Il regno degli italiani, a partire dal “Leone” Magni

03.04.2021
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Per i belgi il Giro delle Fiandre è la corsa più amata, quella che vale una carriera e soprattutto l’amore della propria gente. L’hanno vinta ben 69 volte, i belgi, anche se sono tre anni che la gara sfugge. Dietro, con 11 successi, ci sono Olanda e Italia. Agli italiani il Fiandre ha spesso sorriso, basti pensare che tra la vittoria di Argentin nel ‘90 e di Ballan nel 2007 ci sono ben 14 presenze sul podio, ma i successi azzurri iniziarono ben prima.

Iniziando da Fiorenzo Magni, che resterà sempre il Leone delle Fiandre. Tre successi per lui, unico a fare tris consecutivo dal ‘49 al ‘51 e proprio l’ultima vittoria è quella più leggendaria, fra i belgi inferociti per la lesa maestà, sicuri che in una giornata di tregenda l’italiano sarebbe crollato. Invece tra vento e pioggia Magni ha energie doppie rispetto ai rivali. Se ne va a 70 chilometri dal traguardo e solo il francese Gauthier, secondo a 5’35”, rimane sotto i 10 minuti di distacco. Una lezione amara per i locali.

Lo sprint vincente di Bugno su Museeuw e Tchmil, più indietro Ballerini
Lo sprint vincente di Bugno su Museeuw e Tchmil, più indietro Ballerini

Il Fiandre più inaspettato

Nel 1967 il favoritissimo è Eddy Merckx, agli inizi della sua parabola da Cannibale. Alla Salvarani la punta è Gimondi, ma un esperto stratega come Luciano Pezzi sa che per Merckx va prevista una marcatura speciale, affidata a Dino Zandegù, che in gara non lo molla un secondo, infastidendolo non poco. Alla fine rimangono in tre: Eddy, Dino e il belga Foré. Tutti scommetterebbero su Merckx, invece è Zandegù che attacca, Foré lo segue, Eddy non ne ha più. Ma neanche l’altro, che nemmeno fa la volata e Zandegù sul palco intona “O Sole Mio” per salutare i tanti immigrati italiani presenti.

Bugno, che rischio….

1994, la grande paura di Bugno: si presentano alla volata decisiva in 4, l’ex iridato è in forma, la volata è imperiosa, solo che dura un po’ troppo poco, alza il braccio al cielo quando ancora c’è spazio e il belga Johan Museeuw lo agguanta. Questione di millimetri, per decifrare i quali passano interminabili minuti mentre De Zan in telecronaca affianca al pessimismo una malcelata stizza per il marchiano errore del lombardo. Invece il responso dei giudici gli è favorevole, per fortuna…

Andrea Tafi sul Grammont: quel giorno non ce n’è per nessuno…
Andrea Tafi sul Grammont: quel giorno non ce n’è per nessuno…

Bartoli, la prima Monumento

Due anni dopo è la volta di Michele Bartoli, che si consacra specialista delle classiche vincendo la prima delle sue cinque Monumento (foto di apertura). Sul Kapelmuur si scatena, mette in crisi tutti gli specialisti, Museeuw in testa, scollina con una manciata di secondi che andranno progressivamente aumentando, mostrando una supremazia che sa di grandi capacità di affrontare un percorso così particolare, fra muri e pavé.

Fiandre, sobborghi di Toscana…

Le Fiandre sembrano diventati terra di Toscana… Nel 2002 Andrea Tafi mette il suggello alla sua quindicennale carriera, passata anche per il trionfo a Roubaix cogliendo quel successo che nessuno più si aspettava, alla soglia dei 36 anni, interpretando una corsa sempre d’attacco, facendo faville sul Paterberg e il Taienberg finché sul Kapelmuur rimangono in cinque, compreso il compagno di colori Nardello. Il finale è un tutti contro tutti, ma la stoccata giusta è la sua, a 4 km dalla fine, sfruttando la stanchezza dei rivali.

Una vittoria inattesa, quella di Alberto Bettiol, pronto a ripetersi, influenza permettendo
Una vittoria inattesa, quella di Alberto Bettiol, pronto a ripetersi, influenza permettendo

Bettiol, il più fresco

L’ultimo sigillo è del 2019, firmato Alberto Bettiol, che parte sul Kwaremont per riprendere i due fuggitivi di giornata per poi ritrovarsi solo, senza che da dietro riescano a riprenderlo a dispetto degli attacchi di Van der Poel e Asgreen. E’ la vittoria italiana numero 11 (le altre sono di Bortolami nel 2001 e Ballan nel 2007), ma la serie è ancora aperta, chi vuole aggiungersi?

Con Bartoli nelle Fiandre: Scinto, ti ricordi?

25.03.2021
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C’erano giorni che Scinto non vedeva l’ora di andare alle corse, perché allenarsi con Bartoli per il Fiandre era troppo pesante. Il periodo era più o meno questo, con la Sanremo alle spalle e davanti la trasferta del Nord. Erano gli anni 90, il ciclismo italiano aveva grandi squadre e grandi campioni anche per le pietre. E quando si andava al Nord con certi nomi – Bartoli e Ballerini, Tafi e Bortolami, Zanini e Baldato – si veniva guardati con rispetto.

In azione nel Fiandre vinto nel 1996, assieme a Tchmil
In azione nel Fiandre vinto nel 1996, assieme a Tchmil

«Ma Bartoli era davvero un fuoriclasse – ricorda Scinto – con un motore impressionante. Era nato per vincere e andare forte. Gli veniva tutto facile. Ha vinto tanto, ma avrebbe meritato di vincere tanto di più. Con lui ci si preparava prima per il Fiandre e poi per le Ardenne. E non so quale parte del lavoro fosse peggio, forse però quella della Liegi. Io lo dico sul serio: in corsa mi riposavo!».

Un cappuccino a Pasqua

Un anno riuscirono a passare la Pasqua a casa e gli parve strano. Il tempo era traballante, come fa a marzo quando non si decide ancora a passare dall’inverno alla primavera.

Vince al terzo Fiandre, dopo un 41° e un 7° posto
Vince al terzo Fiandre, dopo un 41° e un 7° posto

«Avevo la tavola apparecchiata – ricorda Scinto – con mia madre e altri parenti, quando intorno all’una esce uno spicchio di sole e squilla il telefono. Fu un tutt’uno. Era Michele e mi disse di andare fuori in bici. Lasciai tutti lì. Partimmo, dando appuntamento alle mogli a Forte dei Marmi per le cinque del pomeriggio. Le aspettammo prendendo un cappuccino al bar, mentre il tipo ci guardava pensando che fossimo matti. Un cappuccino alle cinque di pomeriggio del giorno di Pasqua. Poi quando arrivarono le mogli, facemmo dietro macchina fino a casa, dove arrivammo col buio dopo 190 chilometri. Si poteva pensare che fossimo matti, ma pochi giorni dopo Michele vinse la Freccia Vallone».

Gregario e amico

Partivano la mattina e andavano a cercarsi gli strappi che più somigliavano a quelli della prima corsa. Verso Lucca c’erano quei due o tre in pavé che venivano bene per il Fiandre, mentre quelli asfaltati erano più lunghi e si trovavano dovunque.

Quarto al Fiandre del 1999 vinto da Van Petegem
Quarto al Fiandre del 1999 vinto da Van Petegem

« Avere in corsa un corridore come me – racconta Scinto – per Michele era importante, perché psicologicamente gli davo lo stimolo che serviva. In una Liegi in maglia Asics, voleva fermarsi per l’allergia. Eravamo fissi in fondo al gruppo e io gli dicevo che non poteva mollare, che non eravamo al circuito di Poggio alla Cavalla. Finì che io tirai fino all’imbocco della Redoute, poi toccò a Coppolillo e Bettini e alla fine Michele andò via e vinse la Liegi. Io mi rialzai e lui alla fine fece un regalo a tutti e a me ne fece uno supplementare. Erano gesti che ripagavano di ogni sacrificio. Ma io gli stavo sempre accanto. Lo riparavo dal vento laterale, lo pungolavo, gli portavo l’acqua. Un anno al Fiandre, sul muro prima del Grammont, disse che gli era caduto l’Extran. Andai alla macchina e poi mi toccò risalire il gruppo, ma gli portai i suoi zuccheri a 35 chilometri dall’arrivo. Glieli diedi e mi staccai. Lo conoscevo, sapevo come prenderlo. Era un modo di fare ciclismo che si dovrebbe insegnare anche oggi, perché corridori che fanno il lavoro sporco ce ne sono pochi. E sono pochi anche i campioni come lui…».

Grandi Giri per Van Aert? Gli esperti hanno dei dubbi

18.03.2021
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Vince in volata, vince a crono, va forte in salita: Wout Van Aert è tutto ciò. Il belga sta riscrivendo le regole del corridore completo e stupisce non poco. Dopo la Strade Bianche aveva detto di puntare alla classifica generale della Tirreno-Adriatico e se non avesse incontrato un altro fenomeno come Pogacar ci sarebbe anche riuscito. Ma questo ci porta a pensare un po’ più là. Van Aert può vincere un grande Giro? Oppure è “limitato” alle corse di un giorno? E ancora: le gare di una settimana sono il suo ideale?

Ne abbiamo parlato con tre ex corridori, di altrettante generazioni: Massimo Ghirotto, Michele Bartoli ed Enrico Gasparotto.

Massimo Ghirotto (59 anni) oggi è commentatore dalla moto per Radio Rai
Massimo Ghirotto (59 anni) oggi è commentatore dalla moto per Radio Rai

Ghirotto dice sì, ma…

Partiamo da Massimo. Lui ha corso tra gli anni ’80 e ’90 e ha visto dal vivo anche gli ultimi super atleti che potevano vincere classiche e grandi Giri con un certa facilità.

«Credo sia la domanda che tutti si pongono nel mondo del ciclismo e credo che una risposta certa non la sappia neanche Wout stesso. Si tratta di un corridore rarissimo che va forte dappertutto, anche nel cross non dimentichiamolo. Il fatto però che sia alto 187 centimetri e pesi 77 chili ci dice che è anche un bel “bestione”. Mi viene in mente Indurain. Lui vinceva i Giri, ma non le classiche. Allora penso a Moser, che vinceva entrambi, però va detto, e lo sostiene Francesco stesso, che i Giri di Moser erano disegnati per lui. C’erano tante crono e pochi arrivi in salita.

«Per cui dico che sì, potrebbe anche vincere dei grandi Giri, ma dovrebbe perdere almeno 2-3 chili, anche se a guardarlo in volto mi sembra già bello scavato, ma lo può fare. In questo caso, in teoria, perderebbe un po’ di spunto veloce per le volate, ma è anche vero che se Van Aert dovesse pensare alla classifica generale immagino non faccia anche gli sprint: il rischio sarebbe alto e dovrebbe dosare le energie.

«Meglio nelle corse di una settimana? Con i se e con i ma non si fa molto, ma alla Tirreno se non ci fosse stato Pogacar avrebbe vinto. A Prati di Tivo Van Aert non aveva neanche un compagno di squadra. In quelle situazioni avere un paio di uomini incide molto.

«I grandi Giri sono sempre più duri: il Giro lo conosciamo, la Vuelta propone arrivi in salita con pendenze incredibili e anche il Tour si sta allineando. Van Aert dovrebbe lavorarci e dovrebbe avere una squadra per lui, ma credo che alla fine per saperlo del tutto debba fare una prova vera. Io per esempio mi dissi: possibile che grande e grosso come sono non posso andare forte a cronometro? Per risolvere il dubbio provai… e la risposta fu no! ».

Bartoli è stato uno dei più grandi interpreti delle classiche, oggi è un preparatore
Bartoli è stato uno dei più grandi interpreti delle classiche, oggi è un preparatore

Bartoli: «E’ più da classiche»

Seguendo l’ordine temporale, passiamo al punto di vista del campione toscano, protagonista delle classiche a cavallo tra gli anni ’90 e 2000.

«Van Aert che vince un Tour la vedo dura. Anche perché ha 26 anni ed è nella maturità o quasi. Sì, potrà crescere ancora, ma poco. Poi magari mi sbaglio e vince tutto! Però non vedo quei margini necessari per diventare un corridore da corse a tappe. Dove può primeggiare alla grande è nelle classiche. E’ un corridore che dà spettacolo e può vincere dalla Sanremo al Lombardia, passando per la Liegi. Lì ci sono salite che durano 10′ e su scalate di quella durata va più forte di altri. Anche al Lombardia può far bene, anche se è la classica più lontana dalle sue attitudini, ma avendo mostrato di andare forte in salita può farcela.

«Una sua caratteristica predominante è la determinazione. Rispetto a Van der Poel è più completo. Mathieu è più spregiudicato, è uno che punta forte su un obiettivo e lo vince. Guardiamo cosa ha fatto nella tappa di Prati di Tivo: si è staccato pensando al giorno dopo. Van Aert quel giorno invece ha mostrato grande concentrazione. Secondo me è andato anche più forte di Pogacar per certi aspetti. Gli scattavano in faccia, si staccava, li recuperava e li staccava a sua volta, ma non lo faceva perché voleva riprenderli, ma per salire con un passo che fosse il più veloce possibile. 

«Il belga nella tappa dei muri ha pagato un po’ rispetto a Pogacar perché lui è meno scalatore e nell’arrivo del giorno prima aveva speso di più, anche per questo dico che non lo vedo nelle tre settimane (situazioni così capitano spesso, ndr). Di contro, è anche vero che l’anno scorso nel finale del Tour è andato forte lo stesso. Però spesso in vista degli arrivi in salita, una volta finito il suo lavoro, si staccava. E questo conta nel risparmio delle energie.

«Chi mi ricorda? A mia memoria nessuno. Magari fra qualche anno dirò: questo corridore mi ricorda Van Aert. No, uno così vincente su tutti i terreni non c’è. Basta poi leggere i suoi numeri: vince le volate a 1.500 watt e tiene sulle salite vere. Wout unisce le due cose in modo incredibile».

Enrico Gasparotto, Saudi Tour 2020
Oggi Gasparotto collabora con il team continental Nippo-Provence e con Rcs come regolatore
Enrico Gasparotto, Saudi Tour 2020
Oggi Gasparotto collabora con il team Nippo-Provence e con Rcs come regolatore

Gasparotto: «Non si snaturi»

E per finire parola al friulano-svizzero, l’unico che tra l’altro con Van Aert ha anche condiviso gare e chilometri in gruppo visto che ha corso fino alla stagione scorsa.

«Se Van Aert può vincere un grande Giro? Io dico di sì, ma devono esserci situazioni favorevoli, come più chilometri a crono e meno arrivi in salita. Mi vengono in mente due esempi, Indurain e Cancellara. Fabian ha vinto un Tour de Suisse. Per dire che se troverà sul suo cammino percorsi ideali ce la può fare.

«Mi ha colpito la sua crescita progressiva. Parlavo con lui quando ancora era nella continental e alternava strada e cross. E’ giovane adesso, all’epoca nel 2016, era un “bimbo”. Sempre educato. Ci siamo anche incontrati qualche volta sul Teide. Sembrava dovesse venire alla Wanty. Negli ultimi anni si è dedicato moltissimo alla cura dei dettagli e il miglioramento è stato continuo. E’ cresciuto nelle tappe di montagna e anche a crono ha fatto passi in avanti. L’altro giorno a San Benedetto nonostante la bici nuova aveva una posizione perfetta ed è stato subito performante: significa che ci lavora.

«Van Aert alla Tirreno ha dimostrato che può vincere una gara di una settimana, magari non facilmente, ma se arrivi davanti a gente come Bernal e Landa che sono scalatori significa che ce la puoi fare. Nei grandi Giri invece subentrano altri fattori. Vero che lo scorso anno ha fatto grandi performance nella terza settimana ma se parti per fare classifica è diverso. Portare a spasso 76-77 chili per tre settimane è diverso che farlo con 59 o per una sola settimana (incidono anche spesa energetica e recupero, ndr).

A noi viene in mente il Tour di Wiggins. L’ex pistard di sua maestà fu costretto ad una grande rivoluzione del suo fisico per centrare la Grande Boucle. E Gasparotto ha la sua idea…

«Fossi in lui preferirei puntare alla “top five” dei cinque monumenti e alle corse a tappe di una settimana, piuttosto che cambiarmi per conquistare un grande Giro. Lui nasce perfetto per queste gare. Se dovesse concentrasi su un grande Giro andrebbe troppo a modificare le sue caratteristiche, ma il fascino del Tour è il fascino del Tour… e qualche corridore non resiste, ci perde la testa! Meglio, per me, mantenersi sui propri standard».

Bartoli, pochi dubbi: senza radio corse più belle

12.03.2021
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«Io non la sopportavo». Capita che durante una chiacchierata con Michele Bartoli, il discorso cada sulle famigerate radio, che collegano costantemente i corridori alla loro ammiraglia. Quando il vincitore di tante classiche correva, il loro utilizzo era stato appena sdoganato, ma non era massiccio come ora.

Uno strumento che secondo il toscano ha cambiato il ciclismo, e in peggio: «Il ciclismo di oggi è preordinato e quindi rischia di essere noioso, sempre svolto su copioni prestabiliti e diretti dall’esterno quasi i ciclisti fossero burattini manovrati da fili. No, non mi piace, non mi è mai piaciuto».

Non è cosa di poco conto, perché le radio hanno profondamente mutato il mestiere stesso del ciclista: «Quando affrontavi una gara, ad esempio era molto importante metterti lì a studiare il percorso, imparare a conoscerlo, magari fissare nella mente quei due-tre punti utili dove piazzare un attacco o comunque provare a smuovere la situazione. Senza la radio saresti chiamato a decidere metro dopo metro che cosa fare, quindi la radio toglie quella primaria qualità che consiste nel saper leggere la gara e la sua evoluzione».

Quali sono le qualità che inibisce?

L’estro, la fantasia soprattutto in quei corridori che hanno qualcosa in più che ne fa dei campioni, strutturati o potenziali. Il campione si vede non solo per lo scatto, per la continuità, ma anche per il suo saper capire come la gara sta per evolversi, che cosa fare per cambiare un destino che sembra già scritto. Le sfide più belle sono quelle dove ci si guarda in faccia, si studia l’avversario, si pensa a dove attaccare e quando. Ora invece è già tutto scritto.

«Con Ferretti si facevano le riunioni ei si usciva sapendo ciò che andava fatto»
«Con Ferretti si facevano le riunioni ei si usciva sapendo ciò che andava fatto»
Oltre al campione “finalizzatore”, non rischia di essere svilito anche il ruolo del “regista in corsa”, il corridore più esperto della squadra che pilota i suoi compagni verso le varie mansioni?

Certamente ed è una figura importante, forse tante volte dimenticata. Spesso è chi ha esperienza, chi ha vissuto quelle stesse situazioni che può dare il consiglio giusto in corsa, che può magari dirti: «Mettiti a ruota, ti riporto sotto». Oppure: «Risparmia le gambe, sono azioni velleitarie, lascia che se ne occupino gli altri». Ora non serve più, c’è chi guarda la gara dallo smartphone e ti dice che sta succedendo e che cosa devi fare. Ma il vero direttore sportivo non è questo…

Cosa intendi dire?

Io ho avuto la fortuna di correre con la guida di Ferretti: quando finivamo la riunione prima della gara avevamo sempre un piano A e uno B, sapevamo che cosa fare e uscivamo dalla riunione con le idee chiare. Il vero direttore sportivo sa prevedere la gara prima che si svolga, ti dà le indicazioni giuste mettendoti nelle condizioni poi di giocarti le tue carte in base alle tue sensazioni e ragionamenti. Secondo me oggi le gare sono appiattite e lo stesso ruolo dei Ds è svilito.

Quindi proibiresti le radio in corsa?

Diciamo che il loro utilizzo dovrebbe rimanere confinato nei limiti delle comunicazioni legate alla sicurezza, delle decisioni prese dai giudici. Il resto dovrebbe tornare in mano a chi corre e al suo intuito, solo quello dovrebbe fare la differenza insieme alle gambe…

Fiandre, Bartoli punta su Ballerini (e su Moscon)

08.03.2021
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Il Giro delle Fiandre si avvicina e chi lo conosce bene, chi lo ha già affrontato sa che non è una classica come le altre. E’ quasi un crocevia nel corso della stagione, un momento fondamentale di passaggio, che emette verdetti mai banali. Lo sa bene Michele Bartoli, che lo vinse nel 1996 finendo ininterrottamente nei primi 10 fra il ’95 e il ’99.

L’apricorsa di solito teneva a bada il pubblico, ma il pubblico non ci sarà
L’apricorsa di solito teneva a bada il pubblico, ma il pubblico non ci sarà

«E’ una gara completa – dice – che può essere vinta da un gran numero di corridori perché può finire in svariati modi: con un’azione solitaria, un gruppo ristretto ma anche una selezione più moderata. Non sai mai come si evolverà, per questo il Fiandre non si vince solo in base al fisico, ma serve un complesso di caratteristiche. Dicono che sia una corsa altimetricamente impegnativa, ma non è certo per quegli scalatori troppo leggeri che possono essere rimbalzati via».

E’ una corsa dispendiosa più fisicamente o mentalmente?

Entrambe. Per affrontarla al meglio serve una grande concentrazione perché in ogni momento può accadere qualcosa, devi essere sempre sul chi va là. In ogni fase c’è una decisione da prendere per risparmiare quelle energie che ti saranno fondamentali più avanti, per attaccare o rispondere agli avversari. Certo, oggi con le radioline, con le ammiraglie che tutto controllano e ti avvertono è più facile, ma devi comunque essere sveglio e saperti muovere.

Anche Moscon è adatto al Fiandre. Qui nel 2017, il suo anno migliore: 15°
Anche Moscon è adatto al Fiandre. Qui nel 2017, il suo anno migliore: 15°
Quando correvi tu, le radioline non c’erano: quanto contava la figura del “regista in corsa”?

Tantissimo, proprio perché serviva saperla leggere in ogni momento. Quella è una qualità primaria per un corridore perché la fantasia, il colpo a effetto nascono da questo. Le radioline hanno un po’ svilito il nostro mestiere, ma sarebbe un discorso lungo da affrontare…

Ci sono momenti in cui ti puoi rilassare?

No, anche le fasi iniziali hanno il loro peso, più che in altre corse anche le fughe iniziali che possono sembrare velleitarie possono avere invece un significato, essere tentativi a tutti gli effetti o base per successivi attacchi. E’ fondamentale studiare prima della corsa, conoscere il percorso nei minimi particolari, perché devi decidere metro dopo metro che cosa fare, è una corsa che può cambiare in qualsiasi momento, non puoi sapere mai come andrà a finire.

Michele Bartoli, Giro delle Fiandre 1996
Michele Bartoli conquista così, in solitudine, il Fiandre del 1996
Michele Bartoli, Giro delle Fiandre 1996
Michele Bartoli conquista così il Fiandre del 1996
Quali sono i corridori italiani ideali attualmente per il Giro delle Fiandre?

Io ne identifico due, molto diversi fra loro: Davide Ballerini e Gianni Moscon. Ballerini è il corridore ideale per il Fiandre perché può adattarsi a varie soluzioni tattiche, unendo velocità e resistenza. Sono anni che gli dico che ha un grande spunto veloce e finalmente in questa stagione lo sta mettendo a frutto. Davide può attaccare da lontano ma anche seguire le azioni e sfruttare il suo spunto nel finale. Nessuno vuole portarselo con sé all’arrivo, troppo pericoloso. Ballerini è il prototipo ideale del corridore per il Fiandre.

E Moscon?

Lui ha bisogno di una situazione diversa, serve una corsa dura nella quale poter attaccare anche da lontano (purtroppo la caduta di Kuurne e la frattura del polso potrebbero rendere parecchio difficile il suo compito il prossimo 4 aprile, ndr). E’ importante che sia innanzitutto lui a credere nelle sue possibilità, ma il Fiandre è ideale per il suo modo di correre perché gli offre molte occasioni per far saltare il banco. Per vincere d’altronde, per lui come per chiunque altro, serve la corsa perfetta, nella quale tutto deve andare nella maniera migliore proprio perché è una corsa complicata come nessun’altra. Peccato per quel che gli è accaduto, poteva davvero essere l’anno buono…

I picchi del cross (che fanno bene anche allo stradista)

30.01.2021
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In allenamento sia esso per il calcio, il ciclismo o lo sci… si tende a riprodurre e in alcuni casi ed estremizzare il gesto tecnico-atletico a cui si è chiamati. Tra le discipline del ciclismo, il ciclocross è forse quella che più è fedele a questa regola. Chi prepara una Sanremo farà 300 chilometri una volta o due, forse, ma chi punta al cross non solo spesso farà quell’ora a tutta, ma nel mezzo tenderà a riprodurre fedelmente i famosi picchi di potenza che dovrà ad esprimere.

Partendo da un file Strava di Lorenzo Masciarelli, con l’aiuto di Michele Bartoli (ora preparatore) abbiamo cercato di capire non tanto come si allena un crossista, ma cosa succede quando fa dei picchi. E Lorenzo, seppur giovane, 17 anni, ne ha di esperienza con il cross. Figlio di Simone (il maggiore dei tre fratelli) e nipote di Palmiro, un paio di anni fa si è trasferito in Belgio, proprio per dedicarsi corpo ed anima al ciclocross.

L’esploso dell’allenamento di Masciarelli. In azzurro la curva della potenza e i suoi picchi
L’allenamento di Lorenzo Masciarelli. In azzurro i picchi di potenza

I picchi massimali

Dal file si evince come Lorenzo abbia fatto una mezz’oretta iniziale di riscaldamento e più o meno intorno ai 14 chilometri abbia iniziato a fare sul serio. In particolare è molto intensa la prima parte del lavoro. Ci sono 15 picchi, della durata di 10″-15” nei quali Masciarelli arriva anche oltre 1.300 watt. Un tipico lavoro intermittente. La “curva” della potenza tende poi a stabilizzarsi. Infine segue un’altra mezz’ora di scioltezza.

«Ad un primo sguardo – dice Bartoli – sembra più un allenamento per stradisti, quasi di un velocista che deve fare forza dinamica. Nel cross non si riproduce lo sforzo vero e proprio della corsa, ma si lavora sulla qualità che più serve, cioè i massimali. Quindi variazioni e lavori lattacidi, come ha fatto Masciarelli. Devi infatti saper convivere con l’acido lattico.

«Chiaramente a volte si fa anche la distanza, quella serve sempre, tanto più se il crossista è anche uno stradista. E’ la base delle preparazioni. I lavori massimali e specifici vanno bene anche per la strada e quando ne hai fatti due a settimana sono sufficienti».

Dorigoni
Lorenzo Masciarelli vive in Belgio e corre nella Pauwels Sauzen
Lorenzo vive in Belgio e corre nella Pauwels Sauzen

Come in una crono

«Il ciclocross – continua Bartoli – è quasi come fosse una cronometro, oggi più di ieri. Una volta infatti se i percorsi erano veloci si inserivano dei tratti a piedi proprio per rallentarli, oggi invece se sono veloci… tanto meglio. Di conseguenza l’allenamento diventa ancora più simile a quello della strada. Un’ora di sforzo massimale o quasi, che è quello che appunto accade in una crono.

«In quelle accelerazioni Masciarelli è stato al massimo per 15” con dei recuperi “ampi” (oltre il minuto, ndr), stava quindi cercando la “prestazione” e non stava simulando la gara. A mio avviso un allenamento ideale per la simulazione è quello di fare dei periodi di 10′-15′ in cui si spinge forte, si rilancia, si riparte da fermi… ».

L’importanza del recupero

Nell’interval training, che è forse l’allenamento simbolo del cross, è importantissimo il tempo di recupero tra una fase intensa e l’altra. Se bisogna abituarsi all’acido lattico questo deve essere inferiore alla durata della fase intensa, se invece si cerca la prestazione il recupero si allunga.

«Un velocista – spiega il toscano – che cerca di fare un grande sprint in allenamento deve essere il più fresco possibile o farlo con una piccola dose di acido lattico per riprodurre quel che avviene nei finali di corsa. Ma nei famosi 40″-20”, in quei venti, secondi si abitua il fisico a recuperare in breve tempo all’acido lattico. E questo nel cross succede spesso.

«Io lo dico ai miei ragazzi dell’Accademy, bisogna sempre gestirsi, anche in una disciplina da fare “a tutta” come il ciclocross. Nei primi 15′ di gara bisognerebbe stare un po’ sotto i propri valori, che poi non è altro quel che si fa in una crono. Se in una gara contro il tempo si deve viaggiare a 400 watt, nelle fasi iniziali meglio attestarsi sui 380 watt che sui 410. Perché altrimenti si crea quel dispendio elevato che nel finale si paga con gli interessi. Se parti a 380 watt, magari finisci a 420-430, ma se parti a 410 finisci a 360. Nelle fasi iniziali si consuma sempre di più. Lo stesso vale per il cross, certo se c’è da tenere un gruppetto in percorso veloce si tiene duro, ma nel limite delle possibilità bisogna gestirsi».

Mathieu Van der Poel, Soudal Scheldecross 2020
Van der Poel, esprime sempre grandi watt, ma in corsa il valore aumenta ulteriormente
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La potenza di VdP in corsa, eccolo a “caccia” di un avversario

Strada e cross, stessi watt

Dicevamo: due allenamenti specifici a settimana, molta intensità. Questa formula va bene sia per la strada che per il cross.

«I 1.300 watt di Masciarelli o i 1.500 di Van der Poel sono gli stessi che toccano su strada, solo che nel cross sono costretti a farli 20 volte e su strada una o due. E’ per quello che certe attitudini del cross vanno bene anche su strada, è per quello che Van Aert e Van der Poel spesso fanno molti attacchi su strada ed è per quello che ho deciso di creare l’Accademy. Credo molto a questa cosa: sono utili per formare l’atleta. 

«I 40″-20″ in allenamento li fai e cerchi di eseguirli al meglio, ma non hai coinvolgimento emotivo. Segui i tuoi valori, nel cross li fai in modo naturale, ma con lo stimolo dell’avversario».

Il giorno che a Sydney cambiò la storia del ciclismo

19.01.2021
5 min
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Un giorno, la storia del ciclismo ha preso una piega diversa. Un giorno, la cultura dello sport delle due ruote e quella olimpica si sono finalmente sposate, dopo essersi ignorate per decenni. E’ vero, la storia delle Olimpiadi nel ciclismo affonda quasi ai suoi primordi, ma fino al 1992 nella gara su strada gareggiavano solo i dilettanti, con un’evidente sperequazione tra i Paesi del blocco comunista, dove lo sport era di Stato, e gli altri. Quell’anno però il Cio aveva deciso di aprire le porte delle Olimpiadi ai professionisti: tutti ricordano l’edizione di Barcellona 1992 come quella del Dream Team americano di basket, che offrì uno spettacolo indimenticabile. Nel ciclismo si dovettero attendere quattro anni, ma la gara di Atlanta non colpì la fantasia degli appassionati. Per quella di Sydney, il 27 settembre 2000, fu diverso: allora la storia del ciclismo cambiò e fu grazie a due italiani.

Azzurri guidati dal cittì Fusi, dal dottor Daniele e dal segretario generale Standoli
Azzurri guidati dal cittì Fusi e dal segretario generale Standoli

Attacca Ullrich

L’evoluzione di quella gara fu tanto semplice quanto rivoluzionaria: a una trentina di chilometri dalla fine, il tedesco Jan Ullrich, reduce dalla piazza d’onore al Tour de France dietro Armstrong, chiamò a sé due compagni della Telekom, il connazionale Andreas Kloden e il kazako Alexandre Vinokourov e andò in fuga con loro. Tre uomini significava podio monopolizzato ed essendo i tre appartenenti allo stesso team (anche se alle Olimpiadi si corre per nazionali) voleva dire che la loro gara sarebbe diventata da lì una cronometro a squadre. Pressoché impossibile raggiungerli, ma due italiani ci provarono: Michele Bartoli e Paolo Bettini.

Due toscanacci di ferro, compagni nella Mapei. Un tentativo che poteva sembrare velleitario, ma proprio per questa sorta di sfida ai mulini a vento la storia del ciclismo cambiò. Perché? Semplice: fino ad allora, in ogni gara ciclistica, mondiali compresi, si pensava che quel che conta è solo il vincitore, nessuno si ricorda del secondo, men che meno alla rassegna iridata. Alle Olimpiadi vincono in tre e vincono davvero. Loro sapevano che dovevano provarci, anche se era un’impresa disperata.

Fra gli azzurri in Australia, anche Pantani, Di Luca e Casagrande
Fra gli azzurri in Australia, anche Pantani, Di Luca e Casagrande

Due azzurri in caccia

A tanti anni di distanza, quando ci ripensa la voce di Michele Bartoli s’increspa ancora: «Mi è rimasta la delusione tipica del quarto posto, perché potevamo vincere. La gara olimpica è particolare perché unisce un po’ di professionisti che affronti durante l’anno a tanti altri corridori che vengono da Nazioni non di primo piano, che non conosci. Poi si corre in 5 per squadra e non puoi controllare la corsa, quindi serve maggiore attenzione e noi, al momento cruciale, non l’avemmo. Per questo l’Olimpiade è così difficile da vincere».

Quell’inseguimento fu meno velleitario di quanto si pensi, perché i due azzurri ci credevano davvero: «Dovevamo provarci e arrivammo davvero vicini ai tre. Diciamo che ci mancò un terzo corridore della Mapei – dice ancora Bartoli – allora avremmo gareggiato ad armi pari, ma sarebbe bastato avere un altro corridore in grado di darci qualche cambio e li avremmo ripresi».

Jan Ullrich scatena la fuga e si fa aiutare da Kloden e Vinokourov compagni alla Telekom
Jan Ullrich si scatena, lo aiutano Kloden e Vinokourov

Bettini e la curva

Paolo Bettini è ancora più specifico: «Se non li riprendemmo, fu per causa mia. Dal mattino la gara era stata una battaglia e io e Di Luca eravamo quelli deputati a lavorare di più per tenere coperti Bartoli, ma anche Casagrande e Pantani. Nella parte finale di gara ero finito, ma mi ritrovai a inseguire con Michele. Ricordo che nel finale eravamo arrivati a una quarantina di metri, in prossimità di una curva, ma appena girata non riuscii a rilanciare l’azione e il distacco raddoppiò. A quel punto avevamo capito che la gara era finita, ma io non ne avevo più…».

Una cosa diversa

In una gara differente, come una grande classica, magari non ci si provava neanche: «E’ una cosa diversa – riprende Bartoli – perché hai più compagni di squadra e puoi gestire la corsa in molte altre maniere. Lì è una gara individuale. Dovevamo provarci anche se sapevamo che era difficile».

«E’ vero – ribatte Bettini – ma lì capii che l’Olimpiade è qualcosa di particolare, perché vincono in tre: io per esempio ho vinto un argento ai mondiali, ma non se ne ricorda nessuno, quasi neanche io, perché chi arriva secondo è un … Vabbé, avete capito!».

A Bartoli non resta che la volata per il quarto posto, che sa di beffa
A Bartoli non resta che la volata per il quarto posto

Progetto Atene

Eppure quell’epilogo (Bartoli finì per vincere la volata del gruppo dei battuti, Bettini arrivò nelle retrovie e la gara la vinse Ullrich) ebbe un peso enorme per il Grillo livornese, che vinse l’edizione successiva.

«Ero giovane a Sydney – dice – ma capii che potevo vincere, che anzi dovevo lavorare per vincere. Il 2000 fu un anno fondamentale per la mia carriera, avevo vinto la Liegi dimostrando che potevo lottare per ogni classica, poi cominciai a pensare ad Atene e non sbagliai. Tempo fa sono andato in Portogallo a trovare Paulinho, argento dietro di me. Da professionista non ha vinto nulla, ma nel suo Paese è considerato ancora un eroe: l’Olimpiade è questo».

Podio assicurato. Vince Ullrich, poi Vinokourov e terzo uno sfinito Kloden
Podio assicurato. Vince Ullrich, poi Vinokourov e terzo uno sfinito Kloden

Due scuole

Da allora la gara olimpica è diventata un grande obiettivo: «E’ cambiata la cultura ed è cambiata la storia – dice Bettini – ai nostri tempi il patron Lefevere odiava le Olimpiadi perché interferivano con la stagione, soprattutto con il Tour. Oggi non è così, tanto è vero che molti stanno programmando la stagione in funzione della gara di Tokyo e sono pronti a rinunciare al Tour, ma nelle squadre nessuno protesta perché sanno quanto conta la gara olimpica».

«Io però sono legato alla vecchia scuola – riprende Bartoli – non riesco a dare alle Olimpiadi lo stesso valore di un mondiale o di una classica monumento, perché è su quelle che si basa una carriera».

«Capisco l’idea di Michele proprio perché è figlia di un pensiero più tradizionale – ribatte Bettini – più legata alla storia del ciclismo, io però vi dico una cosa: ho vinto due mondiali, ma baratterei volentieri una maglia iridata anche per un bronzo olimpico, perché ho provato sulla mia pelle che cosa significa essere un atleta olimpionico. Quando ci penso mi vengono ancora i brividi…».

Stagione post Covid: ripresa lenta, perché?

08.01.2021
4 min
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Inverno 2020-2021 uno dei più strani e cervellotici anche dal punto di vista della preparazione. Molti, o meglio alcuni corridori (comunque non pochi) sembra stiano trovando più difficoltà del solito a tornare a regime, a riprendere il ritmo come si deve, a collegare testa e gambe dopo la stagione del covid.

Michele Bartoli, che adesso è uno dei preparatori più apprezzati, non solo conferma questa tesi, ma ci aiuta anche a capirne qualcosa di più.

Enric Mas, Alto de Angliru, Vuelta 2020
Enric Mas alla Vuelta 2020 che si è conclusa l’8 novembre
Enric Mas, Alto de Angliru, Vuelta 2020
Mas alla Vuelta 2020 che si è conclusa l’8 novembre

Covid e calendari

«Non voglio generalizzare – dice Bartoli – ma io credo che molta della fatica nel riprendere sia soprattutto mentale. La seconda parte della scorsa stagione è stata iper compressa e concentrata. Molto intensa sotto ogni punto di vista. I corridori non hanno mai staccato veramente tra un appuntamento e l’altro e questo ha portato a maggior stress, meno stacco mentale. E di conseguenza la pausa invernale classica per questi atleti non è sufficiente».

In più va considerato che effettivamente la stagione è finita parecchio in ritardo. La Vuelta si è conclusa a novembre inoltrato. Durante il lockdown c’è chi ha staccato e chi invece ha continuato a menare. E alla fine tutti, chi più chi meno, hanno sofferto quel periodo di “limbo” imposto dal Covid. Mentalmente è stata senza dubbio una delle stagioni più toste di sempre. E su questo non ci piove.

Vincenzo Nibali, Stelvio. GIro d'Italia 2020
Nibali è stato tra i più provati dalla stagione del Covid
Vincenzo Nibali, Stelvio. GIro d'Italia 2020
Nibali ha sofferto la stagione del Covid

Difficoltà soggettiva

Ma chi soffre di più: uno scalatore, un velocista? Un giovane, un “vecchio”? Un atleta del WorldTour o uno delle professional?

«No, non credo ci sia una statistica, almeno vedendo i miei atleti. E’ un fatto di carattere, è più un qualcosa di soggettivo. Io credo sia anche “colpa” dei calendari che hanno affrontato e che devono affrontare. Chi deve andare forte presto, già a fine gennaio, in qualche modo è motivato e concentrato ed esula da questo problema. Chi invece è chiamato ad entrare in gioco più avanti ha meno stimoli e fare dei lavori specifici magari gli pesa di più».

E il Michele Bartoli corridore come avrebbe reagito all’inverno del covid: avrebbe avuto difficoltà a ripartire?

«Io credo che sarei ripartito con la voglia. Ero uno che l’inverno se lo godeva. Stavo davvero 30, anche 40 giorni senza toccare la bici e quando la riprendevo avevo grandi stimoli. Poi mi piaceva essere subito competitivo e per questo ci mettevo poco a responsabilizzarmi».

Elia Viviani, Tour de France 2020
Viviani è il corridore italiano con più giorni di gara nel 2020, ben 67 (pista esclusa)
Elia Viviani, Tour de France 2020
Per Viviani 67 giorni di gara (pista esclusa)

Quale cura?

E allora come devono fare questi atleti in difficoltà a rimettersi in riga: devono riposare ancora? Devono insistere? Devono andare dal direttore sportivo, prenderlo per la giacchetta e dirgli di farli correre prima?

«Credo sia importante parlarne – riprende Bartoli – è così che si trova il giusto compromesso. Se i miei obiettivi sono il Giro o le Classiche non è questo il momento di forzare e posso intervenire più facilmente. Ne parli con il preparatore e il ds e trovi un cammino personale. Alla fine la vera difficoltà è quella di tirare fuori la bici dal garage le prime 5-6 volte.

«Con i miei atleti sono bastati leggerissimi ritocchi e sono ripartiti alla grande. Un piccolo scarico ulteriore, un po’ più di libertà dal punto di vista del mangiare… e si risolve. Sì, con quel chilo in più, entreranno in forma più tardi, soffriranno un pelo di più e avranno buone sensazioni dieci giorni dopo, ma ne sono consapevoli, non è un problema. L’importante è non perdere mai di vista l’obiettivo. Questo è fondamentale».

Mathieu Van der Poel, Wout Van Aert 2020

Il cross, un mazzo di foto e l’occhio di Bartoli

05.01.2021
6 min
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Metti una sera sul divano, in tivù non c’è niente di interessante e allora sfogli bici.PRO nel cellulare, riguardando le foto di Van Aert e Van der Poel nelle gara di cross già pubblicate. Fai avanti e indietro e mentalmente cominci ad annotare le differenze. E siccome ti hanno insegnato a farlo, scatta l’idea di tirarne fuori un pezzo. Già, ma sono le dieci, è decisamente tardi: chi vuoi che ti dia retta a quest’ora? Però un messaggio si può mandare e probabilmente Michele Bartoli è il più adatto, visto che del posizionamento ha fatto un’arte e nel cross si è ributtato con un entusiasmo speciale. Non è facile sopportare certi giornalisti, viene da sorridere mentre le foto sono in viaggio, ma per fortuna con Michele ci si vuol bene, avendo cominciato praticamente insieme. Infatti lui risponde dopo circa un’ora. Appuntamento fissato: ne parliamo domattina. A volte gli articoli nascono così…

Wout Van Aert, posizione in pianura 2020
Wout Van Aert, in fase di spinta posizione raccolta, come su strada
Wout Van Aert, posizione in pianura 2020
Wout Van Aert, posizione raccolta, come su strada
Mathieu Van der Poel, posizione in pianura 2020
Mathieu Van der Poel, leggermente più lungo rispetto al rivale
Mathieu Van der Poel, posizione in pianura 2020
Per Van der Poel, una posizione più allungata

Il ginocchio in curva

Il mattino ha per lui l’incombenza di tenere acceso il termocamino, che scalda l’accogliente villa a Montecarlo di Lucca, dove prima del Covid ci si trovava spesso, prima per commentare le sue vittorie e poi con gli anni per analizzare quelle degli altri. Il discorso prende subito il largo.

«Sembra che Van der Poel – dice Bartoli – abbia qualcosa di più in termini di sicurezza. Vedete in discesa come porta il corpo indietro? Questo gli permette di fare le curve più veloci, impedendo che la ruota posteriore scivoli. E proprio in curva ha il ginocchio fuori dalla bici, si vede che è lui a gestire la traiettoria (foto in apertura). Van Aert invece sembra che cerchi di non scivolare e un po’ subisce la situazione».

Wout Van Aert, 2020, ostacolo a piedi
Wout Van Aert scende di bici e supera l’ostacolo a piedi
Wout Van Aert, 2020, ostacolo a piedi
Van Aert preferisce saltare l’ostacolo a piedi
Mathieu Van der Poel, 2020, ostacolo in bici
Sullo stesso ostacolo, Mathieu Van der Poel resta in bici
Mathieu Van der Poel, 2020, ostacolo in bici
Van der Poel preferisce saltarlo stando in sella

Come su strada

La foto che li ritrae laterali in pianura fa prima annotare che entrambi usano la doppia corona anteriore, mentre Michele osserva che i ragazzini della sua Academy usano quasi tutti il monocorona.

«Ma questi due qua – dice Bartoli, riferendosi ai due giganti della Jumbo-Visma e della Alpecin-Fenixspingono forte, fanno delle velocità importanti. Il monocorona in questo ti limita.  Comunque Van der Poel sulla bici è più lungo, che però è un discorso soggettivo. Si potrebbe pensare che più sei corto e più sei reattivo, ma lui evidentemente si trova bene così. Ho fatto un confronto fra la loro posizione su strada e questa del cross, e devo dire che per entrambi cambia poco. Questo spiega anche perché possano passare da una bici all’altra senza clamorose fasi di adattamento, grazie anche a gare che sono molto meno spezzettate da ostacoli rispetto a una volta. Oggi il cross di alto livello è molto più pedalato, per cui anche loro, una volta che hanno fatto qualche richiamo di tecnica, possono allenarsi benissimo su strada».

Wout Van Aert, posizione in discesa 2020
Wout Van Aert in discesa sembra piuttosto rigido, di certo moto concentrato
Wout Van Aert, posizione in discesa 2020
Van Aert in discesa sembra un po’ rigido
Mathieu Van der Poel, posizione in discesa 2020
Per Van der Poel, peso più indietro e maggior controllo
Mathieu Van der Poel, posizione in discesa 2020
Van der Poe, con il peso indietro si guida meglio

Percorsi pedalabili

Qui il discorso un po’ si allarga e pesca nella sua esperienza personale di ieri e in quella dei suoi ragazzi al presente.

«A livello tecnico e di ambiente – dice Bartoli – il circuito del ciclocross è un po’ come quello della MotoGp, il solito gruppo di atleti che si sposta sui percorsi in giro per l’Europa. E così ad alto livello i criteri con cui vengono disegnate le gare sono abbastanza omogenei. Prima si puntava su scalinate, ostacoli, un’infinità di tratti a piedi. Oggi soprattutto a livello internazionale ci si è spostati verso uno sport più vicino alla strada. Del resto, se si vogliono avvicinare i ragazzi alla multidisciplina, pur non cambiando faccia al cross, ci sta che lo rendi più pedalabile. In Italia invece si traccia un po’ all’antica, con i rettilinei non oltre i 50 metri e tante curve secche. Lo stesso discorso potrebbe valere per la mountain bike. Perché continuano a fare percorsi artificiali con sassi riportati? Se anche in quel settore si riuscisse a ridurre le cause di pericolo, Van der Poel non sarebbe più il solo a essere così trasversale. Uno come Sagan e tanti corridori che vanno in cerca di nuovi stimoli, penserebbero davvero di farci un salto».

Wout Van Aert, corsa a piedi 2020
Nei tratti a piedi, Van Aert abbraccia il manubrio e la bici non si muove
Wout Van Aert, corsa a piedi 2020
Nei tratti a piedi, Van Aert abbraccia il manubrio
Mathieu Van der Poel, corsa a piedi 2020
Van der Poel, la bici in spalla e la mano sul manubrio
Mathieu Van der Poel, corsa a piedi 2020
Van der Poel, una mano sul manubrio

Diversi sull’ostacolo

A proposito di ostacoli, desta curiosità che nello stesso punto e nello stesso giro, Van der Poel salti mentre Van Aert è sceso di bici e scavalca la tavola correndo a piedi.

«Dipende se l’ostacolo viene dopo una curva – dice Bartoli – per cui devi rilanciare l’andatura da fermo, oppure se ci arrivi lanciato. Se lo salti in bici, sicuramente il consumo energetico è minore. Mentre se viene subito dopo una curva, fai meno fatica a scendere e farlo a piedi. Come un’altra differenza, che però è molto soggettiva, è il modo in cui portano la bici in spalla. Van Aert la abbraccia, Van der Poel si limita a sostenerla. Entrambi tengono ferma la ruota anteriore. Sembra una banalità, ma dovreste vedere cosa succede nelle gare dei bambini, che non ci pensano e corrono con la ruota davanti che gli sbatte sulle gambe e spesso li fa cadere…».

Dal cross al Fiandre

Il tempo di annotare che fra i ragazzini dei campi di gara questi due campioni sono il vero riferimento e ogni cosa o scelta tecnica che li riguarda diventa fonte di emulazione, poi il toscano ci lascia con l’ultima suggestione.

«Speriamo che questo Covid davvero finisca – conclude Bartoli – perché la prossima cosa che vogliamo fare è costruire un percorso permanente di cross, a Montecarlo o Montecatini, dove una volta a settimana alleneremo i ragazzi. Questa attività mi ha preso molto, sto seguendo le trasferte più vicine. Quello che mi permetteva di primeggiare al Nord l’ho preso dal cross. Lo scatto in piedi sul Grammont viene dal cross. Non sono cose che alleni da adulto, ma se le impari da bambino, non le perdi più. La multidisciplina non è soltanto uno slogan politico».