Come nasce la doppietta Giro-Tour? Ricordi e analisi con Martinelli

31.12.2023
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L’annuncio di Tadej Pogacar di voler tentare la doppietta Giro-Tour non vede placare la sua enfasi. E’ un argomento sempre in voga nel ciclismo, affascinante quanto difficile. Ma in queste storie, congetture, sogni… c’è chi ha fatto i fatti. Giuseppe Martinelli il Giro d’Italia e il Tour de France nello stesso anno li ha vinti nel 1998 con Marco Pantani. Ed è ancora l’ultima doppietta in essere.

Al direttore sportivo bresciano è bastato dare il “la” ed ha iniziato a raccontare, con una passione sconfinata. La questione sul piatto: Pogacar può riuscirci? Cosa serve per conseguirla? Come visse all’epoca questa sfida?

Giuseppe, torniamo a quel 1998. Come nacque l’idea della doppietta?

A vincerli tutti e due non ci si pensava, almeno non fino in fondo. L‘obiettivo principale era il Giro e tutto era programmato per quello. Poi ci sarebbe stato il Tour. Marco aveva già fatto i due grandi Giri nello stesso anno sin da quando era giovane. Nel 1994 fu secondo al Giro e terzo al Tour. Il percorso del Giro 1998 poi era disegnato bene, quindi si puntava su quello.

E il Tour?

Al Tour saremmo andati con l’idea di vincere un paio di tappe adatte a Pantani. Anche perché al contrario del Giro il percorso non era super ideale per lui: due crono lunghe, una di 60 e una di 40 chilometri, più il prologo. E avversari fortissimi, tanto più su tracciato disegnato in quel modo.

Come gestiste quell’intermezzo fra i due Giri?

Dopo il Giro Marco restò fermo per due settimane. Per la precisione 13 giorni, senza toccare la bici veramente. Fece un circuito a Bologna il lunedì dopo il Giro e poi non lo vidi, né sentii per un po’.

Tredici giorni, ma sono tantissimi…

Sì, sì, a meno che non abbia sgambato su un pedalò! Lui mi chiamò, cosa rara, che ero al Giro di Svizzera con Garzelli che lo stava per vincere. Gli chiesi come stava, se pedalava e lui mi fece: «Martino ma io non ho la bici a casa». «Come non hai la bici?», replicai. In pratica se l’era dimenticata a Bologna dopo il circuito. Mandai Orlando Maini in magazzino, che per fortuna non era lontano, e gliela portò. E Marco riprese a pedalare.

Froome è stato l’ultimo a salire sul podio di Giro e Tour nello stesso anno. Era il 2018. Qui il suo memorabile attacco sul Colle delle Finestre che gli valse la maglia rosa
Froome è stato l’ultimo a salire sul podio di Giro e Tour nello stesso anno. Era il 2018. Qui il suo attacco sul Colle delle Finestre che gli valse la maglia rosa
Incredibile! E cosa fece scattare la molla del Tour?

Sicuramente la morte di Luciano Pezzi influì, diede il “la” ad altre prospettive. Dopo la sua morte Marco e i ragazzi iniziarono ad allenarsi forte. Lo avremmo fatto comunque, ma lo spirito era diverso. Solo che all’inizio di quel Tour, con il livello che c’era noi in pratica eravamo ancora in vacanza.

Cioè?

All’inizio c’era il prologo. Marco arrivò tra gli ultimi incassando 1’30” e nelle prime tappe faticò moltissimo, anche se erano tutte di pianura. Un giorno fummo anche fortunati. C’erano dei ventagli, noi eravamo staccati, poi cadde la maglia gialla e per rispetto il gruppo si fermò. Morale della favola arrivammo alle montagne con già una maxi crono alle spalle e “solo” 5′ di ritardo. A quel punto ho pensato che qualcosa di buono si potesse fare, ma non vincere. Non era come oggi per Pogacar, che ha la doppietta nelle corde.

Quei giorni di stacco dopo il Giro furono davvero molti. Oggi probabilmente non sarebbe possibile…

Come detto nessuno ci pensava. Però quell’anno, come quest’anno, c’era una settimana in più tra Giro e Tour. Marco mi ripeteva: «Vabbè, Martino ma tanto abbiamo tempo per allenarci». Ma vai pensare che lo avremmo vinto! Iniziai a crederci veramente non tanto il giorno delle Deux Alpes, quando prese la maglia gialla, ma quello dopo. Ullrich era furioso. Sulla Madelaine attaccò con violenza. Ma Marco lo tenne bene e anzi gli “regalò” la tappa. Nonostante tutto fino a Parigi non ci avrei messo la mano sul fuoco.

Secondo Martinelli Pogacar ha tutte le carte in regola per la doppietta. Rispetto ad altri del passato lui la può programmare
Secondo Martinelli Pogacar ha tutte le carte in regola per la doppietta. Rispetto ad altri del passato lui la può programmare
Tu poi Martino ci hai riprovato anche con altri a fare la doppietta: Contador, Nibali…

In realtà solo con Nibali perché Alberto lo sfiorai in Astana. Con Nibali il discorso era un po’ diverso. Non c’è mai stata davvero questa decisione per la doppietta. Sì, ha fatto il Giro e il Tour o il Giro e la Vuelta, ma l’idea un po’ come fu per Pantani, era di vincere intanto il primo Giro. Il discorso è questo: la doppietta è difficile anche solo da pensare. O ti viene, o sei un fenomeno. In questi ultimi anni ci hanno provato Contador, Froome, ma poi ci sono riusciti fenomeni come Pantani, Indurain, Hinault, senza tornare troppo dietro ad un ciclismo tanto diverso. Eppure oggi è diverso ancora.

Cioè?

Oggi ci sono i corridori che possono pianificare questa doppietta. Uno è proprio Pogacar e l’altro è Vingegaard. Sono forti a crono, in salita, in pianura. Staccarli non è facile. E in tal senso faccio il tifo affinché Tadej ci riesca. Anche perché corridori così come fai a non amarli? Anche se non sono i tuoi. Se perdi da loro lo accetti. Quindi se mi chiedeste: «Pogacar può fare doppietta?». Io risponderei di sì, è nelle sue corde. Poi non è facile perché di là si ritroverà Vingegaard appunto.

Quest’anno come nel 1998 tra Giro e Tour c’è una settimana in più. Questo incide?

Sì, Pogacar potrebbe staccare un po’ di più. Non dico come Pantani, ma quasi. Può fare una settima di stop, sicuro. Anche perché non va dimenticato che il Tour è esigente sin da subito. E deve presentarsi al top.

Come al Giro del resto…

Vero. C’è Oropa alla terza tappa. Ma questo potrebbe essere un vantaggio. Se riuscisse a creare un bel distacco, poi potrebbe correre di conserva, lasciare la maglia, il che significa guadagnare almeno un’ora e mezzo di recupero tutti i giorni.

La storia Ullrich, qualche ipocrisia e una lezione da imparare

08.12.2023
6 min
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A volte si confessa per pulirsi la coscienza, altre per un tornaconto. Nel caso di Ullrich la convenienza ha la forma di un documentario su Amazon Video, dal titolo tedesco “Der Gejagte”, che significa “La Preda”. Raramente si confessa quando si ha qualcosa da perdere. Non per caso, libri e serie televisive, sono stati realizzati dopo scandali e a fine carriera. Mai durante, come dovrebbe fare chiunque avesse a cuore l’ambiente in cui vive. Nonostante ciò, vedere che finalmente Jan è uscito dal periodo più buio della sua vita riempie di gioia, perché di quel periodo sciagurato gli unici a pagare sono stati i corridori. Altri figuri, sia pure defilati, sono ancora in giro e non hanno pagato che spiccioli.

«Ullrich e io – chi parla è Lance Armstrong – eravamo icone nei nostri Paesi. Io perché avevo superato il cancro e ho ispirato molte persone. Jan perché è stato il primo tedesco a vincere il Tour. Sembra immodesto, ma eravamo i più grandi ciclisti al mondo e facevamo parte di quella generazione di merda. Mentre gli altri ciclisti dopati hanno potuto continuare a lavorare, Jan, io e Marco Pantani siamo stati trattati come se fossero stati infettati. Questo è il prezzo che paghi quando sei il migliore in uno sport, sei un simbolo. Mi ci sono voluti 10 anni di lotta per uscire da questo buco. E’ stato difficile. Ed è per questo che non ho lasciato Jan solo quando ho sentito che stava male».

Per 5 anni, Ullrich è stato battuto da Armstrong al Tour. Qui siamo nel 2001, tappa di Luz Ardiden
Per 5 anni, Ullrich è stato battuto da Armstrong al Tour. Qui siamo nel 2001, tappa di Luz Ardiden

Un calderone di comodo

Ullrich alla fine ha rilasciato l’intervista che ci si aspettava da anni e ha ammesso di essersi dopato anche per vincere il Tour del 1997, che ha ribadito di sentire ugualmente suo. Mentre in quel mischione di ammissioni e confessioni, l’americano che non fu mai gentile con il romagnolo e probabilmente ne apprezzò le esclusioni dal Tour, ha ritenuto ugualmente di tirarlo dentro, sebbene non sia mai stato trovato positivo e soprattutto essendo impossibilitato a rispondere.

Avendo condiviso con lui tanti giorni, ne ricordiamo bene lo stupore quando raccontava di come Ullrich, 73 chili, rispondesse alle sue accelerazioni (Pantani pesava 58 chili) sull’Alpe d’Huez. Riepilogando dunque, il tedesco è stato male, Armstrong ha impiegato 10 anni per uscire dal buco, Marco è stato fregato e poi ammazzato. E a febbraio saranno 20 anni dalla sua morte.

Confessare ha tolto un peso dal cuore di Ullrich: al netto di tutto, un bene per la sua vita
Confessare ha tolto un peso dal cuore di Ullrich: al netto di tutto, un bene per la sua vita

La preda arresa

«Ero molto depresso – racconta Ullrich nell’intervista al tedesco Hajo Seppelt – come atleta ho sofferto molto, ma dopo la carriera, la mia vita ha preso una svolta nella direzione sbagliata. Nel 2018 ho vissuto il momento peggiore, esponendomi a tutto ciò che una persona può sopportare fisicamente e mentalmente. Il passo successivo, dal punto di vista pratico, sarebbe stato la morte».

Hajo Seppelt è un noto cacciatore di doping in Germania. Seppelt affrontò Ullrich durante la sua carriera, ma Jan evitò tutte le domande che potessero costringerlo a rivelare il segreto. Invece, dopo aver parlato per la prima volta del suo passato di doping in un’intervista con il magazine tedesco Stern, Ullrich è tornato a sedersi proprio davanti a chi lo ha inseguito lungo tutta la carriera. E ha vuotato il sacco.

Party di fine Tour 2005, Armstrong annuncia il ritiro, Ullrich festeggia con lui (foto Liz Kreutz)
Party di fine Tour 2005, Armstrong annuncia il ritiro, Ullrich festeggia con lui (foto Liz Kreutz)

Una serie Amazon

«Sono sopravvissuto a malapena a quella crisi estrema della vita – racconta – e ad un incidente. Dopo due anni in cui mi sono rafforzato fisicamente e mentalmente, sono giunto alla decisione che avevo davvero bisogno di rimettere in carreggiata la mia vita. In realtà ho perso molti anni a causa di errori e debolezze personali. Come è possibile che si sia arrivati a questo? E’ stato un processo durato diversi anni. Tutto è iniziato quando non mi è stato permesso di partire al Tour de France nel 2006 (a causa del presunto coinvolgimento nell’Operacion Puerto, ndr)».

Armstrong si era ritirato dopo sette maglie gialle consecutive, il titolo era vacante e se lo sarebbero conteso Ullrich e Basso, gli uomini degli ultimi podi, ma entrambi si fermarono sullo stesso ostacolo. La maledizione di quel Tour si abbatté anche sul suo vincitore: quel Floyd Landis che venne trovato positivo e venne cancellato dall’ordine di arrivo, con vittoria finale di Oscar Pereiro Sio.

E’ il Tour 2005, l’ultimo di Armstrong: il pubblico tifa (invano) perché Ullrich ne interrompa il dominio
E’ il Tour 2005, l’ultimo di Armstrong: il pubblico tifa (invano) perché Ullrich ne interrompa il dominio

Solo contro tutti

«Da candidato vincitore al Tour – racconta Ullrich nell’intervista – sono caduto e all’improvviso mi sono ritrovato solo, mentre tutta la Germania mi sparava addosso. Dall’essere il miglior cavallo della scuderia sono diventato un “cavallo da fattoria”, il che è stato molto difficile. Ho perso molti anni e adesso ne sono triste. I miei problemi sono sorti a causa di errori personali, a causa della mia debolezza. Ero in alto, sono caduto in basso in basso, ora per me l’obiettivo è il centro. Anche le piccole cose possono renderti felice».

Ullrich si ritirò nel 2007. A causa dell’Operacion Puero, il Tas di Losanna gli impose una sospensione, annullando i suoi risultati del 2005. Solo nel 2013, il tedesco ammise l’uso di sostanze dopanti.

In un post su Instagram, Ullrich ha ringraziato Tonina, arrivata per lui dall’Italia (foto Amazon Video)
In un post su Instagram, Ullrich ha ringraziato Tonina, arrivata per lui dall’Italia (foto Amazon Video)

Perché parlarne

E’ difficile scegliere di parlarne, lo facciamo per l’amore verso i corridori che assaporarono la gloria e si presero la croce sulle spalle. La presenza di Tonina Pantani alla presentazione del documentario è quella di una mamma che ha sentito di voler abbracciare come un figlio il rivale di Marco.

Si diceva che è difficile parlarne ancora. Da una parte si vorrebbe dimenticare tutto, dall’altra si fa fatica a non essere d’accordo con chi dice che, pur in un ambiente viziato dalla chimica, fossero i più forti al mondo

La vera utilità nel ricordare certe storie sta nella voglia di non cadere ancora negli stessi errori. Nella consapevolezza che non bisogna mai abbassare la guardia e che è bene dedicare a ogni impresa enorme il rispetto e il giusto stupore, vigilando sommessamente che tutto si sia svolto nelle regole. Nessun antidoping in quegli anni fu in grado di fermarli: ci riuscirono soltanto le inchieste di Polizia.

EDITORIALE / L’esempio del tennis e i bilanci federali

27.11.2023
5 min
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Basterebbe rileggere il discorso di insediamento di Angelo Binaghi, rieletto nel settembre 2020 alla guida della sua Federazione per il sesto mandato consecutivo con il 78,81 per cento dei voti. Così forse ci si renderà conto di cosa sia successo negli ultimi anni nel mondo del tennis. E magari si capirà che probabilmente la vittoria di ieri in Coppa Davis non sia stata casuale (in apertura foto Getty Images/ITF).

«La situazione di prosperità che l’andamento di questa curva ci raffigura – diceva nel 2020, commentando l’andamento del fatturato dal 2002 – è frutto dei nostri sacrifici, della azione comune che abbiamo fatto i primi anni per risanare la Federazione, per rilanciare gli Internazionali BNL d’Italia e per rendere il tennis molto molto più popolare di prima. Ed è anche quella che ci ha permesso, anno dopo anno, di aumentare i trasferimenti verso le società e di finanziarne l’impiantistica, di portare prima il tennis italiano nelle case degli italiani con il nostro canale Supertennis. E poi per la prima volta nella storia in modo strutturale nelle scuole dell’obbligo, di lanciare il padel in Italia, e di ottenere l’organizzazione delle Next Gen a Milano e delle ATP Final a Torino.

«Ci ha permesso anche di non alzare le quote federali negli ultimi anni. E di aumentare gli investimenti nel settore tecnico ed ottenere i risultati che le nostre atlete prima e i nostri atleti poi hanno ottenuto in questi magnifici 15 anni».

Sopra, il bilancio della FITP in crescita del 389% dal 2002 al 2019. Poi il crollo Covid e la previsione fino al 2025 (fonte FITP)

L’uscita dal buio

Prima il tennis aveva conosciuto il buio, quello vero. Poche vittorie. Pochi atleti ai primi posti del ranking. La Coppa Davis che mancava dal 1976, stesso anno dalla vittoria di Panatta al Roland Garros. Leggete quell’intervento, fatto quando Sinner aveva 19 anni, perché fa capire il tipo di lavoro che si è fatto per risollevare il movimento.

Si parla delle Nitto APT Finals di Torino, assegnate per cinque anni a Torino, con la spinta del sindaco Appendino, diventate l’occasione per un’impennata del fatturato, con «la più alta sponsorizzazione che una federazione sportiva in Italia abbia mai avuto».

Si parla del ruolo illuminante delle donne nel Consiglio federale, dopo anni di soli uomini.

Poi si parla dell’essersi rivolti nel 2017 ad una società di consulenza che ha revisionato completamente la struttura della Federazione e delle sue Società controllate. Che ha imposto di cercare nuove figure manageriali come il Direttore Generale Marco Martinasso. E ha creato all’interno dei nuovi processi decisionali, tipici di una grande azienda.

Angelo Binaghi, ingegnere sardo, sta guidanto il tennis per il sesto mandato consecutivo (foto FITP)
Angelo Binaghi, ingegnere sardo, sta guidanto il tennis per il sesto mandato consecutivo (foto FITP)

Federazioni a confronto

Leggetelo. Sottolineate i punti che vi sembrano interessanti e poi metteteli a confronto con quanto ha fatto la Federazione ciclistica di Carlesso, Ceruti, Di Rocco e Dagnoni, che hanno guidato la FCI nell’identico periodo.

C’è un altro grafico in quel discorso: quello che combina il fatturato acquisito (2002-2019). Esso tiene conto dei 27 milioni di perdita causati dal Covid e vi unisce il bilancio previsionale fino al 2025, con una stima del + 759%. Si era capito che il trend fosse in crescita. Che gli investimenti nelle scuole, l’arrivo degli sponsor, il sostegno del Governo e l’arrivo di una nidiata di talenti avrebbero portato la curva a crescere ancora.

Felice Gimondi, Marco Pantani, Tour 1998
La Davis mancava dal 1976. Pantani vinse il Tour del 1998, prima di lui Gimondi nel 1965: 38 anni di attesa
Felice Gimondi, Marco Pantani, Tour 1998
La Davis mancava dal 1976. Pantani vinse il Tour del 1998, prima di lui Gimondi nel 1965: 38 anni di attesa

Qualche domanda

Come il tennis, anche il ciclismo ha i biglietti e abbiamo star della pista di livello mondiale: in che modo hanno generato ricchezza per la Federazione? Perché non c’è ancora una Sei Giorni, in cui i tifosi pagherebbero oro per vedere le sfide fra Ganna, Viviani, Milan e il resto degli specialisti?

Di recente RCS Sport ha siglato un’intesa con l’ANCI e alla base ci sarebbe anche un contributo pubblico per la valorizzazione sostenibile del territorio e la diffusione della cultura sportiva giovanile: non potevano essere fondi interessanti per la FCI?

Potrebbero i rappresentanti della nostra Federazione mostrarci la stessa curva del bilancio federale?

Hanno pensato di ristrutturarsi e di interpellare professionisti in ambito marketing capaci di intercettare risorse vere?

Abbiamo un Consiglio federale qualificato per gestire il momento?

Abbiamo organizzato un mondiale a Imola e a breve la partenza del Tour: in che misura si è lavorato e si lavorerà per trarne profitto? 

Non si vuole qui dire che tutto questo non sia stato fatto, ma che di certo non è stato comunicato come si dovrebbe. Se il ciclismo sta avviando una gestione simile a quella del tennis, saremo i primi a celebrarlo con tutti gli onori.

La FCI sfrutterà a dovere la partenza del Tour dall’Italia per promuovere il ciclismo?
La FCI sfrutterà a dovere la partenza del Tour dall’Italia per promuovere il ciclismo?

L’albero di Ground Zero

Qualche giorno fa, commentando un post su Facebook, Beppe Da Milano ha posto una domanda: «Che cosa ne sarà delle piccole società dilettantistiche?».

Caro Beppe, la domanda va posta a chi finora ha gestito e continua a gestire il ciclismo come se fossimo ancora negli anni Novanta. Stando alla gestione attuale, ci sarebbe da dire che non hanno futuro. Potrebbero diventare l’interfaccia del ciclismo, qualora il ciclismo entrasse nelle scuole? Potrebbero, ma qualcuno sta lavorando al progetto?

La rinascita non può essere legata al caso. Magari sbocceranno anche un altro Pantani e pure un altro Nibali, fioriti in un ciclismo italiano che aveva un’organizzazione di assoluto primo piano. Potrebbero nascere anche oggi, come l’albero sopravvissuto alle macerie dell’11 settembre che ora è il simbolo della rinascita di Ground Zero. Se però intorno non si crea un ambiente favorevole, come garantiremo la continuità?

La Mercatone Uno vent’anni dopo, in ricordo di Pantani e Cenni

12.11.2023
8 min
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IMOLA – Una biglia rossa, la figura di un ciclista. A poche centinaia di metri dall’uscita dell’autostrada di Imola, procedendo verso sud, se si rivolge lo sguardo a destra si vede l’ex torre della Mercatone Uno con ai piedi l’iconica biglia di Marco Pantani. Un simbolo, che riporta alla memoria una miriade di ricordi legati al Pirata. Un luogo che ieri, vent’anni dopo, si è popolato da chi ha condiviso risate, successi, pianti con il campione romagnolo. Ex corridori della Mercatone Uno, direttori sportivi, massaggiatori, meccanici…

Il tutto organizzato dal suo ex compagno Fabiano Fontanelli e da Micaela Cenni, figlia di Romano che da sempre ha creduto nel ciclismo, prima con la Germanvox e poi con Marco. Un museo intitolato ai due volti della squadra romagnola, che ha saputo scrivere pagine di storia dello sport, attraverso imprese epiche che rimarranno indelebili per sempre. Uno spicchio di tutto quello che è stato, si è preso un piano di quella torre, quasi a voler scortare la memoria di Marco e Romano dietro quella biglia adagiata sul prato verde che vede passare gli anni e gli sguardi di tutte le generazioni. 

Voglia di ricordare

Arriviamo sotto la torre, la biglia è alle nostre spalle. Il piazzale che ci circonda meriterebbe di essere ricoperto da un red carpet per la quantità di persone che hanno contribuito a rendere grande questo sport. Giuseppe Martinelli, Orlando Maini, Roberto Conti, Davide Cassani, Michele Coppolillo, Dmitri Konychev, Marcello Siboni e si potrebbe continuare per almeno dieci righe, basti vedere la foto in apertura. 

Tutto questo è nato dalla volontà di due persone. «Fabiano Fontanelli ha organizzato tutto – dice Micaela Cenni – ha voluto che tutti fossero qui per salutare Marco e il mio papà a 20 anni dalla chiusura di quel progetto che oggi rimane un riferimento per quello che è riuscito a raccogliere. Tutto quello che avevamo è stato venduto. Ho ricomposto la collezione di maglie della Mercatone Uno, in parte con alcune cose che avevamo, in parte le ho riacquistate. Voglio che questa città abbia un luogo dove ricordare il mio papà e Marco».

Tutti per uno

Una vera e propria rimpatriata, come quelle che si fanno dopo tanti anni con gli ex compagni di classe. Qui sono passati vent’anni e una differenza c’è, la maggior parte di loro ha fatto parte della vittoria di un Giro d’Italia o di un Tour de France. Se socchiudiamo gli occhi, con un po’ di immaginazione, ci sembra di vederli ancora con quell’iconica maglia gialla e la scritta Mercatone Uno sul petto, sulla schiena, sulla pelle, nel cuore… 

Saliamo le scale, arriviamo nella sala conferenze dell’attuale Center Tower. Cassani prende la parola e, come solo Davide sa fare, con il suo tono profondo e carismatico inizia a ricordare cosa sono stati per lui quei sette anni (dal 1997 al 2003, ndr).

«Non ci vediamo da anni – dice – è bellissimo ritrovarvi tutti qui e la cosa straordinaria è essere dietro la biglia di Marco, non c’è luogo migliore. Siamo qui perché Romano Cenni credette nel ciclismo in più momenti, con la Germanvox all’inizio, poi arrivò la Mercatone Uno con Bartoli, Cipollini e Casagrande. Poi terminò l’attività nel 1995 con l’arrivo della Saeco. Ma cosa succede? La Mercatone Uno ritorna nel ’97 grazie a due persone, Cenni e Luciano Pezzi. Sono loro due che uniscono le loro forze e scommettono su questo corridore romagnolo, Marco Pantani».

Ognuno il suo

La sala si è immersa in un religioso silenzio. Da qui parte un valzer di aneddoti e ricordi che rimbalzano da una sedia all’altra, ognuno ha un ricordo da condividere di Marco e di quegli anni. Si potrebbe scrivere un libro con quello che si è detto, storie che si conoscono già, ma che riportano alla mente un periodo dove il corridore più forte al mondo si chiamava Marco Pantani e vestiva la maglia della Mercatone Uno. Cassani dopo il suo intervento dice: «Qui tutti hanno un ricordo di Marco, chi vuole lo condivida». 

Martinelli incalzato da Davide lo raggiunge: «Io qui ho imparato a fare il diesse e le dinamiche di una squadra di alto livello grazie ai consigli di Luciano Pezzi e di Franco Cornacchia. Su Marco potrei parlare per ore, mi ricordo che non ero sicuro che volesse partire per il Tour dopo il Giro d’Italia vinto nel ’98. Lo andai a prendere a Cesenatico e finché non arrivammo alla partenza in Irlanda non ci credetti veramente.

«Si era allenato come una bestia – salta su Roberto Conti – mi ricordo che ci fermammo ad una fontana a Rimini e Marco chiese a me e a Siboni: «Ragazzi se vado al Tour secondo voi quanto faccio?». Noi rispondemmo: «Potresti arrivare sul podio, magari terzo». Inutile dire che si arrabbio parecchio con noi e ci disse che sarebbe andato solo per vincere».

Le voci si susseguono, ognuno ha qualcosa da raccontare. Maini e la mantellina sul Galibier, Conti sulla Marmolada, Coppolillo e le sue sfide da dilettante, Borra e la ripresa dall’infortunio del ’95. Agostini da compagno di scuola, il meccanico “Falco“ e le sue regolazione sulla Bianchi del Pirata. Racconti ed emozioni di chi quegli anni li ha vissuti in prima persona.

La biglia

“Il mio Pantani, i miei Campioni”, questo è il titolo del memoriale inaugurato oggi, nonché titolo del libro di Romano Cenni a cura di Beppe Conti. Appena ci affacciamo vediamo un’ampolla, con all’interno centinaia di biglie di Marco Pantani come quella fuori. Un ricordo semplice, ma dal significato senza limiti.  

Un intero piano dedicato alla memoria di Cenni e Pantani, maglie appese che ripercorrono gli inizi e le imprese. Le bici che si sono arrampicate sulle salite più importanti d’Europa. Prime pagine di giornale con i titoli che ancora oggi se letti fanno venire i brividi. Un viaggio tra i ricordi di due delle persone che hanno reso speciale una squadra e un periodo del ciclismo in tutto il mondo. Un viaggio per tutti.

Così da ieri, chi percorre l’A14 in direzione Ancona e si trova la mastodontica biglia rossa di Marco Pantani sulla destra, può rallentare ed entrare per vivere quei ricordi e portarsi a casa la sua di biglia per custodirla gelosamente, sapendo che è molto di più di un giocattolo per bambini.

Christian Prudhomme, 2023, presentazione Grand Depart Firenze

Prudhomme, L’Equipe e il Tour: l’orgoglio e uno scivolone

31.10.2023
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Christian Prudhomme e il suo Tour de France. Si respira grande orgoglio nelle parole del direttore della Grande Boucle, forse perché essendo un giornalista, sa che ogni giorno suggerirà un titolo e questo fa la differenza.

Orgoglio. Divertimento. Condivisione. Appartenenza. Il racconto di Prudhomme, per come l’ha raccolto L’Equipe, lascia trasparire qualcosa che va oltre la soddisfazione per un lavoro ben riuscito. Resta un solo scivolone, forse perché raccontato al pubblico francese, che riguarda Marco Pantani e anche il Gastone Nencini dimenticato. La sua sensibilità contro la nostra.

«Il punto di partenza sarà l’Italia – dice Prudhomme – sarà la prima volta che il Tour partirà da lì ed è abbastanza sorprendente, addirittura anomalo. Abbiamo fatto questa scelta per due motivi. Il primo è che la polizia francese avrà molto da fare con le Olimpiadi e le Paralimpiadi. In più il 1924 è il centenario della prima vittoria al Tour di un italiano (Ottavio Bottecchia, ndr). All’inizio pensavamo che fosse la sola ricorrenza necessaria, ma i nostri amici italiani ci hanno detto: “Qui ci sono Gino Bartali, Marco Pantani e Fausto Coppi”».

Tour 2014, lo Yorkshire viene preferito a Firenze e allora ci pensa Nibali a mettere le cose a posto
Tour 2014, lo Yorkshire viene preferito a Firenze e allora ci pensa Nibali a mettere le cose a posto

A ruota dello Yorkshire

Firenze era già stata candidata al Tour del 2014, come pure lo Yorkshire. Bradley Wiggins aveva vinto la Parigi-Nizza e il Delfinato, prima di essere il primo britannico a vincere il Tour.

«Pensammo che fosse giusto – ricorda Prudhomme – cavalcare la vittoria di un inglese al Tour e scegliemmo lo Yorkshire. Ma una cosa mi colpì davvero, quando alla fine di marzo 2020, nel pieno della pandemia, ricevetti una foto e un messaggio dal sindaco di Firenze. “Firenze bella e triste – c’era scritto – non ho dimenticato il sogno del Tour”. Nardella ha fatto squadra con il presidente dell’Emilia-Romagna, Stefano Bonaccini, che salvò i mondiali del 2020 quando la Svizzera disse no. Inoltre, passeremo lungo lo strappo dove attaccò Alaphilippe».

Julian Alaphilippe mondiali Imola Shimano
Imola 2020, l’attacco di Alaphilippe decide il mondiale
Julian Alaphilippe mondiali Imola Shimano
Imola 2020, l’attacco di Alaphilippe decide il mondiale

Il ricordo di Pantani

E qui, nella bella intervista rilasciata all’Equipe, Prudhomme concede qualcosa di troppo allo sciovinismo francese, quasi snobbando la scelta di ricordare Pantani nella tappa da Cesenatico a Bologna. Ci sarà modo e tempo di chiedergliene una spiegazione.

«Fra Cesenatico e Rimini – dice Prudhomme nell’intervista – c’è indiscutibilmente Pantani, tra luci e ombre. Non volevamo passare particolarmente dal luogo dove è nato e dove è morto, ma è andata così. Parleremo naturalmente anche di Poulidor e della sua vittoria del 1975 a Pla d’Adet (dove il Tour tornerà, ndr) su cui verrà costruita una sua statua a grandezza naturale. Arriviamo per la prima volta anche a Colombey les Deux Eglises 80 anni dopo lo sbarco in Normandia (giugno 1944). In realtà non esiste alcun dogma se non quello di evitare due tappe di seguito che si concludano con uno sprint di gruppo. Ecco perché, nella prima settimana ci sono una crono e la tappa delle strade bianche. E anche quella è anche un omaggio all’Italia e alle Strade Bianche. Avremo quattordici settori intorno a Troyes con 32 chilometri fra vigneti, campi di mais e girasole, con strappi molto brevi ma ripidi».

Felice Gimondi, Marco Pantani, Tour 1998
Tour 1998, Pantani sul podio di Parigi con Gimondi, 33 anni dopo la sua vittoria. La Francia è il delirio
Felice Gimondi, Marco Pantani, Tour 1998
Tour 1998, Pantani sul podio di Parigi con Gimondi, 33 anni dopo la sua vittoria. La Francia è il delirio

Finale a Nizza

L’ultimo aspetto forzatamente originale del prossimo Tour de France è il finale di Nizza, dato che Parigi sarà nel pieno dei preparativi olimpici e non avrà tempo né luogo per altro.

«Non possiamo sostituire Parigi e il suo prestigio – spiega Prudhomme – chiunque sa che il Tour finisce a Parigi. Ma in questo modo, con la crono dell’ultimo giorno, avremo qualcosa di forte da proporre al pubblico. Non accadeva dal 1989 che il Tour si concludesse con una crono: l’ultima volta fu tra Fignon e Lemond. Inoltre, parliamo di una crono con 700 metri di dislivello. Tutti i direttori del Tour hanno cercato di avvicinare le montagne all’arrivo finale: quest’anno sarà così, senza trasferimenti!».

A quel punto sarà il 21 luglio e di lì a una settimana si apriranno i Giochi di Parigi. Sarà un’estate memorabile. E facendo gli scongiuri che la Jumbo-Visma non ammazzi il Tour come ha fatto con la Vuelta, la sensazione è che Prudhomme ne stia già respirando la magia.

Giro 2003, rileggiamo il romanzo con Garzelli

30.04.2023
6 min
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Rivivere a distanza di vent’anni quel che successe al Giro d’Italia del 2003 ha un che di romantico. E’ come un bel romanzo che si dipana capitolo dopo capitolo fino a svelare solamente alla fine il suo epilogo, incerto fino alla conclusione. Fu una bella edizione, quella, con protagonisti di primissimo piano e il fatto che fossero pressoché tutti italiani dà al tutto un pizzico di malinconia.

Uno di quei protagonisti al Giro c’è ancora, ma in altra veste. Stefano Garzelli, colonna della Rai, viene da giorni intensi, dopo aver fatto la spola fra il Belgio per seguire le classiche e le ricognizioni per le varie tappe della corsa rosa. Ripensare a quell’esperienza così lontana nel tempo, pietra miliare della sua giovinezza prima ancora che della sua carriera, riaccende antiche emozioni e lo allontana dalle frenesie quotidiane.

«E’ vero, ripensandoci è come un romanzo – afferma il varesino – ed è normale che viva i ricordi con un po’ di nostalgia perché fu un’edizione piena di significati, molti anche acquisiti dopo, ripensandoci perché fu l’ultima edizione con al via Marco Pantani».

Pantani e Garzelli sulle dure rampe dello Zoncolan. La gente è in visibilio…
Pantani e Garzelli sulle dure rampe dello Zoncolan. La gente è in visibilio…
Di primo acchito qual è l’immagine che ti viene subito in mente?

Se chiudo gli occhi è come se mi vedessi da fuori, mentre salgo sulle rampe dello Zoncolan insieme a Marco. Era la prima volta che si affrontava la dura salita friulana, erano rampe molto dure. Io e Marco affiancati, quelle due “teste smerigliate” sotto il cielo, uno di fianco all’altro, con la gente che ci incitava. Poi quella tappa la vinse Simoni, ma il primo ricordo che mi viene è proprio legato a quest’immagine. La più bella, la più indelebile nella memoria.

Che Giro fu?

Davvero molto bello e lo dico senza averlo vinto. Sulle prime ci rimani male, è logico che sia così, ma a distanza di tanto tempo credo sia stata una bella pagina di sport, tre settimane molto intense che disegnarono un’edizione rimasta nella storia, godibile dalla prima all’ultima tappa proprio come un romanzo, la definizione è esatta.

Prima tappa a Lecce, Petacchi batte Cipollini. Alla fine vincerà 6 tappe, 2 invece per l’iridato
Prima tappa a Lecce, Petacchi batte Cipollini. Alla fine vincerà 6 tappe, 2 invece per l’iridato
Anche tu hai subito citato Marco. Quella fu la sua ultima edizione prima della tragedia di Cesenatico. Che Pantani era quello contro cui ti confrontavi?

E’ stato probabilmente l’ultimo momento di spicco della sua carriera. Partì che non era ancora al massimo, ma trovò la condizione strada facendo e a tratti sembrava tornato quello di un tempo. Diede vita a prestazioni di alto livello, ma non aveva ancora la costanza di prima. In certi momenti però, quando scattava sui pedali era un’emozione vederlo anche per chi come me era in lotta con lui.

Non eravate più in squadra insieme…

No, eravamo avversari, ma questo non influiva sul nostro rapporto. Parlavamo tutti i giorni, in corsa e fuori, ci si incrociava al mattino prima del via. Si vedeva che finalmente era tranquillo e voleva essere competitivo. Aveva ancora la voglia di faticare per tornare il campione che era.

Pantani affranto dopo la caduta di Sampeyre. Eppure quello fu un Giro positivo per il Pirata, alla fine 14°
Pantani affranto dopo la caduta di Sampeyre. Eppure quello fu un Giro positivo per il Pirata, alla fine 14°
La prima settimana fu dedicata prevalentemente alle volate…

Sì, ma ci fu spazio anche per i capitani che puntavano alla classifica. Io mi aggiudicai la terza frazione, quella di Terme Luigiane dove si arrivò con un gruppo ampio, ma non era uno sprint per velocisti. Anticipai la volata e vinsi su Casagrande e Petacchi che conservò la maglia rosa. Io salii al secondo posto a 17” e cominciai a fare un pensierino al simbolo del primato.

Quattro giorni dopo un’altra vittoria, al Terminillo.

Di ben altra pasta, quella fu una giornata durissima, con distacchi enormi. A 5 chilometri dal traguardo eravamo rimasti in 4: io, Simoni, Noè e Tonkov. Si vedeva però che io e Simoni eravamo superiori, lui dava strattonate forti ma io tenevo. Mi affiancavo a lui e lo guardavo, per fargli capire che non mi faceva male. Poi in volata la spuntai e mi presi la maglia, gli altri presero belle botte (Casagrande oltre 2 minuti e mezzo, Pantani un altro in aggiunta, ndr).

L’acuto del Terminillo, il secondo al Giro 2003 valse a Garzelli la conquista della maglia rosa
L’acuto del Terminillo, il secondo al Giro 2003 valse a Garzelli la conquista della maglia rosa
Che cosa successe dopo?

A Faenza, Simoni si prese la maglia per soli 2” nella tappa vinta dal norvegese Arvesen. Sullo Zoncolan il campione trentino era rimasto staccato dopo la mia azione con Pantani, ma si riprese e conquistò altri 34”, ampliando poi il vantaggio nella frazione dell’Alpe di Pampeago, vinta ancora da lui, e nella cronometro di Bolzano. Era però ancora tutto da giocare, fino alla tappa di Chianale.

Quella della grande caduta…

Già, uno dei momenti più duri della mia carriera. Discesa, Simoni è davanti. La giornata è terribile: pioggia, grandine, asfalto che dire scivoloso è poco. Fa talmente freddo che la sensibilità alle mani è quasi nulla. Ma devo recuperare, quindi affronto la discesa del Sampeyre a tutta. Solo che prendo una curva a sinistra troppo forte, le ruote non tengono e volo via. Attaccato a me c’è Pantani e anche lui fa un bel ruzzolone. Siamo messi male, ci rialziamo dopo tempo e finiamo a 7 minuti. Il Giro in pratica finisce lì.

La terribile discesa del Sampeyre, con ghiaccio sulla strada. In 34 finirono fuori tempo massimo
La terribile discesa del Sampeyre, con ghiaccio sulla strada. In 34 finirono fuori tempo massimo
Rimpianti?

A dir la verità no, dovevo provarci. Le cadute fanno parte del ciclismo, anche quelle ne diventano la storia. Mi arrabbiai, tanto. Ma ora riguardo a quei momenti con uno stato d’animo diverso, per certi versi anche romantico.

Ci sono punti in comune tra quel Giro e quello che sta per partire?

Fare paragoni fra gare distanziate di vent’anni è troppo difficile. Il ciclismo è cambiato molto più di quanto dica il tempo, sono due epoche completamente diverse. Potrei dire che anche quel Giro nasceva sotto il marchio della sfida a due fra Simoni e me come effettivamente fu e come dovrebbe essere il prossimo incentrato sul confronto Evenepoel-Roglic. Ma le differenze sono enormi.

Simoni con Garzelli, i due favoriti della vigilia onorarono il pronostico finendo ai primi due posti
Simoni con Garzelli, i due favoriti della vigilia onorarono il pronostico finendo ai primi due posti
Tu hai lavorato alle ricognizioni delle tappe. Da quel punto di vista, come disegno generale, trovi affinità?

Il Giro è diverso ogni anno. Ci sono edizioni più dure ed edizioni meno, anni con salite storiche e anni con nuove ascese. Quest’anno ad esempio tornano le Tre Cime di Lavaredo e il Bondone che non è stato affrontato molto spesso. Quell’anno ci fu il Terminillo e stavolta si sale a Campo Imperatore. Ogni anno si cambia, ogni anno lo spettacolo si rinnova.

E l’atmosfera vissuta è diversa da quella di allora?

Quando la vivi da corridore ha un sapore diverso, sei parte di un grande show. Ora con il lavoro che faccio non riesco a godermi tanto quel che succede intorno, ho troppi pensieri a cui far fronte, ma non nascondo che quando sono all’arrivo, vedo la gente, la carovana che arriva qualcosa alla gola mi prende. E quando guardo la luce negli occhi di chi vince e di chi indossa la maglia rosa, mi accorgo che quella luce è la stessa di allora e di sempre.

Sanremo ’99, partono Pantani e Bartoli: Cipressa in fiamme

16.03.2023
6 min
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Suo padre Graziano lo chiamò Michele in onore di Dancelli, che in quel 1970 vinse la Sanremo. Eppure, nonostante tanta benedizione, per Bartoli la Classicissima non è mai stata un gran campo di gioco, come furono il Fiandre, la Freccia Vallone, la Liegi oppure il Lombardia. Quelli fra il 1993 (quando passò professionista) e il 2004 (in cui smise) erano anni di velocisti capaci di deglutire facilmente la Cipressa e il Poggio. Per questo scendevano in Riviera circondati da squadroni, che si alleavano fra loro per rintuzzare ogni attacco. Non come oggi, che non ci sono più velocisti così resistenti da autorizzare una squadra a fare blocco compatto. Oggi ci si preoccupa di Pogacar che potrebbe staccare tutti nel finale e di altri attaccanti, cui non si opporrebbero certo le squadre dei velocisti, quanto piuttosto quelle dei rivali diretti.

«Probabilmente – ragiona Bartoli – è una questione di mancanza di velocisti con determinate caratteristiche. Oppure le squadre non si fidano più a puntare tutto su uno e non lavorano per tenere chiusa la corsa. Probabilmente oggi i velocisti tengono un pochino meno in salita. Ma soprattutto si trovano davanti parecchie squadre più determinate a fare la corsa dura. Prima era difficile trovare alleati, a miei tempi c’era il Panta, però poi il 95 per cento del gruppo voleva arrivare in volata. E a quel punto era difficile per una squadra da sola fare la gara selettiva».

La legge di Zabel non perdona: nel 2000 batte Baldato in maglia Fassa Bortolo
La legge di Zabel non perdona: nel 2000 batte Baldato in maglia Fassa Bortolo
Oggi è il contrario.

A parecchie squadre fa comodo la gara dura per togliere di mezzo i velocisti. Alla Uae non vedono l’ora. Van der Poel uguale. Insomma, ci sono squadre che hanno interesse che la Sanremo venga dura. Di conseguenza è più facile fare selezione.

Una Sanremo sarebbe stata bene nel tuo palmares?

Appena passato, vidi questa corsa e pensai che fosse una di quelle adatte a me, poi però basta. Non sono mai andato forte, tranne quella volta che attaccai sul Poggio, mi agganciò Konychev in discesa e poi ci ripresero tutti sull’Aurelia, ma non sono mai andato particolarmente bene o vicino a vincerla (i suoi risultati migliori vennero nel 1995 e nel 1997 con due quinti posti, rispettivamente alle spalle di Jalabert e Zabel, ndr).

E’ vero che uno dei motivi era l’allergia alla polvere delle foglie degli ulivi?

Purtroppo sì. Che poi è il motivo per cui ho fatto solo due volte il Giro d’Italia. Perché io morivo. Le cure che si potevano fare sono ancora le stesse, magari ti salvavano, ma quando eri proprio immerso nella vegetazione, eri fritto. Ed è chiaro che sulle colline della Sanremo gli olivi regnano come in alcune tappe al Giro d’Italia. Magari per due settimane stavo bene, poi c’era quella in cui si attraversavano posti per me… proibiti e basta.

Sanremo del 2001, vincerà Zabel su Cipollini, vani i tentativi di Bartoli e Bettini di attaccare
Sanremo del 2001, vincerà Zabel su Cipollini, vani i tentativi di Bartoli e Bettini di attaccare
Quindi alla fine non averla vinta non si può definire un grosso rimpianto?

Mi è dispiaciuto, perché la Sanremo per noi italiani è una delle gare più belle da vincere. Però poi pian piano ho perso la determinazione a farla. Provi un anno, provi due, provi tre, vedi che non riesci mai ad andare bene e alla fine un po’ molli. Non è che molli la corsa, ma ci vai con una tensione diversa, non come al Fiandre, alla Liegi e alle altre.

Però qualche piazzamento è venuto, no?

Ho sempre continuato a provarci. E chiaro che essendo anche abbastanza veloce, non mi tiravo indietro. In quegli anni lì c’era la Telekom ed era un casino metterli nel sacco, a meno che non avessi una condizione super. Ma io, lo ripeto, non l’ho mai avuta alla Sanremo. Anche nella settimana prima, durante la Tirreno andavo bene, ma un po’ a sprazzi.

Sempre per l’allergia?

Partivo. Facevo inizi di stagione molto buoni, in cui vincevo anche spesso. Poi arrivavo alla Tirreno e soffrivo sempre. E quella cosa me la portavo fino al Belgio, dove finiva tutto. Per questo non vedevo l’ora di partire per il Nord, perché lassù l’allergia era zero. Ma è chiaro che certi problemi mi toglievano anche un po’ di convinzione. Se se sai che corri con l’handicap, non ci metti mai la cattiveria al 100 per cento.

Sanremo 1999: terminata la discesa della Cipressa, sull’Aurelia l’azione di Bartoli e Pantani si appesantisce
Sanremo 1999: terminata la discesa della Cipressa, sull’Aurelia l’azione di Bartoli e Pantani si appesantisce
La Sanremo più bella da ricordare è quella dell’attacco sulla Cipressa col Panta (foto di apertura)…

Era il 1999 e sia Marco sia io si puntava a vincere la Sanremo. Eravamo gli unici che volevano la corsa dura. Io sapevo che il Panta sarebbe partito sulla Cipressa e infatti partì. Mi aspettavo anche un po’ di movimento da parte di altri. Pensai: «Cavoli, va via il Panta, qualcuno si muoverà». Invece alla fine non si mosse nessuno. Così andai io e lo agganciai. Facemmo una bella salita, ma poi arrivati alla pianura in fondo alla discesa si formò quel gruppetto in cui non collaborava praticamente nessuno. Perciò ci si rialzò e finì lì. 

Pur correndo con la Mapei, i tuoi rapporti con Marco erano buoni?

Eravamo rivali, ma nel senso buono, sportivo. Fra noi non c’è mai stata una scorrettezza, si andava d’accordo. Anche quando andammo a Sydney, alle Olimpiadi, passammo delle giornate molto belle.

Faceste la Cipressa quasi tutta sui pedali…

Sulla Cipressa difficilmente toglievi il 53. Magari ora è diverso, perché anche le tecniche di allenamento sono cambiate e vai più agile. Non è che vanno più piano, anzi magari vanno più forte perché battono in continuazione tutti i record. Hanno anche materiali più veloci. Però prima il sistema di pedalare era diverso. Si andava più duri. Utilizzavi quasi sempre 53.

La tirata di Van Aert nella tappa di Osimo della Tirreno ha messo gli avversari sul chi vive
La tirata di Van Aert nella tappa di Osimo della Tirreno ha messo gli avversari sul chi vive
Chi vince sabato?

Se dovessi fare un nome, direi Van Aert. La tirata che ha fatto nella tappa di Osimo della Tirreno vuol dire che ha gamba e anche tanta. Poi è chiaro, magari non è al 100 per cento della sua condizione, però va già molto molto forte. Secondo me è difficile toglierlo dal pronostico.

Non è al top secondo te?

Va sicuramente più piano di quando due anni fa arrivò secondo alla Tirreno. Per me ha tentato comunque di partire forte, perché i numeri che ha fatto, non li fai senza essere ben allenato. Magari a volte capita che la condizione ti arrivi una settimana dopo, però secondo me ha preparato il periodo. Invece Van der Poel…

Lo vedi indietro?

Sono rimasto deluso, perché proprio lo vedo spento. Mi sembra che subisca quello che è, come se le idee di partenza fossero state diverse. Ci sta che voglia essere fortissimo ad aprile, però vedendo come si muove, che all’inizio cerca anche di tener duro e poi salta, secondo me nella sua testa c’era anche qualche cos’altro.

Van der Poel sta vivendo un periodo sotto tono: condizione ancora in arrivo o si è nascosto?
Van der Poel sta vivendo un periodo sotto tono: condizione ancora in arrivo o si è nascosto?
Che cosa hai capito guardandolo?

Secondo me lui ambiva anche a qualcosa di più, perché non è che mollava subito. Lo vedevo anche nella tappa di Osimo. Si staccava, poi rientrava. Se uno fa così, probabilmente va alla ricerca di qualcosa che ancora non ha. Quando ricerchi quello che ti manca, vuol dire che comunque il periodo l’hai preparato, perché sennò ti metti lì tranquillo e ti alleni. Invece vedevo che tentava di tener duro. Alla fine ci sta anche lui sul Poggio sabato…

EDITORIALE / Il ciclismo non ha ricette complicate

06.02.2023
4 min
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Una volta sulla cima di Guzet Neige, nel lontano Tour del 1995 (foto di apertura), chiedemmo a Marco Pantani se non trovasse strano correre e vincere così all’antica, con quegli attacchi da lontano che sembravano giungere da un ciclismo precedente. E Marco, cui certo non mancava una visione di ciò che avrebbe potuto rendere spettacolare questo sport, rispose in modo chiaro.

«Non credo di correre all’antica – disse – forse sono semplicemente troppo moderno».

Negli anni in cui si limavano i secondi in salita e si distribuivano minuti a crono, il ciclismo era più un esercizio di equilibri. Pertanto l’avvento di quello scalatore così… sovversivo ebbe lo stesso effetto che si osserva oggi quando nel gruppo ci sono Van der Poel e Van Aert, Pogacar ed Evenepoel. Nessuno si sognerebbe di fargli la stessa domanda, tutt’altro. Si elogia il ciclismo moderno che in certi giorni manda in malora i calcoli e fa esplodere il gruppo. Pantani faceva lo stesso.

Van Aert e Van der Poel concordi sull’importanza della loro rivalità: per lo sport e per se stessi
Van Aert e Van der Poel concordi sull’importanza della loro rivalità: per lo sport e per se stessi

La meraviglia di Hoogerheide

Non tutti sono capaci e non sempre le imprese sono possibili se non si ha un rivale che le renda necessarie. Il campionato del mondo di ciclocross corso ieri a Hoogerheide ne è stato la prova lampante. E le parole finali del vincitore Van der Poel davanti allo sconfitto Van Aert hanno ottimamente sintetizzato il concetto.

«Sono felicissimo per questa vittoria – ha detto l’olandese – che considero una delle tre più importanti. Incredibile, perché ottenuta a due passi da casa e scaturita al termine di una lotta leale ed appassionante con Wout. Vi assicuro che la nostra è una sana rivalità che fa bene a questo movimento e che ci migliora in modo reciproco. Certo quando si perde brucia, ma se manca uno di noi alla partenza, la gara non ha lo stesso sapore».

Il fatto che Van Aert, seduto accanto, gli abbia dato prontamente ragione fa capire che gli stessi campioni siano consapevoli di quale sia l’ambiente ideale per rendere lo sport davvero appassionante e una vittoria memorabile.

Il Tour del 2020 fu super avvincente per il duello fra Pogacar e Roglic
Il Tour del 2020 fu super avvincente per il duello fra Pogacar e Roglic

Il gioco delle coppie

Gli ingredienti sono sempre gli stessi e una sana rivalità è forse il principale. I monologhi di uno o dell’altro alla lunga stancano, i duelli all’ultimo colpo di pedale infiammano il pubblico. Coppi e Bartali. Gimondi e Merckx. Moser e Saronni. Hinault e Lemond. Bugno e Chiappucci. Cunego e Simoni. Pantani e Indurain, Tonkov oppure Ullrich.

La più grande sfortuna per un campione è non avere qualcuno contro cui lottare per la gloria. E’ stato ben più spettacolare il primo Tour di Pogacar vinto in extremis su Roglic, rispetto al secondo, corso senza veri avversari. Per lo stesso motivo è stato elettrizzante il Tour di Vingegaard, capace di disarcionare lo stesso Pogacar.

La differenza fra questi campioni e tutti gli altri, oltre alla dotazione naturale da cui non si può prescindere, sta nell’aver capito che per vincere bisogna rischiare di perdere. Per questo sono felici quando vincono e non fanno drammi eccessivi quando non ci riescono: se te la giochi a viso aperto, perdere fa parte del gioco. Le formule perfette e tutti i calcoli di questo mondo vanno bene quando ci si allena, poi però bisogna essere capaci di accettare il dolore che viaggia con la fatica, spingendosi sempre più a fondo. E questo a ben vedere è mancato troppo a lungo nel ciclismo degli ultimi anni.

Quintana ha corso i campionati colombiani da isolato: può correre, ma nessuno lo prende
Quintana ha corso i campionati colombiani da isolato: può correre, ma nessuno lo prende

Una grande primavera

Pensare che rivedremo presto Van der Poel e Van Aert contrapposti alla Strade Bianche, poi alla Sanremo e sulle stradine del Nord è già un buon motivo per augurarsi che la primavera arrivi in fretta. Aspettare Pogacar ed Evenepoel al UAE Tour sarà il primo momento per vedere contrapposti due che non si accontentano mai semplicemente di esserci. Il danno degli squadroni che fanno incetta di campioni sta proprio nell’impoverimento del gruppo. Sarebbe stato interessante vedere Evenepoel alla Liegi contro Alaphilippe, invece il francese è stato dirottato sul Fiandre.

Per lo stesso motivo Pantani rifiutò a suo tempo di infilarsi nella Mapei, pagando alla lunga di tasca propria. A ben vedere il mondo non è poi così diverso. Ci sono i campioni. Ci sono le grandi squadre. E c’è chi governa il ciclismo, esercitando il potere come meglio ritiene, spesso senza metterci la faccia. E così, dopo aver azzerato la Gazprom senza offrire una via d’uscita, adesso ha deciso di fermare Quintana e Lopez, facendo però in modo che la scelta ricada sugli altri. I due possono correre, hanno licenza e passaporto biologico. Che colpa ne hanno quelli che governano (e dispensano consigli: richiesti e non) se nessuno vuole più tesserarli? Squalificateli, se ci sono gli elementi, oppure lasciateli in pace. Che colpa avevano se il Tour smise di invitare Pantani, aprendo la strada al nuovo dominatore? Visto come finì la storia, peccato che dalle lezioni del passato non si riesca quasi mai ad imparare.

Galati, pace fatta col ciclismo. Ora lo insegna ai giovani

20.01.2023
6 min
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Vincenzo Galati ha vissuto il ciclismo in modo intenso, conoscendone suo malgrado anche le pieghe più brutte. Ora ci è rientrato solo dopo averci fatto pace per prestare la sua esperienza al servizio dei giovani dell’Onec Team di Parma.

Il 54enne palermitano era uno scalatore pimpante e non è stato uno qualunque a cavallo degli anni Novanta. Da junior nel 1987 conquista il secondo posto al Lunigiana dietro Zanini, nel 1992 stesso piazzamento dietro il grande Pantani nella generale del Giro d’Italia Dilettanti, categoria nella quale Galati ottiene otto vittorie e dodici secondi posti. Tutti risultati che gli valgono un contratto tra i pro’ con la Amore&Vita. Poi però nel ’94 qualcosa non va per il verso giusto e la sua carriera si interrompe, vivendo difficili momenti sul piano psicologico e personale. Partiamo da qui per capire quale sia stata la molla che lo ha fatto tornare nel mondo del pedale dopo tanti anni e come lo ha ritrovato.

Vincenzo come mai ha smesso di correre?

Mi sono trovato di fronte a un bivio. Già a fine ’92 avevo perso gli stimoli però Giorgio Vannucci, l’allora diesse dell’Amore&Vita, voleva prendermi perché credeva in me. Accettai volentieri perché alla fine era il mio sogno. Ripresi morale, stavo bene e nel ’93 disputai il Giro d’Italia. Nonostante non fossero arrivati i risultati, fu una buona stagione. L’anno successivo mi dissero di prepararmi che avrei corso nuovamente il Giro per farmi trovare pronto soprattutto dalla seconda settimana in avanti. L’avvicinamento fu buono. Andai bene all’Appennino e al Trentino (attuale Tour of the Alps, ndr). Poi arrivò la mazzata…

Cosa successe?

Vannucci se ne era andato dalla squadra e per me si complicarono le cose. Infatti a poche settimane dall’inizio del Giro, mi dissero che ero già troppo avanti con la condizione, che la squadra aveva puntato sui velocisti e che quindi serviva gente che andasse forte in pianura. In pratica non gli servivo più. Per me fu la goccia che fece traboccare il vaso. La presi molto male. Conclusi la stagione, ma non ne volevo più sapere del ciclismo. Mi dava fastidio anche solo vedere girare una ruota. Da quel momento non mi vergogno a dire che ho passato circa otto anni di depressione. E capisco gli stati d’animo vissuti dal povero Marco. Che corridore che era, quello andava forte davvero in salita. Ho avuto la fortuna di duellare con lui e quel secondo posto per me vale una vittoria (sospirando e riferendosi a Pantani, ndr)…

Lungo corso: il diesse dell’Onec Team è Olivano Locatelli
Lungo corso: il diesse dell’Onec Team è Olivano Locatelli
Adesso però la ritroviamo in una formazione di U23. Come ci è arrivato?

La vita mi ha portato a vivere a Salsomaggiore Terme. E contemporaneamente a riallacciare il rapporto col ciclismo. Un po’ di anni fa ho conosciuto Allegri, il presidente dell’Onec Team, che mi chiedeva dei consigli. Aveva suo figlio che correva, ma non aveva riferimenti. Così abbiamo iniziato a frequentarci, finché lui a metà 2022 ha rilevato la società che aveva diverse difficoltà e mi ha chiesto di entrare nello staff. Non posso fare il diesse, perché non ho la tessera e perché col lavoro non riuscirei a garantire una certa presenza, però sono ottimamente coperti con Olivano Locatelli. In ogni caso mi sono reso subito disponibile per aiutare il presidente e i suoi ragazzi.

Perché ha accettato questa proposta?

Non voglio entrare troppo nello specifico della precedente gestione della squadra, ma il motivo è semplice. All’inizio del 2022 avevo visto alcuni ragazzi che, da fuori, sembravano abbandonati a se stessi. E che ad un certo punto si sono ritrovati senza un alloggio. Sono stati tutti ospitati dal presidente Allegri e questa cosa mi ha toccato l’anima. Perché non si può giocare col sogno di un ragazzo. In loro mi ci sono rivisto io quando da addirittura esordiente e allievo emigrai dalla Sicilia al Lazio per correre. Per fortuna che in quel periodo trovai brave persone che mi insegnarono anche un lavoro, quello del meccanico, che faccio tutt’ora.

Che squadra è l’Onec Team?

Abbiamo tanti ragazzi giovani che, per un motivo o l’altro, non voleva più nessuno. Siamo contenti di poterli formare e farli crescere. La nostra punta è Andrea Colnaghi (fratello di Luca della Green Project Bardiani, ndr) che è già elite. Abbiamo anche Nikita Tur, un ragazzo bielorusso con un buon talento e che è andato lontano da casa per correre e diventare un corridore. Infine mi fa piacere ricordare che tesserata con noi c’è anche Veronica Frosi, già campionessa italiana di handbike.

Si ritrova a lavorare con Locatelli. E’ uguale ai suoi tempi o si è ammorbidito?

Con Olivano c’è una buona amicizia. Con lui da dilettante alla Domus 87 ho fatto i miei migliori risultati con 175 punti internazionali che valevano tanto all’epoca. So che è sia amato che odiato, ma per me rimane uno dei migliori tecnici e preparatori in circolazione. Ha dovuto certamente rivedere i suoi metodi perché sa anche lui che non vanno più bene per i corridori di oggi. Ma secondo me sa ancora tirare fuori il meglio dai corridori.

Che tipo di ciclismo ha ritrovato Vincenzo Galati a distanza di tanto tempo?

E’ cambiato parecchio naturalmente. Stanno bruciando le tappe col rischio che alla fine si brucia soltanto il ragazzo. Adesso c’è troppo stress attorno a questi ragazzi. Ho sposato il progetto del nuovo Onec Team perché vogliamo insegnare un ciclismo vecchio stampo, con dei valori. E’ un programma a medio-lungo termine. Abbiamo gettato le basi. Ci vorrà pazienza però siamo convinti di raccogliere risultati e soddisfazioni.

Riunione tecnica e pranzo. Locatelli con i suoi ragazzi durante un pre-gara
Riunione tecnica e pranzo. Locatelli con i suoi ragazzi durante un pre-gara
E’ una scelta anacronistica visto il ciclismo giovanile attuale. In cosa consiste?

Sì, è vero, ma siamo una squadra piccola. Ad oggi il nostro budget non ci permette di avvalerci di figure specifiche fisse come nutrizionista o biomeccanici o altre ancora. Non è detto che non possa succedere in futuro, però vogliamo far capire ai ragazzi che si può fare ciclismo anche in questo modo. Quantomeno nella nostra zona. Poi vogliamo che i nostri atleti crescano sotto il profilo umano. Per noi è importante che vadano bene con lo studio perché gli tornerà utile nella vita. Ci teniamo che sappiano fare aggregazione fra loro. Il ciclismo ha anche un valore sociale. Ti tiene lontano dalle cattive compagnie e ti fa crescere nelle relazioni con le altre persone.