«Quando avevo 15 anni per tutta l’estate ho fatto la baby sitter. Con i soldi guadagnati ho comprato la mia prima bici». Eva Lechner è così. È sempre stata così: semplice, diretta, coriacea, determinata. Sabato, cioè l’altro ieri, ai mondiali di ciclocross a Liévin, ha chiuso una carriera straordinaria.
Strada, ciclocross, mountain bike: la campionessa altoatesina ha lasciato il segno ovunque. A 39 anni, 40 a luglio, Lechner ha detto basta, ma il suo lascito resta indelebile. Comprese le categorie giovanili, si contano oltre 30 titoli italiani, uno persino su strada tra le elite, tre medaglie ai mondiali, due nella mtb (un argento e un bronzo), e una nel cross (un argento). E ancora: titoli europei, partecipazione a quattro Olimpiadi… Potremmo continuare all’infinito.
Eva, partiamo dalla fine: in Sardegna, nella gara di Coppa che non si è disputata, ci avevi detto che non saresti andata al mondiale. Invece…
Vero, le cose sono cambiate a dicembre. Non sono andata al mondiale per i meriti sportivi di quest’anno, ma il cittì Daniele Pontoni aveva in mente di darmi un premio carriera. Ne abbiamo parlato, io avevo questo desiderio di chiudere con un Mondiale e lui mi ha promesso che avrebbe fatto di tutto per portarmi. Con la Federazione si è deciso di farmi questo regalo, che ho apprezzato tantissimo. Per me è stato un onore poter indossare ancora una volta la maglia azzurra.
Come hai vissuto quest’ultima gara della tua carriera?
È stato bello. Il percorso era duro, ma mi sono sentita bene e per questo mi sono anche divertita. Ho fatto il miglior risultato della stagione, il che non è poco a 39 anni, gareggiando contro atlete di altissimo livello. Nell’ultimo giro mi sono goduta ogni istante, salutando il pubblico. Avevo un buon vantaggio su chi era dietro di me, posto che avrei potuto anche perdere una posizione, ma sapete… non si vuole mai mollare. Neanche alla fine. C’era un lungo rettilineo in salita pieno di gente: ho dato il cinque a tantissimi tifosi e sono arrivata al traguardo con il sorriso.
Sei stata una campionessa in più discipline. Se pensi a un momento per ognuna, quale ti viene in mente?
Parto dalla strada, che è quella che ho fatto meno. Direi senza dubbio il Mondiale di Varese 2008: una bellissima esperienza. Quel giorno lavorai tanto per la squadra e mi ritirai, ma che giornata! Ricordo tutto questo pubblico e io lì a difendere i colori dell’Italia. Poi ricordo bene anche il titolo italiano vinto un po’ a sorpresa. Era il 2007 a Genova. Quando passai in testa la linea del traguardo non ci credevo: «Ma cosa ho fatto?», mi dicevo.
Nel cross?
Nel ciclocross mi viene in mente la prima vittoria in Coppa del Mondo a Hoogerheide e il secondo posto al Mondiale: arrivare dietro Marianne Vos era come vincere a quei tempi. Quel giorno pensai a mettermi alla ruota di Marianne. Pensavo intanto a stare dietro a lei. Questo mi avrebbe fatto guadagnare terreno sulle altre e andò esattamente così. Poi nel corso della gara lei mi staccò, ma io stavo bene e mantenni il secondo posto.
E infine la “tua” MTB…
Per la mountain bike i momenti sono tantissimi, ma direi anche qui la prima vittoria in Coppa del Mondo a Houffalize nel 2010. C’era tanto fango quel giorno. A un certo punto, in cima a una salita, c’era una stradina stretta, stretta. Io ero a ruota di Willow Rockwell e ricordo che lì stavo benissimo. Avrei potuto passarla quando volevo. Ma lì non si poteva. Con estrema tranquillità dissi a me stessa che lo avrei fatto appena possibile. E così feci. Andò tutto secondo i piani, tutto era sotto controllo. Tutto facile. Il top a livello psicofisico. E poi ricordo la medaglia d’argento ai Mondiali di Leogang: salire sul podio iridato fu una grandissima soddisfazione. Era il 2020 ed era passato qualche anno (per la cronaca vinse Pauline Ferrand-Prévot, ndr).
Ci sono stati momenti difficili? Delusioni?
Direi le Olimpiadi, soprattutto quelle di Londra 2012, dove davvero potevo fare qualcosa di importante. Era un anno difficile, non riuscivo a esprimermi al meglio, avevo troppa pressione. Dopo la gara ero a pezzi. Per un bel po’ non sono riuscita neanche a salire in bici.
E come ti sei rialzata?
Non so di preciso. C’era ancora un Mondiale e, piano piano, sono ripartita. Mi ha aiutato pormi un nuovo obiettivo: quando hai qualcosa da raggiungere, trovi la forza per ripartire e così è andata. Ma fu una vera batosta.
Senza togliere nulla agli altri, qual è il “tuo” tecnico?
Edi Telser, il mio preparatore per 13 anni. Lui è di Prato allo Stelvio. Ora è il cittì della Svizzera. Mi ha seguita a lungo e ha avuto un impatto enorme sulla mia carriera. È lui che mi portò nella selezione dell’Alto Adige, mi fece fare il primo ritiro, le gare all’estero e tanto altro.
Come hai iniziato a correre?
Ho iniziato a 16 anni, un po’ tardi. Non sapevo nemmeno che esistessero le gare di mountain bike. Dalle mie parti c’erano tutti sport di squadra. Io ho sempre amato la competizione, ma non mi piacevano gli sport di squadra appunto. Ho provato anche l’atletica leggera, ma…
Ma?
Ma non mi piaceva, non tanto per lo sport in sé, ma perché quando andavi ad allenarti facevi altre cose, esercizi. Mentre nella bici, se gareggi o se ti alleni, comunque pedali.
E quindi come sei arrivata alla bici?
Avevo iniziato ad andare in bici, ma così, da sola. Era quella delle mie sorelle più grandi. Ma ormai, arrivata a me, era sempre rotta. Papà me l’aggiustava, ma io questa cosa proprio non la sopportavo. Così un’estate ho fatto la baby sitter e con i soldi ho comprato la mia prima bici. Era una Giant argentata, una mtb rigida. La scelsi perché mi piaceva. Quello però fu anche il momento in cui cambiarono le cose.
Perché, cosa accadde?
Entrando nel negozio di bici ad Appiano ho conosciuto il mio primo allenatore, Anglani, che mi ha invitata a provare. Alla prima gara, a Villa Lagarina, feci una fatica immensa, ma mi è piacque subito. Ero proprio contenta e soddisfatta. Da lì altre gare. C’era una ragazza, sempre dell’Alto Adige, che mi batteva sempre. Poi al campionato italiano l’ho battuta io! Da quel giorno non mi è più arrivata davanti.
Avevi messo le cose in chiaro!
Sì, l’anno dopo, il primo anno junior, vincevo tutto. Al secondo anno, nel 2003 a Nalles, che per me era una gara di casa, Morelli e Telser ebbero l’idea di farmi partire con le élite, giusto per capire dove potevo arrivare. I giudici fecero un’eccezione e mi fecero partire con le élite. C’era un bel parterre: Kalentieva, Dahle, Kraft… Finii terza, davanti a tutte le altre italiane.
Oggi c’è una nuova Eva Lechner in Italia?
Bisogna vedere. Oggi i ragazzi sono già super allenati e hanno materiale al top. Bisogna capire quanto lavoro hanno già fatto e quanto margine di miglioramento gli resta, perché vedo delle ragazze e dei ragazzi sono fortissimi da piccoli, poi però non arrivano. Ci sono i giovani stra-allenati. Tutto è diverso, anche le discipline. Le gare sono più corte, sono più intense… Non so, ma credo sarà difficile per loro avere una carriera lunga tanto quanto la mia. Sono costretti ad essere professionali sin da subito e mentalmente non è facile.
E dal punto di vista della multidisciplinarietà?
Quella c’è e credo sia un bene. Spero che continuino a fargliela fare anche quando sono più grandi. Io l’ho fatta sin da giovane. “Tels”, ai tempi, mi faceva fare le gare su strada e questo è importante soprattutto per chi fa ciclocross da quel che vedo.
Oltre ai tuoi cavalli, cosa prevede il futuro?
Mi piacerebbe rimanere nell’ambiente e aiutare i giovani a crescere. Trasmettere la mia esperienza e far parte del loro percorso. È una cosa che mi piacerebbe molto, anche se non so ancora in quale ruolo. Vedremo nelle prossime settimane cosa accadrà, visto che devo parlare con qualcuno. Speriamo bene!