Moro: «La pista è passione, la madison adrenalina»

16.04.2021
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Tra i ragazzi di Villa che stanno lavorando per le Olimpiadi c’è anche Stefano Moro. Non ci sono solo i “titolari” del quartetto. Per puntare ai grandi obiettivi serve un gruppo di lavoro allargato, specie per la pista italiana i cui interpreti fanno la spola con la strada. 

E perché il lavoro sia all’altezza servono elementi che assicurino ottime prestazioni, che siano affidabili e che vadano forte… in allenamento e anche in gara.

Per Stefano Moro, classe 1997, primi assaggi di azzurro già da junior
Per Stefano Moro, classe 1997, primi assaggi di azzurro già da junior

Un gruppo fortissimo

A questo preambolo risponde appieno Moro, appunto.

«Per fare parte del gruppo olimpico e stare al passo di quei campioni devo migliorare continuamente – spiega il lombardo – altrimenti rischio di essere fuori. Però è bello perché stare a contatto con loro significa imparare e crescere sia fisicamente che mentalmente, nel senso che non si può lasciare nulla al caso, che devi sbagliare il meno possibile. E non è facile farlo con costanza».

Stefano vive a Fontanella, in provincia di Bergamo. Ormai fa la spola tra casa sua e Montichiari, dove si reca non meno di una volta a settimana.

«O anche tre volte – riprende – quando Villa decide di fare i ritiri. Quello del cittì è un grande gruppo ed è bello farne parte. Non sarò a Tokyo, ma tifo per loro con tutto me stesso affinché possano vincere una medaglia. Ho partecipato alla qualificazione olimpica prendendo parte ad alcune gare di Coppa del mondo e so quanto hanno dato, quanto se la sono sudata e quanto hanno sofferto che le Olimpiadi siano slittate di un anno. Dopo quel tempo stellare che hanno fatto al mondiale, non è stato facile rimandare tutto. E’ grazie a loro se la pista è tornata di moda».

Moro in azione agli europei di Plovdiv
Moro in azione agli europei di Plovdiv

Obiettivo: corpo militare

In apertura dicevamo forte in allenamento e in gara. Moro lo scorso autunno si è ritrovato catapultato agli europei. Nazionale decimata dal Covid e all’improvviso eccolo sfrecciare in gara a Plovdiv. Essere sempre pronti significa questo. E infatti in Bulgaria il portacolori della Biesse Arvedi si è ben comportato, tanto da riuscire a conquistare due medaglie: l’argento nell’inseguimento a squadre e il bronzo nella madison con Francesco Lamon. Un risultato inaspettato per Stefano che però, come dice lui stesso, gli ha dato grande fiducia.

«So che posso avere un futuro su pista. Ormai ho deciso: è questo il mio obiettivo principale. L’ho detto a me stesso nel 2019, al quarto anno da under. Non che la strada non mi piaccia, ma per caratteristiche fisiche e per passione, preferisco la pista. Inoltre spero di poter entrare in un corpo militare, ma per farlo servono medaglie e convocazioni in eventi internazionali».

Come detto Moro non fa parte delle primissime schiere, ma essendo un classe 1997 può pensare anche a Parigi 2024. «Le Olimpiadi sono il sogno di ogni atleta, specie per uno che corre in pista. Io voglio concentrami sul mio futuro sul parquet».

Stefano ha scelto la pista per passione, ma anche su strada era vincente…
Stefano ha scelto la pista per passione, ma anche su strada era vincente…

Madison, cuore e adrenalina

Passione vera quindi per Moro quella della pista. Tutto nasce quando da bambino salì in bici ed iniziò girando in una pista vicino Crema. Voleva imitare il fratello. 

«La passione ce l’ha trasmessa mio papà, Primo, che adesso purtroppo non c’è più. Lui era un amatore», racconta Moro.

Da esordiente Stefano calca le sponde del velodromo di Dalmine e da allievo ecco i primi risultati (un titolo italiano). Quando diventa juniores, Villa lo inserisce nel suo gruppo, dal quale di fatto non è più uscito.

«Alla fine contano i risultati dice Moro – Su pista ne ho ottenuti di più. Su strada ho anche vinto qualche gara, ma un po’ d’infortuni e caratteristiche fisiche più adatte al parquet mi hanno indotto verso la pista. La disciplina che preferisco è la Madison. Non so perché. Ma dal momento che parti vai a “cento all’ora” col pieno di energie e di adrenalina, solo sul finire quando senti le gambe che fanno “crack” la stessa adrenalina scema un po’. Ho corso spesso con Plebani e Giordani e agli Europei con Lamon».

«Il momento del cambio è delicato, per farlo bene devi provarlo e riprovarlo, come nel basket il gesto del polso, e non sarà mai perfetto. Agli Europei in Bulgaria, Lamon (con lui nella foto di apertura, ndr) all’ultimo cambio mi ha urlato perché ho cambiato a 100 metri dall’arrivo, cosa che non si fa. Quegli urli sono gli unici momenti in cui si “parla”, altrimenti ci si capisce al volo. Se si parla è perché si è commesso un errore. Anche questo è il bello di questa disciplina».

E Milan si prepara a passare dal pavé alla pista

05.04.2021
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Eppure c’è un italiano che è andato via dal pavé di Oudenaarde col sorriso sulle labbra ed è Jonathan Milan. Alla partenza se ne stava accanto ai compagni con un sorriso un po’ nervoso, come quando nel debutto c’è qualcosa che ti sfugge e finché non si parte ti resta addosso un po’ di inquietudine. Poi la corsa è partita e le sensazioni sono andate al loro posto. Fatica. Nervosismo. Alta velocità. Poi, fatto il proprio lavoro, la resa. Nonostante tutto, il bello del Nord. E alla fine, parlando con lui ai piedi del pullman, si ha la sensazione che il gigante friulano (è alto 1,94) si sia anche divertito. Bene così!

Vi ricordate di lui, no? Due anni al Cycling Team Friuli continental. Il tricolore della crono. Vittorie in linea. La scalata in pista al quartetto azzurro. Il passaggio fra qualche discussione (secondo il suo tecnico Bressan era troppo presto) al Team Bahrain Victorious. La condivisione della preparazione, fra gli allenatori del vecchio team e Paolo Artuso dell’attuale. Il debutto nel WorldTour. E davanti alle ruote la probabile partecipazione alle Olimpiadi di Tokyo nel quartetto.

La ricognizione sui muri per prendere le misure con il pavé del Nord
La ricognizione sul pavé per prendere le misure
Come è andata?

Super bene, un’ottima emozione e un’ottima sensazione. Ho cercato di fare quello che mi avevano chiesto i ragazzi, penso di averlo svolto al meglio delle mie possibilità, delle mie capacità. La squadra è contenta.

Si parla dal basso verso l’alto, con il rischio di crampi per il braccio che tiene il registratore. “Johnny” indossa il cappello del team e la mascherina nera, per cui il sorriso soddisfatto si intuisce dagli occhi che brillano, come abbiamo imparato a capire negli ultimi due anni fra gli under 23.

Nei primi 130 chilometri al servizio del team, poi una sfida con se stesso
Nei primi 130 chilometri al servizio del team
Che cosa ti preoccupava alla partenza?

In queste corse, ho sempre un po’ di timore di non riuscire ad aiutare i miei compagni al meglio. Di non riuscire a tirare fino a quel chilometraggio. Di non riuscire ad arrivare fresco, tra virgolette (ride, ndr) fino a quel chilometraggio. Ecco, queste sono le mie paure. Poi magari sono sciocchezze, ma per uno come me che in gruppo ancora non sa come muoversi per bene, perché facendo il salto di categoria sono tutte cose diverse, un po’ di apprensione alla partenza la generano.

Che cosa ti avevano chiesto di fare?

Far prendere i settori davanti ai ragazzi. Tenerli nelle prime posizioni dal chilometro zero fino al 130 (fino al primo passaggio sul Qwaremont, dove la corsa iniziava il circuito dei muri, ndr). Ho cercato di svolgere il mio lavoro al meglio. Penso di esserci riuscito, ero su che parlavo con i ragazzi e mi hanno detto che ho fatto bene.

Jonathan Milan
Era dicembre, quando andammo a trovarlo a Buja, scattando questa foto sul pavé di casa…
Jonathan Milan
La foto sul… muro di Buja, durante la visita di fine 2020
Avevi mai corso su strade simili?

No, proprio no. Avevo fatto la Roubaix da junior, ma è proprio un’altra cosa

Quando venimmo a casa tua lo scorso inverno, facemmo una foto sul… muro di Buja: hai trovato qualche differenza?

Sono molto più duri (la risata questa volta è di entrambi, ricordando quella foto fatta proprio pensando a un giorno come questo, ndr). Cercavo di farli abbastanza di agilità, per tenere un po’ la gamba sempre in movimento. Per non irrigidirla più di tanto. Quando si prendevano i muri, si andava sempre belli spinti. Se vai a buttare giù rapporti a metà gara, la gamba dopo un po’ salta.

Usando la fantasia e tutta la prudenza del caso, può essere una corsa adatta a te?

Fantasticando può essere, se si prepara bene. Se in questi anni si farà una buona crescita, e sono fiducioso che sarà così al 100 per cento, per me sì. Potrebbe essere una corsa in cui raccontare qualcosa di bello.

Finito il racconto, si torna sul pullman, che sta per ripartire: si torna a casa
Finito il racconto, si torna sul pullman, che sta per ripartire: si torna a casa
Quali sono ora i programmi?

Rientrando ho una Coppa del mondo su pista a Hong Kong con la nazionale (13-16 maggio, ndr). Sarà molto importante andare a vedere come sono messe le altre nazionali. Che sviluppi tecnici hanno fatto, le bici e il vestiario. Poi sarò al Giro di Slovenia oppure alla Coppa del mondo di Cali, in Colombia (3-6 giugno). Poi gli europei di pista (23-27 giugno, ndr). Poi si vedrà. Il grande appuntamento della stagione, se me lo merito, saranno le Olimpiadi.

Come pensi che sarà il passaggio dal pavé al parquet?

Andrà gestito, ma c’è tempo. Avremo degli incontri con Marco Villa in pista per vedere a che punto eravamo rimasti. Riprendere il ritmo è sempre difficile, ma arriveremo a Hong Kong ben preparati.

Bruno Vicino campione del mondo in pista

Vicino chiama Dagnoni: «Rilancia gli stayer…»

26.02.2021
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Con l’arrivo di Cordiano Dagnoni alla guida della Fci, conoscendo il suo passato di stayer, molti sperano che la specialità del ciclismo dietro motori abbia un sussulto. Una volta le gare dietro moto riempivano le tribune delle piste, poi sono andate lentamente scomparendo ed è quasi un miracolo che sia stato tenuto in piedi il Campionato d’Europa, disputato per l’ultima volta a Pordenone nel 2019 e vinto dal tedesco Burkart e dalla nostra Marta Cavalli. Guardando l’albo d’oro si scopre che la specialità continua ad avere interpreti di un certo peso, basti guardare alle vittorie di Viviani nel 2013, il danese Morkov l’anno successivo e, andando un po’ indietro nel tempo, il vincitore del Tour Bradley Wiggins nel 2003.

A Natale c’era il pienone

Chi ha legato la sua storia ciclistica al mondo degli stayer è Bruno Vicino, attualmente nello staff dirigenziale dell’UAE Team Emirates, che ripensando al suo passato non nasconde tanta nostalgia: «E’ un vero peccato che questo patrimonio sia stato lasciato andare: ricordo ad esempio le fantastiche giornate di Natale a Dortmund. Il giorno della festa si pranzava al velodromo e al pomeriggio i campioni della specialità davano spettacolo su pista davanti a molte migliaia di spettatori. Sembrava di essere allo stadio, tanto era il tifo… In Italia era una specialità poco conosciuta, eppure eravamo tra i più forti al mondo».

Bruno Vicino campione del mondo
Bruno Vicino sul gradino più alto del podio al Campionato del mondo di Zurigo 1983
Bruno vicino campione del mondo
Bruno Vicino vittorioso al Campionato del mondo di Zurigo 1983

La fine delle Sei Giorni

A che cosa si deve il suo declino?

Le ragioni possono essere tante, certamente molto ha influito un certo abbandono della pista e soprattutto il tramonto delle 6 Giorni, che in Europa riempivano i velodromi di tutte le principali città. Io poi credo anche che ci sia stato un certo disinteresse da parte dei Paesi dell’Est europeo, che a livello di politica sportiva nel nostro ambiente hanno sempre avuto molto peso.

Vicino con maglia della nazionale
Bruno Vicino in azione con la maglia azzurra ai Campionati del mondo di Barcellona 1984
Vicino con maglia della nazionale
Bruno Vicino in azione ai mondiali di Barcellona 1984
L’andare dietro motori, nell’ambito dell’allenamento, ha ancora un senso?

Certamente, moltissimo. E’ lo strumento migliore per preparare il ritmo di agilità. Una sbagliata percezione della specialità ad esempio fa credere che emergano soprattutto i velocisti, invece è ideale per i passisti, perché si va di regola sui 72-73 km orari, le gambe frullano sempre sullo stesso ritmo e lo stesso rapporto. E’ ideale ad esempio per chi prepara le cronometro, oppure per chi va forte nei circuiti. Io ad esempio grazie agli stayer avevo preso l’abitudine di rilanciare l’azione dopo le curve scattando da seduto, mantenendo la posizione e riducendo lo sforzo.

Bruno Vicino con medaglia argento
Bruno Vicino è argento ai mondiali di Brno 1981 con il vincitore Rene Kos e Wilfried Peffgen
Bruno Vicino con medaglia argento
Bruno Vicino, a sinistra, con la medaglia d’argento ai mondiali di Brno 1981

Si corre in due

Che cosa serve per emergere tra gli stayer?

Il fattore principale, che non deve essere mai dimenticato, è che la gara la si fa in due, chi guida la moto e chi la bici. Tra i due ci deve essere feeling, un buon corridore senza un buon pilota non vincerà mai. Sono come due teste che devono ragionare all’unisono per emergere, capire quando accelerare, quando mantenere il ritmo e così via.

Allenarsi dietro moto ha ancora un senso?

Altroché… E’ ideale per dare il ritmo nelle pedalate, per fare riscaldamento e sciogliere i muscoli, prima di una crono la consiglio sempre anche ai ragazzi del team, anche meglio dei rulli. E’ chiaro che anche in allenamento serve un certo accordo tra i due mezzi, anche perché su strada ci sono avvallamenti e soprattutto le auto, serve massima attenzione, ma la sua utilità è innegabile.

Dietro motore in pista
Il tedesco Wilfried Peffgen e Bruno Vicino, in basso, ai mondiali di Besancon 1980
Bruno Vicino con De Lillo ai mondiali di Besancon 1980
Bruno Vicino ai mondiali di Besancon 1980

Pianura e niente fisso

Quali percorsi sono più adatti?

Bisogna cercare i tracciati più pianeggianti possibile, proprio perché quel che va allenato è il ritmo di pedalata. Un errore da non fare è utilizzare per gli allenamenti su strada dietro motori bici a scatto fisso, che vanno benissimo su pista ma all’aperto serve sempre avere la possibilità di cambiare e soprattutto frenare.

Oggi Bruno Vicino è nello staff della UAE Team Emirates
Oggi Bruno Vicino è nello staff della UAE Team Emirates
Oggi Bruno Vicino è nello staff della UAE Team Emirates
Oggi Bruno Vicino è nello staff della UAE Team Emirates

La pista è più sicura

Con l’arrivo di Dagnoni, che cosa ti aspetti per il tuo antico amore?

Ci unisce la stessa passione, il presidente sa bene quale spettacolo questa specialità sa regalare, spero tanto che riprenda vigore sia in Italia che in Europa, ricordiamoci sempre che andare su pista è molto meno pericoloso che su strada quindi può essere un grande richiamo per i ragazzi e si sa che il rombo dei motori piace sempre…

Il senso di Rachele per la bici

20.02.2021
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A Montichiari la settimana scorsa, il 15 febbraio, era di lunedì e Rachele Barbieri faceva quel che ha sempre fatto negli ultimi anni. Girare e lavorare sodo per i suoi obiettivi che sono lo scratch e la madison, ma ugualmente seguendo la moto negli allenamento del quartetto. In pista tutte fanno tutto, ma come per un’illuminazione era saltato agli occhi che la modenese il giorno prima aveva fatto una gara di cross all’aeroporto di Lugo, festeggiando così un insolito giorno di San Valentino. Se ne era già parlato qualche settimana fa, ma il passaggio dal fango al parquet ha suscitato qualche curiosità. Possibile che non ci siano fastidi, traumi e/o risentimenti muscolari che rendano in qualche modo incompatibili le due discipline, soprattutto a così breve distanza di tempo?

Il giorno di San Valentino, un cross a Lugo di Romagna con la nuova maglia
Il giorno di San Valentino, un cross a Lugo di Romagna con la nuova maglia

Rachele, che nel frattempo ha portato anche a lavare la macchina, corre per le Fiamme Oro, ha il suo team per l’attività ordinaria e si divide fra la bici e il volontariato nell’Avap (associazione volontari assistenza pubblica). Il cross, come ci raccontò già ai campionati italiani di Lecce, è una passione che durante l’ultimo inverno le ha permesso di mantenere la condizione senza sottoporsi a lavori troppo pesanti.

Il fatto di correre per divertimento riduce gli stress?

Sicuramente non ho corso alla morte, soprattutto domenica scorsa. Devo dire che quest’anno il cross si è dimostrato molto produttivo. Una gara dura 40 minuti che poi è la durata di una madison in pista. Quindi gli sforzi sono simili, il cuore si alza allo stesso modo. In una gara di cross, soprattutto se c’è fango, si raggiungono wattaggi molto elevati, che aiutano a sostenere meglio i lavori di forza/resistenza in pista.

Cambia di molto però la frequenza di pedalata, no?

Ed è il motivo per cui le due specialità possono davvero essere complementari. Nel cross si usa una cadenza molto più bassa, in pista è l’esatto contrario. Come se nel cross facessi lavori di forza e in pista velocizzassi.

Da gennaio, le ragazze di Salvoldi hanno ripreso ad allenarsi in pista per due giorni a settimana
Da gennaio, in pista per due giorni a settimana
Domenica cross e lunedì pista: si può fare?

Questo è molto soggettivo. Se in pista ci fosse una gara molto importante, allora eviterei di fare cross il giorno prima. Ma tornando allo scorso fine settimana, ero più affaticata per il freddo che per la corsa a piedi, ad esempio.

La corsa a piedi non provoca dei microtraumi che poi in pista ad esempio induriscono le gambe?

La corsa va allenata, dovresti farla due volte a settimana in modo che in gara non sia una fase completamente sconosciuta e io quest’anno non l’ho fatto. In assoluto non dà grandi problemi rispetto alla pista, ma è chiaro che devi saperla inserire nei giorni giusti. Sono altri i traumi del cross…

Ad esempio?

E’ facile cadere, anche se non ti fai male. Il giorno dopo una gara di cross ho sempre le gambe piene di lividi, perché prendi un sacco di colpi, anche semplicemente salendo e scendendo dalla bici. Quel che resta dopo una gara è un affaticamento buono, che viene perché ad esempio per uscire dal fango devi fare degli sforzi intensi.

Rachele Barbieri, Martina Alzini
Rachele Barbieri e Martina Alzini, defaticamento sui rulli in pista
Rachele Barbieri
Rachele durante il defaticamento sui rulli in pista
Dopo un cross si fa defaticamento sui rulli?

Sui rulli o su strada, se c’è un tratto pianeggiante e senza traffico nei dintorni. Il defaticamento si fa sempre. E’ lo stesso tipo di lavoro che facciamo normalmente in pista dopo una seduta di lavoro specifico. Un quarto d’ora tranquilla, facendo girare le gambe.

Salvoldi è favorevole a questo doppio impegno?

Mi ha detto che ho fatto bene a dedicarmi al cross lo scorso inverno. Perché agli europei in pista avevo raggiunto una buona condizione (a Plovdiv, Rachele ha centrato l’argento nell’eliminazione, ndr) e sarebbe stato un peccato rimanere ferma a vederla andar via.

Simone Consonni casco Kask

Kask, gli… elmetti magici dei quartetti azzurri

17.02.2021
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Nella recente visita al velodromo di Montichiari abbiamo notato l’attenzione che riservano ai loro caschi i ragazzi della nazionale italiana su pista. Per capire come nascano e vengano sviluppati questi tipi di caschi abbiamo parlato con Luca Viano, Direttore prodotto di Kask. Il marchio italiano è fornitore ufficiale della nazionale italiana su pista.

Si parte dal meglio

Progettare e sviluppare dei caschi che devono fornire la massima efficienza aerodinamica richiede una serie di studi molto approfonditi e complessi.
«La storia di Kask è un po’ particolare – esordisce così Luca Viano – sin dall’inizio abbiamo sempre collaborato con quello che era il Team Sky e che oggi è l’Ineos. Questo per noi ha voluto dire collaborare con i corridori e anche con i partner tecnici della squadra, che sono stati molti. A partire da British Cycling per poi passare a Jaguar fino a oggi con Mercedes. Detto questo, per sviluppare un casco da cronometro o da pista si parte dallo studiare cosa di meglio c’è sul mercato o a livello di prototipi e si vanno a cercare i punti da migliorare».

Elia Viviani con casco Kask bambino Pro Evo
Elia Viviani mentre indossa il Kask Bambino Pro Evo
Elia Viviani con casco Kask bambino Pro Evo
Elia Viviani mentre indossa il Kask Bambino Pro Evo con la coda lunga

In galleria del vento

La collaborazione con una squadra di primissimo livello come la Ineos Grenadiers ha certamente portato una seri di vantaggi.
«Negli ultimi anni abbiamo sempre sviluppato insieme a ogni singolo atleta – ci spiega Viano – utilizzando la galleria del vento e la scansione completa del corridore mentre è in bicicletta».

Il lavoro in galleria del vento risulta sempre molto importante: «Facciamo delle simulazioni con il vento che proviene da diverse direzioni e con l’atleta che assume diverse posizioni in bici. Ovviamente ci sono quelli che stanno più in una posizione e altri che si muovono maggiormente e anche questo fattore deve essere considerato ai fini dell’efficienza aerodinamica. Alla fine, tutte le variabili vengono bilanciate e si va capire quanto può essere diminuito il drag per quel singolo corridore».

Kask Bambino Pro
Il casco Bambino Pro con la coda corta
Kask Bambino Pro
Il casco Bambino Pro con la coda corta, nato dalle caratteristiche di Froome

Coda lunga o corta?

Le caratteristiche fisiche e la tenuta in posizione di ogni atleta vanno ad influire sulle scelte tecniche da prendere per sviluppare un casco.
«I ragazzi della nazionale italiana su pista hanno delle caratteristiche diverse – ci dice Luca Viano – per capire meglio quanto le peculiarità di ogni atleta influiscano sullo sviluppo di un casco faccio l’esempio di Froome. Lui è uno che durante le cronometro guarda molto verso il basso e muove la testa. Da queste sue caratteristiche è nato il casco Bambino Pro con una coda tronca, perché una coda lunga avrebbe fatto da freno. Invece Thomas e Ganna, che vengono dalla pista e hanno una posizione più stabile e duratura, conviene che usino il Bambino Pro Evo con la coda più lunga».

Ma quanto incide la lunghezza del casco sull’aerodinamica?

«La coda più lunga aiuta ad attaccare il flusso d’aria il più possibile alla schiena e questo migliora l’aerodinamica, ma se si muove molto la testa mentre si pedala agisce come un freno».

Attenzione ai dettagli

Entrando nello specifico dei caschi usati dagli atleti della nazionale italiana Luca Viano ci ha detto che: «I ragazzi usano il Bambino Pro Evo, quello con la coda più lunga, che offre il profilo alare migliore ed è più vantaggioso. Bisogna pensare che le prove in pista durano pochi minuti e quindi gli atleti stanno stabilmente in posizione aerodinamica».

E poi ci sono i marginal gains.
«I caschi che vengono usati in pista sono gli stessi usati nelle cronometro su strada o nel triathlon – ci dice – però, per ricercare la massima prestazione, vengono rimossi i fori frontali di ventilazione, che a livello aerodinamico portano qualche disturbo. Ovviamente questa operazione non viene fatta per le prove su strada dove il corridore deve affrontare sforzi più lunghi».

Kask Mistral
Il Mistral ha una larghezza maggiore
Kask Mistral
Il Mistral ha una larghezza maggiore che si sposa meglio con i corridori con le spalle larghe

Un casco per gli australiani

Kask collabora anche con la nazionale australiana su pista e anche da questa partnership è nato un casco specifico.
«Il casco Mistral è nato dal fatto che gli atleti australiani hanno mediamente delle spalle più larghe – ci spiega Viano – questo vuol dire che hanno un impatto con l’aria differente. Questa caratteristica ci ha portato a sviluppare un casco che ha una parte frontale più larga e permette di creare un corpo unico con il profilo dell’atleta. In questo modo si è reso più lineare il flusso d’aria. Il Mistral è adatto anche alle prove di triathlon meno tortuose, anche perché spesso i triatleti hanno una larghezza delle spalle maggiore rispetto ai ciclisti»

Ganna guida il quartetto azzurro
Filippo Ganna guida il trenino azzurro
Ganna guida il quartetto azzurro
Filippo Ganna guida il trenino azzurro. Tutti i componenti usano lo stesso casco

Prove diverse, stesso casco

Per finire abbiamo chiesto se c’è differenza fra il casco usato nel quartetto da quello dell’inseguimento individuale.
«In realtà non ci sono differenze, nel senso che usano lo stesso casco in entrambe le prove. Nel quartetto sono molto importanti l’ordine e i tempi delle tirate e si cerca di lavorare molto sulle caratteristiche delle persone per fare in modo che siano il più omogenee possibile. D’altronde quando Ganna è davanti a tirare, dovrebbe avere un tipo di casco, mentre quando sta in scia dovrebbe averne un altro. Ma questo non è possibile, quindi lui utilizza lo stesso della prova individuale con cui ha il massimo vantaggio aerodinamico».

Salvoldi, a Tokyo stesse chance su strada e in pista

02.02.2021
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Concluso il ritiro sull’Etna e a fronte della cancellazione delle prime corse su strada, Salvoldi si è rimboccato le maniche e ha ridisegnato l’attività delle sue ragazze per non perdere il lavoro svolto in Sicilia. Montichiari torna ad essere la loro casa per due giorni a settimana e così fino alle prime trasferte. Il tecnico è bravo, c’è poco da dire e da criticarlo per le vittorie. Ha subito degli scossoni pesanti, ma ha risposto con il lavoro. Se un cittì non avesse la fiducia dei suoi atleti, difficilmente arriverebbero certi risultati. Nonostante ciò, l’incertezza di ciò che avverrà dopo le elezioni federali di febbraio stride con il ragionamento fatto da tempo su un gruppo di ragazze che avrà Tokyo come passaggio e Parigi 2024 come vero obiettivo olimpico.

Salvoldi ha previsto lavori in quota sui rulli, conlavori specifici per il quartetto
Salvoldi ha previsto lavori in quota sui rulli, conlavori specifici per il quartetto

«Sapere di lavorare a scadenza un po’ ti destabilizza – ammette – per certi versi ti fa perdere potere con le squadre. Abbiamo sempre detto che questo gruppo è in viaggio per Parigi. Adesso comunque si lavora per Tokyo, vivendo alla giornata, perché i calendari sono tutti ballerini. Dobbiamo farci trovare pronti per ogni cambiamento. Non sappiamo se gli eventi previsti nell’avvicinamento si svolgeranno come ci aspettiamo».

Che Olimpiadi immagini?

Di grandi sorprese, per diversi motivi. Arriviamo tutti nel segno della discontinuità nel lavoro, con la difficoltà di trovare, mantenere e tenere sotto controllo il livello della prestazione.

L’anno di ritardo ha fatto il nostro gioco?

Ha implementato il gruppo, aprendo la porta a ragazze che sono cresciute. Il gruppo squadra ne ha giovato sicuramente. E manca ancora Letizia Paternoster.

Elisa Longo Borghini, campionati europei Plouay, 2020
Elisa Longo Borghini, seconda ai campionati europei Plouay 2020 e bronzo ai Giochi di Rio 2016
Elisa Longo Borghini, campionati europei Plouay, 2020
Longo Borghini, 2ª agli europei di Plouay, bronzo a Rio 2016
Montichiari diventa più che mai un punto di riferimento?

Assolutamente, come punto in cui convergere se l’attività su strada dovesse subire degli stop. E sarà così anche dal 2022, perché a parte il prevedibile distacco che ci sarà dalla pista, alla fine dell’anno inizieranno le qualificazioni olimpiche, per cui il gruppo si ricomporrà.

Su strada la situazione verso Tokyo è diversa?

Abbiamo due atlete già affermate che hanno vinto ad altissimo livello. Direi che abbiamo quasi pari chance su strada e su pista perché in pista troveremo le più forti all’apice della loro carriera, quindi andranno fortissimo. Tornando alle stradiste, parlo di Elisa Longo Borghini e di Marta Bastianelli, se sarà al livello del 2018-19 in cui si poteva paragonarla tranquillamente con Marianne Vos.

Il WorldTour rende più complicato il tuo ruolo di tecnico della nazionale?

Diciamo che la prima differenza è prendere atto dell’attività non omogenea fra squadroni e team professional, come fra gli uomini. Sono contento però perché finalmente le ragazze hanno una possibilità di carriera. Come tecnico della nazionale, sono convinto che negli ultimi due anni siano venuti a mancare un paio di blocchi di ritiro collegiale. Quello a inizio anno o per fare il sopralluogo del percorso iridato. Sono momenti che aiutano a fare gruppo e a dare le gerarchie della squadra. Se arrivi a radunarle soltanto all’ultimo, comandano gli ordini di arrivo, hai difficoltà di selezione e soprattutto impedisci alle più forti di programmare la stagione in funzione dell’appuntamento.

Nel 2018 a Glasgow, Marta Bastianelli conquista i campionati europei: se in condizione, per Salvoldi farà bene anche a Tokyo
Nel 2018 a Glasgow, Bastianelli vince gli europei
Che rapporto hai con i tecnici dei team?

Prima parlo dell’obiettivo con l’atleta, poi faccio i passaggi di condivisione con team, manager, diesse e preparatori.

Quindi anche se sono professioniste, i contatti continuano?

Sempre, loro si aspettano un contatto continuativo ed è anche giusto che ci sia. E’ un interesse reciproco. Confrontarsi aiuta a capire le scelte. Ogni volta che parlo di convocazioni con la Longo Borghini, ad esempio, le chiedo: «Quando ti ho lasciato fuori?». E le punta il dito e risponde: «A Londra!». Sanno che si può essere esclusi, ma sanno che è un gioco corretto.

Ecco la base del quartetto azzurro che aspetta Paternoster: Balsamo, Guazzini, Alzini, Consonni
Il quartetto che aspetta Paternoster: Balsamo, Guazzini, Alzini, Consonni
I corpi militari aiutano?

Contribuiscono a dare importanza alla maglia azzurra. E nel lungo periodo, nonostante i guadagni siano in crescita, permettono alle ragazze di avere entrate cui è difficile rinunciare.

Il mondiale viene dopo o resta il focus?

Il mondiale fra le donne resta ancora la gara più importante, quella che dà valore alla carriera. E quest’anno ci sarà una bella sfida in Belgio. E’ presto per parlarne, ma a breve bisognerà inquadrare anche quello.

Ma la “Conso” dal vulcano butta l’occhio su Parigi

27.01.2021
4 min
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La “Conso” se c’è la senti e questo mette allegria. Anche se certe volte, soprattutto alle ragazze più esperte, le sue esplosioni di buon umore provocano dei sussulti. La “Conso” è Chiara Consonni, protagonista dell’intervista doppia con Elisa Balsamo e in precedenza di quella con suo fratello Simone, ma soprattutto talento del ciclismo italiano. Per lei, nove ori fra mondiali ed europei juniores e under 23 su pista e interessanti piazzamenti su strada in gare WorldTour (come il 3° posto di Plouay 2020 dietro Deignan e Banks), impreziositi dalla vittoria di tappa al Boels Ladies Tour del 2019.

Agli europei di Fiorenzuola la scorsa estate ha conquistato l’oro dell’inseguimento, dell’americana e dell’eliminazione. Poi, con l’argento nel quartetto di Plovdiv fra le elite (con Balsamo, Alzini e Guazzini), ha compiuto il passo decisivo verso quella rosa magica che si giocherà il posto alle Olimpiadi. Che facendo tutti gli scongiuri, si svolgeranno a Tokyo in agosto.

Come definiresti la stagione che sta per cominciare?

Diversa da tutte le altre. Sia per le Olimpiadi, sia per il Covid che ancora non è sparito. Bisognerà vedere quante gare annulleranno e come sarà rivoluzionata la stagione.

Le Olimpiadi e gli scongiuri…

Ci penso tanto che non c’è niente di ancora sicuro. L’anno scorso non ero nella rosa olimpica, quest’anno sì, quindi cosa posso dire… Per me lo spostamento è stato un grosso colpo di fortuna. Proprio per questo, mi sono impegnata al massimo per iniziare la stagione quasi al top e poi continuare fino ai momenti più importanti.

Chiara Consonni, Martina Fidanza, madison europei 2020
La sua ultima vittoria 2020, l’oro nella madison con Martina Fidanza agli europei U23
Chiara Consonni, Martina Fidanza, europei U23 madison, 2020
Ultima vittoria 2020, la madison con Fidanza a Fiorenzuola
Quanto è faticoso questo lavoro?

Vorrei che lo diventasse, un lavoro. In realtà più della fatica vedo la soddisfazione. Perché è vero che c’è da impegnarsi, ma quando poi il lavoro di un anno si concentra nei 4 chilometri dell’inseguimento o nei 20 secondi della volata e riesci a vincere… esplode tutto lì ed è bellissimo.

E’ da escludere che tu scelga fra strada e pista?

Non chiedetelo, perché non so cosa rispondere. Ho visto che ho potenzialità per andare bene anche su strada, quindi vorrei coltivare l’una e l’altra. So che si può, anche se è più faticoso incrociare la stagione della strada e quella della pista, e dà il doppio della soddisfazione.

Secondo Salvoldi, in effetti, il vostro gruppo a Tokyo prenderà le misure, mentre a Parigi andrà per vincere.

Esatto. Siamo un gruppo molto giovane, stiamo iniziando adesso a lavorare insieme, quindi come nazionale dobbiamo ancora crescere sotto tanti punti di vista. Penso anche io che Tokyo sia un punto di partenza. In ogni caso, la mia voglia di continuare in pista non è legata solo alle Olimpiadi. Mi piace l’ambiente, mi piace lo sport, mi piace correre. Mi piace tutto della pista.

Sui rulli in quota, accanto a Balsamo, facendo lavori specifici
Sui rulli in quota, accanto a Balsamo, facendo lavori specifici
Qual è la tua specialità preferita e perché?

La mia specialità preferita… potrei dire il quartetto, invece dico la madison. Perché è divertente, c’è sempre da imparare. E non è come nel quartetto, che devi fare sempre le stesse cose, perché cambi. Devi usare non solamente la forza, ma devi essere anche brava a capire la gara. Quindi sì, direi la madison.

Quanto è forte per la “Conso” il richiamo delle squadre WorldTour?

Diciamo che lo sento. Io poi, non essendo in un corpo militare, percepisco tanto il divario. E penso che se con gli anni le squadre WorldTour inizieranno ad aumentare, allora le professional cominceranno a non essere più invitate alle corse più importanti e saremo costrette tutte a cambiare. Perciò sì, è un bel richiamo. Una bella rivoluzione.

La sera nel bar del Rifugio Sapienza, anche per la “Conso” interminabili partite di burraco
La sera nel bar, interminabili partite di burraco
Vorresti farne un lavoro, non sei nei corpi militari… Stai lanciando dei segnali?

No, nessun segnale. Mi hanno contattata e spero di riuscire a entrare per fine anno, anche se non c’è ancora nulla di ufficiale.

Lo sai che poi non potrai più parlare con la voce così alta?

Ma non è colpa mia (ride, ndr), mi viene. Quando mia madre andava a fare i colloqui alle elementari, le maestre le dicevano: «Sua figlia urla troppo!». Non so perché lo faccio. Forse perché sono un’anima allegra?

Roberto Chiappa, Pechino 2008

Quando in pista c’erano i giganti. Chiappa racconta…

01.01.2021
5 min
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Quando in pista scendevano i giganti della velocità, il pubblico sgranava gli occhi. Hubner era una montagna. Al confronto Fiedler sembrava più esile, ma era anche lui un colosso. Nothstein era un lottatore di wrestling, Rousseau ti agitava in faccia il suo essere francese. Finché un giorno in mezzo ai quei bestioni spuntò un giovane umbro di nome Roberto Chiappa. Le Olimpiadi di Barcellona erano state inaugurate da Freddy Mercury e Monteserrat Caballé, l’Italia della strada avrebbe presto applaudito l’oro di Fabio Casartelli, mentre in pista sarebbe toccato a Giovanni Lombardi e a quel… ragazzino di Terni, 1,84 per 90 chili, che l’anno prima aveva vinto il mondiale juniores nella velocità.

«Quel mondiale e il record del mondo di 10″200 – ricorda – non me l’aspettavo. Terza prestazione di sempre. Ma il bello doveva ancora venire. Mi portarono alle Olimpiadi che dovevo ancora compiere 19 anni. Mi buttai dentro e finii quarto, battuto in semifinale da Fiedler che poi avrebbe vinto l’oro».

Roberto Chiappa, Federico Paris, bronzo mondiali di Palermo 1994
Chiappa e Paris, equipaggio collaudato nel tandem. Nel 1993 vinsero il mondiale ad Hamar
Roberto Chiappa, Federico Paris, bronzo mondiali di Palermo 1994
Con Paris coppia fissa nel tandem

Chiappa è stato l’ultimo grande velocista italiano. Carabiniere forestale, dopo le Olimpiadi di Atlanta si trasferì a Bergamo e di quel suo accento umbro restano appena poche inflessioni. Ve lo raccontiamo in questo primo giorno dell’anno, sperando porti l’ispirazione a chi guiderà il prossimo quadriennio federale. E lo facciamo partendo da una frase di Ivan Quaranta.

«Per ricreare un Roberto Chiappa – disse il cremasco, a sua volta iridato juniores della velocità – serve prenderli da giovani, mentre sognano di essere Viviani o Nizzolo».

Roberto, ha ragione Quaranta?

Sono stato l’ultimo a fare certi risultati. La Fci ha investito e ha dato la possibilità di riaprire il settore velocità, però forse si sono sbagliate le tempistiche. Bisognerebbe chiederlo al presidente Di Rocco. Ora che vivo il ciclismo da fuori, vedo chiaramente che i velocisti non hanno prospettive. I campionati italiani si fanno, ma i ragazzini veloci vengono dirottati nel quartetto. Perché Villa ha un futuro, mentre per le discipline veloci non c’è un tecnico.

Michael Hubner, mondiali Palermo 1994
Michael Hubner, gigante tedesco, ai mondiali di Palermo 1994. Chiappa è a sinistra
Michael Hubner, mondiali Palermo 1994
Contro Hubner ai mondiali di Palermo 1994
Si dice che la strada richiami di più…

E’ un discorso sbagliato. Fino agli allievi in Toscana incontravo spesso e battevo Petacchi e Bettini, dato che ho solo un anno di più. Facevo anche pista e un giorno il tecnico di categoria venne a cercarmi, proponendo borsa di studio, un lavoro in Forestale per quando avessi smesso e un bel calendario. Se non avessi avuto questi incentivi, sarei passato su strada, dove potevo smettere o diventare Cipollini. Oggi se vai da un ragazzo di 18 anni, gli offri la borsa di studio, la possibilità di fare mondiali e Olimpiadi e un posto di lavoro, pensi che la famiglia dica di no?

Avrebbe senso reclutare qualcuno del gruppo degli inseguitori per le discipline veloci?

No, perché sono inseguitori. Il velocista devi prenderlo da esordiente e capire di che colore sono le sue fibre. Velocista si nasce e noi ne abbiamo avuti di buoni. Guardini. Mareczko. Lo stesso Quaranta.

Ma sono tutti passati su strada.

Senza grandi risultati, perché oggi per fare le volate devi andare bene in salita e se vieni dalla pista, resti sempre un velocista. Viviani fa le volate, ma non viene dal settore veloce. Guardini era un Chiappa, ma ha vissuto gli anni in cui si investiva poco. Con il suo oro europeo nel keirin, avrebbe potuto continuare e fare le Olimpiadi.

Velocisti si nasce…

Devi avere fibre bianche e avere da 2.200 a 2.600 watt. In Italia certi numeri non ci sono. Vanno cercati forse nella Bmx o nel pattinaggio. Io sono curioso e sono in contatto con Theo Bos, che ha 10 anni meno di me e ancora corre. Mi dice che Hoogland secondo agli ultimi due mondiali, fa 2.600 watt. Non voglio immaginare Lavreysen che quei mondiali li ha vinti. 

Roberto Chiappa, Apeldoorn 2011
Agli europei di Apeldoorn 2011 come accompagnatore delle ragazze di Salvoldi
Roberto Chiappa, Apeldoorn 2011
Roberto Chiappa agli europei 2011 con le azzurre
Tu come eri messo?

Io ne facevo 2.300, ero un gran velocista, ho vinto la Coppa del mondo, ma non ero il migliore. E’ cambiato tutto. Mi dicono che adesso si sprinta con il 60×13 a 120 pedalate. Noi usavamo il 49×14 e solo nel 2008 passai al 52×13, grazie ai francesi che mi spiegarono il loro metodo di lavoro. Oggi Miriam Vece usa il 62×15.

A quante Olimpiadi hai partecipato?

Barcellona, Atlanta, Sydney e Pechino. Saltai Atene 2004 perché il presidente Ceruti chiuse il settore velocità, paragonandoci agli omini Michelin. E io che nel 2001 avevo vinto la Coppa del mondo della velocità, non potei qualificarmi. Poi tornarono Di Rocco e Martinello e mi fecero rientrare. Nel 2008 vinsi la prova di Coppa del mondo di Los Angeles e mi qualificai per Pechino nella velocità e nel keirin. Pechino fu l’anno in cui mi sentii più forte.

Vai ancora in bici?

Dopo aver smesso, ebbi 3-4 anni di fatica mentale. Quattro Olimpiadi e 21 mondiali, oltre a tutto il resto, ti logorano. Ora mi è tornata la passione.

Sei sempre un gigante?

Qualcosa ho perso, ma le gambe sono sempre quelle. Seguivo un sistema di lavoro per cui sulla pressa spingevo 580 chili di massimale. Prima evitavo le salite, sono cresciuto con il lavaggio del cervello che facessero male. Le usavo per i lavori specifici, sui Colli Euganei. Facevo 2-3 minuti a fiamma con l’occhio sull’Srm, a 800 watt. Ora vado sulla Roncola o sul Selvino per staccare con la testa. E una cosa la dico. Mi piacerebbe prendere tutta questa esperienza e metterla a disposizione dei giovani.

Liam Bertazzo

Tokyo, Bertazzo spera: «Darò il massimo»

26.12.2020
4 min
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Non è facile lavorare per un obiettivo che sai potrebbe non arrivare, anche mettendocela tutta. Questo è quel che riguarda alcuni degli atleti di Marco Villa, che sperano di trovare un posto nel quartetto dell’inseguimento a squadre in quel di Tokyo. Tra i ragazzi in bilico c’è anche Liam Bertazzo, passistone veneto, da anni pilastro delle maglie azzurre che sfrecciano nei velodromi. Uno dei veterani del gruppo. Uno che respira parquet da sempre e la pista ormai ce l’ha scolpita nel Dna.

Liam, sei una delle colonne di questa nazionale…

Sono oltre dieci anni che faccio parte di questo gruppo. Il primo mondiale risale a Mosca 2009 da juniores e… sì, siamo una bella squadra.

Liam Bertazzo
Liam Bertazzo (a sinistra) e Davide Plebani (a destra) durante il ritiro di Formia
Liam Bertazzo
Bertazzo (sinistra) e Plebani durante il ritiro di Formia
Sei consapevole che rischi di non correre a Tokyo?

Sì, questo è il prezzo da pagare adesso che siamo arrivati a grandi livelli e a grandi risultati. Sappiamo che potenziale abbiamo. Da parte mia so che se m’impegno e do tutto non avrò rimorsi.

Parli al plurale. Villa vi ha mentalizzato bene, vi sentite tutti parte in causa?

Sono cresciuto con questo gruppo. C’ero quando facevamo 4’12” e la Bielorussia con bici peggiori delle nostre ci stava davanti e ci arrivavano le critiche. Siamo arrivati dove siamo arrivati solo per il nostro affiatamento. Prima che ciclisti siamo amici.

Come si fa a trovare gli stimoli sapendo di poter non esserci?

Si trovano anche fra noi quelli. Per uno che migliora anche l’altro cerca di farlo. E’ la forza gruppo. Insieme si cresce: potenziale, morale alto, vittoria… Sono consapevole che potrei restare fuori, ma significherebbe che gli altri sono più forti e per la squadra va bene così. Intanto pensiamo giorno per giorno. Ho passato momenti difficili, ho avuto problemi di salute e questo mi ha aiutato a capire quanto siamo fortunati quando stiamo bene. Come detto, se avrò dato tutto non avrò nessun rammarico. Mi sento parte del gruppo e l’obiettivo è comune. E poi da qui a sei mesi possono succedere tante cose.

Liam Bertazzo
Adesso che i problemi legati all’ernia sono superati, Liam può tornare ad allenarsi al meglio
Liam Bertazzo
Problemi fisici superati, Liam può allenarsi al meglio
Che problemi fisici hai avuto?

Venivo da un 2019 abbastanza traumatico, un’ernia alla schiena tra le vertebre L5-S1. Ho provato a tenere duro per non operarmi, ma alla fine non camminavo più. Avevo fatto dell’ozonoterapia, infiltrazioni… le cose sembravano andare un po’ meglio. Poi però lo scorso gennaio con l’arrivo del freddo tutto è peggiorato. Avevo dolore, le gambe indolenzite, avevo perso muscolo. Il dolore era insopportabile, soprattutto nelle partenze. Non si poteva andare avanti. Oggi a volte non basta allenarsi al 100% figuriamoci in quelle condizioni. Con l’aiuto di Fred Morini ho trovato un neurochirurgo che mi ha operato. Quindi man mano ho ripreso. Vedevo i ragazzi ai mondiali fare quel che hanno fatto. Per questo agli europei di Plovdiv ci puntavo tanto, ma il Covid mi ha impedito di andarci.

L’arrivo di Milan, che è l’ultimo arrivato in ordine cronologico, è uno stimolo o un’impedimento in più?

E’ quasi un peso, perché con uno così sei obbligato a puntare alle prime due posizioni alle Olimpiadi. Lui è fortissimo. Siamo completi in tutti i ruoli. Un Milan così è un piccolo Ganna e con due come loro per stare dentro devi essere al 130%!

Liam Bertazzo
Bertazzo (28 anni) è nella Vini Zabù-Ktm dal 2019
Liam Bertazzo
Bertazzo (28 anni) è nella Vini Zabù-Ktm dal 2019
Qual è il ruolo di Bertazzo nel quartetto?

Io sono il secondo, quello che deve portare il team in tabella, cioè al ritmo della tabella di marcia prestabilita. Abbiamo fissato 14″200 a giro? Io devo portarli a 14″200. Almeno era così fino a gennaio scorso… I primi due sono quelli che più di tutti subiscono la partenza, prendono aria subito, gli altri hanno più tempo per “sistemarsi”.

Si parla di decimi, ormai avete la sensibilità per capire se state andando forte o piano?

Insomma. Siamo molto abituati a far riferimento al cronometro. Sì, magari i primi due chilometri osservi i tempi, cerchi di regolarti, ma gli ultimi 2.000 metri non guardi più nulla e dai tutto. Ogni gara è a sé. Alle Olimpiadi del 2016 con un quartetto molto più “improvvisato” non abbiamo ragionato molto, prima del via ci siamo detti: si dà tutto e basta.

Riuscite a “parlare” in quei frangenti?

No, semmai si sente giusto un cala, aumenta.

Quanto sei cambiato in questi dieci anni di pista?

Se devo essere sincero, preferivo il Liam ragazzino che non aveva paura di nulla e che pensava di poter fare tutto, però sono contento di chi sono diventato. Adesso so che l’impegno non è solo in quelle due settimane prima della gara, ma inizia mesi e mesi prima. Ho consapevolezza dei sacrifici che servono per raggiungere l’obiettivo. Però sono fiducioso, anche con l’arrivo di “Kuba” (Marezcko, ndr) in squadra (la Vini Zabù-Ktm, ndr) avremo modo di correre in un certo modo su strada, impostando le volate. E anche questo può aiutare.