Aria di profonda rivoluzione al Toscana Factory Team Vini Fantini dove dopo tre anni verrà a mancare lo sponsor principale Corratec. Varie opzioni per la sua sostituzione sono al vaglio di Serge Parsani, il team manager che comunque continuerà a giovarsi del supporto della Vini Fantini che resta quale seconda firma. Una scelta che sotto alcuni aspetti potrebbe sembrare curiosa, ma il suo titolare Valentino Sciotti ha idee molto chiare al riguardo.
«Noi siamo già impegnati con la Intermarché Wanty nel WorldTour e con la ’Israel Premier Tech come professional, che però ha l’accesso illimitato alle corse del massimo livello. Quello per la squadra toscana è un atto d’amore verso il ciclismo italiano. Diciamo che nei primi due casi è una scelta imprenditoriale, nel terzo un vero e proprio moto di passione per il nostro mondo».
Quando è nato il vostro rapporto con il team?
Siamo insieme ormai da 15 anni. Subentrammo come Vini Fantini quando si tirò indietro il marchio ucraino ISD, da allora siamo sempre rimasti in rapporto, quando poi ci è stato chiesto un aiuto suppletivo diciamo che abbiamo cercato nelle nostre tasche. Noi siamo un’azienda e prima di tutto dobbiamo tenere a bada i conti e far quadrare i bilanci, ma nei limiti del possibile non ci siamo mai tirati indietro, supportando il team con ii nostri marchi, prima Vini Farnese, poi Fantini, Zabù e ancora Fantini.
Tre lustri di legame non sono pochi…
Nel team abbiamo sempre trovato brave persone, responsabili, animate come noi dalla passione e dalla voglia di vivere un ciclismo sano. Un contesto che ci ha sempre attratto, poi riteniamo un dovere dare una mano per quanto possiamo al ciclismo nostrano.
La fuoriuscita di un marchio importante come la Corratec non rischia di sottoporre il team a un ridimensionamento?
Ma è tutto il ciclismo italiano che va sempre più ridimensionandosi in piccolo. Ci sono pochi sponsor e tutti quelli che investono sul ciclismo lo fanno perché veri appassionati, come noi. Non è una scelta legata al business. Ma bisogna dire grazie a questi che consentono al ciclismo italiano di sopravvivere. Noi già paghiamo il fatto di non avere un team nella massima serie, se venissero meno anche i professional, i ragazzi non avendo più sbocchi diretti si dedicherebbero ad altro e sarebbe la fine del ciclismo.
Perché non si riescono a coinvolgere grandi aziende, perché il ciclismo è subordinato ad altri sport che hanno una storia e una popolarità molto inferiori?
Questo è un problema storico. Pochi sanno che il rapporto costo/ritorno d’immagine che il ciclismo può garantire è il più basso in assoluto: dove trovi un altro sport che televisivamente mette il tuo marchio così spesso in evidenza? Sarebbe l’ideale per un investimento da parte di qualsiasi imprenditore. Perché non avviene? Perché il ciclismo paga errori antichi, un lungo periodo fatto di scandali, di fango che è stato gettato anche in faccia alle aziende, a chi poco c’entrava con le scelte di pochi. A livello mediatico ci si è spinti molto oltre e gli sponsor si sono spaventati. Dimenticando che il ciclismo è sì uno sport di squadra, ma è fatto da singoli che in quanto tali sono incontrollabili.
Questi vecchi errori fin quando continueranno a pesare?
Finché il movimento non riuscirà a mostrare la sua immagine migliore al punto da attirare sponsor e cancellare il passato. Faccio un esempio: qualche anno fa alla partenza del Giro a Napoli organizzammo un grande evento al quale invitammo 4-5 grandissime aziende, di quelle più ricche e danarose, che volevano investire nel ciclismo. Era tutto praticamente fatto per creare un grande sodalizio da inserire nel WorldTour, ma poi ci fu il caso doping di Di Luca e gli sponsor si tirarono tutti indietro. Ecco come il singolo in quel caso non fece male solo a se stesso, ma a tutto il movimento. Ed è solo un esempio. Eppure le possibilità ci sarebbero, perché tutti i grandi manager sono grandi appassionati delle due ruote, ma hanno paura.
E’ un problema anche culturale?
Sicuramente, bisogna rivedere tutta la nostra filiera. A me ad esempio non piacciono quei genitori che esultano quando i loro figli vincono nelle categorie giovanili – parliamo di bambini – e li rimproverano quando perdono. Il ciclismo deve restare a quell’età un gioco, altrimenti perderemo non solo ciclisti, ma uomini. Partiamo da qui, da queste piccole cose…
Tornando al team toscano, avete fiducia nel futuro?
Non potrebbe essere altrimenti, ma io allargo il discorso. Vorrei sempre che tutti i team italiani emergessero, non solo il nostro, perché faccio un discorso più generale legato a tutto il ciclismo italiano. Teniamo anche conto che i costi sono lievitati paurosamente e vanno di pari passo con regole sempre più penalizzanti. Oggi uno sponsor con 10 milioni di euro a disposizione potrebbe costruire un team WorldTour andando a sbattere contro realtà che investono almeno 6 volte tanto. Allora non c’è partita, è come un peso mosca di pugilato che deve affrontare un peso massimo.
Questo significa che è tutto il WorldTour da rivedere…
Assolutamente. Dicono che sono 18 team appartenenti alla stessa serie e quindi uguali, ma non è così e infatti vincono quasi sempre gli stessi. La cosa più iniqua è che se entri in un team che non è nel WorldTour sai già che non avrai la vetrina delle più importanti corse. E allora perché investire? Da imprenditore, posso dire che se avessi un team italiano che può gareggiare nei Grandi Giri come nelle classiche monumento, non avrei dubbi a concentrare tutte le risorse su quello…