Nella mente di Pogacar: stress, emozioni e voglia di fermarsi

01.08.2025
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Senza dubbio l’ultimo Tour de France di Tadej Pogacar ha lasciato qualche punto di domanda sul suo comportamento, sul suo approccio mentale. Se da un punto di vista tecnico-sportivo l’asso sloveno ha sbaragliato il campo e ha dimostrato ancora una volta di essere il numero uno a mani basse, dall’altra parte per la prima volta ha mostrato un suo lato umano, se così possiamo dire. E tante sue dichiarazioni lo confermano.
Ricordiamone alcune: «Non so cosa ci faccio qui in questo momento». «Non vedo l’ora che finisca questo Tour. Conto i chilometri che mancano a Parigi». «Non so per quanto tempo correrò ancora. Ho l’obiettivo delle Olimpiadi poi vedrò». E via discorrendo.

Questa situazione nuova in qualche modo, per tutti coloro che considerano Tadej invincibile contro ogni avversario e avversità, ha stimolato la nostra curiosità e abbiamo posto alcune domande a Paola Pagani, mental coach che lavora con molti atleti e in particolar modo con tanti ciclisti. E’ quindi una figura che conosce bene il nostro ambiente.

Paola Pagani è mental coach formata alla scuola di Anthony Robbins
Paola Pagani è mental coach formata alla scuola di Anthony Robbins
Dottoressa Pagani, abbiamo visto questo comportamento di Pogacar variare un po’ durante il Tour de France. Molto attivo e brillante nella prima parte, un po’ meno nella seconda. Di fatto si è trovato a battagliare con Van der Poel all’inizio. Ha distrutto la concorrenza sui Pirenei. Dopodiché cosa è successo?

Partiamo dal fatto che è un ragazzo di 27 anni che da tanti anni è nel WorldTour ad un livello altissimo. Corre sempre con gioia ed entusiasmo, e magari un po’ di stress ci sta anche per lui. In più siamo al Tour e il soggetto in questione è Tadej Pogacar: quando si tratta di lui le cose vengono ingigantite. Ripeto, non dimentichiamo che è un ragazzo, nonostante sia un atleta di altissimo livello e per certi aspetti più maturo dei suoi coetanei. Ma semplicemente può essere stato stanco anche lui.

In effetti è sembrato più un aspetto mentale di approccio che non di stanchezza. Perché di fatto in crisi in bicicletta non lo abbiamo mai visto…

Il ciclismo a quel livello è qualcosa di difficilissimo. Io seguo molti atleti e sono entusiasta in particolar modo dei ciclisti, della fatica che riescono a fare. Questi ragazzi, che ci sia pioggia, caldo, vento o tempesta, escono e si allenano o corrono. Se poi spostiamo tutto sul palcoscenico del Tour, in cui ogni cosa è stressante ed è dura perché è sempre una gara, capiamo che diventa tutto ancora più complicato. E se hai una maglia, i tempi di recupero si accorciano ancora, perché sei più sottoposto a interviste e protocolli post-gara. E si riducono le ore di riposo. Questo non ha fatto altro che aumentare il suo stress.

Quello che abbiamo visto noi è che di fatto dopo i Pirenei lui raggiunge l’obiettivo e in qualche modo si ferma, non va oltre. O quantomeno non è il solito Tadej che siamo abituati a vedere. Si ferma…

Si ferma è esagerato. Lui l’obiettivo l’ha raggiunto, sui Pirenei. Poi magari, come avete detto voi, era anche un po’ raffreddato e ci sta che l’insieme delle due cose abbia inciso sul suo entusiasmo. Ma succede, vuol dire che è un essere umano anche lui. Io non conosco Pogacar, ma come essere umano anche lui è “fallibile”. Può essere preso dallo stress, può stancarsi. E poi c’è un’altra cosa molto importante che secondo me va sottolineata.

Qual è?

Lui ha detto spesso cose sul momento, sull’emozione del momento e non a seguito di un ragionamento. Parlo delle conferenze stampa: parlare in quelle situazioni è diverso che farlo dopo aver recuperato un po’, dopo averci riflettuto. Sono parole immediate, dirette.

Una cosa che ci ha colpito in particolare è stata la tappa di La Plagne. Pogacar fa lavorare la squadra e di solito quando fa così lui va a dama. Quando arriva alla salita fa uno scatto, ma forse perché non era troppo convinto o forse perché la salita era troppo veloce, non stacca Vingegaard. A quel punto non insiste. Perché?

Forse il suo rivale non era l’ultimo arrivato. Parliamo di Jonas Vingegaard, un ragazzo che ha vinto anche lui due Tour de France e in altre edizioni è arrivato sul podio. Guardiamola anche da questo punto di vista: Pogacar non corre da solo. Diamo onore agli avversari.

Poi ci ritroviamo un Pogacar che invece a Parigi sorride e torna a dare spettacolo. Cosa vuol dire quel sorriso?

Ha detto che contava i chilometri che mancavano a Parigi. Probabilmente, essendoci arrivato, era a conclusione del suo percorso. Ma a Parigi trova un nuovo obiettivo: quello di vincere la tappa.

E Parigi, ritrova la sua carica tipica. Attacca e dà spettacolo
E Parigi, ritrova la sua carica tipica. Attacca e dà spettacolo
Insomma, dottoressa, l’entusiasmo è una componente importante?

Per lui sicuramente è importante. Quel giorno a Parigi Pogacar lo vive come l’ultimo giorno di un percorso. Dice: «Ci sono arrivato. Ho fatto quel che dovevo». E in qualche modo si riprende. Poi consideriamo anche che fare la vita dell’atleta, soprattutto a quel livello, è una bella vita, però sei sempre sotto i riflettori. Soprattutto lui. E ogni cosa che fa Pogacar è amplificata. Questo alla lunga può diventare stressante. E lo stress può arrivare da un momento all’altro.

Chiaro…

Pogacar ha tutta la mia comprensione possibile. Io lavoro con tanti sportivi, soprattutto ciclisti. Ci sta che ogni tanto possano esserci delle defaillance in mezzo alla loro vita così difficile.

E’ notizia di un paio di giorni fa che Pogacar rinuncia alla Vuelta. E’ la naturale conseguenza di quanto ci siamo detti, dottoressa?

Lui sta dicendo di cosa ha bisogno. E’ semplicemente stanco. E non è una cosa semplice, al suo livello, nella posizione in cui si trova. Questa scelta è prendersi una responsabilità. Magari si sarà anche messo contro alcune persone. Di certo non penso che la UAE Team Emirates abbia delle ricadute negative. Anzi, sicuramente la squadra vorrà preservare il suo diamante. Quindi lo appoggerà. L’importante è non cercare sempre qualcosa di negativo. Spesso in queste situazioni ci sono elementi positivi, o quantomeno vanno visti con prospettive diverse.

Pogacar rientrerà in gara a settembre. In questo periodo di stacco potrà vivere nel modo semplice che tanto gli piace con la sua compagna Urska Zigart (foto Instagram)
Pogacar rientrerà in gara a settembre. In questo periodo di stacco potrà vivere nel modo semplice che tanto gli piace con la sua compagna Urska Zigart (foto Instagram)
Cioè, dottoressa, può spiegarci meglio?

Anch’io sono un essere umano. Anch’io non sono invincibile. Ho bisogno dei miei tempi, ho bisogno di riposarmi. Non è una cosa negativa. Magari in questo fase di recupero, di lontananza dai riflettori potrà valutare altre cose della sua vita che prima non poteva.

Alcuni media inglesi hanno parlato persino di burnout. Sinceramente questo burnout, questo andare in tilt, sembra un po’ esagerato anche a noi. Lei che cosa ne pensa?

Dico che burnout è una parola che adesso va molto di moda. E la si usa dappertutto. Direi semplicemente che Pogacar è stanco. Quante stagioni ha corso a quel livello? Questo ragazzo ha vinto quattro Tour e in altri due è arrivato secondo. Ci sta che ora sia un po’ stanco. Ci sta che improvvisamente si sia ritrovato a corto di energie mentali. Quando dico che non sempre le cose sono negative, intendo che ora potrà riposarsi. Rigenerarsi. Ricalibrare la mente. E se dovesse aver bisogno di un aiuto, di certo la sua squadra glielo metterà a disposizione. E sarà pronto per i prossimi obiettivi.

E quindi rivedremo il Pogacar che tanto ci fa divertire ed entusiasma la gente e probabilmente anche se stesso…

Ogni volta che parliamo di questi ragazzi ci dimentichiamo che sono giovani. Molto spesso non hanno neanche 25 anni. Proviamo a immaginare noi a 40, 50 anni a rivederci a quell’età: ci riconosceremmo in maniera del tutto diversa. Faremmo cose che non avremmo fatto prima. Abbiamo un’altra esperienza. Ripeto: qui dobbiamo pensare che c’è un ragazzo che è stato sotto stress. Che si è sentito stanco. E tutto ciò è emerso su un palcoscenico come il Tour de France e da un personaggio qual è Tadej Pogacar. Quelle cose che ha detto nell’immediato dopo gara, magari dopo qualche ora sarebbero state diverse. E forse tutto ciò avrebbe avuto un’eco molto più piccola.

Da professional a continental: la storia di Nieri

04.12.2023
5 min
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Testa, testa e ancora testa. Ci vuole per vincere, per tenere duro, per allenarsi forte e anche, ma forse sarebbe meglio dire soprattutto, quando le cose si fanno difficili. Quando per esempio si passa da una WorldTour ad una professional. O da una professional ad una continental. Un discorso, quest’ultimo, che abbiamo affrontato con Alessio Nieri. Il toscano è in procinto di passare dalla Green Project-Bardiani-CSF-Faizané alla Work Service-Vitalcare-Dynatek.

Nieri ha finito l’anno col tremendo incidente occorsogli al Giro di Turchia. Era ottobre e Alessio riportò delle fratture, problemi polmonari. Noi stessi raccontammo qui la sua odissea. Oggi, a quasi due mesi, da quella caduta Alessio sta meglio. Ancora non pedala ma il suo fisico è in ripresa.

«Le cose vanno meglio – ha raccontato Nieri – ho provato ad uscire in bici. Ho fatto un’oretta ma mi sono accorto che non era il caso. Sono ancora piuttosto bloccato nella parte del corpo, tra collo e schiena. Ora sto facendo esercizi di palestra, di core zone, vado un giorno sì e uno no dall’osteopata».

Alessio Nieri (classe 2001) durante i suoi esercizi dopo la caduta avvenuta il 13 ottobre scorso in Turchia
Alessio Nieri (classe 2001) durante i suoi esercizi dopo la caduta avvenuta il 13 ottobre scorso in Turchia
Alessio, partiamo dal cambio di squadra: come sei arrivato alla Work Service?

Loro mi avevano già contattato ad inizio settembre, ma io ancora non sapevo se la Green Project-Bardiani mi avrebbe tenuto o meno. Quando poi mi hanno detto che non mi rinnovavano, mi è sembrato giusto farmi risentire da loro. Conosco Mistichelli e Iommi da tempo, la loro squadra fa un buon calendario. Come dovrebbe fare una vera continental.

Quando pensi di tornare in bici?

Ormai credo dopo le Feste. Come detto per ora mi sto concentrando sul pieno recupero fisico e posturale.

Andrea Bardelli, uno dei tuoi futuri diesse, ha detto che alcuni corridori sono all’ultima spiaggia e quindi in cerca di riscatto. E’ così? 

Bardelli magari è stato un po’ crudo, ma ha detto il vero. Ci aspetta un anno importante, penso anche a Rastelli, che era con me in Green Project-Bardiani. Cercherò di dare tutto, di fare il massimo per tornare su di categoria. Correre con gli elite-under 23 è un sacrifico grande per noi che abbiamo 23-24 anni e veniamo dai pro’.

Al Tour of Qinghai Lake, Nieri ha vinto la classifica degli scalatori (foto organizzatori)
Al Tour of Qinghai Lake, Nieri ha vinto la classifica degli scalatori (foto organizzatori)
Come si affronta una stagione in questo modo?

Facendo il corridore a 360 gradi, non puoi pensare di andare a lavorare o altro. E questo vale soprattutto per noi che “torniamo giù”. L’imperativo è provare a riscattarsi.

E’ più una spada di Damocle o uno stimolo?

Per me è uno stimolo. Mi ritrovo in una categoria in cui ho già corso. La maggior parte delle gare che faremo saranno elite-under 23 e questo sarà anche un modo per confrontarsi, per capire se e quanto questi due anni tra i pro’ abbiano lasciato dei benefici. E ci si renderà conto se davvero ci sono le possibilità per tornare su tra i professionisti oppure no.

Questi due anni due cosa ti hanno lasciato?

Sicuramente una buona dose di esperienza. Correre con i pro’ è un’altra cosa, soprattutto per i chilometraggi. Ho fatto più corse a tappe in queste due stagioni anni, che nel resto della mia precedente carriera. E questo ti cambia il fisico, il motore.

Ma non sarà semplice comunque, Alessio. Oltre a vedere i numeri, spesso assistiamo dal vivo alle corse degli U23: ritmi e prestazioni non sono affatto banali. Non sarà solo una questione di gambe. Bisognerà essere pronti anche mentalmente.

No, no… altroché facile! Vanno forte. Quel che cambia è la gestione della corsa. Un conto è confrontarsi con i professionisti, con 7-8 WorldTour, come accadeva nelle professional, e un conto con i dilettanti. Le gare sono schematiche. Di qua più garibaldine.

Nieri correva nella fila della Mastromarco. Già durante il Giro U23 del 2021 Franceschi esaltò le sue doti di scalatore (foto Simona Bernardini)
Nieri correva nella fila della Mastromarco. Già durante il Giro U23 del 2021 Franceschi esaltò le sue doti di scalatore (foto Simona Bernardini)
Chiaro, tra i pro’ tutto è più gestito, ci sono ruoli e compiti specifici. Mentalmente sei pronto a questo approccio garibaldino?

Io credo di sì. Poi una certa mentalità ti torna correndo, passando del tempo con i ragazzi e parlandoci. Credo sia qualcosa che riemerge automaticamente, che fa parte del Dna del corridore.

Hai parlato dei professionisti in terza persona, significa che tu non ti senti più un pro’?

Per come la vedo io chi corre nelle continental è un pro’ a metà. E non è facile dare una definizione precisa. Sei un pro’, ma ti confronti con i dilettanti. Spesso sento dire che essendo in una continental ci si definisce un pro’, ma poi si vuol passare nelle professional o nelle WorldTour. Una continental è una grande opportunità, ma è un punto di passaggio e non di arrivo.

Il fatto che tu sei uno scalatore, anche piuttosto puro, complica le cose per una risalita?

Un po’ sì. Ma di base devi andare forte. Certo, lo scalatore ha meno occasioni di mettersi in luce. Anche perché poi le salite più lunghe si trovano nelle corse più importanti dove ci sono anche le WT o le professional. Io ho in mente Colnaghi, uomo veloce che va fortissimo, ma quando c’erano i grandi doveva accontentarsi dei quarti o quinti posti.

Infortuni, il buon recupero inizia dall’aspetto mentale

28.07.2023
6 min
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La vita dei ciclisti è legata strettamente a risultati e prestazioni ma, come in un grande iceberg, al di sotto della linea di galleggiamento ci sono tanti fattori che li determinano. Uno di questi sono gli infortuni ed il relativo recupero ma guarire non è solo una questione fisica. Prima c’è l’aspetto psicologico che è alla base della ripresa totale e forte dell’atleta (in apertura, Elisa Longo Borghini taglia il traguardo di Ceres al Giro Donne dopo una caduta, scortata e consolata da Shirin Van Anrooij. L’indomani non ripartirà).

Gli infortuni di Pogacar e Balsamo ci hanno dato lo spunto per capire come si procede appena succede un incidente e in quel momento saltano i programmi di mesi. Abbiamo approfondito l’argomento con Elisabetta Borgia, psicologa dello sport della Lidl-Trek e della nazionale italiana.

Prima la salute

Pogacar si presenta alla Liegi da grande favorito dopo le vittorie in sequenza di Freccia Vallone, Amstel, Fiandre e tutte le altre ottenute a marzo e febbraio. Al chilometro 85 però viene coinvolto in una rocambolesca caduta. Il 24enne della UAE Team Emirates capisce subito che qualcosa non va. Frattura dello scafoide sinistro in cinque punti. La preparazione al Tour de France subisce un grosso rallentamento.

A fine maggio va peggio a Balsamo. L’ex iridata della Lidl-Trek finisce a terra due volte nel giro di pochi chilometri nella prima tappa della Ride London. L’esito è crudo. Anche per lei frattura dello scafoide (destro) con l’aggiunta della frattura della mandibola sinistra e destra. Il suo programma di avvicinamento al mondiale si complica. Come si riparte il giorno dopo queste botte?

Elisabetta Borgia è la psicologa dello sport della Lidl-Trek. Il suo lavoro con gli atleti spazia su tanti fronti, compreso il recupero da un infortunio
Elisabetta Borgia è la psicologa dello sport della Lidl-Trek. Il suo lavoro con gli atleti spazia su tanti fronti, compreso il recupero da un infortunio

«E’ un percorso articolato – analizza Borgia – perché bisogna partire da molto prima. Ogni atleta ad inizio stagione fa un suo “goal setting” alla luce del calendario agonistico con la definizione di strategie e momenti di verifica che indicano se stai lavorando in maniera efficace. Si pianifica, si organizza e si cerca di dare prevedibilità al futuro definendo le mosse da fare. Nel momento in cui si presentano gli intoppi (infortuni, malattie o anche solo risposte inaspettate ai carichi di lavoro) viene valutata la situazione in ogni singolo punto. Non tutti gli infortuni sono uguali, lo abbiamo visto proprio con i casi di Pogacar e Balsamo. Di sicuro gli interventi chirurgici hanno facilitato il loro decorso, benché con tempistiche diverse.

«In quel momento il goal setting originale viene modificato ed il primo obiettivo, spesso dato per scontato, diventa la salute, assieme alle strategie più efficaci per raggiungerla (terapie, riposo, etc..). Il piano A, il più auspicabile, non esiste più e l’atleta deve rifocalizzarsi su un nuovo piano senza continuare a fare confronti con il vecchio piano ormai irrealizzabile. Questo è l’errore che si tende a fare anche per eccesso di volontà e voglia di rivincita. Bisogna ascoltare il proprio corpo e dargli il modo fisiologico di recuperare. Che poi il fisico di uno sportivo di alto livello ha sempre tempi più corti rispetto al normale però non bisogna forzarli».

Evenepoel Lombardia 2020
Uno degli incidenti recenti che ha richiesto il maggior tempo di recupero fu quello di Evenepoel al Lombardia 2020
Evenepoel Lombardia 2020
Uno degli incidenti recenti che ha richiesto il maggior tempo di recupero fu quello di Evenepoel al Lombardia 2020

Fase 2, il riadattamento

Nel frattempo sia Pogacar che Balsamo sono rientrati alle gare. Lo sloveno è arrivato secondo al Tour vincendo due tappe e pagando dazio in altrettante giornate nella terza settimana. La 25enne cuneese è in corsa al Tour Femmes e nella terza frazione si è fatta rivedere negli ordini d’arrivo con un incoraggiante quinto posto in volata. Il loro periodo lontano dalle corse come lo hanno vissuto?

«Appurato il proprio stato di salute – prosegue Borgia, dottoressa in psicologia – la seconda fase è riprogrammare tutto e riadattarsi mentalmente il più in fretta possibile. A parte il recupero fisico, gli obiettivi diventano altri e non necessariamente agonistici. Immagino che Pogacar abbia dovuto vedere come stava il polso nei gesti quotidiani. Poi in bici, sotto sforzo, nella presa del manubrio e via così. Elisa ha avuto una convalescenza molto più dura. Nella prima fase faceva fatica a mangiare cibi solidi e quindi ha dovuto modificare anche la sua alimentazione».

Baroncini, caduto alla Kuurne-Bruxelles-Kuurne, è rimasto fermo più di due mesi. Ha dovuto rivedere gli obiettivi ma ora la forma è tornata
Baroncini, caduto alla Kuurne-Bruxelles-Kuurne, è rimasto fermo più di due mesi. Ha dovuto rivedere gli obiettivi ma ora la forma è tornata

«Con lei – va avanti – fissavamo piccoli obiettivi settimanalmente. Si lavora in questo modo quando l’obiettivo finale sembra essere molto lontano. Quindi è importante inserire piccoli obiettivi sfidanti ma raggiungibili che rinforzano, motivano e aiutano l’atleta a sentire di avere controllo. Se pensiamo alla difficoltà di tornare a muovere la bocca normalmente, il Tour o il mondiale passano in secondo piano. O meglio, restano obiettivi che riprendono la scena nuovamente quando i tuoi continui step di crescita te lo permettono. Sappiamo che è difficile rifare una sorta di gerarchia e ripartire dai primi step specialmente per chi è abituato a prestazioni di alto livello. Ma è un sacrificio, se così vogliamo definirlo, che va fatto per tornare proprio ad alto livello».

Niente esagerazioni e rientro

Il ciclista per natura vuole sempre recuperare il tempo perso. Che sia per una foratura, magari con l’assistenza tecnica lontana. Che sia per una caduta o infortunio. Ma sono tutti casi non paragonabili fra loro.

«Gli uomini e le donne di sport – continua la psicologa piacentina –sono proiettati sul “problem solving”, ovvero sul cambiare una situazione non ideale o che non li fa sentire in comfort. Sono molto meno abituati invece, forse perché erroneamente viene visto come segno di resa, ad accettare, prendere atto di una situazione quando quest’ultima non può essere modificata. E’ importante tuttavia essere in grado di analizzare e contestualizzare ciò che è successo con lucidità, così anche da poter fare la prossima mossa correttamente.

«A volte la miglior mossa, anche se totalmente opposta a ciò che verrebbe impulsivo fare per non perdere terreno, è riposare ed ascoltarsi. A volte è prendere atto che, nonostante tutto, sarebbe potuto andare anche molto peggio. Guardate Longo Borghini al Giro Donne. Con quella caduta ha dovuto abbandonare la corsa e dire addio alle speranze di vincere il Giro. Però se fosse caduta ancora più in là c’era un muretto, poteva farsi molto più male e perdere il resto della stagione.

Sorride Pogacar nonostante la frattura dello scafoide alla Liegi. Un buon recupero passa da un buon morale (foto instagram)
Sorride Pogacar nonostante la frattura dello scafoide alla Liegi. Un buon recupero passa da un buon morale (foto instagram)

«Naturalmente – conclude Elisabetta Borgia – ci deve essere un lavoro di equipe perché altrimenti non si può riprogrammare nulla. Servono comunicazione e condivisione, come è successo nel caso di Balsamo, tra medici, diesse e preparatori. Tutto il nostro staff ha partecipato al suo rientro in bici. Ognuno ha fatto la propria parte, dal primissimo supporto morale, quando era difficile darsi tempi e modi di rientro, fino alla pianificazione dei nuovi obiettivi durante il recupero. Dopodiché le nuove valutazioni si fanno gara dopo gara, non limitandosi solo al risultato ma alla prestazione a 360 gradi, tenendo in considerazione sia le cose positive che le aree ancora da migliorare con lucidità e freddezza».

La dura vita del cronoman. Un viaggio con Guercilena

22.09.2022
6 min
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Il fatto che l’asticella continui a salire non è sempre un bene. Sì, vediamo medie orarie strabilianti, campioni fare numeri intriganti, ma di pari passo aumenta lo stress a cui è sottoposto l’atleta, specialmente colui che che è chiamato a vincere. E ancora di più se è un cronoman. Non ultimo l’esempio di Filippo Ganna, “solo” settimo a Wollongong. Come se un settimo posto al mondo fosse robetta.

Certo che se si vince sempre, poi in qualche modo si è condannati al successo e la vittoria diventa lo standard: tutto ciò che non lo è considerato dalla massa un fallimento. Pensiamo a Pogacar al Tour. Ma non è vero. Avviene così nel calcio, nella Formula 1, nel tennis.

Tornando al nostro mondo, questo concetto del “dover vincere” viene amplificato nell’esercizio della cronometro individuale. Disciplina assai complessa, specie appunto nel ciclismo attuale in cui ogni minimo aspetto fa brodo ed è esasperato.

Ne abbiamo parlato con Luca Guercilena, ora team manager della  Trek-Segafredo, ma prima direttore sportivo e preparatore anche di un certo Fabian Cancellara

Guercilena con Cancellara. Eccoli alla cerimonia in cui veniva dedicato uno sterrato della Strade Bianche al cronoman svizzero
Guercilena con Cancellara. Eccoli alla cerimonia in cui veniva dedicato uno sterrato della Strade Bianche al cronoman svizzero
Luca, in questa specialità hai visto lo svizzero crescere, vincere, poi avere una flessione (a crono) e quindi tornare a vincere sul finire della carriera… La crono pesa più della strada dunque?

E’ chiaro che parliamo di una disciplina che richiede un grande impegno mentale. Per prepararla devi fare tanti chilometri, tanti lavori specifici e tutti con un grande sforzo. L’impegno pertanto è fisico ma anche mentale e le energie mentali non sono infinite. In più mettiamoci che al di fuori di qualche seduta dietro motore, in cui sei a ruota dell’allenatore, per il resto del tempo sei solo. Puoi contare solo te stesso. Non è come su strada che puoi condividere la fatica. Questo accentua non poco lo sforzo e il dispendio mentale.

Come ti spieghi questa “onda” nella carriera di Cancellara? 

Io ho seguito Fabian all’inizio della sua carriera (in Mapei Giovani, ndr) e poi negli ultimi anni. Per me molto dipende anche dagli impegni e dai programmi che si fanno con la propria squadra. Nei primi anni ha lavorato sulla crono. E’ cresciuto ed ha vinto. Poi nella fase centrale della sua carriera si è concentrato maggiormente sulle classiche, per poi tornare a puntare sulle prove contro il tempo nelle ultime stagioni.

Per esempio, Rogers ha detto in questi giorni a Wollongong, che dopo il terzo titolo mondiale aveva quasi la nausea pensando alle crono…

Hai talmente tanta pressione che ad un certo punto molli. Si tratta di una disciplina così specifica che quando l’abbandoni e poi torni a concentrarti su di essa la riprendi subito. Implica delle caratteristiche fisiche che ti restano addosso… per tornare all’esempio di Cancellara. Anche Tony Martin ad un certo punto ha detto basta. Lui ha avuto una crescita lineare e poi ha “cambiato mestiere”, si è messo a lavorare per altri. Rogers, è sempre stato forte a crono, sin da juniores. Io l’ho avuto quando vinse il suo secondo titolo a Verona. Poi ad un tratto ha cercato di fare classifica nelle corse a tappe e ha lasciato il discorso crono… Anche se sia lui che Martin restavano due cronomen molto forti.

In corsa e in allenamento il cronoman è solo
In corsa e in allenamento il cronoman è solo. E questo di certo non facilita le cose
Quindi è certamente un peso elevato. E anche in virtù di ciò, a tuo avviso si può fare un paragone con la maratona del podista? Loro hanno due grandi focus l’anno, sui quali si riversa una grossa pressione: i tanti aspetti da mettere a fuoco, i dettagli su cui lavorare…

Direi di sì, ma è un po’ tutto il ciclismo attuale che cura i dettagli al limite. Se ripenso all’Olimpiade del 2016 con Cancellara e ancora di più a come preparai Rogers per Verona e Madrid (anni 2004 e 2005, ndr) già c’era una bella differenza. In quelle occasioni sostanzialmente si lavorava con le corse su strada e si rifiniva con dei lavori a crono.

E adesso invece?

Ora si fa un lavoro superspecialistico: le medie sono più alte e più alto è il numero dei competitor. Se vogliamo, prima era una disciplina di nicchia, adesso il podio invece è l’obiettivo di molti e chi punta alla vittoria deve avere numeri ancora più alti. Tutto, dunque, è più estremizzato.

Prendiamo l’esempio di Ganna, settimo. Pippo viene da un anno estremamente dispendioso dal punto di vista psico-fisico: il prologo del Giro con la maglia rosa in ballo, le Olimpiadi, il mondiale a crono, il mondiale su pista, i tanti ritiri… Tutto ciò incide?

Di certo può pagare tutto ciò, ma questo discorso vale anche per Van der Poel. Anche lui quest’anno non è stato super a lungo come gli altri anni. Se tu fai la multidisciplina la tua stagione in pratica non finisce mai. E tutto ciò ripetuto negli anni si fa sentire. Non sei al tuo livello. Non raggiungi i tuoi obiettivi. Strada e pista, cross e strada, strada e Mtb: tenere alto il livello per tutta la stagione è molto complicato. E poi c’è un altro aspetto a mio avviso che conta molto.

Dover essere ogni volta chiamato a vincere non è facile… specie se si è dei cronoman come Ganna
Dover essere ogni volta chiamato a vincere non è facile… specie se si è dei cronoman come Ganna
Quale?

Questi grandi atleti della multidisciplina hanno colto risultati importanti in tempo di pandemia, quando si viaggiava molto meno. Non c’erano trasferte esagerate, ma adesso che si è tornato a farle tutto è più complicato e si paga dazio. E’ un dato di fatto. Con questo non voglio dire che sono contrario alla multidisciplinarietà.

Sempre parlando di Ganna, per lui è stato programmato (l’8 ottobre prossimo) anche il tentativo di Record dell’Ora e, sembra, il condizionale è d’obbligo, che Pippo stesso non fosse super contento di farlo in questo momento. Il rischio è di esporlo ad un fallimento…

Su questo non posso dire molto. Non conosco le condizioni precise dell’atleta, ma suppongo che se la Ineos-Greandiers abbia programmato il tentativo in questo momento è perché pensano di riuscirci. Ma sono cose in seno alla loro squadra.

Luca, quanto tempo serve per preparare una crono importante come quella iridata o olimpica?

Non meno di due mesi. Quando con Cancellara abbiamo preparato quella di Rio 2016 abbiamo fatto due mesi di lavori specifici, con anche 15 giorni di Tour de France. Per raggiungere la condizione al 100%, totalmente finalizzata a quello specifico obiettivo, servono due mesi. Anche tre.

Dopo aver conquistato il terzo titolo iridato a crono, Rogers ha avuto la necessità di rivedere i suoi obiettivi
Dopo aver conquistato il terzo titolo iridato a crono, Rogers ha avuto la necessità di rivedere i suoi obiettivi
Parlando ancora di multidisciplina e di molteplici impegni, tu quale credi sia il binomio migliore per un cronoman?

Quello strada-pista, decisamente. Quella dell’inseguimento e quella crono sono due discipline molto simili. L’adattamento è più facile. Anche se inseguimento e crono sono due estremi: uno dura 4 chilometri ed è molto violento, l’altro magari ne misura 40… Quel che cambia è l’intensità, ma le caratteristiche sono quelle. 

Ti abbiamo fatto questa domanda perché una volta Davide Cassani ha detto che il biker è un buon cronoman…

Un crosscountrista fa uno sforzo di un’ora e mezza e un crossista di un’ora: sono sforzi adeguati alla durata di una crono. Un crossista fa tanti rilanci brevi e intensi con sforzi simili a quella di uno sprinter, ma non tutti i crossisti sono buoni velocisti. Come ho detto, credo che l’inseguimento su pista sia vicino alla crono, anche per aspetti fisiologici. Poi molto dipende dalla lunghezza della prova. Fossero state crono vecchio stile, cioè di 70 chilometri, allora sarebbero emerse le qualità dello stradista anche nelle gare contro il tempo. Ma vista la lunghezza media nel corso dell’anno, oggi le crono sono più da pistard.

Visconti: «Serbatoio vuoto, con due parole Tom ha detto tutto»

19.08.2022
7 min
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Quando scriviamo a Giovanni Visconti per chiedergli di commentare l’addio di Tom Dumoulin il siciliano ci risponde così: «Leggendo il suo comunicato ho capito ogni singola lettera di ciò che voleva dire». “Visco” ci è passato pochi mesi fa e pochi, se non nessuno, meglio di lui possono capire cosa è passato nella testa e nell’animo del campione olandese.

Un addio, in segreto e provvisorio, a luglio poi la ripresa e lo stop definitivo a marzo: anche per l’ex Bardiani Csf Faizanè è stato un bel calvario.

Palmares da re per Tom: un Giro, un mondiale a crono (in foto), un podio al Tour e oltre 20 vittorie
Palmares da re per Tom: un Giro, un mondiale a crono (in foto), un podio al Tour e oltre 20 vittorie

Le parole di Tom

Prima di andare avanti però, ci sembra doveroso riportare le parole della maglia rosa 2017 (in apertura la stessa foto con cui Dumoulin ha annunciato il suo addio sui social) con le quali il corridore di Maastricht ha ufficializzato il ritiro.

“Ho deciso di lasciare il ciclismo professionistico con effetto immediato. Circa due mesi fa ho annunciato che mi sarei ritirato dal ciclismo professionistico alla fine dell’anno. La scorsa primavera, malgrado il mio amore per la bici, ho notato che le cose non stavano andando come volevo. Ho sentito che ero pronto ad una nuova fase della mia vita. Ma avevo ancora un progetto nella mia lista dei desideri, che era quello di chiudere la mia carriera con un botto, ai Mondiali in Australia. Volevo affrontare la strada verso i Mondiali come fatto lo scorso anno con i Giochi di Tokyo. Con un senso di libertà, a modo mio, con il supporto del team e con la mia motivazione intrinseca come principale carburante. All’epoca è questo che mi aveva ridato la gioia di pedalare”.

Ma ho notato che non ce la faccio più. Il serbatoio è vuoto, sento le gambe pesanti e le sessioni di allenamento non vanno come speravo per poter pensare di fare una buona performance e avere buoni sensazioni ai Mondiali. Dalla mia dura caduta in allenamento lo scorso settembre, qualcosa si è rotto di nuovo. Ho dovuto nuovamente interrompere i miei sforzi per tornare alla mia forma precedente e affrontare una nuova delusione. È stata la volta di troppo.

Anche se il mio addio non è andato come avrei voluto, guardo alla mia carriera con grande orgoglio. Ho lavorato duramente, e ho affrontato questi anni con passione e piacere, fornendo grandi prestazioni. Sono cose che non dimenticherò mai. Ora è tempo di godermi altre cose ed essere presente per le persone che amo. Un grandissimo grazie alla mia squadra e a tutti coloro che mi hanno supportato nel corso di questa mia fantastica carriera. E un grazie speciale a mia moglie, che mi ha sostenuto per tutti questi anni”.

Dumoulin (31 anni) ha corso il Giro ma si è ritirato nel corso della 14ª tappa. Doveva chiudere la carriera a Wollongong
Dumoulin (31 anni) ha corso il Giro ma si è ritirato nel corso della 14ª tappa. Doveva chiudere la carriera a Wollongong

Giovanni a te…

Anche Giovanni avrebbe dovuto lasciare a fine stagione, ma in primavera dopo l’ennesima difficoltà ha detto basta. E per questo non c’è stato bisogno di fargli neanche una domanda. Visconti è partito. L’argomento gli sta a cuore e, come detto, lo ha capito.

«Tom, come me, aveva un contratto fino a fine anno e poteva ancora guadagnare dei soldi e nel suo caso immagino anche dei “bei soldi”. Ma quando nella mente subentrano certi pensieri vuol dire ormai vai a scavare dei pezzi di vita. Tu sai che il tuo livello non lo raggiungerai più…».

«Le persone attorno ti dicono di ripensarci, di non mollare, che è un momento, ma non è così. Anche io come lui lo scorso anno ci ero passato. Era luglio per me (Dumoulin aveva preso un periodo di pausa ad inizio stagione, ndr): avevo detto basta. Le persone vicine mi dicevano: “Dai Giovanni che poi passa” e lì per lì la voglia ti torna anche. Pensi che tutto sommato sia la cosa giusta da fare, che smettere in quel momento sia sbagliato e riparti. Forse è anche paura di affrontare una nuova vita, non ci si sente pronti.

«Ma io ero arrivato. Dicevo a mia moglie che non avrei voluto pedalare per un solo centimetro in più, che a pensare di fare solo un chilometro di gara mi sentivo male. E quando è così vuol dire che stai scavando dentro te stesso. E’ un massacro. Rosicchi qualcosa che non c’è più e quello che stai facendo non è più ciclismo».

Le parole di Visconti sono forti, ma rendono benissimo l’idea e il travaglio dell’atleta e dell’uomo. Perché poi è inevitabile che le due cose si fondano.

Nell’ultimo anno Dumoulin su strada non è mai stato davvero competitivo. Miglior piazzamento il 4° posto a Potenza al Giro
Nell’ultimo anno Dumoulin su strada non è mai stato davvero competitivo. Miglior piazzamento il 4° posto a Potenza al Giro

«Serbatoio vuoto»

Il passaggio chiave secondo Visconti è quando il corridore della Jumbo-Visma parla di “serbatoio vuoto”. Giovanni ha parlato di livello top che l’atleta sa di non poter più raggiungere. E quando si ha questa consapevolezza perché continuare? Per i soldi, okay… ma non è così facile, almeno nel ciclismo.

«Io – spiega Giovanni – non sarei più arrivato al mio massimo, lo sapevo. Come sapevo che con il ciclismo attuale il mio top non era più sufficiente, in più non avevo la testa per raggiungere il mio livello. Figuriamoci dunque come ero messo… A quel punto quando ho rinunciato mi sono sentito libero».

«Anche Tom non aveva altra scelta. In bici ormai sembrava una mummia. La prima volta magari si era convinto di aver sbagliato ed è tornato, in più aveva attorno uno squadrone a supportarlo. Ma quando lui dice: “Non c’è più niente nel mio serbatoio” vuol dire che è finita.

«Puoi anche allenarti bene, fare chilometri su chilometri, lavori, altura… ma quel serbatoio tanto non si riempie più, perché è la testa che non lo fa riempire. E’ la testa che comanda… E anche lo stipendio non basta più come giustificazione per andare avanti».

Dopo aver ripreso a pedalare in primavera, la scorsa estate Dumoulin aveva vinto l’argento nella crono olimpica
Dopo aver ripreso a pedalare in primavera, la scorsa estate Dumoulin aveva vinto l’argento nella crono olimpica

Pedalare con la paura

«Ad un certo punto poi – va avanti Visconti – ti vengono dei dubbi. Inizi ad avere paura del gruppo, delle cadute, pensi alla famiglia. In cuor tuo hai già deciso di smettere. Anche fare una gara in più ti fa riflettere. E poi magari proprio in quella “corsa in più” succede qualcosa che non doveva succedere: non ha senso.

«E poi, ragazzi, adesso rispetto a quello di qualche anno fa, il ciclismo è un altro sport. Almeno a certi livelli. Continuare in questo contesto è ancora più difficile».

A questo punto però incalziamo Visconti facendogli notare che già lo scorso anno Dumoulin era tornato e aveva anche conquistato l’argento nella cronometro olimpica. Ma Visco ribatte senza indugio.

«Non mi stupisce – dice il siciliano – che lo abbia conquistato, perché comunque parliamo di un corridore fortissimo, con una classe immensa, ma lo ha conquistato in una crono. Una gara in cui è solo, solo con se stesso e senza il gruppo intorno. Ma su strada non c’è più stato un solo giorno in cui si è potuto dire: è tornato Dumoulin».

A testa alta

Alla fine dunque, e anche Visconti è d’accordo, il “primo stop” in questi casi è una tappa necessaria per arrivare all’addio definitivo. E’ quella che poi ti fa smettere senza rimpianti, ripensamenti o dubbi.

«La ripresa dopo il primo addio – spiega Visconti – è il dubbio che ti devi togliere. E quello che poi elimina ogni ripensamento, ogni incertezza successiva, anche se mancano “solo” due mesi al termine della stagione. Andare avanti in certe condizioni non ha senso. Io non ho mai avuto un ripensamento, nonostante le difficoltà della vita da persona normale.

«Tom è stato realista, lucido (e non è facile, ndr). Ha detto a se stesso: “Io non sono in grado di continuare”. E per me è stato un campione anche in questo. Non è facile ammetterlo, ma lui è uscito di scena nel modo giusto, soprattutto nei confronti di sé stesso. E per questo lo ammiro. Può andare in giro ancora di più a testa alta».

Ancora su Pogacar. Quali risvolti psicologici dalla sconfitta?

31.07.2022
5 min
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In primavera avevamo messo in luce la superiorità di Tadej Pogacar nei confronti dei suoi avversari. E di quanto li avesse annientati anche psicologicamente. All’epoca, con la psicologa Elisabetta Borgia parlammo di senso d’impotenza acquisita, in quanto nonostante gli sforzi degli avversari il risultato rimaneva il medesimo vista la superiorità dello sloveno. L’emblema fu la tappa del Carpegna alla Tirreno, dove stravinse letteralmente “giocando”.

Questa sconfitta cambia le cose? Mina gli equilibri psicologici del corridore della UAE Emirates? Che conseguenze può avere? Riprendiamo l’analisi dunque con la dottoressa Borgia.

Mezzo scatto e sul Carpegna Pogacar lasciò tutti sul posto. Vingegaard incluso (che fu secondo)
Mezzo scatto e sul Carpegna Pogacar lasciò tutti sul posto. Vingegaard incluso (che fu secondo)

Attacco come difesa

«Io sono rimasta piacevolmente colpita da come abbia preso la sconfitta – dice la Borgia – tu continui a vincere e sai che prima o poi questa sconfitta deve pur arrivare, ma poi quando arriva non è così semplice da gestire, visto anche la risonanza mediatica che ha.

«Il fatto che abbia esagerato un po’ nelle prime tappe, con quelle volate, quegli scatti, magari era una strategia per coprire alcune lacune che sentiva dentro di sé. Magari sapeva di avere una squadra meno forte e decimata giorno dopo giorno».

Quattro mesi dopo il Carpegna, la “resa” di Pogacar sul Granon: prima batosta della carriera
Quattro mesi dopo il Carpegna, la “resa” di Pogacar sul Granon: prima batosta della carriera

“Frittata rigirata”

La Borgia spiega che Pogacar sembra aver reagito bene alla sconfitta, ma è chiaro anche che a livello mentale un evento del genere ha un effetto importante soprattutto a livello di senso di autoefficacia, ovvero senso di padronanza.

Mentre i suoi avversari fino ad ora alla luce dei risultati a favore dello sloveno erano nel circolo del senso d’impotenza acquisita nei suoi confronti e lui invece aveva un senso di autoefficacia molto forte, adesso gli equilibri sono un po’ mutati.

«Con la sconfitta di Pogacar – riprende la Borgia – si è creato un precedente: gli altri corridori sanno che si può battere, perche questa cosa è già avvenuta. Vingegaard ha aperto un varco.

«Sia chiaro, Pogacar resta un super campione, un fuoriclasse e un bellissimo personaggio del ciclismo attuale, ma in questo Tour qualcuno ha fatto meglio di lui, quindi in ottica di prestazione si sono evidenziati dei limiti personali e del suo team».

Ieri a San Sebastian il primo ritiro stagionale per Pogacar scortato dai compagni. Era la prima gara post Tour
Ieri a San Sebastian il primo ritiro stagionale per Pogacar scortato dai compagni. Era la prima gara post Tour

Da dove ripartire…

In UAE Emirates sicuramente staranno esaminando le cause di questa sconfitta. Una delle più concrete sembra essere il caldo. Sin qui Tadej non aveva mai incontrato il caldo estremo per più giorni e forse questo agente esterno ha fatto emergere un suo punto debole. E lo si è visto anche dalla sua eccessiva perdita di sali.

«Conoscere la causa, il motivo per cui si è reso di meno aiuta moltissimo – dice la Borgia – La situazione peggiore senza dubbio è quando non si hanno risposte. Se invece si riesce ad analizzare la situazione in maniera lucida e metodica prendendo in considerazione dati oggettivi, si può capire dove migliorare e che strategie usare.

«Cosa posso fare io per superare questo ostacolo? In psicologia dello sport una regola aurea è tenere ben chiaro in testa da una parte cosa è andato bene (i miei punti di forza) e dall’altra parte cosa si può migliorare: i punti ‘deboli’ diventano obiettivi di miglioramento. E’ un approccio metodico. E di certo Tadej e il suo staff faranno tutti gli accertamenti del caso».

Pogacar Belgio 2022
Ma Tadej è un ragazzo solare e si saprà rialzare. Non va dimenticato che aveva una squadra decimata… contro una corazzata
Pogacar Belgio 2022
Ma Tadej è un ragazzo solare e si saprà rialzare. Non va dimenticato che aveva una squadra decimata… contro una corazzata

Analisi al dettaglio

Il senso di autoefficacia è stato colpito, ma non stravolto, come dicevamo. Non c’è stata una debacle totale, una controprestazione e dunque non tutto deve essere messo in dubbio. Semmai si cercherà di limare laddove si poteva fare diversamente. 

«In questo caso – spiega la dottoressa – la Jumbo-Visma è una squadra altamente all’avanguardia. Sappiamo, che gli olandesi sono metodici al massimo. Lavorano in modo veramente minuzioso direi.

«Pogacar sembra essere un atleta molto equilibrato, senza “integralismi” sembra fare tutto con molta semplicità e divertimento, ma magari c’è qualche aspetto su cui si può lavorare per crescere ulteriormente».

«Pogacar ha una mentalità da campione e lo si è visto da come ha reagito, ammettendo la sconfitta, e da come ha cercato di attaccare Vingegaard fino alla fine. A volte le sconfitte possono far cambiare atteggiamento, portando l’atleta ad essere più remissivo e meno determinato ad attaccare. Se ogni volta che mi muovo prendo una “scoppola” del genere, magari gioco di rimessa.

Tuttavia al Tour Pogacar non ha fatto così, anzi… Si è subito mostrato grintoso, voglioso di rifarsi. Ha attaccato tanto da dire: “Semmai salto io”. Ed è questa la mentalità del campione».

«Avrà qualche insicurezza in più, ma quelle le hanno tutti».

Borgia: supremazia Tadej e senso d’impotenza auto acquisito

18.03.2022
4 min
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Quando Tadej Pogacar attacca non demolisce solo le gambe degli avversari ma anche i loro animi. E quando si parla di animi, di mente e di psicologia entra in pista Elisabetta Borgia, appunto psicologa dello sport nella fila della Federazione e della Trek-Segafredo.

La supremazia dimostrata dallo sloveno in questi pochi anni da professionista, la continuità di questo dominio e la tipologia delle sue azioni, fanno spesso pensare agli altri corridori che si corra per il secondo posto. In tal caso come si trovano gli stimoli? Sarà vero che si è portati a mollare?

Elisabetta Borgia è psicologa dello sport. Lavora con la Trek-Segafredo e la Federciclismo
Elisabetta Borgia è psicologa dello sport. Lavora con la Trek-Segafredo e la Federciclismo

Senso d’impotenza 

«Le prestazioni di Pogacar – spiega la Borgia – degli ultimi anni sono di altissimo livello, difficilmente contenibili. E questo tende ad avvilire i suoi avversari. Però è umano anche lui. Tadej è riuscito a infondere quello che in psicologia è chiamato “senso d’impotenza auto acquisito”. Tradotto: se quello scatto lo fa un altro corridore, gli altri proverebbero a seguirlo, si staccherebbero lo stesso, ma insisterebbero un po’ di più».

«Se tu provi a contrastare un avversario e il tuo tentativo è sempre stato fallimentare ad un certo punto quando lui si muove tu cerchi di risparmiare energie, ti tiri indietro in qualche modo. Okay, in questo momento Pogacar è “over the top”: un giorno però anche lui non sarà al massimo ma gli altri saranno meno determinati».

Dopo la Strade Bianche Valverde (secondo) ha abbracciato Pogacar: «Con una superiorità così, c’è poco da fare»
Dopo la Strade Bianche Valverde (secondo) ha abbracciato Pogacar: «Con una superiorità così, c’è poco da fare»

Ma Tadej è umano

In questo ultimo passaggio viene in mente la tappa del Ventoux dello scorso anno. Pogacar sicuro di sé attacca, ma non fa il solito vuoto. Vingegaard lo rintuzza e addirittura lo stacca. Roba di una manciata di secondi, nulla più, però quell’azione dimostrò che Pogacar era umano, che era battibile.

«Spesso si parte con la classifica disegnata in anticipo. La tua mente è razionale e sa che lui è più forte. Dici a te stesso che parti per il secondo posto e parti con una convinzione diversa. Il senso di auto efficacia (di cui abbiamo parlato più volte, ndr) si basa sulle esperienze precedenti, siano esse nel bene che nel male, e se un corridore contro di lui più volte le ha prese, alla fine s’innesca questo meccanismo difensivo».

E torniamo quindi al discorso di prima: perché devo distruggermi per seguirlo e poi essere anche staccato?

Vingegaard “stacca” Pogacar sul Ventoux, uno dei pochissimi momenti di difficoltà dello sloveno
Vingegaard “stacca” Pogacar sul Ventoux, uno dei pochissimi momenti di difficoltà dello sloveno

Azzerare la memoria

E allora viene da chiedersi come si possa superare, se non Pogacar, questo ostacolo mentale, quindi se stessi. Come ci si può trarre d’impaccio da una situazione di inferiorità psicologica.

«Il momento per fare dei cambiamenti è il presente. E’ da lì che costruisci il futuro. Il passato… è passato. Io dico sempre ai miei atleti: partite in gara con la memoria azzerata, specialmente se il momento che state attraversando non è di quelli super.

«Quando vai alle gare senza quella motivazione del tipo “spacco il mondo” è un po’ come boicottarsi in anticipo. Stiamo nel presente e tiriamo fuori il 100%, poi quello che si fa… si fa. Bisogna lasciare fuori quel che è successo in precedenza perché ci condiziona».

Non solo nello sport, nella società attuale troppo spesso non si vive il presente e la realtà. Imparare a farlo è un qualcosa che si allena
Nella società attuale troppo spesso non si vive il presente e la realtà. Imparare a farlo è un qualcosa che si allena

Vivere il presente

Un processo mentale affatto scontato, però. Non è facile mettere tutto da parte in un solo colpo. E la Borgia lo sa bene.

«Ci si riesce – spiega la Borgia – nel momento in cui mi focalizzo sul presente. E questo “focus”, chiamiamolo così, si può allenare. Nella nostra società siamo iper proiettati verso il futuro: siamo qui, ma con la mente siamo già verso quel che sarà. Progettiamo, siamo proiettati verso un tempo diverso.

«Dobbiamo allenarci nella vita quotidiana a vivere il presente, il momento. Sono a colazione, mi concentro sul latte e il caffè, e non sto lì col telefono in mano. Mi alleno, penso all’allenamento. Penso a ciò che faccio: questo è vivere il presente. E quando ho acquisito questo giusto processo mentale poi è più facile anche in gara attivarlo. E’ più facile azzerare la memoria».

«E questo modo di ragionare è ancora più importante in una corsa a tappe. Come ti comporti giorno dopo giorno. E’ tutto un archiviare e ripartire senza memoria. E se poi il periodo è di quelli super è chiaro che ti gasi, che interiorizzi il tutto. Ed è quello che sta vivendo Pogacar. Ormai ha delle certezze acquisite. E valle a minare quelle certezze».

Iserbyt psicologo 2022

La paura del grande evento: come gestirla per essere campioni

25.02.2022
5 min
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Che cosa succede nella mente di un atleta alle prese con un grande evento? La confessione di Eli Iserbyt, che ha ammesso di soffrire particolarmente le gare titolate, è una messa a nudo non comune fra i grandi sportivi, eppure abbiamo davanti agli occhi mille e mille casi di grandi atleti che, al momento decisivo, non riescono a cogliere quei risultati che si sono prefissi. Basta tornare alle scorse Olimpiadi, dove anche in casa italiana campioni che sembravano destinati al grande traguardo sono diventati la brutta copia di se stessi.

E’ un problema comune, tra i principali da affrontare nel mondo dello sport, non solo del ciclismo, e di non facile soluzione. Ne abbiamo voluto parlare con una psicologa specializzata in psicologia dello sviluppo e dell’educazione, Manuella Crini, partendo dal caso di Iserbyt come “exemplum” per sviluppare una casistica molto vasta: «Dal suo racconto si evince come lo stato d’ansia in quei casi travolga tutto il resto. E’ come l’interrogazione al liceo che assume contorni talmente ampi emotivamente da farti dimenticare tutto quello che hai studiato. L’ansia mette in moto neurotrasmettitori che possono essere positivi ma anche negativi: quando ci troviamo di fronte a un ostacolo, il nostro corpo produce maggiore cortisolo che serve ad essere maggiormente reattivi, una maggiore quantità di sangue raggiunge la corteccia della promemoria per andare oltre i propri limiti, ma non sempre questo è un bene».

Crini 2022
La psicologa piemontese Manuella Crini ci aiuta nell’analisi del confronto con “il” grande evento
Crini 2022
La psicologa piemontese Manuella Crini ci aiuta nell’analisi del confronto con “il” grande evento
Perché?

L’ansia può trasformarsi in paura e la paura può avere come effetto quello di paralizzare le nostre funzioni. E’ un meccanismo animale, nel quale ci sentiamo prede. Questa paura influisce sulla prestazione fisica, ci impedisce di ottenere il massimo dal nostro corpo. Come si vince? Non è facile, ma bisogna riuscire a capire cos’è il meccanismo scatenante, spesso un trauma pregresso se parliamo di uno schema ripetitivo nel tempo. C’è poi un altro fattore inconscio che può influire.

Quale?

Se quel grande traguardo diventa il fine principale della nostra attività, posso anche lasciarlo all’orizzonte, prolungare il “viaggio” prima di arrivare alla meta e quindi perdere piuttosto che vincere per non chiudere quel capitolo, intimorito da quel che verrà dopo. Invece rimango in questa sorta di limbo, continuo a lavorare per arrivarci pensando alla prossima volta.

Iserbyt World Cup 2022
Eli Iserbyt ci ha confessato le sue difficoltà nelle gare con un titolo in palio
Iserbyt World Cup 2022
Eli Iserbyt ci ha confessato le sue difficoltà nelle gare con un titolo in palio
E’ anche vero che, come Iserbyt ci ha testimoniato, nella grande occasione si inizi a pensare troppo all’importanza dell’evento, alla responsabilità…

E’ assolutamente possibile. Noi siamo perfettamente in grado di agire sul nostro cervello e le sue dinamiche, possiamo produrre più o meno serotonina che serve a concentrarsi, così nel caso negativo finiamo per vanificare meno quel che dobbiamo fare per arrivare a quel famoso traguardo. Ci perdiamo. Sentiamo che quell’evento è senza appelli. Ci sentiamo addosso lo sguardo di tutti, pronti a giudicarci se raggiungeremo o meno il determinato risultato.

Quanto influisce l’esperienza, l’età dell’atleta?

Molto, perché per un ragazzo il peso è minore in quanto c’è meno vissuto dietro le spalle. Non c’è per così dire un excursus storico di fallimenti. Con l’andare avanti si ha sempre più il timore che quella sia l’ultima occasione e ancor più questo succede quando il traguardo non è molto ripetuto nel tempo, basti pensare all’Olimpiade che arriva ogni quattro anni. Ciò amplifica quella sensazione di situazione senza appello.

Mondiali strada 2021
Il mondiale per molti è un peso, ma c’è ogni anno, figurarsi l’Olimpiade, vero test senza appelli
Mondiali strada 2021
Il mondiale per molti è un peso, ma c’è ogni anno, figurarsi l’Olimpiade, vero test senza appelli
Quanto può servire in questi casi la presenza del mental coach?

Tantissimo, ma è un lavoro molto delicato. Bisogna mettersi in gioco, intraprendere un cammino che non sai dove ti potrà portare. Il mental coach ti aiuta ad affrontare la tua attività, a guardare a quell’evento in maniera positiva, ci si lavora sopra ma si possono anche aprire porte delicate. Il soggetto può ad esempio rimettere in discussione tutto il cammino svolto per arrivare a quel momento, perdere la motivazione, scoprire che lo sta facendo non per se stesso ma per gli altri, non per rispondere ai propri reali bisogni. Serve un percorso motivazionale che non si sa dove porterà. Oltretutto, si può arrivare a un punto nel quale la figura del mental coach deve cedere il passo a uno psicologo specializzato: se l’atleta si trova di fronte a questa crisi motivazionale che va al di là dell’evento e mette in discussione la propria attività, avrà bisogno di un supporto personalizzato diverso.

Il mental coach nelle squadre deve lavorare con più persone, questo non rischia in alcuni casi di essere limitante, di non poter dare all’atleta quel supporto di chi avrebbe bisogno?

Rientriamo nel discorso appena fatto. Il mental coach, più che sull’individuo, lavora sul personaggio, non è un terapeuta, ma nel corso delle sedute possono venir fuori aspetti che richiedono la figura di quest’ultimo. Il mental coach può anche trovarsi di fronte a un conflitto d’interessi: è chiamato a esaltare le prestazioni sportive dell’atleta che invece può tendere verso tutt’altra direzione e a quel punto l’etica impone di passare la mano.

Mental coach 2022
La figura del mental coach è ormai diffusa in tutti i team, ma quanto incide sulla prestazione?
Mental coach 2022
La figura del mental coach è ormai diffusa in tutti i team, ma quanto incide sulla prestazione?
Il grande evento può diventare un ostacolo anche in corso d’opera? Prendendo sempre Iserbyt come esempio, in fin dei conti pur essendo ancora molto giovane le sue gare titolate e le sue medaglie le ha vinte, soprattutto nelle categorie giovanili…

Sicuramente, può avvenire all’improvviso, nel corso del tempo può anche cambiare la percezione della propria prestazione. Quel che da giovane, nelle categorie avveniva quasi con facilità può diventare difficilissimo fra gli “adulti” e questo accresce l’insicurezza, ci si sente piccoli di fronte a qualcosa di troppo grande. Essere al top è molto stressante, la capacità di gestire questa condizione può fare una grande differenza.

Come cambia la percezione della fatica col passare degli anni?

19.11.2021
5 min
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La fatica è l’anima del ciclismo. Il gioco è tutto lì, lo spettacolo è tutto lì. Ma le grandi storie derivano dal fatto che non sempre chi fa più fatica è anche colui (o colei) che vince. Anzi, spesso chi ne fa di più sono coloro che arrivano dietro. Ma a dare spettacolo è chi più resiste.

In un atleta, nel corso degli anni il rapporto con la fatica cambia. Si evolve, per assurdo può anche piacere, ma il più delle volte si arriva ad odiarla. E non sarebbe un qualcosa di strano, visto che è nella natura dell’essere umano cercare di farne il meno possibile.

Elisabetta Borgia già collaborava con la Trek-Segafredo, adesso è entrata a farne parte ufficialmente
Elisabetta Borgia già collaborava con la Trek-Segafredo, adesso è entrata a farne parte ufficialmente

Fatica ed età

Ma torniamo al ciclismo e poniamo la questione come cambi la percezione della fatica col passare degli anni ad Elisabetta Borgia, psicologa dello sport entrata ufficialmente a far parte della Trek-Segafredo.

«Da un punto di vista fisiologico – dice la Borgia – sappiamo che si fa più fatica sugli scatti, perché si perde esplosività. Estremizzando il concetto: si diventa più portati per le corse a tappe che per le classiche. Ma questa parte non è di mia competenza. Lo è quella mentale.

«La percezione della fatica nasce dalla consapevolezza di riuscire a starci, in quella zona di fatica appunto. Spesso sento dire dagli atleti: non riesco a fare fatica. Ebbene, molto dipende dalla motivazione e dal senso di autoefficacia che si ha. Il senso di autoefficacia è quanto ci si sente forti, per semplificare al massimo».

«Il rapporto con la fatica – riprende la Borgia – è strettamente personale. La differenza tra giovani e veterani potrebbe essere la fame di successi che si ha. E’ l’aspetto motivazionale, è il riuscire ad esprimersi sempre al massimo.

«Un atleta più maturo invece riesce magari anche a prevenire certe situazioni, ha una visione più equilibrata della corsa o di un determinato periodo e si crea le condizioni per raschiare meno il barile. Quando un giovane deve partire tre settimane per l’Australia dice: “Wow, che bello si parte”. Al corridore più esperto magari tutto ciò pesa: “Eh ma qui lascio la casa, non vedo i figli…”. Gli costa più fatica partire. E in qualche modo pensa già al suo “dopo lavoro”».

Stringere i denti. Lottare sino all’ultima goccia di sudore. L’età tende quindi a smussare questa attitudine, se così si può chiamare?

«Non credo che il mollare prima o dopo dipenda poi così tanto dall’età. Credo piuttosto dipenda dal soggetto. L’adulto magari non ha bisogno di fare fuorigiri in modo continuo come il giovane, perché l’adulto ci arriva di mestiere, sa tenersi qualcosa solo per quelle determinate situazioni. Ma se è motivato porta la sua fatica fino al limite».

Fatica e stress possono trasformarsi in paura
Fatica e stress possono trasformarsi in paura

Paura e blocco

Col passare degli anni si può avere “paura” di fare fatica? Il corpo, e di conseguenza la mente, la ripudiano.

«In fin dei conti il momento di fatica massima per un atleta è un momento molto importante. Il corridore si può sentire invincibile o vulnerabile.

«Invincibile, se per esempio, sta facendo tanta fatica ma è davanti da solo. In quel caso tutto gli viene bene e fare fatica quasi non gli costa.

«Vulnerabile, invece, quando è in un momento della corsa, della stagione o della carriera in cui fa tanta fatica ma non sta dove vorrebbe essere. In quel caso non riesce a raggiungere quel limite che ben conosce. I battiti cardiaci non salgono perché magari è stanco fisicamente o perché la mente non lo fa arrivare a quel limite perché non lo vuole più, perché è nauseato. Si crea un blocco».

La Borgia spiega che tutto ciò si risolve con degli approfondimenti e la prima cosa è risalire alle cause di questo blocco. Bisogna capire il perché. Bisogna capire se è un momento o se si è in una vera fase discendente della carriera. 

«In questo caso, se per esempio ti fa fatica fare anche le cose più piccole, devi accettare il fatto che magari non devi più correre. Di sicuro devi analizzare che tipo di paura hai nel far fatica: hai paura di tutto? Hai paura quando ti passano? Serve un’analisi approfondita».

Francesca Barale stremata dopo la crono iridata: il più delle volte i giovani riescono a dare anche più del 100%
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Valverde, regola ed eccezione

Insomma, e lo dice anche la Borgia, c’è uno strettissimo legame tra fatica e motivazione. Sino a quando la motivazione è alta la percezione della fatica “tarda” ad arrivare o comunque in qualche modo è accettata. E questo a prescindere dall’età. E Valverde (foto in apertura) in qualche modo è sia colui che conferma la regola che l’eccezione.

«Un corridore come lui – conclude la Borgia – riesce ogni volta a rimodulare i suoi obiettivi e a trovare di conseguenza le giuste motivazioni. Ha la voglia di un ragazzino, pronto a rischiare in discesa, a stare manubrio contro manubrio e farsi tirare il collo. Nello specifico parliamo di un campione fisico e mentale.

«E’ come chiedere ad un atleta che ha vinto tutto cosa lo motiva. Pensare di vincere per una seconda o terza volta quella determinata gara non potrà avere lo stesso carico motivazionale e invece lui ci trova la stessa gratificazione che in altri atleti non trovi».