grandi giri WorldTour che ha disputato.
Cristina ti stai godendo un po’ di riposo?
Dopo il rientro dalla Francia sto facendo qualche giorno senza bici. Ne avevo bisogno, sia fisicamente che mentalmente, e so che mi farà molto bene. Riprenderò a correre l’8 settembre a Fourmies quindi ho tutto il tempo per prepararmi a dovere. D’altronde quest’anno ho corso tanto. In realtà mi è mancata solo la parte delle classiche perché per il resto ho fatto sette corse a tappe. Vuelta, Giro e Tour come Kuss l’anno scorso, ma con risultati decisamente più bassi (dice ridendo, ndr).
Che differenza hai notato tra le tre corse?
La prima riguarda il livello medio e il ritmo in corsa. Vuelta, Giro e Tour questo è l’ordine crescente. In Spagna e in Italia se hai una giornata storta ti salvi, in Francia no, perché ci arriva il meglio del ciclismo femminile mondiale e nessuna vuole fare brutte figure. Al Tour si va molto forte, troppo (sorride, ndr). Sul piano organizzativo invece devo dire che non ho notato grandi diversità. Il Giro Women con l’avvento di Rcs è cresciuto tantissimo ed è totalmente un’altra gara rispetto a prima. Le differenze però più importanti sono altre due, se vogliamo anche legate fra loro.
Spiegaci pure.
Sono il pubblico e il riscontro mediatico. Al Giro c’è molta gente sia in partenza che in arrivo, ma non lungo il percorso. Al Tour invece le strade sono piene, poi figuratevi partendo dall’Olanda quante persone c’erano. Sono rimasta impressionata dalla tappa che partiva da Valkenburg. Dopo circa quindici chilometri affrontavamo il Cauberg. C’era così tanta gente che facevi fatica a sentire il tuo respiro. E naturalmente il richiamo internazionale è incredibile. Siamo riconosciute da tutti. La cassa di risonanza del Tour è tutta amplificata. Ed anche lo stress purtroppo.
Il tuo Tour però è iniziato bene, diremmo con lo stress positivo della maglia a pois. Te lo aspettavi?
Innanzitutto devo dire che già solo essere alla partenza è stato bellissimo. Ho capito che sono vere tutte le cose che si dicono sulla sua atmosfera, proprio per i motivi a cui mi riferivo prima. Andare a caccia della maglia a pois era stata una mossa studiata, anche se non eravamo l’unica squadra ad averci pensato. Era un interesse di tante ragazze. Infatti vincere il “gpm” della prima tappa ti garantiva di salire sul podio anche per le successive due che erano piatta e a cronometro. Però tra il dire e il fare lo sapete anche voi che non è così facile. Anzi…
Com’è nata quella tua fuga?
Prima che partissi io, ci aveva provato una mia compagna con a ruota Gaia Masetti, ma non il gruppo non gli ha lasciato spazio. Forse era troppo presto. Così dopo ci ho provato io da sola e probabilmente ho fatto male i conti perché mancavano più di venti chilometri. Significava un bello sforzo. Tuttavia sono riuscita a guadagnare subito un minuto e ho iniziato a gestirmi. Che poi non ti gestisci perché devi andare a tutta. Dall’ammiraglia mi incitavano costantemente dicendomi di resistere che il mio vero traguardo era il “gpm” e che poi avrei potuto rialzarmi. So che dietro l’inseguimento del gruppo ha subito un rallentamento a causa di una caduta. Non so se è stato quello o io che non ho mollato, ma alla fine ho vinto quel traguardo di metà tappa. E a quel punto ho fatto i restanti 60 chilometri col gruppo principale.
Immaginiamo che da quel momento in poi siano iniziate le emozioni.
Assolutamente sì. I miei diesse mi hanno fatto subito i complimenti, ma finché sei ancora in gruppo non te ne rendi conto perché c’è una corsa da finire e prestare attenzione. Ho veramente realizzato che avevo preso la maglia a pois quando sono salita sul podio del Tour. Quando ho visto tutto quel pubblico ero come pietrificata. Fortuna che dietro le quinte ho un po’ stemperato la tensione con qualche battuta e selfie assieme a Ahtosalo, la maglia bianca. Il mattino successivo alla partenza ancora imbarazzo.
Ovvero?
Prima di partire chiamano tutte le maglie davanti come tradizione ed io ero nuovamente pietrificata. Avevo di fianco a me Marianne Vos, che per me rappresenta il mito assoluto. Quindici anni fa quando ho iniziato a correre lei era già la più grande. Stare accanto a lei in partenza al Tour, nel rituale delle maglie, mi ha fatto tremare le gambe. Ma anche qualche giorno dopo con Vollering avevo una sorta di reverenza nei suoi confronti. Sono atlete fantastiche. Non ho avuto il coraggio di parlare con loro prima del via, non volevo disturbarle. Solo con Kool, che è più vicina a me come età, ho scambiato un po’ di parole. Sono stati comunque momenti bellissimi.
Poi è iniziato un altro Tour?
Direi proprio di sì. Dalla quarta tappa sapevo che sarebbe diventato tutto più duro. Partivamo da Valkenburg con le salite dell’Amstel e arrivavamo a Liegi dopo aver superato le varie côte. E lì, quando vuoi difendere la maglia a pois, scattano corridori come Puck Pieterse o Persico o Niewiadoma, sai che puoi fare veramente poco. In ogni caso ho fatto quello che potevo e non posso rimproverarmi nulla. Poi le tappe successive con tanto dislivello paradossalmente sono andate meglio. Cioè, il mio lavoro per le compagne scalatrici si esauriva ai piedi delle salite, ma almeno potevo impostare il mio ritmo e stare più rilassata mentalmente. Certo, c’è sempre da arrivare al traguardo entro il tempo massimo, però nel gruppetto ci concedevamo qualche battuta, aiutandoci.
Cos’ha dato il primo Tour Femmes a Cristina Tonetti?
Mi ha fatto capire diverse cose. Ti rendi conto di cosa sia veramente il ciclismo e di quanta professionalità ci sia dietro certe atlete. Ti rendi conto di quanta strada ci sia ancora da fare. Stare davanti in certe tappe è molto difficile. E a proposito di strada, personalmente credo di essere su quella giusta. Come squadra abbiamo fatto un salto di qualità ed anch’io voglio alzare ulteriormente il livello. Per quest’anno ho davanti a me ancora molte corse. La stagione potrebbe finire con le gare cinesi, ma prima vorrei provare a guadagnarmi una chiamata per l’europeo U23.