Due tappe alpine: la “verde” si decide con i traguardi a punti

24.07.2025
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VALENCE (Francia) – Nonostante la vittoria di ieri, la sfida per la maglia verde è ancora aperta. Certo, ora Jonathan Milan conduce la partita con un po’ di tranquillità in più (i punti di vantaggio sul secondo sono 72), ma dovrà difendere il primato con grinta e concretezza, andando a caccia di ogni traguardo volante. L’uscita di scena di Mathieu Van der Poel ha semplificato le cose per il friulano, almeno in termini di numero di avversari, ma Tadej Pogacar è sempre lì, in agguato.

Il campione del mondo ha nelle gambe due arrivi in salita e soprattutto, si vocifera, voglia provare a fare qualcosa anche in quello di Parigi con Montmartre di mezzo. Tappa che assegna molti punti. I traguardi volanti dunque possono ancora fare la differenza dal punto di vista Milan. E quello di oggi è piazzato dopo appena 23 chilometri e quello di domani addirittura dopo solo 8 chilometri, sono a tutti gli effetti delle micro-gare nella gara.

Di questo tema tattico così specifico abbiamo parlato con Josu Larrazabal, responsabile performance della Lidl-Trek.

Josu Larrazabal ci spiega l’approccio a questi traguardi volanti che saranno decisivi per la maglia verde
Josu Larrazabal ci spiega l’approccio a questi traguardi volanti che saranno decisivi per la maglia verde
Josu, un traguardo volante dopo otto chilometri è quasi come fare un prologo. Al tempo stesso in tanti vorranno andare in fuga. Come si fa?

Ne abbiamo parlato già da qualche giorno, e non solo del traguardo di oggi, ma anche di quello di ieri e dell’altro ieri. Tutti quelli che restano in queste tappe sono importanti. Di certo è più facile da controllare quello di domani rispetto a quello di oggi, che arriva dopo 26 chilometri.

Perché?

Perché c’è una distanza maggiore da controllare, il top (come ieri, ndr) è una avere una fuga con pochi corridori. I ragazzi sanno che in questi giorni devono controllare la corsa fin dall’inizio, perché per loro la tappa “finisce” dopo il traguardo volante. Si tratta di una tappa di montagna: dopo il traguardo intermedio bisogna “solo” portare Jonathan all’arrivo.

In questo ciclismo da Formula 1, immaginiamo che la gamba debba essere bella calda: i ragazzi faranno i rulli prima della partenza?

Non è detto. Oggi la neutralizzazione, cioè la distanza tra la partenza ufficiale e il chilometro zero, è di circa 5 chilometri e potrebbe bastare per un breve riscaldamento. Avete parlato di prologo, ma lo sforzo su questi 8 chilometri non è paragonabile a una crono a tutta. Semmai si tratta di mandare un messaggio…

Con il traguardo volante posto ad appena 8 km dalla partenza, potremmo vedere i ragazzi della Lidl-Trek saltare sui rulli prima del via. Anche il meteo inciderà su questa scelta
Con il traguardo volante posto ad appena 8 km dalla partenza, potremmo vedere i ragazzi della Lidl-Trek saltare sui rulli prima del via. Anche il meteo inciderà su questa scelta
Cioè?

Far vedere agli altri che la fuga non partirà prima del traguardo intermedio. Che non si scappa. E se anche qualcuno dovesse provare, puoi lasciargli anche 20 secondi.

Però 20 secondi su 8 chilometri non sono pochi…

Se il treno fa il treno per davvero e la gamba gira, 20 secondi glieli prendi. E poi quelli che sono davanti non potranno andare a tutta come fosse un finale, perché davanti a loro c’è ancora tanta strada. Per questo dico che quei 20 secondi sono comunque gestibili.

Quindi non è sicuro che si faranno i rulli prima della partenza?

Come dicevo, molto dipende dalla lunghezza del trasferimento fino al chilometro zero. Oggi sono 5 chilometri e potrebbero bastare. Poi certe scelte dipendono anche dal corridore, che conosce il proprio fisico. Se qualcuno vuole farli lì fa tranquillamente. Se la partenza fosse in salita allora sì: farebbero i rulli. Perché anche solo per stare in gruppo o controllare la corsa, l’intensità minima richiesta sarebbe almeno di soglia o sopra la soglia. Mentre partendo in pianura, lo sforzo sarà probabilmente sotto soglia, immagino un medio-alto. E questo non richiede un riscaldamento specifico come per le cronometro. Per me è più importante il modo in cui si approccia questo inizio.

Secondo Larrazzabal anche il posizionamento al via sarà determinante: alle spalle di Milan (e Pogacar ancora di più) si notano gli uomini della Lidl-Trek già schierati
Secondo Larrazzabal anche il posizionamento al via sarà determinante: alle spalle di Milan (e Pogacar ancora di più) si notano gli uomini della Lidl-Trek già schierati
Interessante, ci puoi spiegare meglio?

Bisogna essere concentrati e consapevoli di cosa si sta per fare. Ma tutta la squadra, non solo chi tira, deve esserlo. Bisogna crederci e sapere che in quelle fasi iniziali serve dare tutto. Ci giochiamo la maglia verde.

Quindi tu e i direttori sportivi, dovrete anche parlare in modo diverso ai ragazzi, in vista di questi traguardi volanti, soprattutto considerando che poi c’è la salita?

Certo e anche ieri è stato così. Noi siamo la squadra con più responsabilità nel gestire la corsa nelle fasi iniziali, visto che abbiamo la maglia verde. Per questo dico che la concentrazione è fondamentale. Già dal chilometro zero dobbiamo essere mentalizzati e davanti. Firma e via all’allineamento, perché in 5 chilometri di trasferimento, se sei dietro rischi di non risalire.

Specie con il gruppo che procede a carreggiata piena dietro l’auto del direttore di corsa…

Esatto. I ragazzi devono sapere che il chilometro zero per noi è molto importante, sia per le posizioni che per gestire la fuga: chi ci va? In quanti? Quanti corridori dobbiamo usare per controllare?

Invece da un punto di vista alimentare, cambierà qualcosa per farsi trovare così pronti già all’inizio?

Non tanto, perché ormai ogni dettaglio è curatissimo. Si parte sempre a un ritmo molto alto, spesso c’è più di un’ora di lotta prima che parta la fuga e si “calmino” le acque. Per questo i corridori partono già con il pieno di carboidrati.

La fuga di Albanese e Wegelius gli “regala” un piatto di pasta in più

23.07.2025
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VALENCE (Francia) – Quando sfila sotto il diluvio universale, tra le persone e i bambini che cercano una borraccia, Vincenzo Albanese ha appena la forza per dirci: «Non ora, fa troppo freddo». E scappa verso il bus della EF Education-EasyPost, fermo circa 200 metri più avanti (in apertura foto ASO / Charly Lopez).

Oggi il toscano è stato formidabile: penultimo ad arrendersi, mostrando una grandissima gamba. Non era facile stare così a lungo allo scoperto su un percorso tanto veloce, con i velocisti decisi a non perdere quella che con ogni probabilità era l’ultima occasione per uno sprint generale. E così è stato ci ha mostrato Jonathan Milan.

Pioggia battente a Valence: Albanese sfila tra due ali di folla a caccia di borracce. Per la cronaca una gli finisce anche sotto le ruote e rischia di cadere
Pioggia battente a Valence: Albanese sfila tra due ali di folla a caccia di borracce. Per la cronaca una gli finisce anche sotto le ruote e rischia di cadere

Una tappa sul filo…

Albanese e i suoi tre compagni di fuga si sono involati dopo appena 4 chilometri e sono stati ripresi quando ne mancavano otto. Il che potrebbe anche non sembrare una grande notizia, se non fosse che i fuggitivi hanno pedalato tutto il giorno con il gruppo a un solo minuto. A volte qualcosina di più, molto spesso parecchio di meno. E quando c’è un distacco così ridotto, la fatica si decuplica.

In una situazione del genere, non ti rilassi mai, né con le gambe ovviamente, né con la testa. In più, a complicare le cose, ci si è messa di mezzo la Ineos Grenadiers che, nell’unico tratto duro della giornata, il primo Gpm di quarta categoria, ha cercato di riportare un uomo sulla fuga. E così il gruppo gli era arrivato ad appena 20”, ma l’aggancio è poi sfumato. Ed è sfumato anche grazie al lavoro degli uomini della Lidl-Trek.

Complicazioni finite? Anche no! Sul secondo Gpm di quarta categoria, altro assalto: stavolta a provarci, è un gigante del gruppo: Wout Van Aert. Di nuovo, per i quattro davanti, è stato un “pancia a terra” per difendersi dall’asso belga.

«In effetti – spiega Albanese – stare in fuga con solo un minuto non è bello. Sei sempre in tiro e diventa dura anche mentalmente. Quando la Ineos ha fatto il forcing un po’ davanti ci siamo demoralizzati. Ho pensato: “Ecco adesso ci riprendono ed è tutto finito”. Invece poi dietro hanno mollato un po’ e noi abbiamo ripreso coraggio e a spingere forte.

«Ho provato anche a parlare un po’ con gli altri tre, ma non rispondevano. Forse erano concentrati o forse anche loro erano a tutta».

Fare 148 km di fuga “pancia a terra” ha richiesto un dispendio energetico superiore al previsto (foto Instagram / Getty Sport)
Fare 148 km di fuga “pancia a terra” ha richiesto un dispendio energetico superiore al previsto (foto Instagram / Getty Sport)

Rifornimenti (quasi) impossibili

Come dicevamo, vivere una giornata così, anche se dislivello (poco più di 1.650 metri) e chilometraggio non erano eccessivi, diventa una vera impresa. Il dispendio energetico cresce oltre misura e anche mangiare diventa difficile.

Lo conferma il direttore sportivo della EF, Charlie Wegelius: «In queste situazioni spendi moltissimo. Quale strategia alimentare abbiamo adottato? Vincenzo aveva in tasca ciò che gli serviva a livello energetico, ma non c’è stato solo il ritmo della corsa a complicare le cose. Le temperature infatti si sono abbassate molto e poi è arrivata anche la pioggia. Così abbiamo cercato di dargli più borracce (borracce con carboidrati, ndr) del solito. Anche in questo caso non è stato facile, perché provavamo ogni tanto a “incastrare” la macchina là davanti ma non sempre era possibile».

E qui ritorna in ballo quel famoso, misero, minuto di vantaggio. Con distacchi così ridotti, la giuria ha fermato più volte le ammiraglie al seguito della fuga. E spesso i quattro sono rimasti scoperti.

«Ci siamo aiutati con i rifornimenti a terra e con la seconda ammiraglia che era davanti, per avere accesso alla fuga e non abbiamo fatto tornare indietro», specifica Wegelius.

«Vero – conferma Albanese – non è stato facile ma tutto sommato io sono riuscito a gestirmi bene, anche grazie alla squadra. Più che le scorte il problema era quando mangiare. Cercavo di sfruttare al meglio i tratti in discesa o i momento in cui ero a ruota per farlo».

Come spiegava Wegelius, Albanese in questo Tour si è mostrato anche un grande uomo squadra. Eccolo al fianco di Healy in giallo
Come spiegava Wegelius, Albanese in questo Tour si è mostrato anche un grande uomo squadra. Eccolo al fianco di Healy in giallo

Clima buono in casa EF

Albanese intanto si cambia. Dalla porta dello stesso bus si scorgono i contenitori del cibo per i corridori: sembra un piatto di riso e forse dell’avocado, ma non ci mettiamo la firma. La pioggia battente accelera le operazioni di sgombero. Il bus rosa della EF tira ritrae il tendone estraibile e noi restiamo sotto la pioggia. Si riparte verso Vif, sede di tappa della frazione di domani che porterà in cima al Col de La Loze.

«Vederlo davanti – riprende Wegelius – è stata una bella soddisfazione, perché per tutto questo Tour Vincenzo ha fatto un lavoro fondamentale per la squadra. Un lavoro che forse a casa non si è visto. Davvero una gioia per lui: se lo merita. Peccato che la gara non fosse un po’ più movimentata, perché io sono convinto che sia Vincenzo che altri nostri corridori da classiche avessero gambe e qualità per fare una corsa più dura e andare ancora più avanti. Ma su questo non possiamo farci nulla.

«E – aggiunge il diesse – vedere uno come Van Aert fallire nel tentativo di aggancio significa che quei quattro stavano andando davvero forte. A questo punto mi chiedo: chissà cosa succederà a Parigi?».

Si pedalava tra i paesini della Provenza. Albanese (in testa) era in fuga con: Abrahamsen, Burgaudeau e Pacher
Si pedalava tra i paesini della Provenza. Albanese (in testa) era in fuga con: Abrahamsen, Burgaudeau e Pacher

Buon appetito Alba!

La fiducia di Wegelius e della squadra in questo ragazzo è davvero tanta. Il clima, e lo abbiamo visto anche nel giorno di riposo nel loro hotel, sembra buono.

Quel giorno Vincenzo ci aveva detto: «Mi trovo bene in squadra. Qui al Tour si va forte e non è facile stare davanti. Le tappe per andare in fuga non sono state tantissime e qualche occasione per noi attaccanti è venuta meno nei giorni in cui Ben Healy era in maglia. Giustamente gli siamo stati vicini».

«Dai – riprende Albanese – alla fine in fuga ci sono stato, le sensazioni erano buone e mi sono anche divertito, hanno fatto fatica a riprenderci. Peccato solo che non eravamo di più. Ma al primo Tour va bene così».

Le parole di Wegelius sul lavoro di Albanese tornano quindi prepotenti. Ma oltre alla prepotenza c’è la riconoscenza del diesse inglese. «Cosa dirò stasera ad Albanese? Bravo. Ti sei meritato un piatto di pasta in più!».

Una Lidl-Trek gigantesca per la doppietta di Milan

23.07.2025
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VALENCE (Francia) – Jonathan Milan aveva già vinto, quando sul traguardo sono passati da un lato Thibau Nys, dall’altro Tom Skujins e in mezzo Quinn Simmons. I due lo hanno indicato come fosse stato lui a vincere la tappa. E l’americano, sollevandosi dal manubrio nella sua tenuta da Capitan America, ha ringraziato i compagni e si è preso una parte del merito per la vittoria del compagno, gigantesco e forte come Hulk. Forse è proprio vero che per conquistare questo traguardo servisse essere anche un po’ supereoi.

«E’ stato impressionante – dice Luca Guercilena al riparo del pullman della Lidl-Trek, quando Simmons si infila sotto e lo saluta – perché nonostante i tentativi di fuga e tutto il lavoro fatto oggi, Quinn è riuscito ancora a fare qualcosa di incredibile. Soprattutto dopo la prima salita, quando c’era da chiudere un buco quasi di 40 secondi. Ha veramente fatto un lavoro impressionante, per cui buona parte della tappa di oggi è anche sua».

Jonathan Milan ha vinto la seconda tappa nel primo Tour. Lo ha fatto senza un ultimo uomo a lanciarlo, in uno scenario da Classica del Nord. Jordi Meeus ha provato a rimontarlo, ma è rimasto indietro di mezza bicicletta. Peccato che una caduta abbia tagliato fuori il resto degli sprinter, quando ormai non si aspettava altro che l’ultimo atto della tappa.

Festa Lidl-Trek

Sulla città si è abbattuto un acquazzone di gocce grasse che in meno di mezz’ora hanno infradiciato la carovana e reso la strada di sapone. Sotto il tendone del pullman si scambiano pacche e abbracci, in attesa che arrivi Milan. Stuyven parlotta con lo stesso Simmons, Skujins rilascia interviste. Guercilena li abbraccia tutti, con il sorriso di chi ha raggiunto uno dei traguardi che si era posto. Lo aveva detto dal mattino: oggi bisogna fare tutto il possibile per vincere. E poi ci saranno i traguardi a punti per consacrare la maglia verde e arrivare a Parigi possibilmente con la certezza matematica di averla vinta.

«Siamo venuti qua con l’obiettivo di vincere due tappe – spiega – e provare a prendere la maglia verde. Poi ovviamente avremmo voluto fare qualcosa in montagna con Skjelmose, ma abbiamo visto cosa è successo (il riferimento è alla caduta e al ritiro del danese nella tappa di Superbagneres, ndr). Però abbiamo tenuto la concentrazione e oggi l’idea era quella di correre come fosse una classica di un giorno. Come squadra abbiamo dimostrato di averci creduto, nonostante gli attacchi di vari team sulle salite. E poi nel finale con una lettura ideale dello sprint.

«Se fossimo rimasti con una sola tappa vinta, avrei sentito che mancava qualcosa. Perché comunque siamo ambiziosi, anche se non è facile fare risultato nel Tour del debutto. Con l’idea di squadra che vogliamo essere, sicuramente le due vittorie dovevamo ottenerle. E Jonathan ha dimostrato di essere cresciuto, soprattutto nella sua gestione personale ha ancora grandi margini. Sono fiducioso che continuerà in questo suo processo di crescita con noi, fiduciosi che possa ottenere ancora dei grandissimi risultati».

Un grande lavoro di squadra

Milan indossa un giubbino verde pesante e il berretto di lana della squadra. Il clima fuori è decisamente autunnale e se domani sulle Alpi ci sarà la stessa acqua, per i corridori si prospettano giorni tosti. 

«E’ stato un finale incredibile – dice – un po’ caotico a causa del meteo. Mi aspettavo un po’ di pioggia, ma non come adesso. Penso che ci siamo mossi nel modo migliore, la squadra mi ha supportato fin dall’inizio. Non posso dire di aver fatto tutto da solo. Vorrei descrivere il lavoro fatto oggi dai miei compagni. I ragazzi hanno controllato la corsa dall’inizio della tappa, ovviamente con l’aiuto di altre squadre. Mi hanno riportato in gruppo quando mi sono staccato sulla prima salita. Poi sulla seconda hanno tenuto un buon ritmo, senza mai dare tutto gas. Hanno mantenuto un ritmo costante e alla distanza è stato perfetto per recuperare sugli attaccanti. Hanno sempre cercato di supportarmi, portandomi le borracce e incitandomi, una cosa che mentalmente ha significato tanto. Quindi non si può dire che abbia vinto da solo.

«Nel meeting prima della tappa – prosegue – puoi pianificare tutto. Dire che all’ultima curva dovresti andare con due o tre corridori davanti, ma alla fine è sempre difficile arrivare in quel punto, non è una PlayStation. Per cui alla fine i ragazzi mi hanno semplicemente messo nella posizione migliore, nel miglior modo possibile. Avevamo tutti un grande obiettivo, per cui è la vittoria di tutti: non di uno solo».

La lotta per la verde

La maglia verde che indossa è un po’ più salda. Con il quinto posto, primo dietro i quattro fuggitivi, Milan ha conquistato 11 punti nel traguardo volante di Roche Saint Secret Beconne. Altri 50 sono venuti con la vittoria, per cui ora il vantaggio su Pogacar è di 72 punti.

«Finora – dice – è stato un Tour de France davvero duro. Oggi abbiamo conquistato 61 punti per la maglia verde, quindi sono davvero contento. Era uno dei nostri obiettivi all’inizio della giornata, ma non è mai facile avere un piano veramente specifico e poi raggiungerlo. Anche nei prossimi giorni cercheremo di dare il massimo per conquistare più punti nei traguardi intermedie. Pogacar è una rockstar del ciclismo, quindi vedremo i punti che otterrà. Da parte mia, cercherò solo di dare il massimo per portare questa maglia il più lontano possibile, magari fino a Parigi.

«Lo so che hanno cambiato il percorso, inserendo il circuito di Montmartre, ma non voglio iniziare subito con il dire che ho perso un’occasione. Sappiamo che sarà più dura da controllare e sarà uno scenario diverso rispetto al solito arrivo dei Campi Elisi. Ho parlato con i ragazzi che hanno partecipato alle Olimpiadi l’anno scorso e mi hanno confermato che ci sarà una grande lotta per le prime posizioni prima della salita. Cercheremo di dare il massimo, ma voglio vivere questo Tour tappa dopo tappa».

Da domani inizierà la parte più dura. Per due giorni, il suo orizzonte sarà quello intermedio del traguardo a punti e poi ci sarà soltanto da entrare nel tempo massimo. Dopo gli abbracci e le parole di oggi, siamo certi che la Lidl-Trek sia pronta a dare anche l’anima per portare a casa il terzo obiettivo di questo Tour.

Paret-Peintre si prende il Ventoux e la Francia scoppia di gioia

22.07.2025
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MONT VENTOUX (Francia) – Ogni volta che Valentin Paret-Peintre attaccava o rispondeva a un attacco di Ben Healy sul Ventoux, esplodeva il boato. Noi eravamo proprio in cima al Gigante della Provenza, e sotto di noi c’era la curva ai 150 metri con un maxischermo. Quel maxischermo trasformava il Ventoux in uno stadio e Paret-Peintre nel loro eroe.

Un eroe francese sulla montagna simbolo di questo Tour de France. Ascoltavamo i commenti dei cugini: questa per loro era la tappa simbolo, quella a cui forse tenevano di più. Il fatto che abbia vinto uno dei loro significa tantissimo. Sul Gigante della Provenza non fa né freddo né caldo, ma c’è sempre un certo venticello che complica le cose per gli attaccanti e per chi è a bordo strada.

Sul Ventoux un bagno di folla, nonostante strade chiude da due giorni. E i francesi godono con Paret-Peintre
Sul Ventoux un bagno di folla, nonostante strade chiude da due giorni. E i francesi godono con Paret-Peintre

Finale da brivi

Gli ultimi 2.700 metri erano praticamente tutti controvento, esclusi gli ultimi 80 metri dove si girava. Paret-Peintre oggi ha fatto una vera impresa: ha gestito lo sforzo, non ha perso la testa quando davanti erano rimasti i corridori sulla carta più forti. Con la voglia di conquistare un traguardo ambizioso si è messo sotto: è stato il primo a scattare, il primo ad aprire il drappello dei contrattaccanti e il primo a richiudere sullo spagnolo.

E’ stato intelligente anche nella gestione dello sforzo quando sono iniziati gli scatti con Healy. Il finale è storia che tutti abbiamo visto: una volata tesissima e quella mezza ruota che precede quella dell’irlandese.

Dopo il traguardo abbiamo incontrato Davide Bramati, ci saluta, si ferma, tira fuori il braccio dall’ammiraglia. «Non riesco a parlare», ci “urla sottovoce”… senza voce. Riesce appena a sussurrare qualcosa. La gendarmerie fa sgombrare tutti. E’ il caos solito, solo che stavolta siamo in cima a una montagna di 1.910 metri e la strada è strettissima.

Il Brama forse vorrebbe parlare molto più di altre volte, ma proprio non ci riesce. A chiudergli la gola è un mix di emozioni e la voce effettivamente se n’è andata. Solo quando da dietro piomba Ilan Van Wilder e si sente un “Brama” in un italiano perfetto, il direttore sportivo ferma di nuovo la macchina. I due si abbracciano e scoppiano a piangere. Stavolta neanche il gendarme s’intromette.

Van Wilder come Pogacar

«Abbiamo giocato bene le nostre carte – racconta Van Wilder – Valentin ha attaccato, mi ha detto che si sentiva molto bene. Io invece no, quindi è stato facile scegliere di tirare per lui. Non sono egoista, se un mio compagno sta meglio di me corro per lui. Così ho accelerato e Valentin è partito dalla mia ruota. A quel punto, quasi all’improvviso, ho ritrovato il mio ritmo e le mie gambe. Ho fatto un crono con e contro me stesso!».

La scalata di Van Wilder ricorda vagamente quella di Pantani nel 2000, quando si staccò e poi rientrò sui migliori.
«Verso il finale – riprende il belga – ho visto che i ragazzi davanti a me non erano lontani e intorno all’ultimo chilometro ero di nuovo davanti. Vedevo che la situazione era difficile per Valentin, sia davanti che dietro. Sentivo che la maglia gialla si avvicinava velocemente quindi non ho esitato. Mi sono messo a blocco e ho tirato per lui.
«Fortunatamente ha fatto una bella volata e ho sentito dallo speaker che aveva vinto. Per radio “Brama” è impazzito completamente. Ha iniziato a urlare, non capivo cosa dicesse. E’ stato incredibile, non dimenticherò mai questa giornata. Per le montagne russe che abbiamo vissuto in questo Tour sono contento per la squadra. E’ come se avessi vinto io». Una chiosa alla Pogacar con Wellens.

In effetti dopo la batosta Remco, questa è stata una grande risposta per la Soudal-Quick Step. La squadra belga ha corso benissimo e, tutto sommato, liberandosi del leader tutti hanno avuto più libertà. Oggi la Soudal ha corso alla perfezione. Oltre a Paret-Peintre e Van Wilder, nella fuga c’era anche Pascal Eenkhoorn.
«E’ stato anche grazie a Pascal – ha concluso Van Wilder – se siamo riusciti a rimanere nel gruppo degli attaccanti. In pianura ha lavorato moltissimo consentendo a me e Valentin di risparmiare energie».

Valentin Paret-Peintre ha conquistato il Ventoux da pochi secondi. Una bevanda per recuperare seduto al fianco della pietra miliare della cima
Valentin Paret-Peintre ha conquistato il Ventoux da pochi secondi. Una bevanda per recuperare seduto al fianco della pietra miliare della cima

Sulla pietra del Ventoux

Quindi ecco l’eroe di giornata. Lo caricano letteralmente dal traguardo, e non ci vuole molto visto che Valentin è il più leggero del Tour: 52 chili. Lo portano dietro il palco dove c’è la pietra miliare tipica delle montagne francesi che indica la cima. Una di quelle pietre con la testa arrotondata, di colore giallo, il nome della montagna e la quota. Lo trascinano lì. Chiede e manda giù una di quelle bevande per il recupero.

La sensazione è che non abbia ancora realizzato l’impresa. Il patron del Tour Christian Prudhomme si avvicina e con ammirazione si complimenta con lui. In fin dei conti è anche la prima vittoria francese in questo Tour. Il fatto che sia arrivata quassù amplifica tutto.

«Una vittoria sul Ventoux… Non so che dire – attacca spaesato Paret-Peintre – è incredibile. Quando chiedono agli appassionati stranieri qual è la salita che conoscono in Francia, dicono il Ventoux. Davvero, non so che dire…

«All’inizio non credevo troppo alla fuga, guardavo cosa succedeva, ma pensavo che stare lì davanti non servisse a nulla. Poi finalmente si è creato un grande gruppo e le cose sono andate meglio. Ho detto a Ilan e a Pascal che mi sentivo davvero bene. Quando poi è partito il drappello di Arensman, la squadra ha scelto di tenere con noi Eenkhoorn. Lui ha tirato e penso che questa sia stata la strategia giusta. Non abbiamo sprecato energie».

Per la squadra

A chi dice che il ciclismo non è uno sport di squadra bisognerebbe far sentire le parole degli atleti e portarli dentro la corsa, dentro il gruppo. Quante cose ci sono che sfuggono.
«Questa vittoria – riprende Valentin – è di squadra. Se non ci fossero stati Eenkhoorn e Van Wilder non avrei vinto».

E questo vale anche a parti inverse, cioè se ci fosse stato ancora il leader, Remco Evenepoel. Anche in quel caso tutti per lui.
«Con Remco in corsa – conclude Paret-Peintre – non so se avrei avuto la libertà di andare davanti. Giustamente eravamo qui per lui. In ogni caso oggi è stato molto diverso rispetto a una giornata come quella di Carcassonne. Lì ho potuto pedalare tranquillamente nel gruppetto e fare così due giorni di recupero (la tappa tranquilla più il giorno di riposo di ieri, ndr), mentre se ci fosse stato Remco sarei dovuto restare al suo fianco. E questi, ai fini del recupero in un Grande Giro, contano tantissimo».

La Francia gode dunque, almeno oggi. Passata l’ondata Alaphilippe (e in attesa di Seixas), i cugini non hanno molto. Non più di noi… E come detto prima, il fatto che un francese abbia vinto quassù, proprio quando tutti davano per scontata la vittoria di Pogacar, è un regalo di quelli grossi. Una bella scossa che rinnova l’amore dei francesi per la loro corsa.
E intanto aspettiamo la prima pagina dell’Equipe di domani…

Mont Ventoux, una sola vittoria italiana: 25 anni fa con Pantani

22.07.2025
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MONTPELLIER (Francia) – Solo dieci volte nella lunghissima storia del Tour, la corsa si è conclusa sul Mont Ventoux. E nell’albo d’oro del monte caro al Petrarca figura soltanto un nome italiano: quello di Marco Pantani (anche Marta Cavalli ha vinto lassù nel 2022 nella Mont Ventoux Denivele Challenge).

Accadde il 13 luglio del 2000, venticinque anni fa, ed è uno di quei ricordi da cui speriamo di non separarci mai. C’era un vento che strappava gli striscioni, tanto che quello di arrivo fu messo via per paura che volasse. La sala stampa era sulla cima, in un tendone e non a 17 chilometri come accadrà oggi. C’era l’imbattibile Armstrong che nel 1999 aveva vinto il primo Tour. C’era anche la fiducia irrazionale, che viveva da qualche parte nel nostro petto, che il Pirata sarebbe tornato. E quel giorno infatti, come è vero Dio, Marco tornò.

Chiudiamo gli occhi e rivediamo i flash della giornata. Si parte da Carpentras e al via c’è Robin Williams. L’immenso attore saluta Ilario Biondi, riconoscendo la somiglianza, e gli sussurra ridendo che potrebbero essere fratelli. Poi la corsa parte e Marco, che in classifica viaggia con un ritardo abissale di 10’34”, si stacca ancora una volta. Tuttavia questa volta, anziché sprofondare, resta lì con la sua fatica. Il tempo di inquadrare la fuga e lo vediamo spuntare nell’inquadratura alle spalle della fuga, dove la montagna si espone al vento. A quel punto noi siamo già sulla cima, cercando di seguire la corsa da uno schermo montato al riparo di un furgone. Di colpo da dietro si muove Armstrong che ha visto staccarsi Ullrich e ne approfitta, arrivando a doppia velocità.

A Carpentras, l’incontro fra Robin Williams e Ilario Biondi
A Carpentras, l’incontro fra Robin Williams e Ilario Biondi

Lo prende e fa per staccarlo, ma non lo stacca. Ci riprova e non si capisce se non affondi il colpo o se l’altro piuttosto che lasciarlo andare abbia scelto di morire sulla bici. E quando infine si tratta di fare la volata, Pantani vince e Armstrong dichiara di avergliela regalata. Non dichiara ciò che su quei giorni emergerà dalle indagini, che hanno portato alla cancellazione dei suoi risultati. Forse è stato meglio che quel giorno abbia vinto Pantani, altrimenti il Ventoux avrebbe avuto soltanto nove vincitori su dieci arrivi in cima.

In bici con Siboni

Noi c’eravamo, ma meglio di noi visse la corsa Marcello Siboni, lo storico gregario di Pantani, che quel giorno chiuse la tappa a 11’23” dal suo capitano. Il compagno di allenamenti e zingarate dai tempi della Carrera, era stato schierato in quel Tour perché oltre a uomini forti, sarebbero servite anche persone capaci di stargli accanto. Il giorno di Campiglio aveva ancora strascichi profondi. Il risveglio di fine Giro, quando Marco spianò la strada di Garzelli verso la maglia rosa, aveva riacceso le speranze, ma niente era più splendente come prima.

«La tappa del Ventoux – ricorda – veniva dopo il giorno di riposo. Eravamo partiti per il Tour con Marco al 75-80 per cento della condizione. Poi col passare dei giorni iniziammo a renderci conto che si stava mettendo a posto, ma nulla aveva potuto fare per evitare la batosta di Hautacam (il romagnolo perse 5’10” da Armstrong, ndr)».

Marcello Siboni, classe 1965, è stato pro’ dal 1987 al 2002. Oggi ha la sua officina a Cesena e si occupa di riparazioni
Marcello Siboni, classe 1965, è stato pro’ dal 1987 al 2002. Oggi ha la sua officina a Cesena e si occupa di riparazioni

«Cominciò a guardarlo – prosegue Siboni – e a pensare che fosse un extraterrestre. In più quel giorno aveva anche piovuto, quindi era stata una giornata un po’ particolare e la sera Marco era demoralizzato. Sapeva che la sua condizione non fosse al 100 per cento, ma sperava che il carattere gli bastasse per colmare le differenze.

«Non aspettava altro che battersi con Armstrong – prosegue Siboni – che aveva vinto il Tour dell’anno prima senza che noi ci fossimo per difendere la vittoria del 1998. L’americano era il favorito, ma quando partimmo, l’idea era quella di sfidarlo ancora».

La tigna del Pirata

La tappa ha una serie di salitelle nell’avvicinamento al Mont Ventoux, in quel dedalo di strade, canyon e stradine della campagna provenzale così morbida e poi di colpo pietrosa. Nessuno prova a fare chissà quale selezione, per cui fatta salva la fuga di giornata, il gruppo arriva compatto nella zona di Bedoin.

«Il gruppo era bello nutrito – ammette Siboni – e lui come al solito era indietro. E’ sempre stato il suo modo di essere e del resto nessuno quel giorno si aspettava che potesse succedere qualcosa di bello. Però l’avete conosciuto anche voi: spesso diceva una cosa e ne faceva un’altra. Quindi magari non disse nulla, ma dentro di sé sperava di fare qualcosa. Solo, per come era andato sulle salite precedenti, era difficile crederci. Invece con la tigna che ha sempre avuto, si staccava, si riprendeva e poi tornava sotto. Quella tappa fu l’espressione massima di Marco: cioè di uno che non molla mai, a costo di arrivare morto».

«Finché a un certo punto è andato via e dopo un po’ abbiamo visto andare via anche l’americano. Magari è vero che l’ha lasciato vincere e Marco non era contento, perché lui lo voleva staccare. Ma quando l’altro si è messo a dire di avergli fatto un regalo, Marco si è imbestialito. Cosa dici certe cose? Se anche fosse, tienile per te…».

L’istinto contro il calcolo

Si passa in poco meno di due ore dalla gioia per la vittoria al fastidio per le parole di Armstrong. Marco è contento, sono tutti felici per il ritorno alla vittoria dopo quella maledetta tappa di Madonna di Campiglio che aveva segnato l’inizio della fine. Quando gli dissero che non avrebbe dovuto vincere così tanto: chissà se a Pogacar qualcuno l’ha mai detto. Probabilmente no.

«Dentro di lui covava il malumore per le parole di Armstrong– ricorda Siboni – e la sua voglia di batterlo è letteralmente esplosa. Per questo a Courchevel lo staccò, per quella cattiveria di cui solo lui era capace e che gli è cresciuta dentro. A Courchevel forse non era il vero Marco, ma nemmeno era da buttare via. Due giorni dopo cercò di sbancare tutto con la fuga di Morzine, perché di colpo credevamo di nuovo che si potesse tentare l’impossibile. Quella settimana ci sentivamo tutti galvanizzati per il suo ritorno alla vittoria.

Spaghetti all’astice per Pantani, Fontanelli e la Mercatone Uno: li ha preparati Giovanni Ciccola per la vittoria sul Ventoux
Spaghetti all’astice per Pantani, Fontanelli e la Mercatone Uno: li ha preparati Giovanni Ciccola per la vittoria sul Ventoux

«Devo ammettere che Marco non avesse mai avuto grande simpatia per Armstrong. Si era visto sin da subito, appena passato, che fosse un giovincello un po’ sbruffone. Marco nel 1998 aveva vinto il Tour, ma di colpo era l’altro che spopolava. Evidentemente non gli era tanto simpatico neppure il suo modo di correre così freddo e calcolato, mentre lui era genuino e garibaldino. Armstrong si muoveva come se fosse il padrone, con una squadra che al pari di oggi sembrava composta da atleti telecomandati».

Gli spaghetti all’astice

Le esternazioni di Armstrong non riescono a rovinare la cena della Mercatone Uno del Novotel di Avignone. Qualche giorno prima, Giovanni Ciccola, lo chef che lavora con la Mercatone Uno per conto del Tour de France, ha preso da parte Pantani, chiedendogli che cosa avrebbe voluto mangiare. E quando Marco gli ha risposto «aragosta», l’altro per punzecchiarlo gliel’ha promessa per quando avesse vinto.

Quella sera sulla tavola della squadra approdano così degli spaghetti all’astice. A noi che lo aspettiamo fuori dalla porta, ne tocca una forchettata che vale quanto un calice di champagne per brindare al successo.

Quella sera pensammo nuovamente che tutto fosse possibile, mentre il Mont Ventoux da lassù si sentì felice di essersi consegnato a un campione immenso e pelato come lui. Erano anni di sogni che si avveravano e di campioni con gambe e grinta ultraterrena. Ne servì tanto per lottare contro Armstrong che, impunito, continuò a sovralimentarsi per tutto il tempo della corsa. Tre giorni dopo, in un testa a testa niente affatto casuale, Marco lo piegò dimostrando che forse, senza quel che accadde a Madonna di Campiglio nel 1999, l’era Armstrong non sarebbe mai iniziata. Forse un complotto, se complotto ci fu, servì a spianare la strada all’americano cui il Tour tributò sette anni di onori, prima di cancellarlo senza accennare la minima autocritica.

Nel giorno di riposo Vingegaard rilancia: «Attaccherò ancora»

21.07.2025
4 min
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NARBONNE (Francia) – La Cote du Midi si sveglia con un vento insolitamente fresco. Nella notte ha piovuto e il cielo è ancora coperto da qualche nuvola. Da Montpellier, dove il Tour de France osserva il giorno di riposo e dove ieri sera, tra una birra e un gelato, i mezzi delle squadre già affollavano la piazza, ci siamo spostati a Narbonne. E’ qui, in uno splendido resort tra vigneti pregiatissimi e dolci colline di macchia mediterranea, che è di stanza la Visma-Lease a Bike di Jonas Vingegaard.

La conferenza stampa inizia di buon mattino. E’ all’aperto. Vingegaard si presenta con una tazza fumante, la tuta lunga e i calzini nei sandali. Non il massimo dello stile, ma di certo una tenuta comoda e rilassata, ideale per un giorno pensato per ricaricare le batterie.

Una giornata trascorsa tra riposo assoluto per alcuni, rulli o una sgambata per altri, in uno scenario ancora molto naturale del sud della Francia. Un recupero prezioso prima del Mont Ventoux e della terza settimana.

Jonas Vingegaard arriva nella conferenza stampa di questa mattina. Il danese è parso più che rilassato
Jonas Vingegaard arriva nella conferenza stampa di questa mattina. Il danese è parso più che rilassato
Jonas, pensi che ancora potresti vincere questo Tour de France? E se sì, come lo farai?

Sì, penso ancora di poter vincere. Ovviamente sembra e sarà molto difficile ora. E’ una grande sfida, ma ci credo ancora. Normalmente la mia forza è nella terza settimana. Non ti dirò le tattiche, ma credo ancora di potercela fare.

Quale potrebbe essere la tua possibilità?

Attaccare. Sono più di quattro minuti indietro. Dobbiamo provare a fare qualcosa. Ma non posso dire di più nel dettaglio.

Hai la sensazione di poter crescere ancora, quindi?

Sì, ho questa sensazione. Purtroppo ho avuto due giorni difficili, che non mi capitano quasi mai. Di solito non avevo proprio giornate negative. Ma posso solo guardare avanti e crederci. Di certo se non ci credi, non succede nulla.

Cosa ti aspetti dal Mont Ventoux?

E’ un giorno un po’ diverso. Dovrebbe fare freddo, sarà una giornata particolare con una sola grande salita alla fine. E’ un arrivo iconico, ci sarà una grande battaglia.

Vingegaard ha parlato di due giornate negative: la crono di Caen (in foto) e Hautacam. In queste due frazioni ha perso 3’15”
Vingegaard ha parlato di due giornate negative: la crono di Caen (in foto) e Hautacam. In queste due frazioni ha perso 3’15”
Hai già notato alcuni punti deboli in Pogacar?

Per essere sincero, no. Tadej Pogacar è molto forte, quindi ovviamente non direi che ha delle difficoltà. Penso che sia uno dei corridori più completi in gruppo, se non il più completo. E comunque, anche se ne trovassi uno, non lo direi. Penso che sia lui, come me, che due anni fa abbiamo fatto un vero salto di qualità. Solo che lui, nell’ultimo anno, è migliorato ancora un po’. Alla fine io ho perso la maggior parte del tempo in due giorni (la prima crono e Hautacam, ndr) e penso che la differenza tra me e Pogacar non sia poi così grande. Anzi, secondo me è minore rispetto all’anno scorso.

Però come ti spieghi questa differenza?

Posso dire con certezza che l’incidente dell’anno scorso ha avuto un grande impatto su di me e sulla mia condizione. Non ero due passi indietro, ma dieci passi indietro. Il problema che ho avuto quest’anno alla Parigi-Nizza non è neanche lontanamente paragonabile: dopo una settimana, seppur lentamente, ho ricominciato ad allenarmi. Dal 2020, dopo la pandemia, il gruppo ha alzato mediamente del 10 per cento il proprio livello. E in questo contesto si è visto che avere continuità, allenarsi a lungo senza intoppi è fondamentale. Anche per noi i piani di allenamento erano basati su questa stabilità. Però quest’anno sto crescendo.

Quindi non si molla?

No, il Tour finisce a Parigi. Ovviamente quattro minuti sono tanti, ma penso ancora di poter fare la differenza. Sono disposto a rischiare anche il mio secondo posto pur di provarci. Tadej è forte e mi aspettavo questo suo livello, ma non penso che sia molto migliore dell’anno scorso.

Proprio sul Ventoux per la prima volta, era il 2021, Vingegaard mise quasi in difficoltà Pogacar. Magari il danese sfrutterà questa “cabala”
Proprio sul Ventoux per la prima volta, era il 2021, Vingegaard mise quasi in difficoltà Pogacar. Magari il danese sfrutterà questa “cabala”
Chiaro…

Come ripeto, ho perso gran parte del terreno in due giorni, due giorni in cui non sono stato io all’altezza. E quando sai che puoi andare più forte, non perdi fiducia in te stesso.

Pensi di aver commesso qualche errore durante questo Tour de France?

Ho avuto due giorni difficili e quando succede, ovviamente perdi tempo. Ma chiunque può avere una giornata no. Il perché lo stiamo ancora cercando, ma non abbiamo ancora una risposta: semmai questo è il problema. Per come è andata, potrei avere difficoltà anche oggi nella sgambata… per dire.

In generale, Jonas, sembri più rilassato, scherzi di più… Stai cercando di ricostruire un’altra immagine di te stesso?

No, non mi interessa. Le persone possono pensare ciò che vogliono su di me. Non mi interessa l’immagine, però è vero che in qualche modo mi diverto più di prima e sono più rilassato nel vivere la corsa.

EDITORIALE / Privitera e le strade che ammazzano i ciclisti

21.07.2025
4 min
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Non conoscevo Samuele Privitera e non so se renderne grazie. Mi sarebbe piaciuto avere qualche esperienza condivisa con quel ragazzo entusiasta e solare, per contro tuttavia avrei attraversato i giorni della sua caduta e della morte rivivendo storie di ieri di cui porto ancora le cicatrici. Sono stati giorni pesanti, in cui ho toccato con mano lo sgomento di chi era sul posto e si trovava per la prima volta a contatto con la morte. Non ci si fa il callo, ma si impara il modo per tenerla a distanza, mettendo in atto dei meccanismi di autodifesa, che non sempre funzionano, ma di certo alleviano i colpi.

Il Giro della Valle d’Aosta è stato colpito da un’ondata di tristezza
Il Giro della Valle d’Aosta è stato colpito da un’ondata di tristezza

La famiglia del ciclismo

Ricordo come fosse ieri la caduta di Diego Pellegrini, al mio primo Giro della Valle d’Aosta, perché con lui avevo scherzato al via della tappa. Quella di Fabio Casartelli, che giusto prima di avviarsi aveva mostrato la foto del figlio Marco. Ricordo Wouter Weylandt, che non conoscevo tanto bene, ma era lì qualche ora prima e di colpo se ne era andato. La differenza a ben vedere la fa il fatto di conoscerli e aver condiviso il sogno, la rincorsa, il successo e anche il fallimento. Si fa parte della stessa famiglia e nelle famiglie succede anche questo.

Le statistiche della mortalità sulle strade dicono che ogni anno muoiono molti più ciclisti e anche più giovani di Samuele Privitera (in apertura foto @jcz__photos). Ma finché restano confinati nel conteggio e non hanno un nome, una storia e un sogno che ti coinvolgano, riesci a farli scivolare in modo più indolore. Se però nella statistica rimangono coinvolti (fra i tanti) Simone Tomi, Silvia Piccini, Tommaso Cavorso, Giovanni Iannelli, Davide Rebellin, Sara Piffer e mia zia Sandra che viveva a Bologna, allora capisci che è tutto vero.

Nei giorni della morte di Samuele abbiamo sentito parole dettate dallo sgomento, ma anche dalla brutta abitudine di drammatizzare i toni, quasi sentendosi in colpa per essere ancora qui, mentre lui non c’è più. Abbiamo sentito dire che il ciclismo è uno sport pericolosissimo, ma sarà vero?

Il Giro della Valle d’Aosta aveva anche altre ferite: questo il ricordo di Diego Pellgrini
Il Giro della Valle d’Aosta aveva anche altre ferite: questo il ricordo di Diego Pellgrini

A misura di SUV

Sono le strade a esserlo, italiane e non. Viviamo in un mondo a misura di automobile: veicoli sempre più grandi, veloci, violenti e insonorizzati. Un SUV di oggi ha lo stesso ingombro dei furgoni di un tempo, ma le carreggiate sono strette come 50 anni fa. Per farli rallentare non bastano i segnali di pericolo oppure ricordare che potrebbero esserci dei bambini che giocano: cosa gliene frega a un automobilista che ha fretta se travolge qualcuno? La donna che uccise Silvia Piccini proseguì e si presentò al lavoro.

Allora servono i dossi. Oppure si delimitano le corsie con vasi di calcestruzzo, rialzi e cordoli molto alti. Si è creata una geografia di ostacoli, che gentilmente vengono definiti arredi urbani e che dal mio punto di vista sono barriere architettoniche per chi vive la strada su due ruote, con o senza motore. Samuele è morto perché non si è accorto di un dosso del quale si sarebbe potuto fare a meno se la civiltà stradale fosse degna di questa definizione. Mattias Skjelmose è stato costretto a ritirarsi dal Tour perché si è trovato davanti, non segnalato, uno spartitraffico che lo ha fatto volare. Non serve a niente imporre cerchi più bassi e manubri più larghi se le strade sono queste.

Il dosso poco visibile che potrebbe aver provocato la caduta di Privitera
Il dosso poco visibile che potrebbe aver provocato la caduta di Privitera

Campi di battaglia

Il pavone Salvini, che si occupa di sicurezza stradale e infrastrutture e vuole legare a tutti i costi il suo nome a quel dannato ponte, dovrebbe essere più fiero di aver educato gli italiani a vivere civilmente sulle strade. Samuele Privitera è morto su un dosso che rappresenta il fallimento di questo tipo di educazione. Diverso il caso di Iannelli, ad esempio, probabilmente ucciso dall’assenza delle necessarie precauzioni in un rettilineo di arrivo. Diverso forse il caso di Diego Pellegrini, che in piena discesa trovò in traiettoria l’ammiraglia di un direttore sportivo che cercava di soccorrere il proprio corridore caduto. Non si venga a dire che il ciclismo è uno sport pericolosissimo, oppure si contestualizzi la frase.

Il ciclismo è uno sport pericolosissimo perché si svolge su strade come campi di battaglia. Siamo vittime del bullismo delle auto e delle trappole di chi cerca di arginarle. Se nelle vecchie zone di guerra i bambini continuano a morire ed essere mutilati per l’esplosione delle mine antiuomo, la colpa è loro che le hanno calpestate oppure di chi quelle mine le ha sepolte?

Yates come Simoni: storie del Tour 2003, guardando Jonas e Tadej

20.07.2025
7 min
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Una somma di cose alla fine ci ha portato a rispolverare una storia del 2003, quando Gilberto Simoni vinse il Giro d’Italia e poi si presentò baldanzoso al Tour de France, vincendo una tappa. Quando qualche giorno fa Simon Yates ha vinto a Le Mont Dore, subito la mente è andata al trentino. Non sono tanti quelli (tolto Pogacar e pochi altri) che hanno vinto il Giro e poi anche una tappa al Tour. Loro due per giunta hanno quel modo simile di andare in salita. Rapportone, bassa cadenza e ritmo che li stronca. E quando ci siamo accorti che la cronoscalata di venerdì è partita da Loudenvielle, abbiamo pensato che non potesse essere solo una coincidenza: proprio lì infatti Gilberto conquistò l’unica tappa al Tour della sua carriera.

In breve. Già vittorioso al Giro del 2001 quando correva con la Lampre, nel 2003 Simoni corre in maglia Saeco e si gioca il Giro con Garzelli e Popovych. Nel gruppo c’è anche l’ultimo Pantani. Gilberto è arrivato al Giro dopo aver vinto il Trentino e il Giro dell’Appennino. Arriva secondo sul Terminillo, battuto da Garzelli. Prende la maglia rosa a Faenza, dove si piazza terzo. Poi vince sullo Zoncolan e all’Alpe di Pampeago. E dopo il secondo posto di Chianale, vince ancora a Cascata del Toce, nella tappa degli ultimi scatti di Pantani. Esce dal Giro il primo giugno in grandissima condizione. Il Tour quell’anno parte il 5 luglio con un prologo a Parigi. Propone una crono di 47 chilometri il dodicesimo giorno a Cap Decouverte e l’indomani affronta i Pirenei.

Simon Yates, vincitore del Giro con l’impresa del Finestre, conquista la tappa di Le Mont-Dore
Simon Yates, vincitore del Giro con l’impresa del Finestre, conquista la tappa di Le Mont-Dore
Andasti al Tour, ma al centro dei pensieri c’era il Giro?

Sì, io ho sempre avuto in testa il Giro. Insomma, non c’era tanto spazio per andare al Tour con le programmazioni di allora. Era difficile prepararsi per due appuntamenti. Però devo dire che negli anni in cui sono andato, mi sono anche impegnato. E quell’anno, dopo aver fatto il Giro d’Italia, ero convinto di fare bene e mi ero preparato a puntino.

Ma non tutto andò come speravi, giusto?

Nella prima settimana stavo veramente benissimo, poi sono andato fuori giri nella crono. Il giorno dopo ci fu una tappaccia, veramente intensa e dura. E da lì in poi non sono più riuscito a recuperare. Ho fatto un fuori giri che non ci voleva, altrimenti non avrei vinto perché non me lo sognavo neanche, però credo che sarei riuscito a entrare nei primi cinque.

Ricordi cosa facesti in quel mese fra Giro e Tour?

Non corsi, ma andai con Miozzo (il suo tecnico, ndr) ad allenarmi sull’altopiano di Asiago. Anche allora si andava in altura, ma non era la mia preparazione preferita. Salimmo ad Asiago perché stavo veramente bene e se non avessi sbagliato quella crono, sarebbe finita diversamente. Le tappe contro il tempo in quel periodo erano lunghe e determinanti. Diedi anche l’anima per non prendere un minuto in più e invece la pagai cara.

Garzelli ha conquistato la maglia rosa sul Terminillo e la perderà a Faenza per mano di Simoni: intervista con Alessandra De Stefano
Garzelli ha conquistato la maglia rosa sul Terminillo e la perderà a Faenza per mano di Simoni: intervista con Alessandra De Stefano
Eri uscito bene dal Giro?

Quando vinci non ti sembra neanche di aver fatto fatica. Ero tranquillo, per quello non andai a cercare l’altura. Cercai solo il fresco, dovevo recuperare. Mi ricordo che le prime tappe furono veramente nervose. Mi è successo di tutto. Sono caduto a 70 all’ora in volata, ma non mi son fatto niente. La prima settimana al Tour de France è sempre un disastro, più emotivamente che fisicamente. Insomma, quello che ha finito col pagare Remco. Serve una squadra forte perché in corsa si creano delle gerarchie e per stare davanti bisogna lavorare di spalle, gridare e tener duro.

Ti sembra che il modo di correre sia cambiato?

Ricordo che Indurain lasciava fare. Quando andava via la fuga, non si interessava troppo, mentre adesso è difficile vedere una situazione del genere. Tutte le squadre sono in corsa per cercare un risultato, quindi devono far vedere che sono lì per lavorare e non per fare vacanza. Mi ricordo che per una settimana era sempre così: un’ora a 50 di media, si formavano gruppi da tutte le parti e poi li trovavi fermi in mezzo alla strada e si andava verso la volata, ma spesso qualcuno arrivava. Non mi spiego come qualche giorno fa ci fosse una fuga di 50 corridori e non siano arrivati.

Che cosa ti ricordi di quella vittoria a Loudenville? 

Per la delusione che avevo addosso, è stata una roba enorme. Ero deluso perché a Parigi avevo fatto veramente un prologo eccezionale, arrivai ventunesimo. Si girava intorno alla Tour Eiffel: arrivai e mi sentii orgoglioso di me, veramente all’altezza della sfida. Persi 13 secondi, sentii di essere nel vivo della corsa. Invece andammo sulle Alpi e provai una delusione dopo l’altra. Riconoscevo anche persone venute per me dall’Italia, ma non c’era modo di rialzarsi. Saltai il giorno dopo Morzine. Nella tappa dell’Alpe d’Huez cercai di tener duro.

Che cosa successe?

Feci la salita dietro al gruppo, a 20 metri. Rientrai in discesa e pensai che forse la bambola mi fosse passata, invece ancora prima che iniziasse l’ultima salita, ero già saltato. Ero confuso e quindi decisi di riposarmi e disinteressarmi della gara. Nel giorno di riposo finii su L’Equipe, perché mi fotografarono al mare con Bertagnolli a prendere il sole. E piano piano iniziai a crescere. Bertagnolli invece si ritirò e Martinelli venne a dirmi che se non me la fossi sentita di continuare, sarei potuto ritornare a casa. Invece gli risposi che ero arrivato alle tappe che volevo e sarei rimasto. Non volevo rinunciare all’occasione di provarci. E infatti il giorno dopo andai in fuga.

Come andò?

Ho avuto solo un pensiero, uno solo, non ne avevo altri: volevo vincere. Non mi lasciai influenzare dal tempo, dall’acqua, né dal caldo, né dalle salite. Volevo solo vincere e alla fine ci riuscii in volata, cosa che per me non era scontata. Era una tappa dura, con sei salite tutte combattute. Mi ritrovai con corridori veloci come Dufaux e Virenque. Sapevo di non essere il più veloce, ma presto anche loro si accorsero che ero io l’uomo da battere e provarono a farmi fuori. Andai all’ammiraglia e mi attaccarono. Però sono stato freddo, sono rientrato e poi ho iniziato a guidare le danze. La volata sarebbe stata una roulette russa, ma con un po’ di fortuna, riuscii a vincere la tappa.

Hai visto il Tour di Armstrong, ora c’è Pogacar: con quale spirito si va alle corse se i rivali sono tanto più forti?

Devi affrontare la realtà. Non mi sono mai illuso, però ho sempre messo in conto di dire: vediamo dove arrivo. Non sono mai partito battuto, insomma. La consapevolezza di non poterli battere arriva strada facendo, perché almeno all’inizio devi partire sapendo che puoi giocartela, no? Non sono mai partito per partecipare, io ero fatto così. Detto questo, si vede che Vingegaard corre su Pogacar, che non gliene frega niente di nessun altro. Ho visto tanti corridore fare così, potrei farvi una lista infinita. Quelli che battezzano un rivale perché sanno che va forte e aspettano che salti per rubargli il posto. Io non sono mai stato così, non ho mai fatto la corsa per aspettare che mi arrivasse qualcosa dal cielo. Insomma non era nel mio carattere.

Si arriva in casa: Simoni vince da solo a Pampeago, intorno a lui l’entusiasmo trentino
Si arriva in casa: Simoni vince da solo a Pampeago, intorno a lui l’entusiasmo trentino
Cosa ti pare di Pogacar?

Non aspetta, non è attendista. A volte sembra che non segua alcuna indicazione. Credo che a volte voglia fare le cose in grande e poi si penta per aver fatto qualcosa di troppo. Secondo me, visto il risultato, a Hautacam ha pensato che gli sarebbe bastato attaccare negli ultimi tre chilometri, anziché dai piedi della salita.

Ha il gusto di stupire?

Attacca spesso da lontano, anche se basterebbe meno. Mi piace l’imprevedibilità, come Van der Poel. Quando puntano una tappa, diventano imprevedibili, ma sono tenaci e ne fanno di tutti i colori. Insomma, la scommessa più grande è capire se vinceranno oppure no. Per il resto diciamo che Tadej è abbastanza infallibile, l’altro gli gira attorno da un po’. Ha già vinto per due volte il Tour, ma continuerà a correre allo stesso modo.

Vingegaard si mangia Remco. E intanto Tadej continua…

18.07.2025
8 min
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«Devo dire che sono stato sorpreso da chi ha utilizzato la bici da crono», ha detto Domenico Pozzovivo. E’ con lo scalatore lucano che abbiamo sviscerato la cronoscalata di Peyragudes. Una cronometro che ha visto protagonista ancora lui, sempre lui: Tadej Pogacar.

Lo sloveno si porta a casa la frazione, rafforza la sua maglia gialla, mette in cassaforte la quarta vittoria di tappa e si riprende anche la maglia a pois. Ma forse la vera notizia, o meglio, l’immagine del giorno è Jonas Vingegaard che riprende Remco Evenepoel.

Il momento topico della crono di Peyragudes: Vingegaard riprende e sorpassa Evenepoel partito 2′ prima di lui
Il momento topico della crono di Peyragudes: Vingegaard riprende e sorpassa Evenepoel partito 2′ prima di lui

Jonas e Remco: il sorpasso

Eppure Vingegaard non è parso poi così stupito. «Ieri – ha detto il danese – non ero al mio solito livello. Sì, è stata la mia seconda brutta giornata al Tour. Non so come sia possibile. Di solito non mi capitano queste cose. Oggi sono tornato al mio livello di prima. Credo ancora in me stesso e continuerò a provarci. La squadra è incredibilmente forte e dobbiamo dimostrarlo ora; il Tour non è ancora finito».

Mentre Remco, stremato e deluso, non ha risposto a chi gli chiedeva del sorpasso da parte di Vingegaard. Una domanda (legittima sia chiaro), ma che forse in quel momento di frustrazione poteva essere percepita come una provocazione.

«E’ stata una brutta giornata – ha detto il belga – di tutto il resto non mi importa». Come biasimarlo. Questi due giorni sono stati durissimi per lui e stasera andrà a dormire con più preoccupazioni che certezze.

Come diceva Pozzovivo, Tadej ha limato sul peso. Sulla Y1Rs non c’era neanche il nastro. I rapporti: 55-38 all’anteriore e 11-34 al posteriore. Pedivelle da 165 mm (dati UAe Emirates)
Come diceva Pozzovivo, Tadej ha limato sul peso. Sulla Y1Rs non c’era neanche il nastro. I rapporti: 55-38 all’anteriore e 11-34 al posteriore. Pedivelle da 165 mm (dati UAe Emirates)

Tadej senza dubbi

Quanti spunti ha regalato questa frazione contro il tempo sul colle pirenaico. Con il Pozzo si è parlato delle scelte tecniche e delle prestazioni. Ma anche della media oraria stellare. Si ipotizzava una media tra i 26,5 e i 27 all’ora: Tadej ha abbattuto il muro dei 28.

Pogacar stesso si è espresso sulla scelta tecnica fatta in concerto con la sua UAE Team Emirates: «La scelta della bici è stata la decisione più importante di oggi. Gareggiamo quasi sempre con questa bici; la usiamo il 99 per cento delle volte. Abbiamo fatto i nostri calcoli e se su quella da crono non riesci a sfruttare tutta la tua potenza, finisci con lo stesso tempo finale. Mi sento più a mio agio con questa bici, anche in salita. Per me ha funzionato bene. Comunque ho faticato tantissimo anche io. Nel finale pensavo di esplodere, per fortuna che ho visto il cronometro sul tabellone e capendo che avrei vinto mi sono motivato».

Mettete bene da parte le parole di Pogacar, perché vi torneranno molto utili quando adesso leggerete quelle di Pozzovivo.

Per ovvie caratteristiche fisiche Pozzovivo non era un grande cronoman, ma in più di qualche occasione si è ben difeso
Per ovvie caratteristiche fisiche Pozzovivo non era un grande cronoman, ma in più di qualche occasione si è ben difeso
Domenico, una gran bella cronometro con una marea di spunti tecnici, a partire dalla scelta dei materiali. Cosa ti è sembrato in merito?

Devo dire che sono stato abbastanza sorpreso dalla scelta di chi ha utilizzato le bici da crono, però alla fine vista la media oraria era davvero una scelta che ci poteva anche stare. Erano veramente due strategie al limite: poteva andare bene sia una che l’altra.

Ed è quello che ci diceva Pinotti un po’ di tempo fa: bici da crono sì o bici da crono no? Si era al limite…

Se si fosse restati sul classico Peyresourde, avrei detto assolutamente bici da crono. Mentre salendo all’aeroporto, quel finale così ripido metteva un po’ di dubbi dal punto di vista dell’efficacia della bici da crono. Pogacar è stato veramente sicuro di sé, non ha avuto nessun problema a scegliere la sua bici (la Colnago Y1Rs, ndr).

Una cosa che abbiamo notato è che chi aveva la bici da crono non sempre è stato in posizione, a parte Roglic… Forse questo ci dice che era meglio la bici da strada?

Considerando la bici aero che hanno in Visma-Lease a Bike (la Cervélo S5, ndr), per me era meglio. Poi è anche vero che Vingegaard è uno che sulla bici da crono ha la critical power migliore rispetto a quella da strada. Ricordiamoci di quando ha fatto la cronometro devastante a Combloux nel 2023: penso che quelle potenze relative al peso non le abbia mai fatte sulla bici da strada. Però secondo me, forse una decina di secondi li guadagnava con la bici da strada.

Vingegaard è andato molto forte. Quanto ha inciso vedere prima la macchina ferma della Soudal e poi Remco davanti?

In quei casi fa tanto vedere il corridore davanti a te, perché nel finale hai l’acido lattico fin sopra le orecchie. Ogni piccola motivazione, anche per distrarti, ogni appiglio può aiutarti ad andare più a fondo nello sforzo, specie su un muro del genere. Io credo che gli abbia fatto guadagnare tranquillamente 5-10 secondi rispetto a Tadej.

Tobias Foss: ruota anteriore ad alto profilo e posteriore bassa sulla sua Pinarello da strada
Tobias Foss: ruota anteriore ad alto profilo e posteriore bassa sulla sua Pinarello da strada
Restiamo sul setup dei Visma: bici da crono, casco aero e ruote basse. Perché? Questione di peso?

Sì, la coperta era corta: l’hanno tirata da una parte e hanno lasciato scoperto l’aspetto ruote. Io avrei sacrificato il casco aero a vantaggio di quello normale. Piuttosto avrei messo una ruota altissima o comunque una un po’ più alta.

Qualche bel “mischione” in termini di setup c’è stato. Lenny Martinez con bici da strada e lenticolare dietro, Tobias Foss con ruota alta davanti e bassa dietro… Questo fa capire che c’è stato tanto studio?

Ognuno ha cercato a suo modo la prestazione. Sono situazioni in cui magari qualcuno usa la fantasia, però a volte forse bisognerebbe essere più razionali. In soldoni: io la lenticolare non l’avrei messa mai.

E quale sarebbe stato l’assetto di Domenico Pozzovivo?

Avrei assolutamente utilizzato una bici da strada aero, limando su tutte le parti possibili. In questo modo la porti tranquillamente a 7 chili e per me avrebbe fatto la differenza.

Quello che ha fatto Pogacar, sostanzialmente…

Anche perché ultimamente sto usando una bici aero e in salita dice tranquillamente la sua, almeno se non è troppo pesante. Poi conta anche lo stile dei corridori. A me, per esempio, piace una bici molto rigida, e di solito le bici aero lo sono, quindi avrei avuto una risposta elastica molto reattiva.

Che fatica per Remco oggi. Ha pagato ben 2’39” a Tadej Pogacar
Che fatica per Remco oggi. Ha pagato ben 2’39” a Tadej Pogacar
Secondo te si sono fatti interventi piccoli sui manubri, magari allungare l’attacco per stare più bassi, oppure nel mezzo del Tour non si tocca niente?

Sulla bici da strada no, su quella da crono sì. Remco era chiaramente meno aero del solito. Ha alzato le appendici di un bel po’ (si vocifera 2 centimetri, ndr). Il problema della bici da crono è che ti perdona meno quando sei in crisi, come successo proprio a Remco. Era una scelta molto più rischiosa. Se stai bene come Primoz Roglic, che ha vissuto la sua giornata migliore in questo Tour, la sfrutti bene.

Poi devi avere determinate caratteristiche, devi essere abituato a quella bici. Come dicevi prima, Vingegaard ha la critical power più alta sulla crono…

E anche Roglic ci si esprime bene. E pure Florian Lipowitz è uno che ha un core, la parte centrale del corpo, incredibile. Anche quando è sulla bici da strada sembra che stia su quella da crono per come tira il manubrio e per il suo stile così disteso. Ecco, nel suo caso non avrei avuto dubbi a usare la bici da crono. Si vede che ci è a suo agio e riesce ad esprimersi.

Invece a livello di prestazioni cosa ti è sembrato?

Alla luce della prestazione di ieri, oggi mi aspettavo un altro show di Tadej Pogacar. Il tempo che ha sancito la vittoria è veramente incredibile. La media è fuori dal comune. Già andare sopra i 27 all’ora sarebbe stato straordinario, lui ha fatto più di 28 (28,435 km/h, ndr). E’ su un altro pianeta. Già uno fortissimo come Vingegaard, rispetto agli altri campioni, ha fatto una differenza abissale.

Quindi questi 36 secondi sono una differenza abissale o qualcuno si poteva aspettare anche di più?

No, non ci si poteva attendere certi distacchi. Un conto è una tappa lunga e un conto uno sforzo breve. Il discorso è diverso. Bisogna anche capire nella testa come è stata approcciata. Ieri Tadej l’ho visto spingere fino in fondo perché secondo me aveva in testa il best time della salita. Oggi per me non aveva quel doppio fine, quindi quando ha capito che aveva vinto ha spinto, sì, ma senza distruggersi. E’ arrivato molto meno a tutta rispetto a Vingegaard.

Buona prestazione di Roglic. Lo sloveno chiude terzo e ora nella generale è 7° a 1’26” dal podio
Buona prestazione di Roglic. Lo sloveno chiude terzo e ora nella generale è 7° a 1’26” dal podio
Invece qualcuno che ti ha colpito, in positivo o in negativo?

Luke Plapp me lo aspettavo perché è uno che a livello di potenza assoluta sulla salita secca ha quei numeri. In negativo direi Remco: me lo sarei aspettato terzo, invece ha fatto più fatica di ieri. Da lui mi aspetto di tutto. Domani potrebbe anche riprendersi, oppure potrebbe arrivare la giornata che mette la parola fine alla sua classifica.

La tendenza non è a suo favore. Ieri secondo te si è salvato solo perché si sono staccati Matteo Jorgenson e Simon Yates?

Però attenzione, ieri è stata una tattica quella della Visma talmente tirata, talmente al limite per cercare una falla in Tadej, che non sono state delle controprestazioni quelle di Jorgenson o Remco. Loro erano talmente al limite che il rischio di far saltare i compagni c’era, ed è stato così. Jorgenson e Yates sono saltati perché si andava fortissimo. Remco si è difeso davvero bene se pensiamo che si era staccato sulla penultima salita. Insomma, andare più forte di così era impossibile. Ci sarebbe voluto un altro Tadej e un altro Vinge per tirare in quel momento.

La lotta per il podio come la vedi?

E’ aperta. Per l’esperienza e dopo la buona prestazione di oggi direi che se Roglic non ha i suoi soliti problemi, è quello più lanciato verso il podio di Parigi. Però il compagno di squadra Lipowitz è solido. Sono loro due i miei favoriti. Ma manca ancora tanto. La tappa di domani dirà parecchio, perché non è solo un trittico. Bisogna aggiungerci anche la tappa di mercoledì. Diventano quattro giorni molto impegnativi. E in quattro giorni del genere possono verificarsi situazioni impreviste.

Secondo te che rapporti erano montati sui monocorona dei Red Bull e dei Visma? Potrebbero essere stati dei 48?

Non saprei dire con precisione, ma ad occhio sì: potrebbe essere stato un 48. Però la monocorona per me era una scelta azzardata, molto al limite a prescindere dalla dentatura precisa (se fosse un 46, un 48 o un 51, ndr), perché si rischiava di non trovare il rapporto, specie con le scale posteriori di adesso che fanno grandi salti.

Un po’ quello che è successo a Remco?

Molto probabilmente sì, anche se non era in una buona giornata. Sai, quando stai bene riesci sempre a metterci una toppa, ma se stai male ogni problema diventa un calvario.