Il nome Casagrande-Milani campeggia sulla maiolica colorata. Intorno la campagna fiorentina è sprofondata nel silenzio, qualche auto appena e un sottile filo di vento. Non si veniva da queste parti da oltre 15 anni e quando la porta si apre, la sensazione del tempo passato è mitigata dal fatto che Nando non è poi cambiato tanto da allora. Anche se a settembre ha compiuto 50 anni.
Vent’anni fa, ben prima di Roglic al Tour, anche lui perse la maglia (rosa) il penultimo giorno in una crono di montagna e poi chiuse la stagione da numero uno al mondo. Così, con il racconto come pretesto, ci siamo arrampicati dall’uscita di Ginestra Fiorentina per un fantastico viaggio indietro nel tempo.
«Il primo ricordo – ride – è del Giro delle Regioni. Si era tutti giù nelle Marche, ho in testa una gelateria. E Rebellin che prese un gelato grosso così…».
Ottima memoria. Era il 1992, gelateria sotto l’hotel Pamir di Civitanova Marche. Petito in maglia di leader, la nazionale lanciata verso le Olimpiadi di Barcellona, ma Casartelli al Regioni non c’era perché aveva fatto la Settimana Bergamasca. Invecchiando, si fa notare, la memoria a lungo termine è lucidissima. E giù risate.
Dolomiti, in maglia rosa Con Garzelli sul Fedaia Bormio, 6° giorno in rosa Sull’Izoard, capolavoro di Pantani Crono di Sestriere, il crollo. Giro a Garzelli
Come Roglic
Ci ha pensato anche lui a Primoz e a cosa possa aver passato in quella mezza giornata alla Planche des Belles Filles. Il ciclismo resta la passione di casa, non c’è diretta che sfugga.
«Perdi il Tour in quella maniera – dice – e prendi una botta che sei stordito per una settimana. Nemmeno si può dire che Roglic abbia fatto una brutta crono, è arrivato quinto. Ma si vede che l’ha sofferta, quel casco messo male significa che proprio non ci stava. Ho l’immagine di lui per terra e Dumoulin che prova a scuoterlo. M’è venuto male per lui…».
Quando una botta del genere l’hai presa anche tu, fai presto a riconoscerne i segni sul corpo di un altro.
«Io se non altro – racconta – ho l’attenuante del nervo sciatico. Se fossi andato come nei giorni precedenti, me la giocavo. Partii bene, dopo 3 chilometri avevo 5″ di vantaggio su Garzelli, poi la gamba iniziò a intorpidirsi. Di colpo era come morta. Mi aveva già dato noia nella crono precedente. Poi si è scoperto che ero troppo piegato sulla bicicletta e mi si schiacciava il nervo che poi si infiammava. E da un secondo all’altro è cambiata la storia. Sprofondavo e pensavo alla delusione che davo ai compagni. Non volevo andare al Giro di Svizzera. Mi mandarono lo stesso, perché partivo col numero 1, ma mi fermai. Lui invece è stato bravo a reagire al mondiale, alla Liegi e alla Vuelta…».
Pantani e l’Izoard
Non è mai solo la crono, però. Certe sconfitte nascono prima. La sua e pure quella di Roglic…
«Secondo me – dice – hanno sottovalutato Pogacar. Sembrava il ragazzino da far contento lasciandogli spazio, invece quello puntava a vincere. E poi la crono non so come l’hanno gestita, ma se spingi a tutta e alla radio ti dicono che stai perdendo, si fa dura. Se ti dicono di aumentare perché il Tour ti sta sfuggendo e tu non ne hai, ti demoralizzi. Forse in certi casi l’ammiraglia un po’ dovrebbe mentire, per vedere se con un po’ di morale le cose vanno meglio. Anche se Roglic ha cominciato a perdere da subito, segno che l’altro andava di più.
«Io il Giro l’ho perso sull’Izoard, il giorno prima. Se non c’era Pantani, Garzelli finiva a 2 minuti, invece è arrivato alla crono con 25″. Marco quel giorno fece un capolavoro e soprattutto lo aiutò a tenere i nervi saldi. In certi casi, più delle gambe fa il panico. La squadra serve a quello. Ma lo stesso non mi sarei mai aspettato di crollare così. La mattina stavo bene. Feci la ricognizione. Poi la gamba diventò di legno. Mi sbloccai un po’ dopo il Monginevro, ma pedalavo sapendo che stavo perdendo. Fu abbastanza deprimente».
Come sparito
Un metro e 72 per 64 chili e un palmares da campione, smise e sparì. Nella sua bacheca e anche adesso sparsi per la casa, ci sono i trofei di 46 vittorie, tra cui la Freccia Vallone, due Clasica San Sebastian, il Giro di Svizzera, due Giri del Trentino e il Giro dei Paesi Baschi.
«Smisi e sparii – ricorda – perché ci rimasi male. Ero alla Naturino con Santoni, sicuri di fare il Giro. Invece non ci invitarono. Avevo lavorato bene, mi passò la voglia. Poi nessuno mi ha cercato, neppure a livello federale. Sicuramente non è piacevole, ma lo sappiamo bene come funziona questo ambiente. Qualche chiamata per fare il diesse nei dilettanti, ma volevo stare a casa. Sono rimasto in contatto con i vecchi amici. Con Bartoli e Petito, soprattutto. Devo dire che appena smesso, mi mancava l’agonismo. Mi misi a fare le mezze maratone, ma vennero fuori mille dolorini. Così diedi ascolto a degli amici e a fine 2008 mi tesserai amatore in mountain bike con Cicli Taddei. Non volevo fare l’elite, stavo bene così. Invece arrivò Celestino e ci mise lui lo zampino».
La Mtb e la strada
Al primo anno da cittì azzurro della mountain bike, infatti, il ligure lo chiamò per i mondiali marathon del 2017 a Singen, in Germania. Nando aveva già centrato un secondo posto in una gara Uci all’Isola d’Elba e accettò la chiamata, tornando nel grande giro.
«Non era male – sorride – fare un mondiale a 47 anni. In più l’ambiente della mountain bike non smuove tanti soldi e grandi interessi, sembra più genuino. Vedi bei posti, l’ambiente è familiare. E poi si sta diffondendo tanto fra i bambini. Io a 12 anni uscivo su strada e facevo 50 chilometri da solo, adesso chi se la sente di mandare fuori i figli? Però non ho mai voluto fare le gran fondo su strada, c’è troppa esasperazione. E nel tempo ho visto arrivare anche altri corridori. Failli, per esempio. E anche Paolini. Lui forse pensava di avere vita facile, invece un giorno mi disse: “Nando, si fa fatica qui, è impegnativo davvero!”. E lo credo, Gerva! In Mtb, pronti via e sei già a gas aperto. E’ una guerra, uno sport individuale. Capisco perché Van der Poel e Sagan vanno così forte. Tornassi indietro, abbinerei Mtb a strada, ma ai miei tempi non si sapeva. Fai lavori di forza, ti abitui a stare tanto fuori soglia, impari a guidare la bici, potenzi il tronco, fai ritmo…».
I suoi rapportoni
L’assist è facile, ricordando quanto andasse duro in salita e nelle crono. Era il termine di paragone per descrivere un corridore: va duro come Casagrande…
«Andavo duretto – dice Casagrande e se la ride – ma adesso i rapporti aiutano. Noi si faceva l’Angliru con il 39×29. Pengo, il meccanico alla Lampre, mi disse che l’alternativa era montare la tripla. Eri proprio portato ad andare duro. Se c’era da fare la Marmolada, andava bene il 39×23. Ora esiste la compact, anche se vedi corridori come Formolo che vanno duri… come Casagrande».
Segue il ciclismo. Si allena sei giorni a settimana, e al settimo corre. Sua moglie Debora, che come sempre sta in disparte ma segue tutto, ha la testa che gira a mille e sguardi che parlano più di mille parole. «E’ bene che faccia qualcosa – dice piano – durante il lockdown era un animale in gabbia».
«Faccio 19 mila chilometri l’anno – dice – ma non sono più fissato come prima. Durante il lockdown? Ero sempre nel bosco, conoscevo i cinghiali per nome…».
Uomo di casa
E’ tempo di fare le ultime foto. Francesco e Debora hanno tre figlie. Camilla, 23 anni, studia a Bologna e presto tornerà per Natale.
«E’ in astinenza – sorride la moglie indicandolo – non la vede dai primi di novembre!».
«Senza figli – le risponde – come fai?».
Anastasia e Matilde, 14 e 12 anni, quando vengono a sedersi sul divano per una foto hanno gli occhi davvero stupiti e orgogliosi. Loro il papà campione non l’hanno mai visto e un giornalista in giro significa che tanti racconti erano veri. Ce ne andiamo che il sole ha iniziato a scendere, trovando un foglietto sul parabrezza. Qui, nel mezzo del nulla. Vi si prega di non parcheggiare perché è proprietà privata. Casagrande ride: «Non sapevano che eri da me, avranno pensato che fossi un cacciatore!».
Un saluto e una promessa: cerchiamo di vederci prima dei prossimi 15 anni…