Lo chiamano velocista gentile, ma questo Merlier non fa sconti

18.09.2024
6 min
Salva

Domenica sera due uomini ad Hasselt non stavano nella pelle: Sven Vanthourenhout e Tim Merlier. Il tecnico della nazionale belga e il fresco campione europeo hanno visto i loro sogni esauditi. Anche se, rileggendo il film della corsa e dei giorni che l’hanno preceduta, sarebbe più corretto parlare di un piano ben riuscito. Si dubitava della possibile convivenza fra Merlier e Philipsen. E pur con l’assenza di Van Aert caduto alla Vuelta, pochi si erano soffermati sulla presenza in squadra di Jordi Meeus, vincitore lo scoro anno sui Campi Elisi a fine Tour. Invece Vanthourenhout ha realizzato un vero capolavoro. E dopo Wollongong 2022 con Evenepoel e la doppietta olimpica ugualmente con Remco (e il bronzo della crono con Van Aert), si è portato a casa anche il titolo europeo su strada. Quando il prossimo anno cambierà incarico, nessuno potrà rimproverargli di non essere stato un tecnico vincente.

Merlier esulta con la compagna Cameron (figlia di Frank Vandenbroucke) e loro figlio Jules
Merlier esulta con la compagna Cameron (figlia di Frank Vandenbroucke) e loro figlio Jules

Il treno per Philipsen

Contrariamente alle previsioni, il piano del Belgio era quello di dare a Philipsen il vero treno. Merlier invece, che ama muoversi con più libertà, si sarebbe arrangiato con la collaborazione di un solo uomo: Bert Van Lerberghe, suo amico dai tempi della scuola e suo leadout alla Soudal Quick-Step. Raccontano i corridori che all’uscita della riunione tutti erano convinti della scelta. I due velocisti più forti sono tornati nella loro camera d’albergo certi di avere la situazione per loro più confortevole. Pare che Vanthourenhout abbia avuto l’idea già dai giorni della Scheldepriijs, quando Merlier aiutato dal solo Van Lerberghe batté Philipsen che invece aveva schierato il treno della Alpecin.

Come ha raccontato dopo la corsa l’ultimo uomo del vincitore, perché certi finali vadano come si vuole, occorre che tutto prenda la piega giusta. Che il gruppo si apra davanti quando è il momento di lanciarsi e che la bici non abbia problemi di alcun tipo. Hanno raccontato che a Merlier sia caduta la catena ai 400 metri. Di solito per un problema del genere, non si riesce a fare la volata. Invece Tim l’ha fatta e anche forte. A capo di una corsa di 222,8 chilometri (dislivello di 1.261 metri), percorsa in 4 ore 37’09” alla media di 48,234, i dati Strava raccontano di una velocità massima di 72,9 chilometri raggiunta nello sprint.

Nel team belga, Philipsen aveva un treno tutto per sé. Per Merlier, il solo Van Lerberghe
Nel team belga, Philipsen aveva un treno tutto per sé. Per Merlier, il solo Van Lerberghe

La catena di Merlier

Il nuovo campione europeo, che per due volte era già stato campione nazionale, ci ha messo un po’ a capire di aver battuto tutti i velocisti più forti d’Europa. Ha confermato il salto di catena e quindi di non aver potuto fare la volata che aveva in mente. Il tempo di rimetterla su e si è lanciato, scacciando via l’alone di sfortuna che sembrava averlo ammantato nelle ultime settimane.

«Non ho capito bene cosa sia successo né come sia andata la volata – ha raccontato – so che all’improvviso la catena è caduta dal davanti. Ho cercato di farla risalire il più rapidamente possibile e in qualche modo sono riuscito a riprendere velocità. Forse è stata la mia fortuna, altrimenti sarei partito un po’ prima e con quel vento l’avrei pagata. Ho sentito le critiche. Ho lasciato il Renewi Tour per una caduta dopo un solo sprint. Sono caduto di nuovo ad Amburgo. E a quel punto ho pensato di rivolgermi al nostro mental coach, ma non l’ho fatto. Lunedì ho pedalato per quattro ore verso il confine francese, passando da un acquazzone all’altro. E’ andata meglio mercoledì e giovedì, con l’aiuto di Mario De Clercq che mi ha fatto allenare dietro moto. Sono arrivato al via con parecchia pressione addosso, è stato così per tutti».

Merlier a terra con Groenewegen nella prima tappa del Renewi Tour. Si ritirerà l’indomani dopo la crono
Merlier a terra con Groenewegen nella prima tappa del Renewi Tour. Si ritirerà l’indomani dopo la crono

Il ruolo di Van der Poel

Ai media piace così, a quelli belgi poi in maniera particolare. E questo ha fatto sì che i primi chilometri non siano stati esaltanti per Merlier, che pure un po’ da solo nella squadra deve essersi sentito. Nel gruppo davanti Mathieu Van der Poel, grande amico e compagno di squadra di Philipsen, faceva il diavolo a quattro. Correva per sé, per Kooij o per il compagno di squadra? E mentre per le prime due ore Merlier non ha avuto sensazioni eccezionali, quando la corsa si è infilata nel primo tratto di pavé, lo scenario è cambiato.

«Dicono spesso che per battere Merlier – ha raccontato – bisogna rendere la gara dura. In realtà di solito dopo le gare impegnative faccio delle belle volate, si è visto anche al Giro d’Italia. E ho capito che forse le cose stavano cambiando quando nel tratto di pavé di Manshoven ho bucato e ho trovato subito un uomo della nazionale con la ruota pronta. Solo dopo mi hanno detto che era Carlo Bomans (ex pro’ ed ex tecnico della nazionale, ndr). Nel giro precedente avevo visto che in quel punto c’era qualcuno con la felpa della nazionale. E dire che non foro quasi mai. Ho pensato che la sfortuna stesse per ricominciare e invece domenica se l’è presa con qualcun altro».

Ad Hasselt sotto il podio una folla oceanica: la vittoria di un corridore di casa ha fatto esplodere la festa
Ad Hasselt sotto il podio una folla oceanica: la vittoria di un corridore di casa ha fatto esplodere la festa

Il ciclismo che cambia

Ed è stato così che il velocista gentile ha marcato un bel punto a suo favore. Probabilmente questo non farà cambiare la considerazione generale nei suoi confronti, ma certo resta un bel punto a suo favore. 

«Sono un corridore cresciuto per gradi – ha raccontato – e forse sto crescendo ancora. Alcuni non mi considerano al livello dei migliori e noto che se non vieni elogiato dai media, sei destinato a rimanere piccolo. Io posso solo rispondere con i risultati. Il ciclismo è cambiato tanto negli ultimi dieci anni e a volte vedo juniores che lavorano più di quanto faccia io da professionista esperto a tempo pieno. Il livello delle gare è ogni anno più alto. Lo vedi dai numeri, dalle velocità in gara e quelle degli sprint. Guardate anche lo sprint di Hasselt. A 400 metri dal traguardo eravamo tutti lì, larghi quanto la strada, mentre una volta a quel punto della corsa c’era solo chi avrebbe fatto lo sprint. Per questo i tempi di lancio e posizionamento sono ancora più importanti. C’è sempre meno spazio e tanti fattori giocano un ruolo che può fare la differenza tra vincere o perdere».

Una foratura sul pavé, poi il salto di catena, ma alla fine Merlier e la sua bici ce l’hanno fatta
Una foratura sul pavé, poi il salto di catena, ma alla fine Merlier e la sua bici ce l’hanno fatta

Merlier è fatto così. La gentilezza, che a volte gli viene appuntata addosso quasi come un limite, fa parte di un modo di essere di cui va fiero. Nel confronto con gli altri sprinter forse paga in termini di immagine, ma di questa diversità si fa un vanto.

Il 2024 gli ha portato finora 15 vittorie e una maglia che potrà indossare ogni santo giorno sino al prossimo anno. Nessuna rivendicazione, salvo rispedire al mittente i dubbi di quanti credevano che il Belgio sarebbe tornato a casa con le ossa rotte. A lui sono bastati una chance e un solo compagno al fianco. Ma non era scontato che bastassero.

La storia di Trinca Colonel, ciclista un po’ per caso

18.09.2024
6 min
Salva

Una crescita esponenziale, quella di Monica Trinca Colonel, venticinquenne di Grosotto (Sondrio) della Bepink che a inizio stagione era un’autentica sconosciuta quando si presentò al via al Cycling Pro Costa del Almeria e ora viene addirittura dal podio finale a una corsa di prestigio come il Tour de l’Ardeche. Proprio prendendo spunto da quel risultato siamo venuti a conoscenza di una storia curiosa, quella di una ragazza che ha lasciato un posto sicuro per inseguire il suo sogno su due ruote.

La storia di Monica segue un filone abbastanza scontato: il fratello maggiore va in bici. Lei, che da bambina viene attratta da tutto quel divertimento, inizia a fare le gare per piccolini, dove non c’è differenziazione legata al sesso e segue tutta la trafila, con la passione che si fa strada sempre più nel suo cuore.

La valtellinese ha iniziato a gareggiare in Mtb, con buoni risultati fino alle categorie giovanili
La valtellinese ha iniziato a gareggiare in Mtb, con buoni risultati fino alle categorie giovanili

Bici in soffitta, c’è da studiare…

«Mio fratello ha continuato fino agli under 23 – racconta – poi dopo la maturità ha scelto di dedicarsi al lavoro e ha lasciato stare la bici. Io inizialmente pedalavo in mountain bike e su strada, ho fatto i due anni da esordiente poi mi sono dedicata solo alla mtb. Dalle mie parti è molto più frequentata, non c’era un team che mi seguisse su strada, non avevo stimoli per allenarmi, così ho continuato solo sulle ruote grasse.

«Poi però i miei nonni hanno iniziato a stare male e, tra il seguire loro e la scuola, non avevo più tempo per la bici e l’ho messa da parte. Mi sono diplomata alle superiori e mi sono trasferita a Milano per seguire il corso triennale da optometrista. Appena conseguita l’abilitazione ho subito trovato lavoro a Livigno. Ero quasi a casa, un lavoro sicuro che mi piaceva, avevo anche tempo per fare sport. Corsa a piedi, sci di fondo e sci alpinismo, mi sono sempre tenuta in forma, ma la bici non faceva parte della mia quotidianità».

Monica è nata il 21 maggio 1999 a Grosotto (So). Quest’anno ha fatto 50 giorni di corsa con 11 Top 10 (foto Ossola)
Monica è nata il 21 maggio 1999 a Grosotto (So). Quest’anno ha fatto 50 giorni di corsa con 11 Top 10 (foto Ossola)

Valori da professionista

Questo fino a 3-4 anni fa. Stando a Livigno, dove la bici è ormai di casa, la passione pian piano ha ricominciato ad affiorare: «Era più per divertimento, abbinavo la strada alla mountain bike ma privilegiavo quest’ultima che trovavo più rilassante. Nel frattempo però il mio ragazzo che è anche lui appassionato di bici, mi diceva che andavo davvero forte e che dovevo provare a fare qualche gara a livello amatoriale. Ho visto così che senza allenarmi specificamente ottenevo risultati, anche se durante la pausa pranzo dal lavoro riuscivo a dedicare solo un’oretta all’allenamento. Ma tanto bastava.

«Vedendo le mie prestazioni, il mio ragazzo mi ha detto che avevo un “motore” da corse professionistiche e dovevo almeno provarci, così un giorno mi ha portato a fare dei test ed effettivamente avevo valori inusuali per un’amatore. Iniziavo a pensarci: al negozio venivano spesso tanti ciclisti, anche professionisti e non posso negare che un po’ d’invidia la provavo, anche ripensando alle mie esperienze da piccola quando tutti mi dicevano che ero bravina. Così cresceva in me la voglia di provarci, ma sapevo che era difficile conciliare il ciclismo con il lavoro. Se lo prendi seriamente, devi fare una scelta. Era un salto nel buio».

Il podio del Tour de l’Ardeche, vinto da De Jong (NED) su Bunel (FRA) e Trinca Colonel
Il podio del Tour de l’Ardeche, vinto da De Jong (NED) su Bunel (FRA) e Trinca Colonel

Tante mail, risponde Zini

Monica ha preso così il coraggio a due mani e ha iniziato a scrivere a tutti i team. Risposte non ne arrivavano, quei dati non solleticavano la curiosità, almeno finché non sono passati al vaglio di Walter Zini, che ha deciso di conoscerla e di darle una chance.

«Ero al settimo cielo – riprende Monica – ho fatto un test specifico con loro e mi hanno confermato che avevo valori ideali per provare a gareggiare. Così mi sono licenziata e ho deciso di provarci, almeno per un paio d’anni».

Monica si è così ritrovata di punto in bianco proiettata in un mondo diverso dalla sua quotidianità, ben diverso da quello che aveva lasciato anni fa: «Non era lo stare in gruppo che mi spaventava, ho visto che da quel punto di vista le nozioni apprese sono subito riaffiorate e mi sono trovata bene. Mi sentivo però spaesata, facevo le gare senza neanche sapere dove fossi, che cosa stessi facendo. Man mano però vedevo che miglioravo, ogni prova era diversa dalla precedente, mi trovavo sempre più a mio agio e con numeri in costante miglioramento. La stagione è stata un crescendo sia dal punto di vista delle prestazioni che dell’impegno, trovandomi presto a gareggiare anche nel WorldTour».

La valtellinese ha ottime doti di scalatore, anche su salite lunghe, ma si difende bene anche a cronometro
La valtellinese ha ottime doti di scalatore, anche su salite lunghe, ma si difende bene anche a cronometro

Portata per le gare a tappe

Monica Trinca Colonel non si è certo risparmiata, considerando che ha fatto già 50 giorni di gara con 11 Top 10. La cosa che colpisce è che attraverso lei, la BePink si è ritrovata fra le mani un gioiello utile soprattutto nelle corse a tappe.

«Effettivamente ho capito che nelle gare di più giorni rendo meglio, perché ho ottime doti di resistenza e recupero, sono naturalmente portata. Poi mi piacciono le salite lunghe, quindi posso lottare per la classifica. Ma mi piacciono anche le corse d’un giorno, anzi penso che lì ho più margini di miglioramento».

Quando si è trovata a gareggiare nel WorldTour come ad esempio al Giro d’Italia non si è minimamente impaurita: «Il livello è diverso, più alto. E’ emozionante gareggiare contro le più forti al mondo, quel che impressiona è che vedi tutto più grande. Ma quando si è in gara si è sempre l’una contro l’altra, si parte tutte dallo stesso punto, poi vince chi ne ha di più. Non ho timori reverenziali, io faccio la mia parte».

La Strade Bianche è la gara che l’ha entusiasmata di più, pur senza grandi riscontri
La Strade Bianche è la gara che l’ha entusiasmata di più, pur senza grandi riscontri

Il sogno della Strade Bianche

La sua gara preferita? Curiosamente una corsa dove il risultato non è stato di quelli di spicco: «E’ la Strade Bianche, avevo sempre sognato di correrla e quest’anno mi sono ritrovata a farla, con tanta gente intorno che ti incita e ti dà la forza per superare ogni tratto difficile. Sono arrivata solo 38esima, ma è stata un’esperienza unica».

La sua stagione è stata un crescendo fino al podio in una gara di prestigio come il Tour de l’Ardeche: «Sapevo di poter far bene anche se non ero al massimo della forma. Ho mantenuto un livello costante e grazie a questo vedevo che in classifica miglioravo progressivamente, fino a conquistare il podio finale. E’ il miglior risultato stagionale, ma non voglio fermarmi qui».

Nella sua annata ben 8 corse WorldTour, un mondo dove si è subito adattata. Qui al Tour de Suisse
Nella sua annata ben 8 corse WorldTour, un mondo dove si è subito adattata. Qui al Tour de Suisse

Il diploma messo da parte

Poi comunque, vada come vada, c’è sempre quel diploma pronto nel cassetto: «L’abilitazione ce l’ho e in quel campo un lavoro si trova facilmente. So di avere un’alternativa e questo mi fa affrontare il tutto con più tranquillità, vada come vada».

Ancora su juniores e carichi di allenamenti. Parola a Notari

18.09.2024
6 min
Salva

Torna prepotente il tema degli allenamenti e degli juniores, categoria sempre più cruciale nel ciclismo, almeno in questa fase storica. 

L’età degli juniores è un momento spesso decisivo. In questo contesto sono ancora fresche le parole di Stefano Garzelli e quelle di Eros Capecchi dopo il Lunigiana.

E poiché l’argomento è caldo ne abbiamo parlato con un preparatore, Giacomo Notari, che tra l’altro è a stretto contatto con i giovani, in quanto coach della UAE Team Emirates Gen Z. E proprio lui aveva qualche sassolino da togliersi dopo il secondo posto del suo Pablo Torres al Tour de l’Avenir. Ma andiamo con ordine.

Il preparatore della UAE Emirates Gen Z, Giacomo Notari
Il preparatore della UAE Emirates Gen Z, Giacomo Notari
Giacomo, ripartiamo dal discorso delle ore di allenamento e le 25 ore che oggi fanno gli juniores…

Le ore di allenamento dicono tutto e niente: bisogna vedere cosa si fa in quel tempo. Fare 25 ore e portare a spasso la bici non ha senso. Una cosa che per me è, e resta, fondamentale è il modello prestativo per cui ci si deve allenare. Una gara juniores dura al massimo 2 ore e mezza, 3 in qualche caso. A cosa serve fare 5 ore? Se glielo si fa fare due volte l’anno, perché il ragazzo è curioso, vuole provare, va bene. Non è quello che incide. Ma se diventa la prassi no. Si va solo ad attivare un sistema che porta a bruciare le tappe sotto ogni punto di vista: tecnico e fisico.

Qual è dunque secondo te lo standard a cui dovrebbe attenersi uno junior? Ammesso che questo standard esista…

Anche in questo caso mi viene da dire: dipende. Quando un ragazzo fa 3 ore, 3 ore e 30′ al massimo è più che sufficiente. Anche perché fino a giugno va a scuola e pertanto ha già un impegno importante. Io direi che 12-14 ore a settimana possono andare bene.

E il giorno di scarico deve esserci?

E’ fondamentale ed è quello che si fa fatica a far capire ai ragazzi, che troppo spesso vanno troppo forte quando dovrebbero fare scarico. Questo poi non gli permette di recuperare veramente. Un recupero che non è solo fine a se stesso, ma che va pensato in vista delle fasi intensi, cioè i lavori specifici che dovrà fare. Le sessioni intense, quelle che magari simulano la prestazione in gara, servono e vanno fatte. E’ lì che bisogna andare forte. E se tu hai recuperato riesci a lavorare bene, migliori e vai più forte. Altrimenti se fai fatica a fare certi allenamenti non migliori molto.

Spesso i social portano ad emulazioni dai risvolti non sempre positivi
Spesso i social portano ad emulazioni dai risvolti non sempre positivi
Il recupero ti permette di assimilare il lavoro. E’ la supercompensazione, giusto?

Esatto. Poi ci possono essere dei periodi medio-brevi programmati di carico in cui si decide di recuperare meno, ma poi bisogna mollare e far respirare l’organismo. Specie quando si è giovani.

Il recupero, quando si parla di juniores, riguarda anche la crescita, non solo la condizione fisica?

Sì, ma se sto in bici 24-25 ore a settimana e in più ho la scuola e gli interessi che si possono avere a quell’età, non è facile recuperare. Sicuramente almeno un giorno a settimana di riposo totale serve. Lo fanno anche i pro’ ormai, figuriamoci i ragazzi.

Facciamo la parte del diavolo, Giacomo. E’ vero che bisogna rispettare i tempi di crescita e quant’altro, però è anche vero che se i ragazzi non raccolgono i risultati in questa fase, poi rischiano di restare a piedi. Forse spingere non è poi così sbagliato da un certo punto di vista.

E’ un’obiezione legittima. Oggi viviamo in un’epoca nella quale ognuno pensa di dire la sua, pur non avendo le conoscenze per farlo. E’ il mondo dei social media, ma quello che mi preme sottolineare, almeno nel caso italiano, è che diciamo sempre che non ci sono giovani. Ma in realtà è che non ci sono i tecnici validi. Tutto è nelle mani dei tecnici delle squadre giovanili.

Vai avanti…

Oggi i ragazzi vedono sulle varie piattaforme, per esempio Strava, quel che fanno i campioni o un loro coetaneo che va forte e cercano di replicarlo. Ma non sono sempre buoni esempi. Non è detto che le 25 ore di allenamento vadano bene per quel ragazzo. Ognuno ha i suoi tempi di crescita. Per questo dico che servono tecnici che sappiano individuare le giuste fasi dei carichi di lavoro e del recupero. Magari trovo un ragazzo che regge le 6 ore, gliele faccio fare e va forte. Poi passa under 23 si ritrova un tecnico che magari non gliele fa fare e finisce per “allenarsi di meno” e quindi non ha più margini di miglioramento.

E’ importante che i ragazzi e i tecnici gestiscano al meglio i carichi di lavoro in allenamento (foto Instagram – team Vangi)
E’ importante che i ragazzi e i tecnici gestiscano al meglio i carichi di lavoro in allenamento (foto Instagram – team Vangi)
Come la mettiamo con questa corsa ad anticipare i tempi?

Viviamo certamente un momento complicato. Ci sono meno squadre e si fa sempre più fatica a passare nella categoria successiva. Un allievo oggi fa fatica a passare junior ed è normale per certi aspetti che un ragazzo sia costretto a fare risultato, però per me è difficile accettare tutto ciò. Da tecnico oltre al volume di ore che accumuli è importante quel che fai, come ho detto prima. Porto l’esempio di Pablo Torres (under 23, ndr). Nella settimana che ha fatto di più quest’anno ha accumulato 20 ore e 30’… ed è arrivato secondo all’Avenir, non in una “corsetta”. Posso dire che a Livigno ho visto degli juniores, quindi ragazzi più piccoli di lui, fare 25 ore a settimana. Quindi è vero che c’è questa rincorsa ad anticipare i tempi per fare risultato e trovare una squadra buona (magari un devo team, ndr) ma non deve essere una scusa. Per questo insisto molto sui tecnici. Loro devono capire che non sono bravi se i ragazzi gli vincono 5-6 corse, ma sono bravi se fra 5 anni quelle vittorie le colgono tra i professionisti. Noi ci focalizziamo sull’albero e non sulla foresta che c’è intorno.

Però spesso questi tecnici lungimiranti militano nei migliori team, quelli che ti consentono di crescere con minor fretta…

Il problema per me è che nel ciclismo c’è gente che non è aggiornata. E’ nei giovanissimi, negli esordienti che serve un tecnico bravo. Ma per questo servono soldi e allora ci si appoggia ai pensionati. E, potrà sembrare una contraddizione, per fortuna che ci sono: altrimenti chi porterebbe avanti queste squadre? Però alla fine ci ritroviamo in questa situazione. Da noi Giaimi ha un contratto fino al 2026, io non gli tiro il collo. Che vinca la domenica mi importa relativamente. A me importa che maturi, che cresca come atleta a tutto tondo.

Correre va bene secondo Notari, purché con tempistiche ben ponderate (foto Giro Lunigiana)
Correre va bene secondo Notari, purché con tempistiche ben ponderate (foto Giro Lunigiana)
Ma Giaimi a quel punto in qualche modo è già “sistemato”. Sono i “non Giaimi” il problema. Lui è già in un devo team. Torniamo alla domanda di prima.

Infatti la coperta è corta. E’ un cane che si morde la coda. Il ragazzo vuole passare in un devo team e vuole anticipare i tempi. Ma il Lorenzo Finn della situazione andrebbe forte anche se facesse 18 ore a settimana. Lasciamogli il margine per l’anno dopo. Magari al primo anno da under 23 farà 20 ore, al secondo 22 e così via…

La soluzione?

La Federazione deve fare di più. I corsi per i tecnici sono fatti bene, molto bene, anche sul piano della preparazione, ma proprio per questo bisogna accertarsi che chi esce da questi corsi sia veramente preparato.

Chiaro…

Che s’imbastisse una tavola rotonda con i soggetti interessati per parlarne bene. E poi penso che il correre tutte le domeniche, come spesso si fa da noi, possa diventare un limite alla crescita dei ragazzi.

Perché?

Perché correndo tutte le settimane si ha una mentalità che è maggiormente orientata al risultato e contestualmente non permette di fare adeguati carichi di allenamento per migliorare, perché a quel bisogna recuperare per poter essere poi pronti alla domenica. Ci vorrebbero blocchi di gare di 3-4 settimane, magari anche con una gara a tappe, e blocchi di allenamento di 2-3 settimane senza gare. In queste settimane si può lavorare per la vera crescita dei ragazzi. Alla fine quello che ti fa migliorare veramente è l’allenamento, la gara è una cartina al tornasole.

L’ultima Vuelta di Gesink, Affini e il gusto per la bici

18.09.2024
5 min
Salva

Finita la Vuelta e dopo 18 stagioni da professionista, Robert Gesink ha appeso la bici al chiodo. Non è da tutti trascorrere l’intera carriera nello stesso gruppo: alla fine anche Ulissi ha dovuto rassegnarsi e ha lasciato la UAE Emirates. L’olandese c’è riuscito, con l’aggiunta di un anno nella continental della Rabobank: il team di sviluppo di cui il team si era dotato ben prima di altri.

Con lui alla Vuelta e nei mesi della preparazione, c’era anche Edoardo Affini. Il fresco campione europeo della cronometro ha trascorso la corsa spagnola tirando per Van Aert (finché c’è stato) e mettendo nelle gambe la fatica per le sfide di Hasselt. Però intanto ha potuto osservare gli ultimi giorni da corridore di Gesink e il modo in cui la squadra di sempre lo ha accompagnato alla pensione.

«La sera dell’ultima tappa di montagna – racconta Affini – ci siamo bevuti un bicchiere di vino, perché il giorno dopo c’era la crono, quindi non è che si potesse fare chissà cosa. Invece la domenica sera, siamo stati fuori a mangiare e c’è stato un momento un po’ più rilassato con la squadra e tutto lo staff. Abbiamo fatto un po’ di cinema. Qualcuno ha raccontato degli aneddoti. C’erano i vari capi, poi Robert ha ringraziato tutte le persone che gli sono state vicine durante il percorso, la famiglia e i vari allenatori. Quello è stato il momento della chiusura.

«Invece al via di Lisbona – prosegue Affini – la squadra gli aveva consegnato due bici personalizzate. Sul tubo orizzontale c’erano i vari colori delle maglie che ha indossato nello stesso gruppo. Quindi per esempio l’arancione della Rabobank, il verde della Belkin, il blu di Blanco. Gli hanno fatto la bici da strada e anche quella da cono, in modo che gli resti il ricordo degli ultimi 18 anni».

Sei arrivato nella squadra olandese che Gesink era già in una fase discendente della carriera. Che ruolo ha avuto nel tuo inserimento?

Ci tiene a darti una mano. Essendoci praticamente nato, sa benissimo come lavora tutta l’organizzazione, quindi è stato un buon punto di riferimento per chi, come me, era appena entrato in squadra. L’ho sempre considerato un punto di contatto tra i corridori, i direttori e i manager. E’ comunque uno che si ascolta volentieri.

Cosa sapevi di lui quando nel 2021 sei arrivato alla Jumbo-Visma?

Quando sono passato professionista, aveva già iniziato la carriera da gregario e comunque era uno degli uomini di fiducia dei vari capitani. Però sapevo che era stato una delle grandi speranze del ciclismo olandese. Purtroppo però, ha avuto diversi infortuni che l’hanno segnato. E da quel momento è iniziata la transizione da capitano o comunque da leader a uomo squadra. Che poi si può essere un leader anche nel ruolo di uomo squadra, non solo per i risultati, mettiamola così.

Tra le vittorie più belle di Gesink, la tappa dell’Aubisque alla Vuelta 2016
Tra le vittorie più belle di Gesink, la tappa dell’Aubisque alla Vuelta 2016
Avete fatto insieme la Vuelta, avreste dovuto fare il Giro…

Dovevamo fare il Giro l’anno scorso, però si è ammalato. Dovevamo fare il Giro quest’anno ed è partito, però si è ritirato alla prima tappa per la caduta di Torino. Siamo partiti insieme alla Vuelta del 2022 e per un po’ l’abbiamo fatta assieme, poi però io sono dovuto andare a casa perché ero positivo al Covid. Quindi guardando il quadro completo, con lui ho fatto soltanto la Vuelta del 2024. In compenso, negli ultimi due mesi penso di aver visto più lui che la mia compagna.

Come mai?

Abbiamo fatto il ritiro a Tignes, quindi tre settimane insieme nello stesso appartamento. Poi siamo andati a Burgos e da lì alla Vuelta. Diciamo che ho vissuto molto da vicino i suoi ultimi due mesi da corridore. Eppure negli allenamenti e nella quotidianità non ho visto assolutamente alcun tipo di differenza. Super professionale, super motivato in qualsiasi aspetto. Sulla bici, giù dalla bici, negli esercizi a corpo libero prima di partire e anche dopo. Era sempre sul pezzo, non ha mollato proprio niente.

Pare sia sempre stata la sua grande qualità…

Infatti da quello che mi raccontano i miei compagni e quelli che l’hanno vissuto anche prima, Robert è sempre stato un corridore ultra professionale. E’ un grande amante della bici. Infatti scherziamo spesso o comunque abbiamo scherzato spesso sul fatto che adesso finalmente non dovrà più seguire una tabella, ma potrà fare tutte le ore che vuole. Finora magari c’era l’allenatore che gli diceva di non fare sei ore, ma di farne quattro con una serie di lavori specifici.

Invece adesso?

Invece adesso può prendere la bici e farci tutti i chilometri che vuole. Non credo che si metterà a correre in gravel come Valverde, ma adesso se vuole, può uscire la mattina e rientrare la sera. Abbiamo iniziato a prenderlo in giro sul bus, prima della tappa del sabato, l’ultima di montagna. «Dai che oggi è l’ultima volta che attacchi il numero, l’ultima volta che sei in gruppo. Divertiti!». Tutte stupidate così. Tanto lui sta allo scherzo. Non so cosa farà, ma di certo non scenderà dalla bici.

Magnus Cort, l’esempio di un “non big” che sa vincere…

17.09.2024
6 min
Salva

Da inizio agosto, Magnus Cort ha ottenuto qualcosa come 10 piazzamenti nella Top 10, fra cui 3 vittorie e 6 podi. Niente male per un 31enne che frequenta i piani alti del ciclismo dal 2014, avendo girato fra molti team del WorldTour fino ad approdare quest’anno alla Uno-X. Un passo indietro, che però è solo sulla carta perché il danese proprio nel team professional (che d’altro canto fa praticamente tutte le corse della massima serie) ha trovato la sua dimensione.

Risultati di spicco che intanto gli hanno spalancato ancora una volta le porte della nazionale per i prossimi mondiali e poi lo hanno reso anche più aperto e disponibile, tanto da non sorprendersi troppo per il contatto specifico arrivato dall’Italia. Cort si è messo a disposizione per raccontare la sua nuova realtà, quella di uno dei corridori che, pur non facendo parte dei “magnifici sei”, sa prendersi soddisfazioni importanti. Una figura di quelle che farebbero tanto comodo al nostro ciclismo attuale…

Per Cort quest’anno già 69 giorni di gara con 19 Top 10 tra cui 4 vittorie
Per Cort quest’anno già 69 giorni di gara con 19 Top 10 tra cui 4 vittorie
Dopo il Tour de France hai ottenuto molti grandi risultati tra Norvegia e Danimarca, con la vittoria all’Arctic Race of Norway e la piazza d’onore nel Giro del tuo Paese. Ti aspettavi una condizione simile?

Penso che sia sempre un po’ complicato uscire da un Grande Giro e poi continuare a fare bene. Io sono super, super contento dei risultati che ho ottenuto. Sapevo di avere una buona condizione, ma farla fruttare è un altro discorso, inoltre i risultati sono arrivati in un lasso di tempo abbastanza lungo, con un 7° posto nella tappa inaugurale in Norvegia il 4 agosto fino al podio della Bretagne Classic del 25.

Quanto hanno influito le tre settimane del Tour per farti migliorare la tua condizione?

Ah, penso molto di sicuro. In un grande Giro ci sono sempre giornate difficili, completare tre settimane di gara non è mai semplice. Dico la verità, non mi alleno così duramente come faccio nelle gare come il Tour e il Giro. Una corsa di quel livello, così dura, così lunga ha un impatto molto, molto forte sul tuo corpo.

Il podio del Bretagne Classic con Hirschi vincitore su Magnier e Cort, al 10° podio in 21 giorni
Il podio del Bretagne Classic con Hirschi vincitore su Magnier e Cort, al 10° podio in 21 giorni
Tra il secondo posto al Giro di Danimarca e il terzo alla Bretagne Classic ti è rimasto un po’ di rammarico per una vittoria sfuggita?

Quando non vinci ma ci vai vicino, il rammarico c’è sempre, facciamo uno sport dove conta chi vince, c’è poco da fare. Penso che in entrambi gli scenari indicati ho fatto quello che potevo e sento che in Danimarca la vittoria era davvero a un passo. Si è giocato tutto sul filo dei secondi, prima della partenza dell’ultima tappa ne avevo 5 di ritardo da De Lie, ho provato a dare la caccia ai bonus dei traguardi volanti e c’ero quasi, nella volata finale ero forse a meno di mezza ruota dal 2° posto invece che dal terzo. Avrei vinto. Ma devo anche essere contento. I miei responsabili del team mi hanno fatto i complimenti, erano soddisfatti. Doveva andare così… In Francia ero invece molto contento di salire sul podio, anche se si lavora per vincere la gara.

Sei nel WorldTour dal 2014, quanto è cambiato in questi 10 anni?

È difficile dirlo perché i cambiamenti arrivano lentamente. Una cosa che sento spesso dire è che le squadre devono fare squadra, usando un gioco di parole. Quindi nella parte più noiosa della gara vedi il gruppo in una lunga fila con tutti e 7 i corridori di ogni team spesso allineati uno dietro l’altro. Si lavora, quando invece qualche anno fa si stava in gruppo, si chiacchierava, si controllavano i visi degli avversari, si ragionava sul da farsi. Ora siamo in fila come in Danimarca ed essendo una grande squadra siamo sempre davanti al gruppo o quasi. Non c’è pace, quindi è cambiato.

Cort e De Lie si sono giocati il PostNord Danmark Rundt sul filo dei secondi
Cort e De Lie si sono giocati il PostNord Danmark Rundt sul filo dei secondi
Come si trova un danese in un team come l’Uno-X che rappresenta quasi una nazionale norvegese?

Penso che sia davvero bello perché capisci che è più facile diventare amici stretti. Già quando sono entrato nel team, potevo sentire che molti dei ragazzi erano molto uniti. E mi sono integrato bene, c’è un bel legame fra norvegesi e danesi. Quando ci organizziamo per andare alle gare, sembra quasi di uscire con i tuoi amici. Non sono solo i tuoi colleghi, ma i tuoi amici. Il fatto che nel team ci siano solo due nazionalità forse aiuta, dà un’identità chiara. Oltretutto abbiamo una cultura molto simile.

Quanto sarebbe utile un team danese nel WorldTour?

Difficile a dirsi. Io che ho qualche anno sulle spalle ricordo che nei miei primi anni c’era una squadra di riferimento, prima che io diventassi professionista. In quel tempo c’erano grandi talenti juniores e non sempre riuscivano a sbocciare. Molte persone avevano paura quando quella squadra chiuse, cosa sarebbe successo al movimento, ma poi si è scoperto che chi aveva qualità trovava sempre la sua strada e sai perché? Perché così hai tante più opzioni a disposizione, prima c’era come una scelta predefinita dove approdare.

Il 31enne di Ronne alla Vuelta 2016, dove centrò due successi sull’onda della vittoria in Danimarca
Il 31enne di Ronne alla Vuelta 2016, dove centrò due successi sull’onda della vittoria in Danimarca
Hai vinto l’Arctic Race e sei stato secondo in Danimarca: stai diventando un corridore da corse a tappe che punta alla classifica?

No, è solo frutto di percorsi morbidi, penso che saranno ancora improponibili le corse con le grandi tappe di montagna. Non è la prima volta che faccio classifica in Danimarca, lo ero già stato nel 2016 ed era la prima volta che facevo una corsa a tappe professionistica importante. Quella fu come una grande vittoria per me.

Ai mondiali senza Vingegaard come pensi che sarà la tattica della tua nazionale e quale ruolo avrai?
La vittoria del danese a Megeve al Tour 2022, battendo Schultz, il suo secondo centro in Francia

Penso che le cose non siano ancora decise. Ne parleremo quando saremo insieme. Sappiamo che senza Jonas dovremo trovare una tattica diversa e che cambierà anche il mio ruolo. Ma sono sicuro che avremo una squadra molto forte e competitiva.

Tu hai ancora due anni di contratto, che cosa ti aspetti ora?

Innanzitutto speriamo di andare al Tour de France e voglio davvero tornarci e vincere come nel 2018 e 2022, perché non c’è due senza tre…

Iridato a Glasgow, due medaglie a Parigi: ora Testa punta Zurigo

17.09.2024
4 min
Salva

MISANO ADIRATICO – «Quest’anno c’è stato un bel ricambio di atleti – dice Mirko Testa – stanno entrando un po’ di nuove leve. Sta cambiando un po’ il giro della nazionale. Stanno cominciando a provare sempre più atleti giovani. E’ bello, è bello per il movimento, è bello per lo sport, si sta evolvendo tutto. Si alza il livello e stiamo cambiando anche maniera di vivere lo sport, secondo me siamo nella direzione giusta».

Italian Bike Festival è stato una centrifuga di incontri unici. Ed è stato così che sabato pomeriggio presso lo stand di Eevye abbiamo incontrato Mirko Testa, bronzo nella cronometro paralimpica di Parigi (foto Coni in apertura). Uno così ti dà i brividi per la grinta che ci mette. Correva nel motocross e proprio durante una gara cadde e riportò la lesione spinale che l’ha costretto sulla sedia. Eppure un mese e mezzo dopo essere uscito dall’ospedale fece la prima gara in hand bike e l’anno dopo vinse il Giro d’Italia. Lo scorso anno a Glasgow ha vinto il campionato del mondo e a Parigi, oltre al bronzo individuale, ha raggiunto l’argento nella staffetta.

Mirko guarda fisso e sprigiona energia. La gente chiede la foto, i giganti delle Paralimpiadi stanno entrando sempre più forte negli orizzonti degli altri. E lo scintillare di una medaglia olimpica non è qualcosa di fronte cui si possa rimanere indifferenti.

Cosa rimane dopo Parigi?

Tanta emozione! Sinceramente non mi aspettavo una gara così, perché è andata veramente oltre le mie aspettative. Puntavo a fare bene, ci arrivavo da campione del mondo in carica, quindi una top 5 la volevo sicuramente. Mi sono preparato bene, però le Olimpiadi sono le Olimpiadi e non si sa mai cosa succede. Sono contento. Sono riuscito a ottenere un bel bronzo e i due francesi che mi sono arrivati davanti hanno fatto un bel gioco di squadra. E’ giusto che abbiano fatto primo e secondo. Più o meno, insomma… (ride, ndr). Io sono contento del mio bronzo e dell’argento nella staffetta, che è bello perché una medaglia di squadra.

Hai parlato di nuove leve e anche la staffetta a modo sua era tutta nuova…

Infatti siamo partiti un po’ sfavoriti, perché era una squadra nuova, mai provata. Però ci siamo divertiti ed è uscito anche un bel risultato.

Lo scorso anno a Glasgow, Mirko Testa ha conquistato il mondiale della cronometro H3 (foto FCI)
Lo scorso anno a Glasgow, Mirko Testa ha conquistato il mondiale della cronometro H3 (foto FCI)
Sei arrivato da campione del mondo, quanto è più alto il livello olimpico rispetto a un mondiale?

E’ completamente diverso. Devo dire che io mi sono preparato molto di più che al mondiale dello scorso anno, stavo molto meglio, andavo molto più forte. Però ho visto che anche gli altri erano molto più veloci rispetto a Glasgow. Giustamente si arriva al top del top della forma, è un evento che capita una volta ogni quattro anni. Il livello è veramente alto.

La stagione non è ancora finita, c’è tanto per cui combattere…

Infatti fra pochi giorni c’è il mondiale a Zurigo. E’ bello perché corriamo con i pro’ come l’anno scorso in Scozia. Questa unificazione secondo me servirà anche per far crescere ulteriormente il movimento, servirà a far vedere anche noi. Vado da campione del mondo, le aspettative sono alte, farò il massimo. Il percorso è molto duro. Facciamo un primo pezzo sul percorso degli elite e poi usciamo e per fortuna facciamo un tratto un po’ più facile. Comunque saranno 1.200 di dislivello che, pedalando con le braccia, si faranno sentire.

Poi andrai in vacanza?

Poi vacanze, esatto. Stacchiamo e la bici per un periodo non la voglio più vedere. Gli impegni del prossimo anno sono ancora in via di definizione. Le Coppe del mondo non credo siano ancora tutte fissate, se ne conosce al massimo un paio. L’unica cosa certa è il mondiale. Confido che per quando riprenderò ad allenarmi, se ne saprà di più.

Capecchi e gli juniores: «Impossibile tornare indietro»

17.09.2024
5 min
Salva

SESTRI LEVANTE – Il tema che riguarda la categoria juniores è caldo e va affrontato con la dovuta calma e attenzione. Da un lato c’è chi ha paura di “bruciare” i ragazzi e vorrebbe preservarne il talento e le qualità. Aumentare ora i carichi di allenamento serve per vincere nel breve termine ma una carriera di un corridore prende forma e peso più avanti dei 18 anni. Vincere un Giro della Lunigiana è bello, fa piacere e riempie la bocca di chi questi ragazzi li cresce, ma poi c’è il futuro a cui pensare. Le categorie giovanili servono per formare il corridore, dargli una mano così che possa imparare a gestire determinate dinamiche. 

In Italia ci sono due fazioni, chi vede l’attività odierna come un’esasperazione e chi crede sia la giusta via. Quest’ultimi spesso sono coloro che sulle vittorie dei ragazzi ci vivono, costruendo gloria personale e affermandosi come tecnici di livello. Ma se tutti coloro che gestiscono questi ragazzi pensano a tirare fuori il massimo, chi arriverà alla fine si ritroverà tra le mani solamente il nocciolo

Le squadre satellite hanno una programmazione diversa, con periodi di carico e poi una serie di gare
Le squadre satellite hanno una programmazione diversa, con periodi di carico e poi una serie di gare

Cambiare obiettivi

Eros Capecchi di anni da professionista ne ha messi alle spalle ben 16, il suo primo anno con i grandi è stato il 2006, nelle fila della Liquigas, a soli 20 anni. Il punto su cui ci si deve concentrare non è l’età in cui si diventa professionisti, anche se un minimo di attenzione non guasta mai, ma l’attività proposta.

 «A mio modo di vedere stiamo faticando a fare un cambio di mentalità – dice il tecnico del CR Umbria – dal punto di vista delle preparazioni. Siamo molto conservativi, non “spremiamo” troppo i ragazzi. Ma secondo me quello che stiamo facendo non è spremerli troppo, bensì spremerli male. 

«Se li si prepara atleticamente e fisicamente a quello che ora trovano in corsa non c’è il rischio di finirli. Questo accade se vanno in gara e non vedono mai l’arrivo, perché allenarsi diventa sempre più un sacrificio e fare la vita da corridore pesa ancora di più. Si potrebbe rivedere la programmazione dei calendari, come fanno all’estero».

Se ne è accorto Lorenzo Finn quest’anno con la Grenke Auto Eder (foto Zoé Soullard/DirectVelo)
Se ne è accorto Lorenzo Finn quest’anno con la Grenke Auto Eder (foto Zoé Soullard/DirectVelo)
Quindi periodo di gare e poi riposo e allenamento, una calendarizzazione degli impegni.

Sarebbe importante anche con chi delibera le corse, i comitati o anche più in alto la Federazione stessa, dire: «Facciamo sei o sette corse organizzate bene in un periodo limitato, un mese ad esempio, e poi un mese di riposo». In modo tale che chi deve preparare i ragazzi riesce a lavorare e dare quelle ore di cui hanno bisogno. In questo modo si aumenta il livello generale degli juniores, consegnando al cittì della nazionale corridori che sanno reggere determinati carichi di lavoro. 

Per avere una maggiore concentrazione degli impegni servirebbero più corse a tappe, che fanno tanto per la crescita dei ragazzi.

Ce ne siamo resi conto lo scorso anno, un nostro ragazzo è andato in fuga all’ultimo giorno dopo quattro tappe. La domenica successiva ha vinto. Il lavoro che fai in una corsa di più giorni è impagabile, ne parlavo con lo stesso Salvoldi. Se si riuscissero a unire le diverse gare di un giorno in appuntamenti unici, faremmo un grande passo in avanti.

In Italia uno dei migliori juniores è Bessega, che però ha il doppio dei giorni di corsa di Finn e Seixas: 44
In Italia uno dei migliori juniores è Bessega, che però ha il doppio dei giorni di corsa di Finn e Seixas: 44
Senza però eccedere nel lavoro a casa…

Ormai gli juniores che vanno forte si allenano 23-25 ore alla settimana, quindi se si vuole raggiungere quel livello l’impegno da mettere è questo. La nazionale che va in ritiro a Livigno e mette insieme 25 ore di allenamento a settimana è per arrivare a una condizione pari rispetto a chi vince ora. Se quattro ragazzi lavorano così tanto, purtroppo, bisogna adeguarsi per essere competitivi. E’ brutto da dire ma se si pensa al bene dei ragazzi, si rischia di non farli diventare corridori, perché il trend è questo e ormai è partito.

Da noi è Finn quello che fa un’attività del genere, a livello di programmazione.

Lui è il riferimento del ciclismo giovanile e lavora in un modo intelligente, meticoloso e impostando gli allenamenti mese per mese. E’ la dimostrazione che si può migliorare allenando bene i ragazzi, senza bruciarli. Questo accade se noi non li mettiamo nelle condizioni, fisiche e atletiche, di confrontarsi a livello nazionale e internazionale con i migliori. 

Capecchi si è detto d’accordo con le parole di Garzelli, ma per lui il trend ormai non si può invertire
Capecchi si è detto d’accordo con le parole di Garzelli, ma per lui il trend ormai non si può invertire
Però se si parla di livello internazionale, si deve anche fare attività all’estero allora…

Intanto noi dobbiamo alzare il livello nazionale. Questo dà un beneficio interno alla categoria perché tutti migliorano, bisogna farlo però con gare da 120-130 corridori, non da 50. Se si riesce a organizzare bene il calendario, si dà alle squadre il modo di muoversi contenendo le spese perché glielo si fa fare una volta sola e non tutte le settimane. 

Perché entra in gioco anche il discorso dei budget che sono estremamente limitati. 

Qui appena metti in moto il furgone e due ammiraglie spendi 500 o 600 euro. Reperire il personale non è così facile, io posso muovermi perché ho un’azienda di famiglia e riesco a ritagliarmi dei giorni per seguire i ragazzi. Ma altri rinunciano. Le leggi fatte sui contributi legati a chi collabora con le attività sportive sta ammazzando i team. Anche per un niente si arriva a tassazioni maggiori e allora la gente preferisce tirarsi indietro perché non conviene.

Petacchi, rivediamo insieme la volata di Hasselt

17.09.2024
6 min
Salva

Tutto bene fino a 200 metri dall’arrivo, poi il patatrac e il titolo europeo va a Merlier con gli azzurri fuori dai primi 10. Poche parole per sintetizzare la corsa di Hasselt, ma riavvolgendo il nastro, la prova continentale ha detto molto di più. Certo, è facile giudicare col senno di poi, le vittorie arrivano sempre quando tutti i tasselli vanno a innestarsi perfettamente come in un puzzle e questo alla nazionale italiana non è riuscito. Rianalizzare la corsa serve però anche per capire non solo dove si è sbagliato, ma come funziona, nei particolari, la costruzione di una volata. Abbiamo rivissuto le ultime fasi dell’europeo sottoponendo a Alessandro Petacchi, che di volate se ne intende come pochi altri al mondo, 5 momenti specifici, attraverso i quali capire che cosa è successo e poteva/doveva succedere.

L’europeo in 5 fotogrammi dalla telecronaca Rai: qui il prezioso lavoro di Affini e Cattaneo
L’europeo in 5 fotogrammi dalla telecronaca Rai: qui il prezioso lavoro di Affini e Cattaneo

Il lavoro dei cronomen

Fino ai -2 chilometri, la squadra italiana aveva tenuto in mano le redini della corsa, questo almeno sembra trasparire dalle immagini televisive, quando Affini lascia le redini del treno azzurro a Cattaneo (parliamo dell’oro e del bronzo a cronometro…).

«Non dobbiamo però dimenticare – dice Petacchi – che poco prima la squadra azzurra, proprio attraverso loro due, aveva disinnescato la fuga dei 6 con Van der Poel, Pedersen e Laporte. Uno sforzo pesante che gli italiani si sono accollati appieno e questo è costato tante energie. Affini sarebbe stato utilissimo più avanti. Con la forma che aveva, poteva essere uno degli ultimi vagoni potendo portare Trentin e Ballerini ancora più vicini all’arrivo per il loro lavoro. Ma questa è la classica cosa che si può dire a posteriori.

«L’Italia d’altronde aveva una tattica obbligata – prosegue Petacchi – portare la corsa allo sprint. Era giusto, se hai un uomo come Milan in quella condizione. Era una tattica condivisa da tutti, non è che il cittì imponga. Il problema è che così la tattica era conosciuta anche dagli avversari, ma d’altro canto anche altre nazionali puntavano sulla volata, come il Belgio. Solo che i padroni di casa hanno rischiato lasciando fare agli italiani e alla fine hanno avuto ragione. A noi sarebbe servito avere un uomo in quella fuga: Trentin era deputato a seguire VDP come un’ombra, ma ci sta che ti può anche sfuggire».

Trentin ha preso in mano il treno azzurro, lanciandolo in velocità. Per ora tutto funziona
Trentin ha preso in mano il treno azzurro, lanciandolo in velocità. Per ora tutto funziona

L’impegno di Trentin

«Lungi da me l’idea di tirargli la croce addosso – ci tiene a sottolineare Petacchi – Matteo ha fatto un grandissimo lavoro e si vede quando il treno passa nelle sue mani. Ha svolto il compito in maniera magistrale, rispettando tutti i canoni della volata: si sposta al lato della strada consentendo ai componenti della fila azzurra di controllare solo una parte della carreggiata. Inoltre tiene una velocità altissima tanto che si vede la fila azzurra e dietro un gruppo sparuto, quelli che sono rimasti: gli altri treni. Lì però è emerso un fattore che sarà decisivo: il vento contrario. Venendo da dietro, quando vai avanti hai maggiore agio rispetto a chi tira che va controvento e ha consumato molte energie in più. Risalire è facile e infatti si vede il Belgio che rapidamente recupera».

Proprio il vento ha impedito a Trentin di mantenere la velocità alta quanto avrebbe voluto: «Il percorso era tutto rettilineo, aveva vento in faccia. Se si guarda Ballerini dietro di lui riesce a respingere una prima volta un belga, ma da dietro stavano comunque recuperando anche altri, proprio perché è più facile in quelle condizioni venire fuori da dietro».

Davide Ballerini si danna l’anima e rilancia, ma il Belgio sta venendo su al riparo dal vento contrario
Davide Ballerini si danna l’anima e rilancia, ma il Belgio sta venendo su al riparo dal vento contrario

Ballerini e la velocità

Quando Trentin si fa da parte, Ballerini prova a rilanciare, si alza anche sui pedali, ma la situazione si è fatta già più intricata.

«Il percorso stava cominciando a cambiare – avverte Petacchi – era infatti prevista nell’ultimo chilometro una sorta di chicane, ossia una curva a destra e subito a sinistra. “Ballero” ha tenuto alta l’andatura, ma il Belgio ha messo un uomo per risalire il gruppo e uno per sorpassare, sfruttando anche il fatto che avevano più uomini a disposizione. Questo ha permesso anche di far giocare le proprie carte sia a Merlier che a Philipsen. Ballerini il lavoro lo ha fatto bene, anche quando si è tirato da parte per lasciar libero Consonni, ma venendo da dietro un belga si era intanto messo davanti a Simone».

Consonni è davanti a Milan, ma i belgi gli vanno a tappare la strada. La corsa azzurra finisce lì…
Consonni è davanti a Milan, ma i belgi gli vanno a tappare la strada. La corsa azzurra finisce lì…

Le difficoltà di Consonni

Simone, se si guarda bene il suo lancio dello sprint, era stato bravo a ritrovare il varco all’estrema sinistra, il fatto è che dietro Milan non c’era più e Petacchi lo specifica.

«Il problema è stato lì – dice – si sono persi. Probabilmente Jonathan si è toccato a destra con qualcuno, perché seguendo l’azione del Belgio anche altri corridori si erano frapposti. Ad esempio Laporte si era portato avanti e avrebbe anche lui bloccato sul nascere l’azione di Milan. Consonni non ha sbagliato, sono stati i belgi a fare tutto nel modo giusto e Milan a destra non poteva più uscire. Magari quando Ballerini si è tirato via bisognava spingere a tutta, ma c’era vento.

«Lo si vede anche dal fatto che la volata è a ventaglio – continua Petacchi – e chi veniva da dietro era favorito. Forse Jonathan poteva essere un po’ più a destra di Consonni al passaggio fra Ballerini e quest’ultimo, ma sono ipotesi. In quella situazione, Milan la volata non ha proprio potuto farla, ha provato 2-3 volte ma era sempre stoppato».

Simone ha ritrovato strada libera, solo che Milan ormai è alla sua destra, con un muro davanti
Simone ha ritrovato strada libera, solo che Milan ormai è alla sua destra, con un muro davanti

La gamba di Milan

Molti osservatori hanno sentenziato che l’olimpionico non avesse la gamba giusta per la volata: «E come si fa a dirlo se la volata non ha potuto farla? Per me il vento ha giocato un ruolo decisivo: guardate Merlier come viene su, lo stesso dicasi per Kooij, mentre Philipsen non ha avuto quel cambio di ritmo che gli è riconosciuto. Tim è uno che adora questo tipo di sprint, aveva gambe eccezionali e sa scegliere il tempo giusto per saltar fuori.

«Io dico che un giudizio su Milan non si può proprio dare, perché la volata non si è messa in maniera tale da permettergli di emergere. Non ci sono stati grandi errori da parte azzurra, ma piccole mancanze che alla fine hanno pesato. Si era scelta una tattica, ma non ha pagato».

Basso, gli juniores e la Polti che aspetta il colpo grosso

17.09.2024
6 min
Salva

MISANO ADRIATICO – Ivan Basso è circondato dai tifosi che chiedono firme e foto. Il richiamo del campione è immutato anche ora che ha smesso da quasi dieci anni. L’Italian Bike Festival è l’occasione per mostrare le Aurum Bikes, che ha ideato assieme a Contador e sono appena sbarcate sul mercato italiano. La Fundacion Contador, il cui organico costituisce la base del Team Polti-Kometa, ha annunciato una riorganizzazione: spariscono gli under 23 e si punta tutto sugli juniores. Oltre alle spiegazioni fornite con la comunicazione dei primi di agosto, è interessante sentire al riguardo il parere di Ivan. Quale futuro immagina per la sua squadra? Due sgabelli in un angolo dello stand sono il posto giusto per entrare nel discorso.

Giro d’Italia, Basso con Matteo Fabbro: per lui una stagione al di sotto delle attese
Giro d’Italia, Basso con Matteo Fabbro: per lui una stagione al di sotto delle attese
Perché questa decisione?

E’ stata presa dopo una riflessione molto lunga e profonda sul reclutamento dei nuovi talenti. Osservando i risultati che abbiamo avuto dall’ultima ondata di ragazzi, abbiamo capito che qualcosa sta cambiando, andando verso il potenziamento della categoria under 19. Questo ci ha fatto pensare che è meglio fare una squadra juniores potenziata e far passare gli under 23 più bravi direttamente tra i professionisti. Può essere un rischio per qualche ragazzo che non si sia ancora espresso nella categoria, ma in cui vediamo il potenziale necessario.

Anche per evitare che gli under 19 migliori vengano portati via da qualcun altro?

Da un paio d’anni c’è la tendenza per cui lo junior più forte e vincente va in una WorldTour. Quello un pochino sotto va nel devo team di una WorldTour. Mentre quello ancora un pochino sotto sceglie fra le due professional italiane. Questa cosa ci ha fatto capire che fosse giusto prendere una decisione e così abbiamo fatto.

Puoi dire di essere pienamente soddisfatto della stagione della squadra?

Siamo contenti perché la squadra ha espresso quasi sempre il massimo di quello che poteva. Abbiamo partecipato a un calendario di primissima fascia, in cui le gare principali sono finite alle stesse due, tre squadre, mentre ce ne sono altre 22 che non hanno vinto e tra queste ci siamo anche noi. Alcuni atleti sono andati meglio di quanto ci aspettassimo, altri hanno reso meno, per cui forse non sta andando esattamente come vorremmo. Sicuramente potevamo fare meglio.

Maestri è il leader del Team Polti: di recente ha vinto il titolo europeo del mixed team relay
Maestri è il leader del Team Polti: di recente ha vinto il titolo europeo del mixed team relay
Cosa vorreste?

Vogliamo crescere, andare avanti, vogliamo fare meglio. Dobbiamo anche guardare il rapporto tra investimento e risultati, che non vale solo nel calcio. Quando lavori con corridori che devono crescere, fai un certo tipo di lavoro e hai un costo. Se devi prendere corridori che garantiscono vittorie, ne hai un altro.

Prendere corridori che garantiscono il risultato potrebbe diventare una necessità?

Lo è già. Il problema è che in questo momento non abbiamo le risorse sufficienti. Voglio ringraziare i miei sponsor e quelli che con ogni probabilità ci seguiranno, perché ci hanno permesso di mantenere i corridori che abbiamo. Non era assolutamente scontato riuscire a tenere Piganzoli (foto di apertura, ndr). Non era assolutamente scontato tenere Lonardi. L’alternativa sarebbe stata aprire un nuovo ciclo, sapendo che ci sarebbe stata una differenza.

Quale?

Nel ciclo aperto con Piganzoli, i migliori under 23 volevano venire con noi. Se aprissimo un nuovo ciclo adesso, probabilmente non prenderemmo i migliori under 23. Però vi chiedo: quante squadre WorldTour quattro anni fa avrebbero preso Piganzoli? Nessuna, probabilmente. Davide è arrivato al professionismo con due vittorie e altre due le ha vinte da professionista, quindi quattro vittorie in tutta la sua carriera. Cosa vuol dire? Vuol dire che stiamo lavorando per tirare fuori un corridore che con orgoglio siamo riusciti far passare, nonostante non avesse un palmares eccellente. Questo fa sperare che alcuni di quelli che abbiamo adesso in organico, magari domani potrebbero venire fuori bene. Poi, ovvio… di Nibali non ne nasce uno ogni biennio.

Per Lonardi, una vittoria per ora nel 2024, ma tanti piazzamenti in maglia Polti-Kometa
Per Lonardi, una vittoria per ora nel 2024, ma tanti piazzamenti in maglia Polti-Kometa
Piganzoli quest’anno ha fatto la prima altura in vita sua. E’ andato bene al Giro. Ci sta che nel 2025 spingiate di più sul gas?

Sì, sì, non c’è dubbio. “Piga” è un atleta che sa fare benissimo il mestiere del corridore che vince e può diventare un campione. Ha fatto un gran bel Giro d’Italia, diverso da quello di Pellizzari ad esempio, che reputo un atleta eccellente, ma il suo Giro è stato fatto di alti e bassi in cui ha potuto recuperare. Piganzoli invece ha tenuto duro tutti i giorni e noi da questo abbiamo capito che è un corridore da corse a tappe. Va forte in salita e va forte a cronometro, anche se dobbiamo lavorarci. Abbiamo un gioiellino che non è spremuto. Viene da realtà giovanili che l’hanno protetto e conservato: non sono molti gli juniores che non hanno fatto altura. Non sono molti gli juniores che si allenano 14-16 ore a settimana. Noi non sappiamo se tutta questa accelerazione precoce nelle categorie giovanili porterà lontano…

Cosa te ne pare?

La Mapei giovani e la Liquigas avevano un processo di crescita diverso rispetto ad ora e i risultati sono sotto gli occhi di tutti. Nibali, Viviani, Oss, Sagan, Pozzato, Cancellara… Insomma, li conoscete meglio di me. Oggi c’è un sistema diverso e credo che qui in Italia ci sia qualcosa da mettere a posto. Non mi voglio aggiungere ai miei colleghi o ex colleghi secondo cui in Italia manca la squadra WorldTour. Non voglio essere l’ennesimo, però è un fatto che non ci sono le squadre WorldTour che dovrebbero esserci, una soltanto è anche poco. Ma le squadre WorldTour non nascono così. E allora forse la responsabilità è anche mia…

Il Team Polti-Kometa occupa la 29ª posizione del ranking UCI per i team
Il Team Polti-Kometa occupa la 29ª posizione del ranking UCI per i team
Di cosa?

Di non essere stato capace in questi anni di cogliere tutto quello che c’è dietro, non solo il risultato o il piazzamento. Non siamo stati capaci di raccontarlo e questa è la conseguenza. Ho due sponsor che l’anno scorso non erano sulla maglia. Facevano parte di un club con cui facevamo attivazione alle corse, vuol dire che portavano degli ospiti alle gare per vivere l’esperienza della corsa. Uno di questi due sponsor metterà cinque volte tanto, l’altro moltiplicherà il suo impegno per sei. Siamo stati capaci di far venire persone e farle entusiasmare con un tifo trasversale, che sostiene anche il ciclista che arriva per ultimo. Però dobbiamo ancora imparare dalle altre discipline…

Imparare cosa?

Ho tre amici allenatori di calcio e a novembre andrò a visitarli in forma strettamente riservata per capire e studiare. Vado a vedere il basket, vado a vedere la pallavolo. Mi piace capire a livello sportivo e manageriale. Voglio imparare perché il calcio ha una maglia d’allenamento con uno sponsor e quella da partita con un altro. Perché in Coppa giocano con una maglia e in campionato con un’altra. Perché sono bravi e quindi bisogna andare a imparare da quelli più bravi di noi.

Contador è parte del Team Polti, ma sembra spesso lontano dalla sua gestione
Contador è parte del Team Polti, ma sembra spesso lontano dalla sua gestione
Ha senso rincorrere il calcio e altri sport?

Alcuni sono stati precursori. Il calcio è cambiato completamente, lo stesso la Formula Uno. Ci sono degli elementi su cui siamo stati molto disattenti, concentrati solo sulla performance o nel ripulire l’immagine di uno sport che si era parecchio contaminata. Però forse non siamo stato bravi a raccontare il contrario. Quando tu vai da un amministratore delegato di 50 anni e gli parli di ciclismo, magari lo vedi che è interessato. Però devi essere capace di raccontargli qualcosa per mandare via un’immagine che ha da quando 20 anni fa era all’università. Ha sentito e visto delle cose che gli sono entrate in testa e gli suggerirebbero di starci alla larga. Ma io dico che da più di un decennio questo mondo è completamente diverso. Per questo ho fiducia che la situazione cambierà e per questo bisogna essere pronti, con tutte le carte in regola.