Il fascino di San Sebastian, la nostalgia di Casagrande

08.08.2024
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Le Olimpiadi si avviano alla conclusione, ma intanto il WorldTour riparte e propone per sabato la classica per antonomasia dell’estate, la prova di San Sebastian che ha sempre rappresentato una sorta di recupero per chi usciva dal Tour con ambizioni, ancora inappagato dalle tre settimane di corsa francese. Una sfida che è andata un po’ cambiando nel corso del tempo: sempre amatissima in terra basca, dove il pubblico si riversa in massa sulle strade, ha forse perso un po’ dello smalto del passato ma resta uno di quegli appuntamenti che impreziosiscono una carriera.

Casagrande a San Sebastian nel 1998, quando regolò in volata Merckx e Piepoli
Casagrande a San Sebastian nel 1998, quando regolò in volata Merckx e Piepoli

Lo sa bene Francesco Casagrande, classe 1970, che la Clasica di San Sebastian l’ha vinta per due volte, nel 1998 e nel 1999: «Era però una corsa ormai di un’altra epoca – ammette il toscano – anche dal punto di vista tecnico è molto cambiata. Una volta ci si giocava tutto sullo Jaizkibel e noi sapevamo che su quella salita si decideva la corsa e dovevamo farci trovare pronti. Adesso invece ci sono almeno un paio di strappi duri dopo, quindi molti tirano un po’ indietro la gamba sullo Jaizkibel e aspettano. Infatti difficilmente emergono scalatori puri, più passisti che tengono bene in salita».

Questo quindi ha cambiato la strategia secondo te?

Indubbiamente, perché si evita di spingere a tutta sulle rampe della salita principe, che di suo è impietosa. Diciamo che oggi lo Jaizkibel serve soprattutto per capire chi è in condizione e chi no, è lì si imposta la corsa, si decide che cosa fare sulle salite successive. Non è più uno spartiacque, ma resta un punto importante per sapere come la corsa finirà.

Le sfide fra Casagrande e Rebellin hanno caratterizzato il cambio di secolo, anche in Spagna
Le sfide fra Casagrande e Rebellin hanno caratterizzato il cambio di secolo, anche in Spagna
Anche ai tempi tuoi però dettava un po’ la tattica per le varie squadre…

Io vinsi le mie due gare in maniera diversa. Premesso che in quella corsa sono sempre andato bene anche perché per me i mesi caldi erano quelli della migliore condizione, il primo anno ero alla Cofidis e feci lavorare la squadra con il preciso intento di forzare sulla salita. Lì andammo via in 3, con me c’erano Axel Merckx e Piepoli. Scollinammo con una trentina di secondi di vantaggio, ci aspettavano oltre 30 chilometri prima dell’arrivo ma trovammo un buon accordo e non ci ripresero più, poi ce la giocammo in volata dove sapevo di essere più forte.

Nel 1999?

L’anno dopo fu più difficile. Avevo cambiato squadra, ero alla Vini Caldirola, dove Donati fece un lavoro eccezionale per lanciarmi. Questa volta quando scattai nessuno venne dietro, ma in cima avevo una ventina di secondi su un gruppo di una ventina di corridori. Sinceramente pensavo che non ce l’avrei fatta, ma volli comunque provarci e la parte finale diventò una sorta di cronometro. Ai -5 il gruppo era a una decina di secondi, ma per fortuna fra loro non c’era collaborazione. Io tenni duro e arrivai. Una bella impresa allora, oggi sarebbe considerata una cosa quasi normale…

La volata vittoriosa di Jalabert nel 2001, su Casagrande e Rebellin
La volata vittoriosa di Jalabert nel 2001, su Casagrande e Rebellin
Perché secondo te non emergono più gli scalatori puri?

Probabilmente perché la figura dello scalatore non esiste più, se lo consideriamo nell’etimologia di una volta. Ma io penso che non ci siano proprio più le categorie che conoscevamo: scalatore, passista, velocista… Oggi ci sono i vincenti, quelli che vanno forte dappertutto, in salita come in pianura. Questo sta cambiando tutto, grazie anche ai progressi tecnologici. Trovi gente che vince le corse a tappe e le classiche, che va via da lontano ma vince anche in volata. E’ un ciclismo diverso, io dico che è frettoloso: già a 18 anni vivi con la paura che nessuna squadra ti prenda, che non trovi la tua strada, sei quasi spacciato. A me non piace molto.

Guardandoti indietro c’è un’edizione che ti ha lasciato amarezza?

Quella del 2001. Eravamo in fuga con Jalabert, Belli e il compianto Rebellin. Sull’ultimo strappo provai ad andar via, ma quest’ultimo chiuse il buco facendo così il gioco di Jalabert che sapeva di essere più veloce. Infatti chiusi al secondo posto, ma potevo fare tris.

Evenepoel, vincitore lo scorso anno, circondato da una marea di tifosi
Evenepoel, vincitore lo scorso anno, circondato da una marea di tifosi
Che corsa è?

Incredibile, c’è un pubblico e un frastuono che non senti da nessun’altra parte. Io ho sempre avuto un bel rapporto con i Paesi Baschi, tra l’altro vincevo spesso lì perché quelle strade mi si addicevano. Infatti ho conquistato due volte il Giro dei Paesi Baschi e la Subida a Urkiola. Mi sentivo quasi a casa, quella è la regione più tifosa di Spagna. Allora però la corsa valeva per la Coppa del mondo, ci andavano praticamente tutti, oggi è una delle tante e questo un po’ mi dispiace. Ma i Paesi Baschi li adoro, penso che ci andrò in vacanza, naturalmente in bici…

La gara, la paura, l’addio. Casagrande pensa al futuro

15.10.2022
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Questo è il weekend della Capoliveri Legend Cup, una delle più grandi classiche della mountain bike. La sfida dell’Isola d’Elba, che ogni anno coinvolge centinaia di partecipanti anche dall’estero, doveva essere anche la festa d’addio di Francesco Casagrande all’agonismo. Il campione toscano sarà sì all’Elba, ma non come voleva esserci, perché la bici ha dovuto già appenderla al chiodo, per cause forzate.

Dobbiamo tornare indietro di qualche giorno, alla Rampiconero del 2 ottobre, sfida sui sentieri marchigiani, una delle tante gran fondo nel calendario di Casagrande. Il biker della Cicli Taddei s’impegna allo spasimo, arriva al traguardo in una comunque probante terza piazza, ma subito dopo aver tagliato il traguardo qualcosa non va. Lascia la bici e si accascia. I soccorsi sono immediati, ma si capisce subito che la situazione è grave.

Una delle tante gran fondo vinte da Casagrande, qui alla Costa degli Etruschi Epic (foto Aldo Zanardi)
Una delle tante gran fondo vinte da Casagrande, qui alla Costa degli Etruschi Epic (foto Aldo Zanardi)

Diagnosi pesante: ischemia

Francesco viene soccorso d’urgenza e portato in ospedale. Il responso è pesante: una leggera ischemia, si procede attraverso una sonda a rimuovere un’occlusione sanguigna. Già alla sera Francesco si è ripreso e provvede, chi direttamente e chi attraverso i social, a rassicurare tutti, ma i medici sono chiari: con l’agonismo si chiude…

Cinque giorni d’ospedale, poi il ritorno a casa e la lenta ripresa che va avanti giorno per giorno: «Tra una decina di giorni spero di tornare piano piano a pedalare, la passione non è certo venuta meno, ma lo farò con calma. Ho sempre sofferto di ipercolesterolemia congenita, col passare degli anni le vene sono andate un po’ restringendosi e poteva avvenire un evento del genere, l’importante è che sia passato».

Il fiorentino ha corso su strada dal 1992 al 2005, nel 2009 ha iniziato nella mtb (foto Luca Guarneri)
Il fiorentino ha corso su strada dal 1992 al 2005, nel 2009 ha iniziato nella mtb (foto Luca Guarneri)
Quanto tempo sei stato nella mtb?

Tredici anni, alla fin fine è stato un periodo lungo quasi quanto quello su strada. Non ho neanche tenuto il conto delle vittorie, ma almeno 5-6 l’anno le ho portate a casa e ogni anno vedevo che andavo forte e tiravo avanti. Così mi sono trovato a doppiare lo scoglio dei 50 anni senza quasi neanche rendermene conto. Mi divertivo, mi piaceva continuare ad assaporare il gusto della lotta per la vittoria. Ma io ero entrato in punta di piedi, per questo gareggiavo tra gli amatori.

A un certo punto però sei passato di nuovo fra gli elite e sei tornato a vestire la maglia azzurra…

E’ stato Mirko Celestino a chiedermelo. C’erano i mondiali, contava su di me e la mia esperienza per fare squadra. Lo spirito però non è cambiato, era più per divertimento che un lavoro com’era prima ai tempi della strada. Alla fine però mi ritrovavo sempre con almeno 20 mila chilometri percorsi ogni anno. Alla fine della stagione ragionavo se lasciare, ma gli amici e l’ambiente mi spingevano a continuare così andavo avanti. Ischemia o no, avrei comunque mollato quest’anno, è tempo di lasciare spazio agli altri.

Su strada Casagrande ha colto 46 vittorie. Qui il trionfo alla Freccia Vallone 2000, che lo portò al n.1 del ranking Uci
Su strada Casagrande ha colto 46 vittorie. Qui il trionfo alla Freccia Vallone 2000, che lo portò al n.1 del ranking Uci
Mettendo insieme le due discipline hai attraversato trent’anni e passa di agonismo scavallando anche il secolo. Quanto è cambiato il ciclismo nel frattempo?

Enormemente, non c’è che dire. Quando correvo io la strada era un ambiente molto chiuso, ora invece la multidisciplina è diventata quasi la normalità. A me piace perché è un fenomeno in evoluzione. Vi siete accorti ad esempio di quanti corridori fanno anche attività podistica? Ai miei tempi era vista come il diavolo…

Quando correvi tu l’Italia era il centro del mondo ciclistico con tante squadre di vertice. Oggi i giovani sono invece costretti a emigrare. Nella stessa situazione saresti andato anche tu all’estero?

Sì, per forza, ma non nascondo che questa situazione mi mette molta tristezza. Allora l’Italia era davvero il centro. Faccio un esempio: a Donoratico nacque una gara perché molte squadre professionistiche facevano il loro ritiro prestagionale da quelle parti e volevano un’occasione per confrontarsi.

Casagrande con Bettini in nazionale: per lui 8 mondiali, con il 4° posto a Verona 1999
Casagrande con Bettini in nazionale: per lui 8 mondiali, con il 4° posto a Verona 1999
Pensi che la situazione cambierà in futuro?

Non in tempi brevi, perché prima dovrebbe cambiare il Paese. La nostra economia non permette di fare voli pindarici, gli sponsor che c’erano allora non ci sono più e quindi non ci sono soldi da investire. Questo non fa che penalizzare il nostro mondo, molti genitori preferiscono far fare ai propri figli altri sport, più semplici, remunerativi e sicuri. Me ne accorgo in Toscana, dove a livello junior c’è stata una moria di squadre che fa spavento. E’ normale che i ragazzi che si sacrificano per questo sport e mostrano talento, vadano poi all’estero, purtroppo poi lì imparano molto, ma chi gestisce ha e avrà sempre un occhio di riguardo per chi è del suo Paese.

Tu resterai nell’ambiente?

Penso proprio di sì, alla Cicli Taddei sono rimasto molti anni e mi sono trovato bene, vedremo in che forma continuare la mia esperienza. L’ho detto, la passione non svanisce dall’oggi al domani… Intanto mi piacerebbe chiudere come si deve, se non posso farlo gareggiando magari con una giornata speciale. Vedremo come…

Alessio Nieri, apprendista alla corte dei Reverberi

21.04.2022
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E’ come un’automobile che sta completando il proprio rodaggio all’inizio di un lungo viaggio. Il motore è buono, ma ha ancora bisogno di tempo per esprimersi ai regimi più alti. D’altronde Alessio Nieri non solo è al primo anno tra i professionisti, ma corre in bici da pochissimo tempo.

La storia del ventunenne scalatore della Bardiani-Csf-Faizanè è particolare. Una sorta di passaggio di consegne tra i borghi di Santa Maria a Monte, paese suo e di Marcello Massini, storica figura del ciclismo toscano, a sua volta scopritore di Gabriele Balducci, diesse di Nieri tra gli U23.

A Negrar, sul Viale della Rimembranza, dove è posto il traguardo del Palio del Recioto, c’è tanto pubblico che osserva l’andirivieni dei corridori verso il palco per la presentazione delle squadre. Il biondo Nieri – che è nato il 13 aprile 2001, ovvero quattro giorni prima che Yaroslav Popovich vincesse la gara veronese – scambia due parole con Bruno Reverberi, venuto ad osservare i suoi ragazzi, prima di concedersi ad una chiacchierata con noi.

Alessio raccontaci come sei arrivato qui.

Arrivo dalla Mtb e corro da pochi anni considerando che in mezzo c’è stato il Covid. Nel 2018 ho corso nella Cicli Taddei quando c’erano anche Francesco Casagrande, Francesco Failli ed Alexei Medvedev. Poi l’anno successivo sono passato su strada tra gli junior con la Big Hunter. Le ultime due stagioni le ho fatte alla Mastromarco-Sensi-Nibali, con una vittoria e alcuni buoni piazzamenti. Quest’anno ho l’onore di essere alla corte dei Reverberi.

Com’è stato questo salto?

Il passaggio non è stato semplice, specialmente il primo anno, nel 2019. Non lo è stato solo per la visione della corsa o per il pedalare in gruppo ma anche per tanto altro. La Mtb ovviamente è molto più individuale rispetto alla strada, però tuttavia mi ha insegnato molto nella guida della bici. Il mio sogno è sempre stato quello di correre su strada. Per ora sta andando bene, nel modo giusto. Spero di raccogliere qualche risultato importante.

Che differenze stai notando in generale?

Sono stato sempre bene ovunque. La Mastromarco è stata una famiglia. Correvamo sempre e solo negli U23. Ora in Bardiani abbiamo l’opportunità di confrontarci in più gare con i migliori al mondo. Questo può farci migliorare e sicuramente possiamo crescere bene.

Ed in gara?

Ho già corso tanto con i pro’ finora. Tour of Antalya, Gran Camino in Spagna, Coppi e Bartali, Giro di Sicilia, Laigueglia, Per Sempre Alfredo e Larciano. Ho fatto più di venti giorni di gara, è un buon apprendistato. Noto il cambio di ritmo ed i diversi modi di correre. Le corse internazionali dei dilettanti è tutto uno scatto continuo, è difficile tenerla controllata come invece capita tra i pro’. Sono due mondi totalmente differenti nei quali si trae sempre qualcosa.

Cos’hai già imparato?

Tra Mirko Rossato, che è spesso con gli U23, Roberto Reverberi e gli altri nostri direttori sportivi siamo ben seguiti. Tutti ci danno buoni consigli, soprattutto nelle gare pro’. Ci stanno facendo maturare nel modo giusto per poter affrontare un domani il mondo dei professionisti al meglio. E poi abbiamo sempre Bruno che viene spesso a vederci e a parlarci (ed intanto lo indica con lo sguardo a pochi metri da lui, ndr).

Hai qualche obiettivo?

Ovviamente mettermi a disposizione della squadra quando mi è richiesto. Poi certo, cercare di riuscire a vincere o comunque poter tirar fuori belle prestazioni in gare internazionali. Quest’anno vorrei fare bene al Giro d’Italia U23 (l’anno scorso fece settimo nella tappa di Andalo, ndr). Infine ci terrei particolarmente a fare bella figura al Giro di Toscana-Memorial Alfredo Martini (in programma il 14 settembre, ndr). Si corre a Pontedera, praticamente a casa mia. Quella data l’ho già cerchiata nel calendario.

Influenze tecniche della Mtb sulla strada. Parola a Casagrande

28.03.2022
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Il reggisella telescopico di Mohoric ha fatto molto parlare. Si potrà davvero utilizzare con frequenza in futuro? I costruttori ci investiranno per ridurne il peso? Quel che è certo è che per il momento un’altra soluzione tecnica di derivazione Mtb ha influito sulla strada. Francesco Casagrande ha primeggiato in entrambe le discipline. 

A “Nando” chiediamo quali sono, a suo dire, le soluzioni offroad, che più hanno lasciato il segno anche sulla strada. E che sono ormai imprescindibili.

Freni a disco

«Senza dubbio partirei dai freni a disco – afferma Casagrande – è l’elemento numero uno. La frenata è molto migliorata. Sul bagnato si frena come sull’asciutto. Aumenta la sicurezza e non si hanno più problemi coi cerchi in carbonio. Certo, si ha un po’ l’handicap del peso, ma credo che i vantaggi siano superiori».

«Per me il feeling è totalmente diverso guidando su strada coi dischi. Lo vedo anche quando esco con gente brava che però ha ancora i freni tradizionali. Io stacco ai 30 metri, loro ai 50. In mountain di solito uso dischi da 160 all’anteriore e 140 al posteriore, su strada entrambi da 140 millimetri, ma bastano e avanzano (il sistema non si affatica, né si surriscalda, ndr). Cambiando però la posizione delle leve, orizzontali sulla Mtb, verticali su quella da strada, cambia la forza che s’imprime».

«La frenata in Mtb è molto più potente e infatti si frena solo con due dita, su strada con tutta la mano. E’ questione di abitudine. Ma i vantaggi ci sono. E sì che mi capitò di fare dei tapponi dolomitici e di arrivare in fondo alle discese con i pattini finiti. Da sempre io ho sostenuto il disco».

Oggi, soprattutto si vedono delle scalette molto grandi. Vedere un pignone da 30 è ormai la normalità
Oggi, soprattutto si vedono delle scalette molto grandi. Vedere un pignone da 30 è ormai la normalità

Rapporti corti

«Il secondo elemento che più ha inciso sono stati i rapporti». E qui il toscano un po’ ci sorprende a dire il vero. Ma la sua analisi non è sbagliata.

«E’ con la Mtb – continua Casagrande – che si sono iniziati ad usare i rapporti sempre più corti, sia davanti che dietro. Si è visto che rendevano di più, si andava più agili. L’idea dei primi 34-36 viene da lì. Io che pratico tutt’ora entrambe le discipline ho notato che quando in Mtb hanno iniziato ad accorciarsi i rapporti, poi è accaduta la stessa cosa anche sulla bici da strada».

Di certo l’avvento di Sram nel panorama della strada ha avuto il suo bel peso. La casa americana ha un Dna fortemente legato alla Mtb ed è stata lei a proporre i primi rapporti davvero corti anche sulla strada. Ricordiamo per esempio Contador, che utilizzava il 32 posteriore nelle tappe più estreme con Angliru o Mortirolo. E per farlo doveva montare un bilanciere di un gruppo (il Rival) di media-bassa gamma dello stesso brand. Un gruppo pensato per bici dalla vocazione più turistica che agonistica. Sempre Sram, negli anni ha lanciato il monocorona e il pignone posteriore “Eagle” da 50 denti.

Oggi forse c’è un’inversione di tendenza, almeno su strada con le corone, ma non coi pignoni posteriori. Lo sviluppo metrico medio dei rapporti più agili è certamente più corto rispetto a 10 anni fa.

Gomme più larghe e tubeless, altra soluzione della Mtb. Con il liquido sigillante le forature su strada sono calate drasticamente
Gomme più larghe e tubeless, altra soluzione della Mtb. Con il liquido sigillante le forature su strada sono calate drasticamente

Sezioni maggiorate

«Per me, poi vengono le misure delle gomme. Che sia un qualcosa di diretta derivazione dalla Mtb non lo so, ma certo vanno di pari passo: sia su strada che in mountain, le gomme sono diventate più larghe. E credo che qualche influenza ci sia. Ricordo che quando salii in Mtb c’erano le gomme da 1.9”, poi 2.0”, 2.1”… adesso siamo a 2.3”. Contano molto e si sente parecchio la differenza su strada».

Il discorso di Casgarande regge, ma regge ancora di più nella misura in cui si considera tutta la ruota e non solo la gomma. Ci sentiamo infatti di aggiungere che di pari passo con l’aumentare della sezione delle gomme è aumentata anche quella del cerchio. E questo sì che è un elemento della Mtb. Così come l’utilizzo del tubeless e del suo liquido sigillante che oggi vanno per la maggiore anche nel gruppo dei pro’.

Si è visto come con cerchio più largo, la gomma più larga spanci meno, lavori meglio in quanto a tenuta (grip) e si riduce il rischio di stallonamento. I cerchi moderni sono più larghi rispetto a qualche anno fa. Il tutto ha anche mostrato vantaggi in termini aerodinamici.

Il perno passante al posto dell’asse dello sgangio rapido è molto più scorrevole. Si è passati da un diametro di 2,5-3 millimetri a uno di 12
Il perno passante al posto dell’asse dello sgangio rapido è molto più scorrevole. Si è passati da un diametro di 2,5-3 millimetri a uno di 12

Telescopico e perno passante

Tutto qui? Neanche per sogno. A Casagrande il discorso tecnico sta a cuore, eccome. E rilancia.

«Riguardo al telescopico sulla strada sinceramente non credo possa dare chissà quali vantaggi. Almeno per me. La vera differenza la si fa in Mtb quando ci sono davvero discese ripide, superiori al 25%, e tecniche. In quel caso lo fai scendere tutto, ti “siedi” sulla ruota posteriore e abbassi il baricentro. Però serve in alcuni casi appunto. Senza contare che pesa e che per sfruttarlo davvero bisogna essere abituati. Perché si ha la sensazione di non avere nulla tra le gambe (cambiano un po’ gli equilibri, ndr) quando si guida.

«Su strada, quello di Mohoric è stato un colpo, ma non credo sia stato quello a fare la differenza. Ripeto, questa è una mia opinione».

Infine prima di congedarci, Casagrande ha chiamato in causa un altro elemento, affatto secondario che ha inciso sullo sviluppo tecnico della bici da strada: il perno passante.

«Quasi dimenticavo – conclude Casagrande – il perno passante ha inciso e non poco. La bici è più rigida, scorre meglio, flette davvero molto meno e si ha molta meno dispersione di forza. E’ un dettaglio molto importante».

Casagrande, ultimo italiano sul trono di Svizzera

10.06.2021
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In questi giorni si sta correndo il Giro di Svizzera, una breve corsa a tappe che anticipa il Tour de France, l’ultimo trionfo italiano nella corsa elvetica risale al 1999, fu Francesco Casagrande a vincere quell’edizione del Giro di Svizzera, sul podio con lui salirono Jalabert e Simoni.

Ci facciamo raccontare proprio da lui le sensazioni e come sia riuscito a vincere una corsa così dura e complicata.

«Quando l’ho vinto io – dice Casagrande – il Giro di Svizzera veniva affrontato maggiormente dai corridori che uscivano con una buona condizione dal Giro d’Italia. La gara, infatti, iniziava esattamente una settimana dopo la fine della Corsa Rosa. Chi voleva preparare il Tour de France faceva il Delfinato che partiva uno o due giorni dopo la fine del Giro».

Sul podio precedette Laurent Jalabert e Gilberto Simoni
Sul podio precedette Laurent Jalabert e Gilberto Simoni
E’ stata un’edizione combattuta quella del 1999, con Simoni e Jalabert che ti hanno dato del filo da torcere per tutte le 10 tappe.

Sì, come detto Simoni e Jalabert uscivano in ottima condizione dal Giro e puntavano a fare bene per dare un continuo alla loro stato di forma. Io invece arrivavo da un periodo di 6 mesi di inattività e avevo messo nel mirino quell’edizione visto che decretava il mio ritorno alle corse.

Un Giro di Svizzera di gestione dove tu e Simoni siete stati insidiati da Jalabert, il quale ha recuperato con la cronometro riuscendo a conquistare la maglia gialla alla quinta tappa.

La mia è stata una corsa sì di gestione, ma soprattutto di costanza. Sono stato sempre davanti e questo mi ha permesso di arrivare alla penultima tappa in ottima posizione. Jalabert era superiore a cronometro, io sono riuscito a difendermi bene, poi sull’arrivo ad Arosa, uno dei pochi in salita di quell’edizione, ho dato tutto e sono riuscito a distanziare i miei due rivali concretizzando il lavoro della squadra, la Vini Caldirola, che aveva tirato per tutto il giorno.

Una corsa che ti è sempre piaciuta particolarmente

Molto, io non ho mai fatto il Tour, quindi era proprio una gara sulla quale mettevo il cerchio sul calendario. Sono andato vicino a vincerlo nuovamente nel 2003 quando ero nella Lampre, ma quell’anno vinse Vinokourov.

Nel 1999 il toscano rientrò da una sospensione di 6 mesi e nel 2000 sfiorò il Giro: qui sull’Abetone
Nel 1999 il toscano rientrò da una sospensione di 6 mesi e nel 2000 sfiorò il Giro: qui sull’Abetone
E’ una corsa meno impegnativa dal punto di vista altimetrico rispetto al Delfinato e sicuramente più lunga viste le sue 10 tappe, ed anche per questo non è mai stata fatta per preparare il Tour?

Esattamente, per numero di tappe è paragonabile ad un altro mezzo Giro, chi prepara il Tour preferisce una corsa di meno giorni ma con più dislivello, così da poter affinare meglio la preparazione ed allo stesso tempo avere più giorni per recuperare.

Una caratteristica in controtendenza nell’ultimo decennio, dovuto anche all’anticipazione del Giro di Svizzera di qualche giorno

Ai miei tempi Ullrich era uno dei pochi a fare il Giro di Svizzera come preparazione per il Tour de France. Nell’ultimo decennio invece ci sono molti più corridori che affrontano questa corsa come rifinitura alla Grande Boucle. I motivi sono due. Il primo è semplicemente legato al cambio del calendario, il Giro di Svizzera è stato anticipato di alcuni giorni sul calendario ed è stato accorciato, non si corrono più 10 tappe bensì 8.

Il secondo?

E’ decisamente un motivo più importante. I corridori tendono a disputare meno gare nel corso della stagione, quando correvo io le gare erano parte della preparazione, ora si corre solamente se si è sicuri di competere per la vittoria.

Francesco Casagrande, Ginestra Fiorentina, 2020, Trofeo numero 1 al mondo 2000
Francesco Casagrande ha 51 anni e vive a Ginestra Fiorentina. Qui con il trofeo di numero 1 al mondo del 2000
Francesco Casagrande, Ginestra Fiorentina, 2020, Trofeo numero 1 al mondo 2000
Casagrande ha 51 anni e vive a Ginestra Fiorentina. Qui con il trofeo di numero 1 al mondo 2000
Ti ricordi qualche aneddoto particolare su quell’edizione del Giro di Svizzera?

Ricordi fatico a metterli a fuoco, sono passati 22 anni (ride, ndr), però ricordo molto bene l’ascesa finale ad Arosa, per l’arrivo dell’ottava tappa. Ricordo la fatica accompagnata dalla voglia di non mollare neanche un centimetro, volevo coronare il mio ritorno alle corse.

Quel Giro di Svizzera ti ha lanciato, il 1999 è stata una stagione importante

E’ stato un bel trampolino di lancio, i risultati nella seconda parte della stagione furono di rilievo, vinsi la Clasica San Sebastian, il Trofeo Matteotti, arrivai quinto al Giro dell’Emilia. Ovviamente io arrivavo con una motivazione diversa, essendo la mia prima gara fu preparata in modo impeccabile, ci tenevo ad iniziare bene.

Zoncolan 2003: dietro Simoni, un duello infinito

18.02.2021
6 min
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Non solo le Tre Cime di Lavaredo. Pare che il Giro d’Italia torni anche lassù, sullo Zoncolan che nel 2003 salutò l’ultimo grande Pantani e si concesse alla furia rosa di Gilberto Simoni. I ricordi sono come vetri rotti. Hanno forme diverse, alcuni sono taglienti, altri sono abbastanza grandi da riflettere le immagini di quel giorno di maggio di quasi vent’anni fa. Non provate a ricomporle, il quadro sarebbe troppo frammentato.

A 1,5 chilometri dalla vetta, Simoni è già da solo
A 1,5 chilometri dalla vetta, Simoni è già da solo

Come l’Angliru

Il Giro sullo Zoncolan, 22 maggio 2003. Con quel nome la salita fa già paura, anche se nessuno c’è mai stato. Si sale da Sutrio e si sussurra che ci sia un versante ancora più duro, che parte da Ovaro, che però non è stato ancora asfaltato.

«Si tratta di un arrivo molto duro – racconta Francesco Casagrande che è andato a vederlo a fine aprile – mi hanno impressionato gli ultimi 3 chilometri impegnativi con tratti al 22 per cento, pari all’arrivo dell’Angliru. Non oso pensare a cosa potrebbe succedere se quel giorno dovesse piovere. I corridori rischierebbero di scivolare indietro, respinti dalla montagna».

Volano caschi

Ma quel giorno non piove. La pioggia è venuta tutta giù il giorno prima a San Donà di Piave, procurando la caduta di Cipollini, che per lo Zoncolan stava già pensando di mettere su strada una mountain bike biammortizzata che allo sponsor avrebbe procurato parecchio piacere e avrebbe permesso a Mario di stigmatizzare certi percorsi troppo duri. E’ l’anno dell’assurda regola per cui il casco puoi toglierlo all’inizio della salita. Così quando il gruppo prende a salire, si assiste a un lancio di caschi anche pericoloso a destra e sinistra della strada.

Mai visto al Giro un finale così ripido come lo Zoncolan
Mai visto al Giro un finale così ripido come lo Zoncolan

«Anche io ero andata a vederla una settimana prima del Giro – ricorda Garzelli – e non si era mai fatta una salita con quelle pendenze. Prima 15 chilometri costanti, poi svolta a sinistra e iniziavano quei 2-3 chilometri durissimi, in un periodo in cui il rapporto più agile che avevamo era il 39×28».

Gibo all’attacco

Simoni ha la faccia da duro, bruciata dal sole. Alla partenza, il suo vantaggio su Garzelli è di appena due secondi. La maglia è ancora appesa a un filo e Gibo è più che mai deciso a difenderla fino alla morte, dopo quello che è successo l’anno prima con la storia delle caramelle colombiane. Sono anni di ciclismo insolito e questa volta il trentino non vuole correre rischi. Per cui all’inizio di quella salita così dura, prende il largo lasciando gli altri dietro a litigarsi l’osso.

Vigilia bagnata

La sera prima, sotto ai pini di San Donà con il profumo di bagnato, i meccanici della Mercatone Uno preparavano le bici Carrera della squadra. Passandoci davanti con Ilario Biondi ci eravamo trovati a pensare quanto fosse strano non fermarsi dal Panta alla vigilia di una tappa così dura. Ma la classifica lo vedeva 14° a quasi cinque minuti e in quella sera così buia c’erano altre voci da sentire. Era tardi, in ogni caso, e Marco era di certo già in camera con la sua bici gialla.

Simoni conquista lo Zoncolan e consolida la rosa
Simoni conquista lo Zoncolan e consolida la rosa

Invece l’indomani, appena il gruppo imbocca il primo tratto della salita, sulla testa assieme agli uomini della Saeco e della Caldirola arrivano quelli della Mercatone Uno.

Gomito a gomito

«Dopo un chilometro e mezzo – ricorda Garzelli – parte Gibo e Marco è lì che rientra su di me. Mi prende e restiamo in due. Di quella tappa ho parlato anche con sua mamma, la foto di noi due insieme sullo Zoncolan è la più bella della mia carriera. Le immagini del duello dall’elicottero non me le scordo più. Ero a tutta, ma il fatto di avere accanto Marco Pantani, mi permise di arrivare secondo. Volete sapere che cosa spingeva entrambi? Ce lo dicemmo il giorno dopo e ci venne da ridere. Per tutto il tempo non feci che pensare: “Col cazzo che mi stacchi!”. E lui lo stesso. Ho la pelle d’oca pensando al pubblico».

Hai visto chi era?

Simoni sale seduto. Si alza solo a tratti, ma tiene l’andatura costante. Dietro Garzelli e Pantani danno di gomito e ancora più indietro ci sono Casagrande e Popovych. Vanno così piano che l’ultimo chilometro sembra lungo un’ora. Il tornante più ripido prende la strada e la solleva brutalmente di una ventina di metri. C’è folla da curva nel derby e quando lo speaker grida che nel gruppo della maglia rosa c’è anche Marco Pantani, l’attesa esplode con un fragore possente che scuote la montagna. I tifosi lo vedono passare, lo incitano stupiti e poi si guardano come a dire: «Hai visto chi era?».

La gente quel giorno rivide l’ultimo, grande Marco Pantani
La gente quel giorno rivide l’ultimo, grande Marco Pantani

Non mi stacchi

Nell’ammiraglia della Saeco che sta per vincere la tappa e il Giro con Simoni, Martinelli fa il tifo per Marco. Ci sono moto ferme con la frizione bruciata, Pantani che scatta e Garzelli che risponde. «Col cazzo che mi stacchi!» E così vanno avanti insieme.

«Non lo avrei mai lasciato andare – ricorda ancora Stefano – era Marco Pantani in una delle sue più belle imprese sportive, forse l’ultima. Quel giorno siamo stati rivali, forse l’unica volta in una vita. La classe di Marco non si è vista quando ha vinto il Giro e il Tour, ma secondo me è stato un gigante al Tour del 2000 quando ha vinto due tappe e poi proprio in quel Giro del 2003».

Troppo ripido

Simoni vince la tappa e guadagna 34″ su Garzelli, che sulla cima dello Zoncolan è ancora secondo in classifica ma a 44″.

«Non mi piacciono queste salite – dice Simoni – troppa pendenza non permette di fare differenze».

Dopo. l’arrivo Marco è sfinito, ma rivede la luce
Dopo. l’arrivo Marco è sfinito, ma rivede la luce

Pantani, invitato al Processo alla Tappa, risponde che se uno è scalatore, in giornate come queste ha il terreno perfetto per fare la differenza. Troppo diversi per essere amici.

«Credo che il miglior Marco – commenta Garzelli – avrebbe fatto la differenza. Gibo non è uno che facesse tanti cambi di ritmo, andava fortissimo ma in modo regolare. Marco era uno che si alzava e aumentava di due chilometri e lo faceva in continuazione. Con quei rapporti, se avevi la forza di girarli, facevi per forza velocità. Ma dovevi anche stare attento, perché una volta il rischio di piantarsi c’era molto più di adesso, che con la compact gestiscono bene lo sforzo».

La bici gialla

Entriamo nell’hotel di Maniago. La Mercatone Uno Scanavino è una piccola squadra, la guida Amadori e non c’è più lo sbarramento della Ronchi, che Boifava non ha voluto al seguito. Marco è passato per andare a cena e alla battuta che ci è parso di averlo riconosciuto, ha fatto un cenno con la mano come a dire: «Manca poco». Quando torna gli chiediamo il favore di fotografare la bici gialla, che ormai tiene sempre in camera. E mentre siamo insieme in ascensore commentando il lancio dei caschi, il Pirata fa un ghigno amaro. «Quando ero famoso e tutti mi volevano – dice – non avete idea di quanti soldi mi offrivano perché mettessi il casco. Invece adesso che non sono nessuno, mi tocca metterlo e pure gratis».

La bici era là, tutta gialla, ai piedi del letto. E c’era ancora Marco…

Francesco Casagrande, Ginestra Fiorentina, 2020

Quel giorno Casagrande ha sofferto per Roglic

03.12.2020
7 min
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Il nome Casagrande-Milani campeggia sulla maiolica colorata. Intorno la campagna fiorentina è sprofondata nel silenzio, qualche auto appena e un sottile filo di vento. Non si veniva da queste parti da oltre 15 anni e quando la porta si apre, la sensazione del tempo passato è mitigata dal fatto che Nando non è poi cambiato tanto da allora. Anche se a settembre ha compiuto 50 anni.

Vent’anni fa, ben prima di Roglic al Tour, anche lui perse la maglia (rosa) il penultimo giorno in una crono di montagna e poi chiuse la stagione da numero uno al mondo. Così, con il racconto come pretesto, ci siamo arrampicati dall’uscita di Ginestra Fiorentina per un fantastico viaggio indietro nel tempo.

«Il primo ricordo – ride – è del Giro delle Regioni. Si era tutti giù nelle Marche, ho in testa una gelateria. E Rebellin che prese un gelato grosso così…».

Ottima memoria. Era il 1992, gelateria sotto l’hotel Pamir di Civitanova Marche. Petito in maglia di leader, la nazionale lanciata verso le Olimpiadi di Barcellona, ma Casartelli al Regioni non c’era perché aveva fatto la Settimana Bergamasca. Invecchiando, si fa notare, la memoria a lungo termine è lucidissima. E giù risate.

Come Roglic

Ci ha pensato anche lui a Primoz e a cosa possa aver passato in quella mezza giornata alla Planche des Belles Filles. Il ciclismo resta la passione di casa, non c’è diretta che sfugga.

«Perdi il Tour in quella maniera – dice – e prendi una botta che sei stordito per una settimana. Nemmeno si può dire che Roglic abbia fatto una brutta crono, è arrivato quinto. Ma si vede che l’ha sofferta, quel casco messo male significa che proprio non ci stava. Ho l’immagine di lui per terra e Dumoulin che prova a scuoterlo. M’è venuto male per lui…».

Quando una botta del genere l’hai presa anche tu, fai presto a riconoscerne i segni sul corpo di un altro.

«Io se non altro – racconta – ho l’attenuante del nervo sciatico. Se fossi andato come nei giorni precedenti, me la giocavo. Partii bene, dopo 3 chilometri avevo 5″ di vantaggio su Garzelli, poi la gamba iniziò a intorpidirsi. Di colpo era come morta. Mi aveva già dato noia nella crono precedente. Poi si è scoperto che ero troppo piegato sulla bicicletta e mi si schiacciava il nervo che poi si infiammava. E da un secondo all’altro è cambiata la storia. Sprofondavo e pensavo alla delusione che davo ai compagni. Non volevo andare al Giro di Svizzera. Mi mandarono lo stesso, perché partivo col numero 1, ma mi fermai. Lui invece è stato bravo a reagire al mondiale, alla Liegi e alla Vuelta».

Francesco Casagrande, Ginestra Fiorentina, 2020, Trofeo numero 1 al mondo 2000
Quel vaso trasparente è il trofeo Uci per il primo posto nel ranking mondiale 2000
Francesco Casagrande, Ginestra Fiorentina, 2020, Trofeo numero 1 al mondo 2000
Il vaso è il premio per il 1° posto Uci nel 2000

Pantani e l’Izoard

Non è mai solo la crono, però. Certe sconfitte nascono prima. La sua e pure quella di Roglic…

«Secondo me – dice – hanno sottovalutato Pogacar. Sembrava il ragazzino da far contento lasciandogli spazio, invece quello puntava a vincere. E poi la crono non so come l’hanno gestita, ma se spingi a tutta e alla radio ti dicono che stai perdendo, si fa dura. Se ti dicono di aumentare perché il Tour ti sta sfuggendo e tu non ne hai, ti demoralizzi. Forse in certi casi l’ammiraglia un po’ dovrebbe mentire, per vedere se con un po’ di morale le cose vanno meglio. Anche se Roglic ha cominciato a perdere da subito, segno che l’altro andava di più.

«Io il Giro l’ho perso sull’Izoard, il giorno prima. Se non c’era Pantani, Garzelli finiva a 2 minuti, invece è arrivato alla crono con 25″. Marco quel giorno fece un capolavoro e soprattutto lo aiutò a tenere i nervi saldi. In certi casi, più delle gambe fa il panico. La squadra serve a quello. Ma lo stesso non mi sarei mai aspettato di crollare così. La mattina stavo bene. Feci la ricognizione. Poi la gamba diventò di legno. Mi sbloccai un po’ dopo il Monginevro, ma pedalavo sapendo che stavo perdendo. Fu abbastanza deprimente».

Come sparito

Un metro e 72 per 64 chili e un palmares da campione, smise e sparì. Nella sua bacheca e anche adesso sparsi per la casa, ci sono i trofei di 46 vittorie, tra cui la Freccia Vallone, due Clasica San Sebastian, il Giro di Svizzera, due Giri del Trentino e il Giro dei Paesi Baschi.

«Smisi e sparii – ricorda – perché ci rimasi male. Ero alla Naturino con Santoni, sicuri di fare il Giro. Invece non ci invitarono. Avevo lavorato bene, mi passò la voglia. Poi nessuno mi ha cercato, neppure a livello federale. Sicuramente non è piacevole, ma lo sappiamo bene come funziona questo ambiente. Qualche chiamata per fare il diesse nei dilettanti, ma volevo stare a casa. Sono rimasto in contatto con i vecchi amici. Con Bartoli e Petito, soprattutto. Devo dire che appena smesso, mi mancava l’agonismo. Mi misi a fare le mezze maratone, ma vennero fuori mille dolorini. Così diedi ascolto a degli amici e a fine 2008 mi tesserai amatore in mountain bike con Cicli Taddei. Non volevo fare l’elite, stavo bene così. Invece arrivò Celestino e ci mise lui lo zampino».

Debora, Matilde, Anastasia, Francesco Casagrande
Con la moglie Debora, Matilde e Anastasia. Camilla invece studia a Bologna
Debora, Matilde, Anastasia, Francesco Casagrande
Con Debora, Matilde e Anastasia

La Mtb e la strada

Al primo anno da cittì azzurro della mountain bike, infatti, il ligure lo chiamò per i mondiali marathon del 2017 a Singen, in Germania. Nando aveva già centrato un secondo posto in una gara Uci all’Isola d’Elba e accettò la chiamata, tornando nel grande giro.

«Non era male – sorride – fare un mondiale a 47 anni. In più l’ambiente della mountain bike non smuove tanti soldi e grandi interessi, sembra più genuino. Vedi bei posti, l’ambiente è familiare. E poi si sta diffondendo tanto fra i bambini. Io a 12 anni uscivo su strada e facevo 50 chilometri da solo, adesso chi se la sente di mandare fuori i figli? Però non ho mai voluto fare le gran fondo su strada, c’è troppa esasperazione. E nel tempo ho visto arrivare anche altri corridori. Failli, per esempio. E anche Paolini. Lui forse pensava di avere vita facile, invece un giorno mi disse: “Nando, si fa fatica qui, è impegnativo davvero!”. E lo credo, Gerva! In Mtb, pronti via e sei già a gas aperto. E’ una guerra, uno sport individuale. Capisco perché Van der Poel e Sagan vanno così forte. Tornassi indietro, abbinerei Mtb a strada, ma ai miei tempi non si sapeva. Fai lavori di forza, ti abitui a stare tanto fuori soglia, impari a guidare la bici, potenzi il tronco, fai ritmo…».

Francesco Casagrande, Ginestra Fiorentina, 2020
I ricordi di ieri e il racconto di oggi, come fra vecchi amici a casa Casagrande
Francesco Casagrande, Ginestra Fiorentina, 2020
Un paio d’ore fra ricordi e racconti

I suoi rapportoni

L’assist è facile, ricordando quanto andasse duro in salita e nelle crono. Era il termine di paragone per descrivere un corridore: va duro come Casagrande…

«Andavo duretto – dice Casagrande e se la ride – ma adesso i rapporti aiutano. Noi si faceva l’Angliru con il 39×29. Pengo, il meccanico alla Lampre, mi disse che l’alternativa era montare la tripla. Eri proprio portato ad andare duro. Se c’era da fare la Marmolada, andava bene il 39×23. Ora esiste la compact, anche se vedi corridori come Formolo che vanno duri… come Casagrande».

Segue il ciclismo. Si allena sei giorni a settimana, e al settimo corre. Sua moglie Debora, che come sempre sta in disparte ma segue tutto, ha la testa che gira a mille e sguardi che parlano più di mille parole. «E’ bene che faccia qualcosa – dice piano – durante il lockdown era un animale in gabbia».

«Faccio 19 mila chilometri l’anno – dice – ma non sono più fissato come prima. Durante il lockdown? Ero sempre nel bosco, conoscevo i cinghiali per nome…».

Francesco Casagrande, Ginestra Fiorentina, 2020
Dal 2009 Casagrande corre in Mtb, ma è diventato elite soltanto dal 2017
Francesco Casagrande, Ginestra Fiorentina, 2020
Dal 2009 ha ripreso a gareggiare, ma in Mtb

Uomo di casa

E’ tempo di fare le ultime foto. Francesco e Debora hanno tre figlie. Camilla, 23 anni, studia a Bologna e presto tornerà per Natale.

«E’ in astinenza – sorride la moglie indicandolo – non la vede dai primi di novembre!».

«Senza figli – le risponde – come fai?».

Anastasia e Matilde, 14 e 12 anni, quando vengono a sedersi sul divano per una foto hanno gli occhi davvero stupiti e orgogliosi. Loro il papà campione non l’hanno mai visto e un giornalista in giro significa che tanti racconti erano veri. Ce ne andiamo che il sole ha iniziato a scendere, trovando un foglietto sul parabrezza. Qui, nel mezzo del nulla. Vi si prega di non parcheggiare perché è proprietà privata. Casagrande ride: «Non sapevano che eri da me, avranno pensato che fossi un cacciatore!».

Un saluto e una promessa: cerchiamo di vederci prima dei prossimi 15 anni…