C’è voluto tempo, per assorbire il colpo. Anche se l’addio era nell’aria da tanto, mettere la parola fine a 43 anni di storia non è facile, anche per un uomo di lunga navigazione nel mare ciclistico come Egidio Fior, l’uomo che ha portato la Zalf in giro per il mondo facendone una colonna portante del ciclismo giovanile italiano. Fa un certo effetto girare per le varie gare italiane ed estere e non vedere più quelle divise tricolori, quelle scritte ben evidenti, soprattutto quei ragazzi entusiasti che grazie alla sua creatura hanno assaporato il professionismo nelle sue varie epoche.
C’è voluto un po’ per mettere ordine nei ricordi e per accettare di mettersi comodi a parlare, a rimembrare tutto quel che è stato. Oggi c’è l’hotel-ristorante da cui tutto è partito e al quale bisogna dare attenzione, perché quell’impresa dà da mangiare a tante famiglie. La passione ciclistica c’è sempre, ma ora è relegata al semplice ruolo di hobby per il tempo libero.
Metti una sera a cena…
«Il bello è che nacque tutto in maniera abbastanza casuale», racconta Fior. «Una sera si presentò qui al ristorante Giuseppe Beghetto (oro olimpico nel tandem e e tre volte iridato nella velocità negli anni Sessanta, ndr) e parlando mi suggerisce l’idea di creare una squadra per fare pubblicità al ristorante. Io seguivo sì il ciclismo, ma giocavo al calcio e ero più dedito a questo. Qui però passavano tanti ciclisti, quindi pensai che fosse una buona idea. Ne parlai con mio fratello Giancarlo e partimmo.
«Inizialmente ci dedicammo ai cicloturisti, ma vedemmo subito che non avevamo da soli le forze per seguire e far crescere il team, soprattutto se volevamo (e lo volevamo!) dare un’impronta agonistica. Già allora i costi non erano pochi, serviva un forte sostegno da parte di uno sponsor e lo trovammo nel mobilificio Euromobil dei fratelli Lucchetta. Erano quattro fratelli, tutti si dissero entusiasti all’idea, così nel 1984 partimmo con i dilettanti, presentando quella maglia con verde sopra e strisce bianco-rosse sotto che è rimasta fino all’ultimo».
Si parte e subito si scala il mondo…
Sin dall’inizio la squadra si distingue nel calendario italiano, ma soprattutto si dimostra una splendida palestra per nuovi talenti. Già nella sua formazione iniziale, composta da 8 ciclisti, ci sono nomi che si costruiranno una carriera di primo piano anche fra i professionisti, come Gianni Faresin e Flavio Vanzella. L’anno dopo la rosa sale a 10 e fra i nuovi spunta un ragazzo trentino che avrà una carriera molto fortunata: Maurizio Fondriest. I successi di quest’ultimo, a cominciare dal titolo mondiale del 1988, calamitano sul team l’attenzione generale.
«Il mio rammarico è che non sono riuscito a seguire quegli anni come avrei voluto – afferma Fior – ai mondiali c’ero, qualche gara la seguivo, ma nel complesso gli impegni di lavoro mi tenevano lontano dalle corse e dai ragazzi. Cercavo di esserci quando avevo spazio. Quelli sono stati anni magici: la vittoria di Mirco Gualdi al mondiale su strada del ’90 ci consentiva di avere nelle nostre fila il campione iridato con la maglia Zalf. Due anni dopo lo stesso fece Daniele Pontoni nel ciclocross. Intanto nel 1991 era arrivato l’ex pro’ Luciano Rui come diesse a dare una nuova impostazione al team».
La squadra, la casa: una famiglia
Nel ripensare a quegli anni, Egidio si scioglie un po’: «Per me sono stati anni speciali non solo per i risultati. Eravamo diventati una famiglia. Avevamo comprato una casetta a una cinquantina di metri dal ristorante e i ragazzi del team erano sempre qui a mangiare. Noi eravamo un po’ i “surrogati dei genitori”, soprattutto per quelli che erano lontani da casa, per gli stranieri che cominciavano a entrare nel team. Con quei ragazzi si è formato un rapporto che è andato avanti negli anni. Gualdi viene ancora a trovarci, Fondriest e Pontoni sono rimasti in contatto. Significa che avevamo seminato bene».
Quella formula è rimasta valida negli anni e dalle parti della Zalf è passato un po’ tutto il gotha del ciclismo italiano: Salvato, Figueras, Cunego, Salvoldelli, Basso, Scarponi ma l’elenco sarebbe davvero troppo lungo e lo stesso Fior c’interrompe: «Volete sapere quanta gente attraverso di noi è passata professionista? 180 ragazzi. Abbiamo vinto in tutto 8 titoli mondiali e 35 italiani, abbiamo avuto stagioni dove superavamo le 40 vittorie stagionali, roba da UAE, nel 2013 sono state addirittura 59».
Il ricordo delle parole di Lanfranchi
Tra tante vittorie difficile trovare quella che l’ha più esaltato, il momento più bello, ma anche in questo caso Egidio ci spiazza: «Un giorno, al Giro d’Italia, eravamo a Jesolo. Paolo Lanfranchi venne intervistato da Adriano De Zan, io ero al suo fianco e Paolo mi lasciò senza fiato: “Vedete questo signore? Devo dire grazie a lui se sono qui, perché se non ci fosse stato Egidio a credere in me, nelle mie possibilità, a quest’ora ero un bravo operaio e guardavo il Giro in tv. Invece mi sto costruendo una vita”. Non c’è vittoria che tenga di fronte a quello che è un successo di vita».
Parlavamo prima di stranieri: «Ne sono passati non pochi, ricordo ad esempio Arvesen, che vinse un mondiale e ora è un affermato diesse del WorldTour, oppure gli sloveni Pavlic e Cerin, quest’ultimo diventato procuratore di ciclisti. Tutti hanno ancora un bel ricordo degli anni trascorsi da noi».
Il disagio e lo stop
Poi, come tutte le belle storie, arrivano le ultime pagine, fino alla parola “fine”: «Non abbiamo mollato per ragioni economiche. Dopo 43 anni la Euromobil ha deciso di dire basta, di fare altre scelte. Fare l’attività continental costa tanto e ti restituisce molto poco. Ripeto, non sono le ragioni economiche che ci hanno spinto a mollare, è più una sorta di disagio, di inadeguatezza a un ciclismo che è profondamente cambiato e che per vecchie menti come le nostre è ormai troppo lontano.
«A me piaceva di più il sistema di prima: facevi la tua attività da dilettante, se avevi i valori giusti passavi, a qualsiasi età. Ora va tutto di fretta, tutti vogliono andare subito nel WorldTour, non so dove si finirà perché i campioni di oggi mi sembra che brucino tutto troppo presto. A un certo punto ho capito: ho 78 anni, il mio contributo l’ho dato, ora è tempo che ci pensino gli altri. A me restano i ricordi e l’affetto della gente».