Sara Casasola non è la prima italiana andata a correre in un grande team straniero di ciclocross. Anzi, ha avuto un illustre predecessore in Alice Maria Arzuffi, che ha vissuto per ben 4 anni in Belgio alla 777 che altri non è se non la stessa Crelan Corendon, la formazione di Sara quando però non aveva le stesse credenziali di adesso.
Alice ormai è abbastanza lontana dall’attività sui prati, se non per qualche sporadica apparizione durante la sua preparazione invernale anche per romperne la monotonia, ma ricorda bene quegli anni, con sentimenti contrastanti: «Sapevo che prima o poi sarei dovuta tornare a occuparmene – afferma con un sorriso amaro – perché la mia esperienza in quella squadra ha avuto due facce».
Racconta…
Se devo giudicare i primi due anni, non posso dire davvero nulla. E’ stata un’esperienza molto formativa, non solo dal punto di vista tecnico perché ho imparato tante cose, tanto per cominciare l’utilizzo assiduo dell’inglese, io che come tanti avevo un uso scolastico. Ora ormai parlo inglese per il 50 per cento della mia giornata e lo devo a quell’esperienza, senza avere paura di sbagliare, intessendo contatti umani anche grazie ai piccoli errori.
Come ci arrivasti?
Tramite Scotti che al tempo era cittì della nazionale e sapeva che volevo provare ad affrontare un’esperienza internazionale a tutto tondo, correndo nella patria del ciclocross. Io venivo dalla realtà di Guerciotti che era – ed è – leader in Italia, ma sapevo che correndo sul posto sarebbe stato tutto diverso. Mi accorsi quanto fosse importante viverlo, parlando di tecnica, conoscenza della bici, l’abitudine al fango e al cattivo tempo. Furono due anni stupendi, ma due…
Poi che successe?
Dopo divenne una sofferenza, perché non venivano incontro alle mie esigenze, ma direi alle esigenze di chi è straniero in terra belga. Ero espiantata dalle mie radici, soffrivo la lontananza da casa nella quotidianità, non trovavo comprensione nella nostra realtà e nei nostri sacrifici. Io vivevo da sola in un paesino sperduto, nella casa messa da loro a disposizione e la solitudine divenne pesante. Loro si mettevano sempre di traverso se volevo tornare a casa perché dicevano che lì avevo tutto.
Pensi che con la crescita del team, diventato oggi un riferimento assoluto sia fra gli uomini che fra le donne, le cose siano cambiate?
Voglio sperarlo, anche perché al tempo io mi trovavo a fare un po’ di tutto. Dovevo curare le iscrizioni alle gare, fare le prenotazioni per l’albergo, curare gli orari di partenza e organizzare tutta la trasferta per il nostro camper, quindi io e altre due persone. Non erano questi i miei compiti, erano distrazioni dall’attività che la rendevano molto più complicata.
Secondo te quella della Casasola è una scelta giusta?
Io penso proprio di sì, come anche quella della Baroni, perché da quelle parti vivi veramente il ciclocross. Se ha fatto questa scelta è perché vuole migliorare davvero, credo che stando sul posto potrà crescere tanto. Ci sarà da fare i conti con il maggiore stress perché lì il ciclocross è vissuto con una passione quasi calcistica. Spero soprattutto che anche la gestione del team sia cambiata, sia cresciuta, tenga conto anche delle diverse esigenze di ogni tesserato, perché un corridore di casa non è la stessa cosa di chi viene da lontano.
Secondo te, che hai adesso anche vasta esperienza nel ciclismo su strada, c’è una disparità di trattamento nei team fra i corridori di casa e gli stranieri?
Parliamoci chiaro, un pochino è anche normale, succede anche da noi in Italia. Nella Ceratizit posso dire che ci sono solamente tre atlete tedesche che non sono di primo livello su strada, mentre sono molto forti su pista, ma vedo in giro che è sempre un po’ così. Poi comunque quel che conta sono i risultati e chi ne porta di più. Contano il lavoro e l’impegno che ognuno ci mette a prescindere dal passaporto. Sinceramente questo problema non me lo sono mai posto.