EDITORIALE / La tappa della discordia e il ciclismo che cambia

27.06.2022
6 min
Salva

Ha ragione Marco Selleri. La terza tappa del Giro d’Italia U23, da Pinzolo a Santa Caterina Valfurva, ha scatenato un processo degno di uno studio televisivo. Distanza di 177 chilometri, dislivello di 5.000 metri con Tonale, Aprica e Mortirolo. Ha vinto Leo Hayter in 5 ore 10’49” alla media di 34,186 (in apertura, foto ExtraGiro-Isolapress), come era previsto della tabella di marcia che indicava un range fra 33 e 37 orari.

E’ chiaro che, a fronte del tempo di Hayter, vada annotato anche quello dell’ultimo: Christian Danilo Pase della Work Service, all’arrivo in 6 ore 14’57” (distacco di un’ora 04’08”). Dato che tutti hanno dovuto sobbarcarsi anche un trasferimento di 50 minuti, è chiaro che le ore di sella siano state oggettivamente tante.

La tappa di Santa Caterina Valfurva ha evidenziato enormi differenze in gruppo (foto ExtraGiro – Isolapress)
La tappa di Santa Caterina Valfurva ha evidenziato enormi differenze in gruppo (foto ExtraGiro – Isolapress)

Italiani cercasi

Dei corridori italiani si sono perse le tracce. Per trovare i primi tre bisogna andare alla 14ª posizione con Piganzoli (Eolo) a 9’27” poi alla 19ª, dove si incontrano Meris (Colpack), Raccani (Zalf) e Germani (Fdj) che però in precedenza aveva tirato per i compagni Gregoire e Martinez all’attacco. Il loro distacco è stato di 13’45”.

E qui è scattata la discussione. Sul posto, per chi c’era. Sui social, per gli altri. Non è semplice interpretare la disfatta, perché di base hanno ragione tutti. Ciascuno ha il suo punto di vista, anche se non tutti i punti di vista sono condivisibili. E qui si innesca il corto circuito.

La coppia francese in fuga dalla partenza: hanno osato troppo ma dato spettacolo (foto ExtraGiro – Isolapress)
La coppia francese in fuga dalla partenza: hanno osato troppo ma dato spettacolo (foto ExtraGiro – Isolapress)

Dibattito acceso

Davide Cassani osserva che le squadre italiane non vanno a confrontarsi all’estero, come le altre. Ma invece di fare autocritica, preferiscono puntare il dito sull’organizzatore che ha proposto una tappa troppo dura. 

Pino Toni, preparatore della Bardiani U23, sostiene che non si possa proporre una corsa così dura a un parterre come quello italiano, abituato ad altre difficoltà. E che se anche la tappa avesse avuto 3.500 metri di dislivello, il risultato finale non sarebbe cambiato. 

Il Giro d’Italia U23 non è una gara italiana, come l’Avenir non è una corsa francese. Sono prove internazionali di altissimo prestigio: le vincono i più forti e non strizzano gli occhi a nessuno. Il tempo in cui per avvantaggiare i corridori di casa si modificavano i percorsi è finito da un pezzo: aspettarsi che accada è un altro sintomo del problema.

E’ probabilmente un errore invece portare ragazzi di primo anno a corse così dure. Se rischia di esserlo per Gregoire e Martinez (abituati a un’attività superiore sin da juniores, che da tempo corrono senza la limitazione dei rapporti e che comunque si sono inchinati alla solidità dei rivali), figurarsi per gli italiani.

La direzione di corsa, a sinistra Fabio Vegni, sapeva di andare incontro a un giorno duro (foto ExtraGiro – Isolapress)
La direzione di corsa, a sinistra Fabio Vegni, sapeva di andare incontro a un giorno duro (foto ExtraGiro – Isolapress)

Declino invisibile

L’Italia è la culla del ciclismo, così come lo è dell’arte e della cultura. Poi vai all’estero e ti accorgi che hanno la metà del nostro patrimonio, ma lo valorizzano meglio. Siamo talmente pieni delle nostre certezze, da non accorgerci del declino.

Nel 2004 eravamo così convinti che il WorldTour non sarebbe mai nato, che ci misero dentro per il rotto della cuffia. Poi iniziammo a lamentarci perché ai mondiali U23 vincevano ragazzi abituati al professionismo e siamo ancora lì a parlarne. E adesso che la svolta continental ha impresso un cambio di marcia, come accade in tutti gli sport di elite in cui si accede al professionismo nella tarda adolescenza (non a caso l’UCI ha abolito la limitazione dei rapporti fra gli juniores), il tema è una tappa troppo dura. 

E’ giusto? E’ sbagliato? Questi ragazzi dureranno meno? Le domande sono tutte legittime, ma non essendoci risposte facilmente raggiungibilli, non è facendo finta di niente che si possa gestire la situazione.

Felix Engelhardt della continental KTM, 6° finale e 10° a Santa Caterina a 6’57” (foto ExtraGiro – Isolapress)
Felix Engelhardt della continental KTM, 6° finale e 10° a Santa Caterina a 6’57” (foto ExtraGiro – Isolapress)

Il mondo del lavoro

Le squadre di dilettanti, in cui i ragazzi vengono seguiti come figli, avrebbero ancora senso se ci fossero dei grandi team italiani per dare continuità al lavoro. La continental deve preparare al mondo del lavoro ed essere agganciata a una WorldTour: se non accade, c’è un problema.

L’Italia del ciclismo è come una vecchia casa gloriosa, con i muri pieni di affreschi che raccontano storie bellissime. E’ la Reggia di Caserta, più imponente di Versailles ma tenuta peggio, che nessuno si sognerebbe di modificare per ospitarvi uffici che abbiano bisogno di tecnologia e modernità. Invece siamo lì a pensarci. Aggiungiamo piani. Ampliamo stanze. Sfondiamo pareti. Cambiamo destinazioni d’uso, senza renderci conto da un lato di essere bloccati per mille vincoli e dall’altro di comprometterne la solidità.

La fortuna di altri Paesi, che non hanno mai avuto tanta ricchezza, è aver costruito tutto dal nuovo. Senza vincoli, mettendo dentro solo quello che effettivamente serve.

Dopo le fatiche del Giro e un 2022 correndo in tutta Europa, Germani ha raccolto i frutti al campionato italiano (foto Benati)
Dopo le fatiche del Giro e un 2022 correndo in tutta Europa, Germani ha raccolto i frutti al campionato italiano (foto Benati)

L’esempio di Germani

Tredici continental sono troppe, soprattutto perché non fanno un’attività all’altezza. Un invito alla Coppi e Bartali e alla Adriatica Ionica Race, quando va bene al Giro di Sicilia e poi? E poi le solite corse. Quanti ragazzi delle continental a fine anno saranno andati all’estero contro i pari età stranieri? Si contano sulle dita di mezza mano. Poi arriva il Giro e speriamo di brillare? Non è realistico.

Lorenzo Germani, fresco campione italiano U23, quest’anno ha corso in Francia, Belgio, Repubblica Ceca e in Italia. Ha preso schiaffi, ma al momento giusto ne ha dati.

Si può fare attività U23 senza essere continental? Si può fare. Per scovare e lanciare i talenti migliori, anche se alla fine ne godranno altri. Senza contare le vittorie e senza promettere la luna agli sponsor, sacrificando ad essa il futuro dei ragazzi. Servirebbe un tavolo di lavoro condiviso, con la Federazione a tirare le file, per incastrare al meglio le esigenze di tutti, sgombrando il campo dalle pretese meno realistiche.

Il nostro giardino

La nostra ricchezza non merita di essere svilita dall’assenza di visione. Però bisogna che tutti facciano la loro parte. Occorre una più ampia partecipazione alla vita federale e a quella internazionale, quando vengono prese le decisioni più importanti, altrimenti è inutile lamentarsi. Invece si guarda spesso al proprio giardino senza sapere cosa ci sia fuori. Come nella vita di tutti i giorni, in cui a decidere sono quelli che nella politica hanno trovato un mestiere. Gli altri si lamentano, ma non vanno neanche a votare. E se qualcosa non va, la colpa è degli altri.

EDITORIALE / L’UCI prolunga il lockdown della Gazprom

02.05.2022
4 min
Salva

Tirato per la manica, il presidente dell’UCI, David Lappartient, ha infine deciso di dare un segno di vita ai corridori italiani della Gazprom-RusVelo, che però è estendibile anche a tutti gli altri. E anche se nella lettera inviata a ciascuno di loro non c’è risposta ai due quesiti posti, se non altro vi si spiega il perché di tanto rumoroso silenzio. Argomenti, sia chiaro, che non parlano di volontà di collaborazione, ma poggiano se non altro su ragioni credibili.

A metà marzo, Renat Khamidulin, team manager e proprietario della squadra, ha infatti presentato ricorso al TAS di Losanna contro il provvedimento di cancellazione della sua squadra. Ha portato una serie di motivazioni che il tribunale sportivo ha trovato evidentemente di difficile masticazione o di difficile gestione, dato che al suo giudizio hanno fatto ricorso anche altre discipline colpite dalle stesse sanzioni. Il calcio in primis. Una sentenza era attesa da almeno tre settimane, ma non se ne ha traccia.

Con questa lettera, l’UCI ha comunicato ai corridori Gazprom la necessità di attenere il verdetto del TAS

I tempi (biblici) del TAS

L’attesa dei tempi del TAS, fatti salvi i casi d’urgenza, fanno parte della storia del nostro sport. I giudici di Losanna se la prendono spesso comoda perché le loro sentenze siano inoppugnabili, ma trasformando di fatto quell’attendere in una vera e propria sanzione. Un esempio?

Ricordate la siringa di insulina trovata nella famosa stanza di Montecatini al Giro del 2002? Una cameriera attribuisce la stanza a Pantani. Non si procede ad analisi del DNA sulla siringa stessa, non c’è positività a un controllo, ma l’UCI squalifica il romagnolo. Davanti a evidenze a dir poco rocambolesche, dopo un mese la CAF (Commissione antidoping federale) annulla la squalifica di 8 mesi. Pantani potrebbe tornare a correre a luglio, ma il 20 agosto l’UCI ricorre al TAS, che si riunisce il 25 gennaio 2003. Cosa sono quei 6 mesi se non l’applicazione della squalifica? E ricordate quando arriva il verdetto? E’ il 13 marzo quando il TAS fa sapere che la squalifica è stata ridotta da 8 a 6 mesi, quindi Marco può tornare a correre il 18 marzo. Marco, che di lì inizierà la rincorsa all’ultimo Giro della carriera, è stato fermato per 9 mesi.

La sede del TAS è in questo castello a Losanna: la giustizia sportiva è sottoposta alle sue sentenze
La sede del TAS è in questo castello a Losanna: la giustizia sportiva è sottoposta alle sue sentenze

Situazione di stallo

I corridori della squadra russa non hanno più una maglia, dato che la Gazprom è stata cancellata. Stando così le cose, sarebbero liberi di accasarsi dove meglio credono, ma il fatto è che i team interessati (Bahrain Victorious, Alpecin-Fenix e Quick Step fra loro) hanno già raggiunto il tetto massimo di 31 atleti e questo rende impossibile l’operazione, a meno di una deroga da parte dell’UCI.

L’UCI però dice di avere le mani legate. Se in effetti il TAS annullasse il provvedimento dell’UCI e riammettesse la Gazprom alle gare, con quali corridori potrebbe correre se i migliori se ne sono andati via?

Un altro lockdown

Non resta che aspettare, sapendo quanto tale verbo sia odioso per atleti che nel frattempo si allenano e fanno la vita del corridore, senza sapere dove correranno e senza essere pagati. Come durante il lockdown, vedendo però che il mondo fuori è ripartito.

Né d’altra parte era lecito aspettarsi che Lappartient, eletto membro del CIO il 22 febbraio scorso in occasione del 139° congresso svolto a Pechino, disapplicasse o applicasse in modo elastico una norma dettata proprio dal Comitato Olimpico Internazionale. Basta guardare la firma in calce alla lettera. Senza rendersi conto che in palio non c’è il prestigio dell’istituzione, quanto piuttosto la vita di 50 persone che di quella dannata guerra non hanno colpa. E il cui fine carriera non costituirà certo elemento di pressione sul dittatore che tale guerra l’ha scatenata.

EDITORIALE / A.A.A. Italiani cercasi disperatamente

25.04.2022
7 min
Salva

Si rischierebbe di passare per miopi a non riconoscere che una bella fetta di italiani da prima pagina è ferma ai box per problemi di salute. Colbrelli e il suo cuore. Trentin e la pausa forzata dopo il colpo della Parigi-Nizza. Moscon, costretto a fermarsi del tutto per gli strascichi del Covid. Ballerini arrivato al Nord ugualmente con ritardo sempre per il dannato virus. Bagioli, uno dei più attesi, frenato da cadute e uno stato di affaticamento. Con tutti loro al via delle ultime corse, probabilmente la cosa salterebbe meno agli occhi. Già, la cosa…

Il vuoto di corridori di alto livello. Non parliamo di campionissimi, quelli nascono se va bene ogni vent’anni. Parliamo di buoni corridori. Gente tosta, capace di lottare, che evidentemente non c’è, sebbene il nostro movimento produca un quantitativo importante di professionisti a ogni stagione. Più che in ogni altro Paese al mondo. Qualcosa di compulsivo, diremmo, di vagamente… bulimico.

Grazie al “Pozzo”

E così ci siamo ritrovati più indietro delle retrovie, con Pasqualon (34 anni) primo italiano alla Roubaix, Pozzovivo (39 anni) alla Freccia Vallone e Ulissi (33 anni, foto di apertura) alla Liegi. Ottimi corridori di cui andare orgogliosi, ma che non bastano per coprire il vuoto alle loro spalle. Non è andata meglio al Tour of the Alps, dove la presenza dei nostri si notava ai raduni di partenza e in qualche fuga, senza che si sia mai provato a incidere negli ordini di arrivo o nella classifica generale (primo italiano è stato Simone Ravanelli, 37° a 22’57’).

Mangio e butto via. Chi soffre di bulimia fa esattamente questo. E questo è ciò che accade grazie a un sistema incapace di controllarsi e garantirsi qualità di vita e prospettive.

Quanti corridori passano ogni anno? Quanti diventano grandi professionisti? Quanti smettono prima di averci provato? Quanti avrebbero avuto bisogno di crescere ancora? Quanti devono pagarsi da soli i ritiri a inizio stagione o comprarsi quello che gli serve per lavorare? E quanti soldi genera questo commercio annuale in termini di percentuali versate? E perché alla fine si dà sempre la colpa ai corridori – svogliati e rammolliti – come si sente dire di fronte a risultati che non arrivano? Ma sarà davvero tutta colpa loro? E l’ambiente non c’entra proprio mai? Se così fosse, passata un’infornata, il meccanismo riprenderebbe a funzionare. Invece le generazioni passano e il problema rimane. E allora?

Un gradino per volta

Qualche giorno fa, Davide Cassani ha usato parole cristalline. «Si deve fare un gradino per volta, prima di pensare di arrivare in cima alla scalinata. Ma si continuano a prendere ad esempio le eccezioni e si fanno calendari che non hanno l’obiettivo della maturazione, quanto piuttosto la conta delle vittorie».

Mangio e butto via. Diciannove anni, vinci un paio di corse, passi professionista. Fai due anni e se non li hai convinti, a 21 sei in cerca di lavoro. Oppure porti lo sponsor per correre in una continental. Quanti di questi ragazzi, maturando come giusto, avrebbero potuto avere una carriera?

Trainini ha appena smesso. Faceva fatica a finire le corse da U23, è stato giusto bruciare le tappe? Poteva avere una carriera diversa?
Trainini ha appena smesso. Faceva fatica a finire le corse da U23, è stato giusto bruciare le tappe? Poteva avere una carriera diversa?

Parliamo di sport?

Adesso, saremo forse illusi, ci aspetteremmo che gente di sport ragionasse avendo lo sport come priorità. Invece ci si attacca al diritto al lavoro, si studiano residenze estere per aggirare le norme federali e si tira avanti. Mangiando e buttando via. Preferendo tante briciole a un buon panino.

Eppure le esperienze non mancano. I vari Colbrelli, Modolo, Pozzovivo, Belletti e Battaglin che uscirono da quella Bardiani, ad esempio, passarono professionisti dopo un percorso solido e convincente fra gli under 23, altrimenti chissà se avrebbero avuto le loro carriere. Il modo giusto di fare le cose lo conosciamo, forse però abbiamo deciso di ignorarlo.

Una delle ultime regole scolastiche prevede che avendo la media di 8 al quarto anno di liceo si possa accedere direttamente alla maturità. In questo stesso senso, bandendo il verbo aspettare dal dizionario, si prelevano corridori dai team U23 o juniores e si inseriscono nei WorldTour. Questo non ci convince, perché nel lungo tempo in cui ad esempio Tiberi ha iniziato a capire il professionismo senza vedere un arrivo e alzare le braccia, avrebbe potuto strutturarsi fisicamente e mentalmente, vincendo e imparando a farlo. Come invece ha fatto Baroncini (anche lui frenato da una frattura), che nell’ultimo anno alla Colpack ha aggiunto importanti mattoni alla sua costruzione.

La FCI cosa fa?

Ci aspetteremmo che la Federazione mettesse mano a questo saccheggio di talenti italiani che, a cascata, svuota il dilettantismo e poi intacca pesantemente il mondo degli juniores. Perché dovrebbero farlo? Intanto le società chiudono. I ragazzi non trovano squadra. Il ciclismo vacilla. Ma dato che da anni nessuno ci mette mano e l’alto livello in qualche modo funziona (su pista e nel femminile), perché dovrebbe essere l’attuale gestione a voler risolvere la situazione?

Baroncini è passato dopo tre anni da U23: forse il periodo giusto per sbocciare. E’ tra quelli frenati da infortuni
Baroncini è passato dopo tre anni da U23: forse il periodo giusto per sbocciare. E’ tra quelli frenati da infortuni

Una WorldTour italiana

E poi c’è il discorso sempre caro, ma tremendamente concreto, dell’assenza di una squadra WorldTour italiana. E’ per caso, senza andare troppo indietro ma limitandoci a quel che abbiamo vissuto, che Bartoli, Casagrande, Pantani, Simoni, Bettini, Cunego, Basso, Nibali, Pozzato, Viviani e Trentin siano diventati grandi in squadre italiane e abbiano poi spiccato il volo?

Prendiamo Bagioli, forse al momento il più atteso fra gli italiani. Se non fosse stato fermo ai box e fosse andato alla Liegi, avrebbe avuto la minima chance di giocare le sue carte con un Remco del genere in squadra? Assolutamente no e nei confronti della Quick Step-Alpha Vinyl ci sarebbe stato poco da recriminare. Remco è belga, la squadra è belga: vorremmo fosse così anche per noi!

Di questo passo però, Bagioli potrà mai mettersi alla prova contro i migliori in queste corse? Se fosse stato in un team italiano, sia pure all’ombra di un grande leader, è assai probabile che gli avrebbero lasciato lo spazio per affilarsi i denti. Magari avrebbe provato a inseguire Evenepoel. Oppure avrebbe provato a stare con gli inseguitori. Avrebbe corso per crescere e non per aiutare. La mentalità vincente non si coltiva faticando e basta.

Michele Bartoli, Giro delle Fiandre 1996
Bartoli è stato cresciuto da campione in squadre italiane. Con MG-Technogym vinse il Fiandre del 1996 e qui la Liegi del 1997
Michele Bartoli, Giro delle Fiandre 1996
Bartoli è stato cresciuto da campione in squadre italiane. Con MG-Technogym vinse il Fiandre del 1996 e qui la Liegi del 1997

Gli interessi di pochi

La speranza è che questo editoriale ci venga ricacciato in gola dalle vittorie dei ragazzi italiani che da anni teniamo nel mirino: non chiederemmo di meglio! Stamattina abbiamo raccontato le speranze su Aleotti, ad esempio. Perché a nostro avviso il problema non sono le mamme italiane né i loro figli. Forse c’entra la società, che insegna a vivere in un mondo touch e virtuale in cui sudore e mal di gambe faticano a essere taggati, ma quello che veramente non funziona è il mondo del lavoro. Si curano da anni gli interessi di pochi a scapito dei tanti che col tempo diventeranno semplici statistiche. Per costruire la grandezza, un po’ come per gli stadi del mondiale di calcio, dove serve tanta forza lavoro a basso costo. E se alla fine qualcuno dovesse emergere, ci faremo belli per averlo scoperto. Dopo averne però mangiati e buttati via a centinaia.

EDITORIALE / Crono, esiste davvero un problema sicurezza?

31.01.2022
3 min
Salva

Lo ha detto un paio di giorni fa Tom Pidcock a Kit Nicholson, prima dei mondiali di cross, vinti planando come Superman sul traguardo. «Penso che siano accaduti molti incidenti con le bici da crono e penso che sia qualcosa su cui dobbiamo riflettere. Sono caduto io. E’ caduto Ben Turner al Tour de l’Avenir. Adesso è caduto Egan (Bernal, ndr). Le posizioni stanno diventando estreme e passiamo sempre più tempo a cercare di mantenerle piuttosto che a guardare dove stiamo andando. Penso sia evidente che ora il discorso stia diventando piuttosto pericoloso. Non credo che dobbiamo fermare il progresso, ma dobbiamo pensare a come allenarci in modo più sicuro».

Bernal in azione nella crono di Milano: su strade chiuse, la testa bassa non è un problema
Bernal in azione nella crono di Milano: su strade chiuse, la testa bassa non è un problema

Da Froome a Bernal

A ben vedere, partendo proprio dalla caduta che ha chiuso la carriera di Froome durante una ricognizione nella crono del Delfinato 2019, passando per l’investimento dello stesso Pidcock nello scorso giugno mentre si allenava sui Pirenei e terminando con il più recente caso di Bernal, viene da pensare che, soprattutto in allenamento, quella posizione non sia affatto sicura. Per muoversi nel traffico e anche in gara, dove non perdona distrazioni. Secondo voi Cavagna avrebbe mai sbagliato quella curva nella crono di Milano, se solo avesse avuto la testa più alta?

Le squadre stanno investendo somme importanti nello sviluppo delle posizioni: un tema che negli ultimi due mesi abbiamo affrontato con Mattia Cattaneo, Vincenzo Nibali e Matteo Sobrero. Ma è innegabile che quel tipo di posizione, con la testa bassa per essere aerodinamici al top e le mani sulle appendici (quindi lontane dai freni e dalla possibilità di correzioni repentine), sia precaria e tutti i soldi spesi rischino di finire in polvere.

Anche Pidcock è stato investito nello scorso giugno, preparando il Giro di Svizzera (foto Instagram)
Pidcock è stato investito a giugno, preparando il Giro di Svizzera (foto Instagram)

Lo ha ipotizzato bene Andrea Bianco, parlando della caduta del “suo” Bernal: «Magari l’autista ha superato senza rendersi conto della velocità di Egan – ha spiegato – e poi si è fermato. E lui evidentemente aveva la testa giù, sennò in bici è un gatto e lo avrebbe schivato».

Leggerezza o fatalità?

E’ corretto non voler fermare il progresso, visto soprattutto che proprio grazie alla crono si decidono i destini di corse molto importanti, ma occorre che le squadre facciano un salto di qualità nell’assistere i corridori.

Se non è possibile allenarsi in autodromo, è buona norma tenere un’auto davanti ai corridori
Se non è possibile allenarsi in autodromo, è buona norma tenere un’auto davanti ai corridori

In alcuni casi, la Quick Step di qualche anno fa e poi la Jumbo Visma si sono servite di autodromi chiusi. Stesso discorso fece lo scorso anno la nazionale di Cassani nell’Autodromo di Misano, preparando il Team Relay poi vinto agli europei di Trento. Ma se si deve andare su strada, è necessario che i corridori abbiano un’ammiraglia davanti ogni volta che intendono allenarsi in modo sostenuto, oppure che vengano individuati percorsi effettivamente privi di auto. La bici da crono è come un’auto di Formula Uno e non si è mai visto che quei piloti le portino fuori da piste sicure.

Mentre appare sempre più chiaro che la stagione di Bernal (e non voglia Dio la sua carriera) sia finita anzitempo a causa di una distrazione da parte sua e del conducente dell’autobus, probabilmente, ma anche per una leggerezza della squadra che non lo ha assistito adeguatamente.

EDITORIALE / Juniores, U23, continental: il ciclismo all’italiana

24.01.2022
5 min
Salva

C’è una gran confusione e ciò che stupisce è che chiunque venga interpellato offre della situazione un quadro differente. E’ tutto molto italiano, all’estero il problema neppure si pone. Il motivo è nella nostra storia secolare: lo stesso per cui a Roma non si può costruire una metropolitana senza incappare in ruderi che fermano i lavori e più in generale non si riesce a creare una rete di piste ciclabili, in città nate a misura di automobili. Nel ciclismo e nelle sue categorie è la stessa cosa. Si può scegliere di conservare oppure di buttare giù. Oppure semplicemente si può scegliere di fare le cose per bene.

«Le squadre continental in Italia – ha raccontato Matteo Provini – sono differenti dalle estere per un solo motivo: il numero di atleti pro’ che puoi tesserare. Da noi le continental ne possono avere al massimo due, all’estero non c’è un limite. Inizialmente queste squadre dovevano fare da cuscinetto tra il professionismo ed i dilettanti, un lavoro che svolge egregiamente la Giotti di Giuliani. Dovevano prendere corridori che per un motivo o per l’altro non erano riusciti a ritagliarsi lo spazio tra i pro’».

Far crescere i nostri

Ma quando mai? Le continental di seconda generazione (in apertura il CT Friuli) sono nate per dare un respiro e uno spessore maggiore alle squadre under 23 che per anni si erano arenate in una dimensione provinciale e in alcuni casi asfittica. Un’esigenza diventata urgente a fronte dei continui schiaffi che gli italiani prendevano nei contesti internazionali.

Questo non succedeva, tranne sporadiche eccezioni, perché gli azzurri corressero contro professionisti fatti e finiti, ma perché i coetanei delle continental straniere passavano l’anno misurandosi contro i professionisti. Dire che questo in prospettiva sia un bene è ancora un punto di domanda, ma di certo al momento di spingere sulle continental nessuno ha mai parlato di professionisti. Le poche squadre che continuavano e continuano a tesserarli galleggiano in un limbo strano. Le prime, nate ormai tanti anni fa, erano il modo di inseguire un professionismo a basso costo. Oggi la squadra di Giuliani si trova al centro del guado. Ha scelto da anni l’affiliazione in Romania per poter tesserare i professionisti che vuole e svolge il suo compito di restituire (forse) al ciclismo corridori che hanno smarrito la via, ma non lavora poi troppo nel senso dell’individuazione e lo sviluppo del talento.

La Colpack ha continuato in un calendario U23, ma ha proposto anche diverse esperienze tra i pro’
La Colpack ha continuato in un calendario U23, ma ha proposto anche diverse esperienze tra i pro’

Qualità o quantità?

Si può fare del gran ciclismo anche senza essere continental, questo deve essere chiaro. Fare però del gran ciclismo proponendo il confronto con i professionisti alza l’asticella. E questo, nel rispetto degli atleti, è innegabile. Secondo noi far debuttare un U23 di primo anno a Laigueglia e Larciano non è cosa corretta.

«Ci sono delle continental meno attrezzate di noi – prosegue Provini, diesse della Petroli Firenze – che vanno alle gare senza meccanico o massaggiatore. Noi ai ritiri abbiamo tutto lo staff al completo: massaggiatori, diesse, preparatori ed anche uno chef».

Questo è vero. Lo stesso Ruggero Cazzaniga, vicepresidente della FCI e primo sostenitore della spinta continental, si è reso conto che il numero di tali squadre probabilmente sia cresciuto troppo senza che ce ne sia la qualità. Si cresce bene anche nelle squadre under 23, a patto però che si lavori nel modo giusto, smettendo di propugnare teorie di allenamento e alimentazione ferme agli anni 80. Sarà anche per questo che i manager delle squadre pro’ vanno a fare… la spesa negli juniores?

Anche la Zalf Fior è infine diventata continental: la squadra nel 2021 alla Per Sempre Alfredo
Anche la Zalf Fior è infine diventata continental

La malattia juniores

«Siamo appena tornati dalla Spagna dove abbiamo fatto il giro di atleti e team manager – ci scrive un procuratore – sono tutti d’accordo sulla malattia degli juniores. Però continuano a farlo e a prenderli. Non guardano nemmeno bene chi siano, basta che siano juniores. Perché sennò magari arriva qualcun altro e li fa firmare».

Cosa c’è dietro questa… malattia, oltre all’ansia di pescare il nuovo Evenepoel? C’è probabilmente la sensazione che, fatte salve poche realtà, in queste squadre under 23, siano esse continental o vecchia maniera, i corridori vengano gestiti senza prospettive ben definite. L’attività possibile con i professionisti in Italia è risicata e ben poche di queste squadre hanno il budget e l’intenzione di andare all’estero. La continental ben fatta accelera i tempi, altrimenti non dà particolari vantaggi. Certo, si potrebbe far firmare il ragazzo in anticipo e concordarne la gestione, ma questo è un tasto che difficilmente (purtroppo) si riesce a suonare.

Pogacar, qui terzo agli europei 2016 juniores ha corso per due anni in un continental slovena prima di andare alla UAE
Pogacar, qui terzo agli europei 2016 juniores ha corso per due anni in un continental slovena prima di andare alla UAE

Il rischio di arenarsi

Le parole di Lorenzo Germani sul fatto che in Francia i corridori della continental siano assunti come professionisti sgombra il quadro da ogni dubbio. Chiaro che avere dietro un team WorldTour semplifichi parecchio la vita, ma quanti di coloro che oggi gestiscono una continental sarebbero in grado di garantire questo tipo di assunzione?

Basterebbe imporre delle regole chiare per scremarne il numero. E poi lavorare in modo serio. La Lotto Soudal Development non è continental, eppure fa un gran bel ciclismo. Anche Provini fa degnamente la sua parte. Possiamo dire la stessa cosa per tutti? Oppure se ci mettessimo a scavare prima o poi troveremmo qualche rudere e saremmo costretti a fermarci?

Intanto siamo ripartiti dalla Spagna con la vittoria di Lonardi, grande velocista fra gli under 23 e poi lasciato scivolare verso l’uscita nei tre anni successivi. La Eolo-Kometa ci ha creduto. Chissà cosa penseranno quelli che lo avevano già archiviato…

EDITORIALE / Trentin, Olivo, il ciclocross e le solite rapine

13.12.2021
4 min
Salva

Trentin ci sapeva fare. Glielo leggevi anche nello sguardo. Era un misto di tecnica e cattiveria. Poi, come accadeva in quel tempo e ancora adesso se il corridore non si mostra abbastanza convinto, la strada se lo portò via. Malacarne la stessa storia e, guarda caso, fu ugualmente la Quick Step a distoglierlo dai campi del ciclocross, come già successo con Stybar che, se non altro, a differenza dei due azzurri, aveva vinto cinque mondiali e magari ci stava che volesse provarsi a fondo anche su strada.

Davide Malacarne è stato iridato di cross juniores e ha poi continuato a praticarlo con la Zalf
Davide Malacarne è stato iridato di cross juniores e ha poi continuato a praticarlo con la Zalf

Il caso Bryan Olivo

Come quando si va al Tour contro Pogacar, sarebbe ingiusto pretendere dai nostri azzurri che a Vermiglio e in genere nelle competizioni internazionali possano competere contro Van Aert, Van der Poel, Pidcock, Iserbyt e quelli che con il cross si guadagnano lautamente il pane.

Tuttavia resta il fatto che da noi e in altre parti d’Europa la strada continui a mangiarsi talenti con una voracità spesso fine a se stessa.

Negli ultimi due anni, senza andare troppo lontano, abbiamo visto sparire uno junior come De Pretto, molto atteso, e quest’anno Bryan Olivo, campione italiano juniores nel 2021. Le motivazioni che lo riguardano le abbiamo raccontate con dovizia di particolari senza che siano risultate troppo convincenti. Al primo anno da under 23, dicono, è necessario che si concentri sulla strada e semmai sulla pista. Ma proprio perché al primo anno da under 23 le attese dovrebbero essere calmierate (il Cycling Team Friuli dovrebbe essere maestra nel gestirle) che male gli avrebbe fatto correre la stagione invernale, entrando in gara su strada in un secondo momento? Oppure, anche non volendolo ammettere, siamo già lì a cercare il giovane fenomeno, pensando che dedicare due mesi al cross ci priverà di un potenziale Evenepoel tricolore, senza che ad ora ce ne siano state le avvisaglie?

Lorenzo Masciarelli, Bryan Olivo, Lecce 2021
Lorenzo Masciarelli e Bryan Olivo ai tricolori di Lecce 2021: il primo è ancora nel cross, il secondo (che li vinse) non più
Lorenzo Masciarelli, Bryan Olivo, Lecce 2021
Lorenzo Masciarelli e Bryan Olivo, poi vittorioso ai tricolori di Lecce 2021

Cross e Olimpiadi

E’ difficile capire se il ciclocross diventerà mai una disciplina olimpica (invernale). Van Aert ha ragione: la base dei Paesi in cui si corre è ancora troppo stretta e c’è da lavorare affinché si allarghi. In Italia gli anni scorsi hanno visto il moltiplicarsi delle… vocazioni, ma si tratta di ragazzi molto giovani che hanno bisogno di crescere. Allo stesso modo in cui si convogliano le migliori energie sulla pista, sarebbe perciò intelligente da parte della Federazione sostenere il settore e impedire che gli elementi di maggior qualità spariscano in nome di concetti superati.

Le parole di Van Aert a Vermiglio su ciclocross e Giochi sono state chiarissime
Le parole di Van Aert a Vermiglio su ciclocross e Giochi sono state chiarissime

La scelta di Lorenzo

Masciarelli sta in Belgio, anche lui al primo anno da under 23, con una stagione di anticipo rispetto a Olivo. E lassù, dove sono nati Van Aert e Iserbyt, Van der Poel e Vanthourenhout, gli hanno fatto il discorso opposto e un contratto di due anni.

«Prima ci prendiamo un paio di stagioni – gli ha detto il grande capo Mario De Clercq – per vedere se nel cross potrai arrivare al livello dei migliori. E se così non fosse, potrai cambiare a cuor leggero, sapendo di averci provato».

Nel frattempo però, Lorenzo correrà anche su strada con la continental della Pauwels. Allo stesso modo in cui Olivo, assecondando il suo estro, potrebbe capire il suo livello nel cross, facendo durante l’estate l’attività su strada che lo farà maturare e crescere. Perché in certi casi il volere del ragazzo viene calpestato?

Matteo Trentin, San Fior 2016
Matteo Trentin, qui a San Fior 2016, sparì dal ciclocross per il quale avrebbe avuto abilità e motore
Matteo Trentin, qui a San Fior 2016, sparì dal ciclocross per il quale avrebbe avuto abilità e motore

Gap di potenza

Perché una cosa si nota guardando gli azzurrini che ogni domenica vanno a scontrarsi contro i mostri: gli mancano i cavalli, quelli che vengono quando durante l’estate metti nelle gambe un paio di corse a tappe. Hanno pure le abilità tecniche, ma non riescono a trovare qualcuno che creda in loro in quanto ciclocrossisti e li faccia correre d’estate. Senza i tanto vituperati watt che derivano dall’attività e dalla necessaria maturazione fisica, non si va avanti. Portate Dorigoni (foto di apertura) al Giro d’Italia e al Val d’Aosta e poi ne riparliamo.

Piuttosto, come accade per Olivo, li mandano su pista. E se quest’ultima ha trovato il suo binario, con l’evidente lacuna del settore velocità, il cross merita di avere una chance. Sarebbe bello che se non ci penserà la Federazione (che tuttavia sostiene la Arvedi perché faccia correre i pistard), siano i tecnici dei club ad aprire gli occhi. Siamo tutti lì a cercare i nuovi Pogacar ed Evenepoel, ci farebbe proprio schifo trovare i nuovi Van Aert e Van der Poel?

EDITORIALE / Per andare forte si deve stare scomodi

08.11.2021
4 min
Salva

Per andare forte bisogna stare scomodi. Questa frase di Mattia Cattaneo a proposito della sua posizione a cronometro continuava a risuonarci nella testa. E poi chissà perché si è estesa ad altri ragionamenti. A Bartoli che parlava di Sagan. Oppure a Roberto Amadio che raccontava della sua entrata nello staff della nazionale. Per andare forte bisogna essere scomodi. Non scomodi nel senso che si debba vivere un disagio, ma di sicuro non si può fare sport di alto livello creando per sé un ambiente troppo morbido. Non funziona.

Ha detto Bartoli che a Sagan servirebbe un Ferretti o un Riis, capace di tirargli fuori la rabbia. Ha detto Amadio che in un primo momento i tecnici federali potrebbero aver vissuto male la sua presenza, perché era lì a sorvegliare che tutto fosse fatto al massimo. Questo non significa che Sagan e i tecnici azzurri abbiano lavorato male, ma forse in determinati momenti (magari non tutti) se la sono fatta bastare.

Sagan è stato con Riis nel 2015-2016, vincendo due mondiali, il Fiandre e altre 22 corse
Sagan è stato con Riis nel 2015-2016, vincendo due mondiali, il Fiandre e altre 22 corse

La scelta di Argentin

Sapete chi a un certo punto, oltre chiaramente a Bartoli, per tornare vincente andò con Ferretti? Moreno Argentin, che dalla Gewiss-Bianchi nel 1990 arrivò all’Ariostea, voluto fortemente dal patron Pederzoli. Aveva trent’anni e un bottino di 48 vittorie, fra cui un mondiale, tre Liegi e due Freccia Vallone, ma da due stagioni non rendeva più come prima. Sembrava appagato, serviva una svolta.

«Deve tornare la fame – racconta Moreno – anche Sagan l’ha avuta e l’ha utilizzata per ottenere tante vittorie. Non fame economica, perché credo che abbia guadagnato abbastanza, ma la fame di dimostrare di esserci ancora. Cambiare aria e trovare un Ferretti è il desiderio del corridore che ha l’orgoglio di tornare. Che ha voglia di riscattarsi, in un ambiente in cui magari non deve pensare ai suoi gregari, ma concentrarsi su se stesso. Se non ci sei con la testa, non vai da nessuna parte.

«Se vuoi continuare a vincere, devi andare in una squadra che ti metta nelle condizioni di farlo. Oggi la migliore da questo punto di vista è la Deceuninck-Quick Step, perché ha l’ambiente giusto. Non so se Sagan in Francia troverà questo. Quando arrivai all’Ariostea, Ferretti preparava e mentalizzava la squadra per le singole gare, come fanno oggi nel calcio. Ma il capitano a quel punto deve dimostrare di avere la condizione fisica e mentale per vincere. Altrimenti i compagni puoi prepararli quanto vuoi, ma in corsa ti mollano».

Nei tre anni con Ferretti, Argentin vinse 14 corse, fra cui il Fiandre, due Freccia Vallone e la Liegi. Con Ferretti litigò più volte, ma il risultato finale di quella convivenza così… scomoda andò bene a entrambi.

Argentin corse con Ferretti per 3 anni e tornò a vincere. Qui nella Liegi del 1991
Argentin corse con Ferretti per 3 anni e tornò a vincere. Qui nella Liegi del 1991

Come Nibali all’Astana

Bisogna stare scomodi. Trovare un tecnico capace di morderti e darti la scossa, come seppe fare anche Scinto con Pozzato nel 2012. Non ci sarà soprattutto questo alla base dei tanti successi della Deceunick di Bramati e anche del gruppo Ineos che lavora con Tosatto? Che ambiente troverà Sagan alla TotalEnergie? Ci sarà qualcuno capace di pungerlo nel vivo e tenerlo sulla corda? Oppure, come detto e scritto, l’obiettivo sarà ritrovare il divertimento nell’andare in bici?

Bisogna stare scomodi, oppure pensare che ci sia il rischio che ciò accada. Forse c’è anche questo nel ritorno di Nibali all’Astana. Perché ci sono squadre in cui si corre per vincere e null’altro. E Vincenzo ricorda bene quando a giugno del 2014 gli arrivò una lettera in cui si parlava di scarso rendimento, pur dopo il Giro vinto nel 2013 e il secondo posto alla Vuelta. Vinokourov non le manda a dire e il siciliano in tutta risposta vinse il campionato italiano e poi il Tour. Lui lo sa che troverà ancora il capo kazako e anche Martinelli, che le cose te le dice e quando serve, ti scuote. Stare scomodi è il solo modo che funziona. E poi, quando il traguardo è stato raggiunto e finalmente ci si può rilassare, si gode di più la conquista.

Gruppo ,Cesenatico, Porto Canale, Giro d'Italia 2020

bici.PRO, quando nasce un giornale

16.10.2020
2 min
Salva

Fu ascoltando Marco Pantani, che capii di poter andare avanti. Mettere su carta le sue idee, romanzarne le imprese, rendermi conto di suscitare le emozioni dei lettori semplicemente dando forma alle mie. Il ciclismo divenne la bandiera di un modo di vivere, essere e pensare. Un mondo meraviglioso in cui le storie di grandi uomini convivevano con le fatiche dei loro gregari. In cui l’approfondimento tattico passava per la conoscenza della tecnica. In cui la strada era la metafora più convincente della vita. In cui essere in sintonia con il personale e gli sponsor era il modo migliore per essere accettati dai corridori. Era un circolo magico che ben si prestava al racconto e allo studio.

La storia ha cambiato le carte in tavola. Prima gli anni bui del ciclismo. Poi l’informazione sempre più sbrigativa. L’idea che basti mitragliare il pubblico per essere convincenti. E il ciclismo ha cambiato pelle. Nomi. Notizie. Numeri. Scandali. Per rifarsi un’immagine diversa, i corridori sono diventati i migliori addetti stampa di se stessi. I social hanno privato i giornali dell’anteprima e del backstage. L’informazione si è frammentata in un’isteria variopinta. E la gente a casa forse ha smesso di sognare.

Ha senso andare avanti così?

Noi che da oggi indossiamo la maglia di bici.PRO ci siamo detti di no. Ciascuno di noi ha perciò preso il suo zaino, ci ha messo dentro le esperienze più belle e ha scelto di lasciare la casa senz’altro da pretendere che scrivere, raccontare, condividere.

Un giornale non nasce mai per caso, devi avere qualcosa da dire. E’ spesso il frutto di un cammino, di incontri ed esperienze. Così è nato bici.PRO, attorno a un nucleo di professionisti che si sono guardati negli occhi e hanno deciso di affrontare la nuova sfida mettendo in campo le loro armi migliori.

Che cosa manca al racconto del ciclismo oggi in Italia?

E’ stata la domanda che ci siamo fatti e che abbiamo girato ai corridori del gruppo. Il quadro che ne abbiamo tratto è diventato la rotta del nostro cammino.

Le loro parole compongono un lungo elenco al quale cercheremo di fornire le nostre risposte. Per farlo ci siamo tenuti lontano dalla narrazione frenetica. Al contrario, faremo del nostro meglio per non farci travolgere dall’ansia di arrivare, prendendoci un respiro per dare della stessa notizia una lettura più organica.

Non basta. Abbiamo puntato forte sulle immagini scegliendo gli scatti di BettiniPhoto. Abbiamo scelto un partner tecnologico e grafico di primissimo piano come SunTimes. Così quando inizierete a navigare fra le pagine di bici.PRO (soprattutto in versione desktop) avrete la sensazione di essere anche voi all’interno della storia.

bici.PRO è un web magazine progettato prima di tutto in versione mobile, per venire incontro alle esigenze di chi legge prevalentemente nello smartphone. Non abbiamo la pretesa di essere infallibili, perciò vi chiediamo sin da adesso di esprimere la vostra opinione e fornire i vostri suggerimenti.

Fu ascoltando Marco Pantani, che capii di poter andare avanti. E proprio Marco una volta, richiesto del perché continuasse a correre così all’antica, guardò il suo interlocutore e rispose: «Non corro all’antica, sono semplicemente troppo moderno!».

bici.PRO vuole essere portatore di questa modernità. Riallacciare i fili spezzati è il modo migliore per proiettare il racconto del ciclismo verso un domani che sappia di grandi sfide tecnologiche e letterarie. Il resto sarà tutto da scoprire e da costruire, con lo sguardo puntato decisamente verso il futuro e le radici ben salde nella storia del nostro sport.