Ritorno al Tour, viaggio con Trentin fra esperienza e ricordi

18.06.2025
6 min
Salva

Aveva 23 anni ed era professionista da due. Non vinceva dal campionato italiano under 23 del 2011 quando sull’arrivo di Melilli aveva fatto scoppiare in lacrime Fabio Aru. Matteo Trentin era stato inserito dalla Omega Pharma-Quick Step nella squadra del Tour 2013, accanto a compagni come Cavendish, Terpstra, Chavanel, Kwiatkowski e Tony Martin. Gente tosta, ma il ragazzino italiano cresciuto a strada e ciclocross nel Team Brilla non era da meno. E fu così che nel giorno di Lione, provocando quasi un infarto a Davide Bramati, prima si infilò nella fuga che sarebbe arrivata e poi vinse la tappa.

Prima vittoria da professionista al Tour de France. Ne andava così fiero che di tappe ne vinse altre due. Una l’anno dopo, battendo Sagan in volata a Nancy. E una nel 2019, vincendo a Gap. Mai una città banale nei Tour di Trentin, che si accinge ora a farvi ritorno con la Tudor Pro Cycling, dopo un anno di assenza.

La prima vittoria di Trentin da pro’ è la tappa del Tour 2013 a Lione: non ha ancora 24 anni
La prima vittoria di Trentin da pro’ è la tappa del Tour 2013 a Lione: non ha ancora 24 anni
Che cosa rappresenta il Tour per Matteo Trentin?

E’ la corsa più grande del mondo e anche la più importante. Quando come me hai avuto la fortuna e la bravura di vincere tappe nei tre Grandi Giri, ti rendi conto che il Tour sia proprio esponenzialmente più grande, con più gente rispetto a tutto il resto.

E’ così evidente anche dall’interno?

E’ una cosa che ti salta all’occhio subito. Quando vai in sala stampa per la conferenza, c’è una marea di persone. Al Giro e alla Vuelta sono pure tante, ma non così. E poi sono differenti, arrivano da tutto il mondo, mentre al Giro e alla Vuelta ci sono soprattutto gli europei.

Vincesti la prima tappa a 23 anni, eri professionista dall’anno precedente. Che cosa ricordi?

Mi ricordo tutto, perché le strade e i posti in cui vado mi restano tutti in testa. Pensate che pochi giorni fa con il Delfinato eravamo nell’hotel dove ero la sera prima di quella mia vittoria, a Saint Amand Montrond. Aveva vinto Cavendish, era stata la tappa dei ventagli e lui aveva fatto il panico a 120 chilometri dall’arrivo per far fuori Kittel. Poi erano saltati fuori quelli di classifica e io rimasi fuori dal ventaglio della Saxo Bank di Contador, per fare fuori Froome. Arrivai con lui a più di un minuto, forse perché mi ero messo in fondo al gruppo pensando ai fatti miei.

E’ l’11 luglio del 2014, Trentin brucia Sagan nella volata di Nancy: seconda vittoria al Tour
E’ l’11 luglio del 2014, Trentin brucia Sagan nella volata di Nancy: seconda vittoria al Tour
Un brutto colpo per uno cresciuto al Nord…

Infatti andai a letto dicendomi che il giorno dopo sarei andato in fuga. Ci andai e vinsi.

Si dice che oggi vincano tanto i corridori molto giovani, eri comunque un debuttante al Tour e vincesti a 23 anni…

Vincevano i giovani anche allora, magari non tanto come adesso. Soprattutto perché ne fanno passare così tanti che ormai in gruppo ci sono soltanto i ragazzini e gli anziani sono spariti. Insomma, anche per la legge dei grandi numeri, sono più loro che noi.

La seconda tappa, l’anno dopo la vincesti con una volatona di gruppo. Secondo arrivò Sagan in maglia verde…

Il gruppo si era un po’ sgretolato, perché c’era una salita poco più lunga di un chilometro entrando nel finale. Ci fu anche una caduta in fondo alla discesa, per cui penso che fossimo non più di 40 corridori. La volata venne molto bene, a volte sapevo fare grandi cose.

Infine la terza vittoria di tappa a Gap da campione europeo, su un percorso con tante salite, avendo anche cambiato squadra: dalla Quick Step alla Mitchelton-Scott.

Diciamo che era l’ultima disponibile. Ero arrivato vicino a vincere la tappa in altre occasioni. A Colmar, a Saint Etienne e anche a Bagneres de Bigorre sui Pirenei, che era anche dura. Un po’ mi fregò Simon Yates, che allora era mio compagno di squadra. Io ero davanti in fuga da solo e lui dietro tirava. Venne a prendermi, poi vinse la tappa e… niente.

Nel 2019 Trentin vince a Gap in maglia di campione europeo: terza vittoria al Tour
Nel 2019 Trentin vince a Gap in maglia di campione europeo: terza vittoria al Tour
Perché Gap era l’ultima disponibile?

Perché poi c’erano solamente Valloire, Tignes e Val Thorens e l’arrivo a Parigi. Sicuramente ci sarebbe stata una fuga, quindi dovevo semplicemente agganciarmi e poi giocarmela al meglio. Sono stato anche bravo, perché arrivai da solo, staccando Asgreen e prima ancora il gruppetto con Van Avermaet e anche Daniel Oss.

Visto che ricordi strade e luoghi, hai familiarità con i posti del ciclismo in Francia?

Ma sapete che dopo un po’ di anni, ti accorgi che più o meno le strade sono sempre quelle? Tornando al discorso de “La strada non è nostra”, bisogna riuscire a passare dove hanno l’abitudine a vederti. Alla fine della fiera, tra Parigi-Nizza, Definato e Tour, tante volte ti accorgi che passi veramente negli stessi posti. O comunque, dovendo raggiungere due punti sulla mappa in una determinata regione, il più delle volte si usa la stessa strada. E’ anche comprensibile, perché facendo così magari gli organizzatori hanno meno difficoltà di chiedere chiusure di cui non sono sicuri.

Dopo tanti anni che lo frequenti, pensi di avere col Tour un rapporto particolare?

Speriamo, speriamo anche di farlo funzionare. Quando abbiamo fatto i programmi, prima c’era la parte delle classiche, poi ho iniziato a concentrarmi sul Tour. Venendo da una squadra un po’ più piccola, dove comunque c’è bisogno di esperienza in corse così grandi e di persone solide che magari un paio di Grandi Giri li hanno finiti, è stato un po’ più facile entrare a far parte dei papabili per il Tour. Rispetto magari a squadre dove i corridori sono tanti e la lunga lista del Tour era ancora di 15 corridori alla partenza del Delfinato.

La stagione di Trentin divisa in due parti: prima le classiche (qui all’Amstel) e ora tricolori e Tour
La stagione di Trentin divisa in due parti: prima le classiche (qui all’Amstel) e ora tricolori e Tour
L’ambizione è sempre quella, oppure proprio per il fatto che sei in una piccola squadra, avrai un altro ruolo?

L’ambizione è sempre quella di andare per le tappe, quindi devi essere pronto a giocartele ogni volta che si presenta la possibilità. Però non ho la pelle d’oca come la prima volta, so cosa mi aspetta. Sarà diverso forse per i giovani della squadra. Non so ancora i nomi di tutti quelli che saranno in Francia. Però posso dire che abbiamo fatto il Delfinato e a quelli che non lo avevano mai corso ho detto: «Ragazzi, preparatevi, perché qua vi accorgerete di cosa sia il ciclismo. Qua si va veramente forte!».

E’ vero che al Delfinato si va più forte che al Tour?

Dipende dalle giornate e dalle annate. Ritorna il discorso dei trials interni per far vedere alla squadra che ti meriti il posto al Tour. In più quest’anno la Visma e la UAE si sono messe a voler vedere chi è più forte, per cui abbiamo avuto tappe sempre tirate.

Come hai visto il tre del podio 2024?

Mi sembra che stiano bene tutti quanti. Evenepoel ha faticato un po’ sulle salite, ma a crono li ha suonati come tamburi. Preferisco concentrarmi su di me. Per cui ora farò gli italiani, poi tornerò a casa un altro paio di giorni e poi finalmente si torna al Tour.

Feltre, Castelli 24H: rivive per una sera la favola della Liquigas

08.06.2025
5 min
Salva

FELTRE – Basta il nome Liquigas e all’appassionato di ciclismo non può non scappare la lacrimuccia. A dare lustro alla 23ª edizione della Castelli 24h, la festa della bicicletta che ogni anno pone il comune bellunese al centro del mondo del pedale, ci ha pensato la squadra che tra il 2006 e il 2014 ha scritto la storia sulla strada tra Grandi Giri e classiche. Un boato ha accolto la presentazione sul palco del team, qualche minuto prima delle 21 di venerdì, per la reunion nata da una suggestione di Giovanni Lombardi.

Li riconoscete? Da sinistra il ds Mariuzzo, Ponzi, Da Dalto, Moser, Sagan, Marangoni, Curtolo, Pellizotti, Oss (foto Castelli 24H)

Sagan capitano

Alan Marangoni, Alberto Curtolo, Simone Ponzi, Franco Pellizotti, Fabio Sabatini, Moreno Moser, Mauro Da Dalto, Tiziano Dall’Antonia, Stefano Agostini, Ivan Santaromita, insieme al mitico diesse Dario Mariuzzo, presentatosi al ritiro dei chip e del pacco gara con una maglia verde brillante con una scritta inequivocabile sul petto: Sagan. Già perché il tre volte campione del mondo e re di Fiandre e Roubaix non poteva proprio mancare. Anzi, Peter e il suo sorrisone hanno aperto le danze di questa rimpatriata

«E’ un’occasione speciale- ha raccontato l’asso slovacco – e sono contento di essere qui e di partire per primo. Sono molto emozionato, perché la Liquigas mi ha lanciato nel mondo dei pro’ ed è bello rivedere così tanti vecchi amici».

Al suo fianco, ad abbracciarlo c’è il mitico Mariuzzo che aggiunge: «Bello indossare questa maglia di nuovo con lui come i vecchi tempi e rivivere quelle vittorie e quei momenti magici». 

Moreno Moser, coetaneo di Sagan, ha corso con questa squadra nel 2011 e 2012 (foto Castelli 24H)
Moreno Moser, coetaneo di Sagan, ha corso con questa squadra nel 2011 e 2012 (foto Castelli 24H)

Marangoni regista

Deus ex machina di questa rimpatriata è stato Marangoni, che ha rimesso insieme i pezzi di storia e spronato il team fino alla bandiera a scacchi come solo lui sa fare.

«Ho avuto l’incarico di formare la squadra – racconta – e li ho chiamati uno per uno, ma il diesse l’ho lasciato fare a Mariuzzo, che tra l’altro è anche il più allenato di tutti quanti. Infatti, mi è toccato pure girare come una trottola, perché mi sono ritrovato in una squadra di gente che non pedala mai e ho fatto più di 100 chilometri».

Tutti ricordano con nostalgia i tempi d’oro, come commenta Da Dalto, “passistone” come lo definisce Marangoni e pedina fondamentale per Sagan: «Ci siamo divertiti tantissimo in quegli anni, credo molto di più di quello che avviene nel ciclismo moderno».

I voti di Pellizotti

Pellizotti, oramai calato nel nuovo ruolo in ammiraglia Bahrain Victorius, commenta le prestazioni dei compagni: «Mariuzzo sta andando a tutto gas. Peter si è difeso bene, Moserino anche. Ponzi da rivedere, anche perché è partito senza trasponder, quindi è come se non avesse corso».

Non è stato l’unico inconveniente perché come racconta Marangoni: «Dall’Antonia si è presentato con il cambio scarico e ha dovuto prendere in prestito la bici di Da Dalto. Per fortuna avevamo il nostro Mvp, Mariuzzo, che ha dato spettacolo nonostante non sia più un giovanotto».

Sul palco alla presentazione: da sinistra Sagan, Marangoni, Curtolo, Pellizotti e Oss (foto Castelli 24H)

Una maglia storica

E proprio il tanto citato diesse stuzzica Pellizzotti che prova a seguire le sue orme: «Ha ancora tanta strada da fare». E Franco incassa con un sorriso: «C’è sempre da imparare, non bisogna mai fermarsi e da uno come Dario non posso che prendere un grande esempio. A parte tutto, è stata una bellissima esperienza, vestendo una maglia che ha fatto la storia del ciclismo degli ultimi vent’anni e tutti sono stati contenti di tornare a indossarla».

Goliardia, ricordi e tante risate: l’esperimento è riuscitissimo e i tanti appassionati che hanno assiepato le strade del circuito cittadino di Feltre hanno applaudito e travolto d’affetto una delle squadre più forti della storia del ciclismo.

Vincenzo Nibali ha corso con la Liquigas dal 2006 al 2012, vincendo la Vuelta e altre 14 corse (foto Castelli 24H)
Nibali ha corso con la Liquigas dal 2006 al 2012, vincendo la Vuelta e altre 14 corse (foto Castelli 24H)

Nibali e la sfida 2026

E non è finita qui, perché nel team benefico di C’è Da Fare capitanato da Paolo Kessisoglu c’erano anche Daniel Oss e Vincenzo Nibali, altri due gioielli della scuderia Liquigas. Lo Squalo messinese non ha resistito alla chiamata della storica maglia verde e, su gentile concessione del comico ligure, ha sfrecciato anche coi vecchi compagni.

«Bello questo doppio impegno – ha sorriso – per una buona causa e per ritrovare i compagni di tante vittorie. Questi colori mi hanno lanciato nell’Olimpo del ciclismo ed è stato fantastico ritrovarli qui a Feltre. Velocità buona, anche se la gamba non era delle migliori dopo un Giro d’Italia vissuto in ammiraglia, per cui ho sofferto un pochino. E’ stato un momento conviviale di grande festa, grazie agli sforzi del Comitato organizzatore ed è stato bello celebrarlo tutti insieme. Davvero stupendo ritrovare tanti ex compagni di squadra, direttori sportivi, meccanici: è stato davvero un evento spettacolare, un po’ di fatica c’è, ma soprattutto tanto divertimento».

Si sussurra che per il 2026 Andrea Tafi, questo weekend col team Rudy Project, e anche Paolo Bettini stiano già pensando a una rimpatriata della Mapei: la sfida è già lanciata.

La Sanremo, Sagan, il dente del giudizio: il ciclismo di Bling

18.12.2024
6 min
Salva

ALTEA (Spagna) – Guardi Matthews, lo ascolti. E mentre parla, ti rendi conto che se “Bling” non avesse trovato sulla sua strada Sagan (poi Van Aert, Van der Poel e Pogacar), a quest’ora avrebbe un palmares spaziale. E’ quello che ci diciamo fra colleghi ogni volta che si parla di lui. Eppure Michael tiene duro e ogni anno si presenta in corsa con la stessa solidità di sempre. “Bling” risale ai suoi anni a Canberra, quando era frizzante e vivace e quel nomignolo che significa “sgargiante” parve il più azzeccato.

«A Monaco – sorride – ho passato un paio di pomeriggi con Peter. Un giorno stavamo parlando delle nostre carriere, in lotta l’uno contro l’altro, e gli ho chiesto se avesse seguito la Sanremo. E lui ha risposto che gli fa male pensare che sia la sola gara che manca dal suo palmares. E così abbiamo iniziato questa conversazione. E’ stato molto bello scoprire che almeno su questo punto siamo uguali. Non siamo mai andati troppo d’accordo, perché siamo stati sempre rivali. Sagan ha avuto una carriera straordinaria. Sono davvero felice per quello che ha ottenuto. Ed è stato davvero bello sedersi e fare quattro chiacchiere sui vecchi tempi».

Michael Matthews, classe 1990 come Sagan, è professionista dal 2011. Nel 2010 vinse il mondiale U23
Michael Matthews, classe 1990 come Sagan, è professionista dal 2011. Nel 2010 vinse il mondiale U23
La differenza è che tu puoi ancora vincere la Sanremo, no? Non sei qui per questo?

Sono qui anche per questo. La Spagna è come una seconda casa, ma mi piace come la prima volta. Venire qui e incontrare tutti i nuovi corridori, essere di nuovo con la squadra. Penso che sia sempre bello quando hai nuovi sponsor, nuovi obiettivi, ma prima di partire ti guardi indietro, riflettendo sulla stagione che abbiamo appena avuto. Quest’anno avremo nove nuovi corridori, quindi un grande cambiamento che sarà interessante.

Ci sono nuovi corridori, ma se ne è andato Simon Yates, che effetto fa?

Simon ha giocato un ruolo importante nella storia del Team Jayco-AlUla. E’ stato qui fin dall’inizio, quindi penso che abbia vissuto un viaggio fantastico che ora è giunto al capolinea. Sarà interessante vedere cosa sarà in grado di ottenere in un’altra squadra. Sarà interessante vedere se la Visma-Lease a Bike potrà aiutarlo a realizzare i suoi sogni.

Al suo posto è arrivato Ben O’Connor.

Io e Ben abbiamo vinto il mondiale del Team Mixed Relay. Abbiamo fatto le Olimpiadi insieme, quindi abbiamo avuto modo di conoscerci abbastanza bene. Quello che ha ottenuto quest’anno è stato davvero fantastico e penso che portare quella fiducia nella nostra squadra sia una motivazione enorme. Dopo aver perso Simon, sarà un booster per tutti noi. In più è un volto fresco ed è australiano. Penso che sarà fantastico.

L’Australia a Zurigo ha conquistato il Team Mixed Relay. Fra gli uomini, Vine, Matthews e O’Connor
L’Australia a Zurigo ha conquistato il Team Mixed Relay. Fra gli uomini, Vine, Matthews e O’Connor
Cosa puoi dire del 2024?

Penso che sia andato davvero bene. Sono arrivato a un paio di centimetri dalla vittoria della Sanremo, sarebbe stata la prima Monumento della mia carriera, è stato difficile da digerire. Stessa storia al Fiandre. Mi hanno squalificato, ma non vale più la pena soffermarsi su questo episodio. Penso però che la mia prestazione complessivamente sia stata davvero buona e ne sono contento. Poi abbiamo avuto un po’ di montagne russe, ma verso la fine dell’anno siamo stati in grado di riprenderci. La vittoria in Quebec è stata un bel modo per mettere il giusto clima verso il finale della stagione.

Peccato per il ritiro dal mondiale…

E’ andato come è andato. Penso che avrei dovuto farmi togliere prima il dente del giudizio. Ci combattevo da prima del Tour de France, dal ritiro di Livigno. Ne parlammo con i medici e ora penso che non togliendolo abbiamo preso la decisione sbagliata. Penso che mi abbia influenzato per il resto dell’anno. Un momento volavo, quello dopo dopo non riuscivo a pedalare. Una volta che l’ho tolto a fine della stagione, mi sono sentito un uomo nuovo.

Problema risolto.

Se lo avessi tolto subito, sarei andato al Tour soffrendo nei primi tre giorni e poi mi sarei ripreso verso la fine. Ma ormai non posso cambiare le cose. So imparare dai miei errori, per cui se avrò di nuovo un problema come questo, lo risolverò subito, piuttosto che perdere tempo. Non vedo l’ora che arrivi il nuovo anno per recuperare.

Volata di Sanremo, Matthews lascia aperta la porta, Philipsen si infila e lo beffa
Volata di Sanremo, Matthews lascia aperta la porta, Philipsen si infila e lo beffa
E’ stato davvero così difficile digerire il secondo posto della Sanremo?

La Sanremo per me non è solo una gara ciclistica, è praticamente la mia gara di casa. Sono già salito due volte sul podio, sono stato vicino a vincerla. Probabilmente è la Monumento che mi si addice di più. Stava andando tutto molto bene fino agli ultimi 25 metri, quando i miei occhiali sono volati via. Sono finiti nella ruota anteriore e stavamo per volare tutti in aria. Non avevo mai visto una cosa del genere. C’è voluto molto tempo, penso che sia andata avanti fino al mattino del Fiandre. Nelle gare subito dopo, non riuscivo a concentrarmi. Non volevo neanche correre.

Pensi di aver commesso un errore facendo passare Philipsen?

Ero davanti e ho sentito un piccolo contatto sull’anca, forse questo un po’ mi ha disturbato. Non sono il tipo di corridore che spingerebbe un avversario alla transenna, per vincere una gara. Penso se lo avessi fatto, lui avrebbe protestato e io sarei stato squalificato. Tornando indietro, non farei nulla di diverso. Forse non un errore, ma resta un po’ di rimpianto.

Non è troppo prendersela così per una gara?

E’ una questione personale, un boccone che ha richiesto più tempo del normale per essere ingoiato. Passa il tempo e saranno sempre meno le opportunità di vincerla.

Abu Dhabi Tour, ottobre 2015: Sagan ha da poco vinto il mondiale di Richmond, battendo proprio Matthews
Abu Dhabi Tour, ottobre 2015: Sagan ha da poco vinto il mondiale di Richmond, battendo proprio Matthews
Andare in bicicletta ti piace più di 15 anni fa?

Credo di sì. Quindici anni fa, ero un ragazzino. Per me era tutto nuovo, mentre ora capisco molto di più il ciclismo, perché sono passato professionista dopo soli quattro anni che andavo in bici. Lo facevo per divertimento, ero molto più rilassato. Ora invece investo molto più tempo in questo mestiere e continuare a lottare contro questi ragazzi mi rende orgoglioso e lo trovo anche divertente.

Quali sono a livello personale le principali differenze tra oggi e 15 anni fa?

Il modo di correre in bicicletta è più aggressivo. Quando sono passato professionista, il copione era sempre lo stesso. Si partiva piano, ci avvicinavamo lentamente al finale e poi si giocava la vittoria. Oggi a ogni corsa battiamo tutti i record. Proprio nella Sanremo non c’è stato neanche il tempo per fermarsi a fare la pipì. La UAE Emirates stava già facendo un ritmo duro, penso fosse quello che si adattasse meglio a Pogacar. Ma noi che siamo abituati al vecchio stile della Sanremo, dobbiamo adattarci o siamo fuori. Con Sagan ho parlato anche di questo e dell’allenamento.

E lui?

MI ha chiesto come faccia a continuare. E io gli ho risposto che se avessi i suoi risultati, forse continuare sarebbe più difficile. Ma io sto ancora lottando per i miei sogni e non vedo l’ora di realizzarli: non ho intenzione di ritirarmi finché non li avrò esauditi. Questo è ciò che mi motiva ad andare avanti. Amo lo sport, stare con i miei compagni e lottare per le vittorie che mi fanno sognare.

Il pranzo della Liquigas, ritorno alle origini del ciclismo di oggi

05.12.2024
5 min
Salva

E’ ormai un decennio che a fine stagione ciclistica i “vecchi” del Team Liquigas si rivedono a un pranzo per confrontarsi, raccontare le reciproche esperienze e lasciarsi andare ai ricordi. Un appuntamento fisso, al quale ogni componente non vuole mai rinunciare, nonostante ci siano ancora impegni e già il telefono è rovente per preparare la nuova stagione. Perché non è un caso se molti di loro sono rimasti nel mondo del ciclismo e sono andati a spargere esperienza in altri team del WorldTour.

Il Team Liquigas ha corso dal 2005 al 2012, poi altri due anni come Cannondale
Il Team Liquigas ha corso dal 2005 al 2012, poi altri due anni come Cannondale

Un gruppo ancora unito

Chi ha fatto una scelta diversa, ma solo sotto certi aspetti è Roberto Amadio, attuale team manager delle squadre nazionali ma per 8 anni alla guida del team, che a questo evento tiene in maniera particolare.

«Abbiamo deciso di rivederci praticamente appena abbiamo chiuso le nostre carriere – spiega – ma è stato un fatto conseguente a tutto quello che avevamo stretto in quegli anni. Infatti sin da subito si era creato un gruppo unito che ci ha portato a rimanere legati negli anni. Nel corso della stagione ci sentiamo spesso, ci messaggiamo, fra chi è nell’ambiente e chi ne è uscito. Quest’anno poi abbiamo deciso di rivederci a Cellatica per andare in visita alla Casa Museo della Fondazione Paolo e Carolina Zani, è stato un momento intenso e carico di ricordi».

Una delle sale della bellissima Casa Museo di Cellatica (foto Mariotti)
Una delle sale della bellissima Casa Museo di Cellatica (foto Mariotti)
Che cos’è che ha reso quell’esperienza così importante, radicata nel tempo?

Io credo che la risposta sia da cercare nel come quell’esperienza è nata. Venne creata una struttura che era alla base del team, fatta di dirigenti e professionisti seri e molto competenti nel loro settore. Per avere tutto al massimo, dal punto di vista meccanico, logistico e non solo. Era stato formato un personale altamente qualificato e quello è fondamentale, perché i corridori vincono e passano, ma la gente che lavora nel team resta. Ed è lì che si è formato il nocciolo duro del team e che era alla base dei successi.

Sembra la ricetta ideale del ciclismo moderno, dove le prestazioni nascono dall’impegno del preparatore, del nutrizionista, dello psicologo…

E’ vero, si può dire che abbiamo precorso i tempi con la nostra esperienza. Ricordo ad esempio che allora venne introdotto proprio dal nostro team il concetto dell’allenamento in quota, allora ancora nessuno lo faceva. L’idea di base era di mettere il corridore nelle condizioni di rendere al 100 per cento. Era un bel gruppo, solido, profondamente legato, infatti in quel decennio che ho trascorso in squadra le persone che facevano parte dello staff erano pressoché le stesse. Questo contribuiva perché si formasse un gruppo di amici per il quale andare alle corse era una festa e questo valeva per gli stessi corridori.

Roberto Amadio con Jonathan Milan, è la festa per il bronzo olimpico del quartetto, una delle perle della sua gestione
Roberto Amadio con Jonathan Milan, è la festa per il bronzo olimpico del quartetto, una delle perle della sua gestione
Quel metodo si è tramandato nel tempo?

Sicuramente e noi, ognuno nel proprio ambito, ognuno nel proprio cammino abbiamo contribuito a diffonderlo. Se guardate bene ci sono tanti aspetti che si rivedono in tutti i team di oggi: la cura del calendario, la crescita graduale di un atleta sia nelle sue prestazioni ma anche a livello umano. Sono cose che oggi sono nella prassi, allora no, era una metodologia in fieri.

Hai cercato di metterla in pratica anche in un ambito completamente diverso come quello della nazionale…

E’ vero, ma è un processo lento, graduale perché parliamo di qualcosa di profondamente differente, non c’è quella quotidianità che vivi in un team, dove anche quando non corri insieme, non sei in ritiro, comunque attraverso il telefono e gli altri strumenti sei collegato. La Federazione è poi un sistema a comparti chiusi, ognuno lavora nel suo ambito con il suo staff, ma io ho pensato che si poteva portare intanto quella mentalità famigliare e al contempo professionale. Il concetto che si fa parte di una squadra unica, a prescindere da quale sia la disciplina in esame. Tutti ne facciamo parte e credo che le soddisfazioni che abbiamo vissuto in molte occasioni, in qualsiasi categoria, siano figlie di quel lavoro comune.

Che atmosfera c’è in quei momenti conviviali?

Sembra che non ci siamo mai lasciati e che torniamo i ragazzi di allora. Poi il tempo passa, c’è chi va in pensione ma viene comunque spesso chiamato in causa, chi invece dopo aver chiuso con il lavoro vuole giustamente dedicarsi ad altro, vedi Dario Mariuzzo e Luigino Moro che sono andati in pensione quest’anno. Così si finisce che chi ha chiuso prende in giro chi invece deve ancora tirare la carretta… E immancabilmente si finisce con il brindisi a suon di «Zigo-Zigo, Zigo-Zigo! Mi no pago, mi no pago! Hey hey hey – Hey hey hey!». Ora lo fanno in tanti team perché lo abbiamo esportato noi, ad esempio Sagan lo aveva inculcato nella Bora Hansgrohe e quando vincono festeggiano con il canto mutuato da noi. Ma è meglio la versione veneta inventata da Dario…

Se riguardi indietro alla tua esperienza in Liquigas quale giorno ti viene in mente come il più felice?

E come si fa a sceglierne uno? Abbiamo vissuto e partecipato a tante vittorie, tante imprese, basti pensare la Vuelta di Nibali, ma anche le vittorie al Tour di Sagan. E’ come se fossero tutte foto ricordo da mettere assieme in un album immaginario, che io custodisco gelosamente nella mia memoria perché quando vinceva uno, vincevamo tutti e ognuno di noi le sente come vittorie proprie.

Chiusura in Polonia, poi Benedetti salirà sull’ammiraglia

21.06.2024
5 min
Salva

Appena compiuti 37 anni, Cesare Benedetti appenderà la bici al chiodo. Lo farà in Polonia, la sua patria d’adozione, al termine del Tour of Pologne, ma subito dopo entrerà nel nuovo ambito della sua vita ciclistica, salendo sull’ammiraglia della Bora Hansgrohe, squadra nella quale ha militato sin dai suoi albori nel 2010. Un destino già segnato che ha avuto i suoi prodromi nelle ultime battute della sua carriera.

Il legame così profondo e antico con la squadra tedesca lo ha portato a questa decisione: «Me lo hanno proposto loro. Io pensavo di tirare avanti un’altra stagione, ma obiettivamente era solo perché non mi ero ancora mentalizzato sulla fine della mia carriera agonistica. I dirigenti mi hanno prospettato quest’eventualità e ho detto subito di sì, anche perché era mio grande obiettivo rimanere nel mondo delle due ruote».

Cesare Benedetti è passato professionista del 2010 con l’allora NetApp, dopo uno stage con la Liquigas nel 2009
Cesare Benedetti è passato professionista del 2010 con l’allora NetApp, dopo uno stage con la Liquigas nel 2009
Un passaggio quasi naturale, considerando che nelle ultime stagioni eri diventato un po’ un regista in corsa più che un semplice gregario…

Effettivamente era un ruolo a me congeniale, soprattutto perché i più giovani si avvicinavano sempre per chiedere consigli, per capire come muoversi in corsa. La cosa non è sfuggita ai responsabili del team che infatti mi hanno chiesto di mettermi a lavorare con gli under 23, per indirizzarli meglio verso l’attività maggiore.

L’idea ti piace?

Non nascondo che mi interessa molto. La Bora Hansgrohe è sempre stata strutturata come una filiera, anzi è stata una delle prime a capire che per alimentare la prima squadra non bastava muoversi sul mercato, ma serviva avere un vivaio, come in altri sport. Ora vogliono dare maggior impulso al settore under 23 avendo capito che non è così semplice passare da juniores e fare un salto così precipitoso, è meglio procedere per gradi. Ormai i devo team danno a tutti la possibilità di fare esperienze con la squadra maggiore nelle prove al di fuori del WorldTour, è la strada giusta per imparare, ma bisogna arrivarci pronti.

Il polacco con il danese Wandahl, uno dei giovani che ha introdotto nel team
Il polacco con il danese Wandahl, uno dei giovani che ha introdotto nel team
Arrivando al termine della carriera è il momento di fare un consuntivo, che cosa vedi guardandoti indietro?

Credo di aver fatto anche più di quello che pensavo quando iniziai questa lunga avventura. Sapevo già da under 23 che non sarei stato un vincente e già allora avevo l’idea che senza grandi chance di vittoria sarebbe stato difficile durare. Non è stato così, ho trovato la mia dimensione. Ho fatto bene il mio lavoro, questo è stato riconosciuto da tutti. Ho seguito la mia carriera aiutando tanti leader a centrare il proprio obiettivo e la cosa che mi piace è che chiudo essendo sempre rimasto a un livello altissimo, in un team della massima serie affrontando corse che anno dopo anno sono diventate sempre più dure.

In questi anni hai mai pensato di cambiare team? Tu sei stato una delle ultime bandiere, di quei corridori fedeli a una scelta fatta quasi a inizio carriera…

Ogni tanto qualche pensiero mi è venuto, più che altro per la curiosità di verificare un’altra scelta, ma servivano motivazioni profonde che non avevo. Ragionandoci era giusto rimanere in un ambiente che ha sempre creduto in me e in quello che potevo dare. Il fisico in questi anni ha dato sicuramente tanto, per questo non ho rimpianti guardandomi indietro, so che i giovani che ci sono ora vanno decisamente più forte di me.

Con Sagan in maglia iridata, una lunga esperienza che ha segnato la carriera di Benedetti
Con Sagan in maglia iridata, una lunga esperienza che ha segnato la carriera di Benedetti
Tu hai lavorato con tanti leader al tuo fianco. Chi ti è rimasto più impresso?

Sicuramente Peter Sagan, è stato lui a farmi fare un vero salto di qualità. Correndo al suo fianco, in maglia iridata, sapevo che non potevo sbagliare e questo mi ha fatto andare anche oltre i miei limiti e mi ha fatto capire che avevo dentro di me qualcosa in più di quanto fatto fino allora. Le sue vittorie sono state per me emozionanti, ma devo molto anche a Majka e ai grandi giri corsi al suo fianco.

La tua più grande soddisfazione?

Il Giro d’Italia conquistato da Hindley, tutta quell’edizione è stata il mio apice come uomo squadra, centrando un grandissimo obiettivo. Il momento più bello però è stato al Giro 2023, quando siamo passati per Rovereto, la mia città, con il gruppo tutto alle mie spalle transitando per le mie strade, davanti alla mia gente pronta ad accogliermi. Avrei potuto chiudere la mia carriera anche allora…

L’unica vittoria di Benedetti da pro’, al Giro d’Italia 2019, nella mitica tappa Cuneo-Pinerolo
L’unica vittoria di Benedetti da pro’, al Giro d’Italia 2019, nella mitica tappa Cuneo-Pinerolo
Come finirai invece?

Un paio di corse a tappe in Romania e Repubblica Ceka e poi il Giro di Polonia. E’ la settima volta nella mia patria d’adozione e mi sembra giusto chiudere lì anche perché in squadra vogliono che sfrutti le settimane successive per fare un po’ di tirocinio in vista della prossima stagione sull’ammiraglia.

A proposito della Polonia, ti sei mai pentito di non aver fatto il passaggio prima del 2021? Se non altro, avresti potuto partecipare a più campionati mondiali…

Ho iniziato la procedura nel 2018, ma i tempi burocratici sono stati lunghi. Non posso negare però che partecipare ai mondiali in Belgio nel 2021 è stata un’emozione forte, esordire a un mondiale a 34 anni. Ora che non dovrò più allenarmi con assiduità, quando sarò libero dal lavoro vivrò maggiormente con la mia famiglia in Polonia. Il Trentino è nel cuore, ma quella è ora casa mia…

Quattro chiacchiere con Robert Spinazzè, una vita tra i filari del ciclismo

09.06.2024
7 min
Salva

Robert Spinazzè è molte cose. Patron della Spinazzè Group SPA di San Michele di Piave in provincia di Treviso, azienda che produce pali in cemento per la vigne (e non solo). Ex corridore. Ma forse, soprattutto, grande appassionato di ciclismo, tanto da essere partner di squadre WorldTour da ormai diversi anni.

L’abbiamo raggiunto al telefono per farci raccontare com’è nata questa passione e come la sta portando avanti, da Peter Sagan fino alla nuova formazione che avrà come main sponsor Red Bull.

La bottiglia per la vittoria del Giro 2022 di Hindley, celebrato anche in apertura
La bottiglia per la vittoria del Giro 2022 di Hindley, celebrato anche in apertura
Robert, com’è nata la tua passione per il ciclismo?

Il ciclismo è sempre stata una passione di famiglia. Mio papà ha avuto la prima squadra dilettantistica, la TiEsse-Spinazzè, a inizio anni ‘80 ed è stata una rivoluzione per l’epoca. Siamo stati i primi ad impostare una squadra giovanile seguendo gli stessi standard dei professionisti, con i ritiri, grande attenzione a figure dello staff impensabili all’epoca, come per esempio i cuochi. Abbiamo anticipato quelli che sono venuti dopo, subito dopo di noi ha seguito il nostro esempio la Zalf. Se non sbaglio siamo ancora la squadra dilettantistica plurivittoriosa in un anno, con 82 vittorie in una sola stagione. Io poi, cresciuto in un ambiente del genere, mi sono fatto influenzare in prima persona e ho corso fino al primo anno dilettanti, da junior gareggiavo con Cipollini.

Da qui però in grande salto nel ciclismo WorldTour. Com’è andata?

Abbiamo deciso di fare il grande salto nel 2014 con la Cannondale. Erano gli anni d’oro di Sagan, che conoscevo da tempo perché al suo primo anno da pro’ abitava qui, a meno di un chilometro dall’azienda. Poi siamo stati due anni al fianco della Tinkoff di Sagan e Contador. E lì, al fianco di Oleg Tinkov, ho capito come muovermi in quel mondo, capendo dove e come investire. L’esperienza maturata in quei primi anni mi ha permesso di affrontare meglio i successivi 10 in Bora-Hansgrohe. Come in tutto, anche in questo lavoro occorre maturare esperienza che arriva dopo un po’ di tempo.

Come vanno le cose con la Bora?

Da loro ho trovato una forte apertura nei nostri confronti, fin dall’inizio mi hanno detto: «Si cresce assieme. Se cresci tu, cresco anch’io». E questo atteggiamento mi ha dato grande fiducia. Con loro si è creata una sinergia che va al di là della singola gara e mi ha fatto intraprendere ancora con più passione la sponsorizzazione. Ho imparato per esempio che io, come piccolo sponsor, magari non posso pretendere di vedere il nome nelle gare più importanti della stagione, ma ho altri 11 mesi a disposizione per farmi notare meglio. Decine di altre gare o occasioni dove invece sono molto più visibile.

Cos’altro?

Ho capito anche che non serve voler stare vicini solo ai grandi campioni, anzi. Voglio dire, personaggi come Sagan e Contador sono sempre pieni di gente attorno, invece è giusto cercare l’interazione con gli atleti del team magari meno noti. I gregari, i giovani, come anche con lo staff, i meccanici, i cuochi eccetera. Ho capito che io potevo trovare il mio spazio avendo un occhio di riguardo lì dove c’è molta meno attenzione. E questo mi ha dato moltissime soddisfazioni, perché da lì partono le sinergie lavorative che poi ti portano dove magari non immaginavi neanche.

Bottiglie personalizzate per Ralf Denk, manager della Bora-Hansgrohe, e Willi Bruckbauer, fondatore di Bora
Bottiglie personalizzate per Ralf Denk, manager della Bora-Hansgrohe, e Willi Bruckbauer, fondatore di Bora
Si sente spesso dire che sponsorizzare le squadre di ciclismo è un investimento a perdere. Nel tuo caso c’è solo passione o hai anche dei ritorni effettivi in termini di business?

La passione è la molla che ti permette di entrare più facilmente in quel mondo, per me che mastico ciclismo da tantissimi anni è qualcosa di immediato. Nella sponsorizzazione con Bora portiamo avanti due brand, che sono l’azienda principale Spinazzè e la cantina Terre di Ger. Le strade del ciclismo passano spessissimo per i miei impianti, per le vigne dei miei clienti, e per me questo è importantissimo. Negli ultimi anni abbiamo realizzato due opuscoli in cui parliamo del nostro lavoro attraverso le corse.

Due opuscoli?

Uno che riguarda le corse del Nord e che abbiamo chiamato “Inside Cobbles”, immaginando i nostri pali di cemento come fossero fatti di pavè. Abbiamo seguito un mese di campagna ciclistica raccontando i corridori, i contadini, il territorio e gli ambienti in cui lavoriamo, perché abbiamo tantissimi clienti nella campagna tra Belgio e Olanda. La stessa cosa abbiamo fatto al seguito del Giro d’Italia, alternando figure del ciclismo e vittorie della squadra con interviste ai nostri contadini. A ben vedere fanno una vita molto simile a quella dei corridori, sempre all’aria aperta con ogni tipo di meteo facendo sacrifici per ottenere un risultato. Questo ci ha dato un grande riscontro sul mercato, perché adesso tutti ci riconoscono come “quelli del ciclismo.”

E la cantina?

Con Terre di Ger produciamo l’olio di oliva che diamo ai corridori e il vino usato per tutti gli eventi della squadra. Tutto questo nell’arco di diversi anni porta a consolidare la nostra posizione. E ora posso dire che tutto quello che investo poi mi rientra in diverse forme.

Non è più un segreto che tra poco la squadra cambierà main sponsor, come sono stati i primi contatti con Red Bull?

Sì, a inizio luglio entrerà ufficialmente Red Bull, ma devo dire che si sono mossi in modo molto intelligente, in punta di piedi. E’ un’azienda incredibile per l’organizzazione, certamente c’è molto da imparare. Comunque il concetto di crescere assieme che c’è stato in Bora rimane. Sono alla ricerca di situazioni durature e stabili anche tra i partner, vogliono continuità che è quello che vogliamo anche noi. Sicuramente la nuova squadra avrà una costruzione dal basso, senza nomi altisonanti, ma puntando di più sul vivaio a cominciare dagli juniores e U23. L’obiettivo è far crescere in casa atleti che possano garantire una prospettiva futura, com’è giusto che sia. Noi abbiamo il contratto fino al 2027 per terminare il decennio della squadra WorldTour, poi si vedrà.

I corridori della Bora-Hansgorhe sono parte della famiglia
I corridori della Bora-Hansgorhe sono parte della famiglia
In tutti questi avrai sicuramente molti aneddoti da raccontare…

Aneddoti moltissimi, ma quello che più mi è rimasto è l’aver fatto amicizia con quasi tutti i corridori che ho incontrato. In particolare con Maciej Bodnar col quale ancora ci sentiamo spesso e poi, certo, non posso non citare Sagan. Lui è nato ciclisticamente qui a 500 metri dalla fabbrica, l’ho visto fin dai suoi primissimi giorni in Italia. Conoscevo molto bene Bruseghin e altri che si allenavano con lui. Mi raccontavano che quando facevano le sfide durante le uscite, tipo fare una salita col 53, lui vinceva sempre, anche se aveva 6-7 anni meno di loro. Da lì ho capito subito che aveva qualcosa in più. Sono stato anche per due anni sponsor della sua academy, la squadra giovanile che ha fondato a Žilina, la sua città natale.

Altri episodi?

Un altro bellissimo ricordo che ho è quando durante il Giro del 2017 ho ospitato una ventina di quei ragazzi con i genitori nella mia cantina, li ho portati prima a vedere il passaggio della corsa a Ca ’del Poggio poi in hotel a conoscere i corridori e tutto lo staff. Sono sicuro che per loro è stato un fine settimana indimenticabile.

Le immagini di questo articolo provengono tutte dalla gallery Facebook di Robert Spinazzé e della sua azienda.

Facciamo un salto nei piani di Sagan. Uboldi apre l’agenda…

07.01.2024
4 min
Salva

Peter Sagan avrà anche smesso di essere uno stradista, ma la bici al chiodo ancora non l’ha appesa. E, consentiteci di dire, per fortuna… Lo slovacco non sta fermo un attimo e per questo 2024 molte cose aspettano lui e il suo storico staff, al vertice del quale c’è l’amico, addetto stampa e molto di più, Gabriele Uboldi: per tutti Ubo.

Mentre Sagan è intento a spostarsi da una location ad un altra, Uboldi ci spiega più o meno i piani di Peter. La carne al fuoco è davvero tanta, ma lo è anche la gioia nel “cuocerla”. Lui stesso, del resto ce lo aveva detto, nella giornata Sportful che passammo insieme nel feltrino: «Voglio divertirmi».

Sagan con Uboldi, il suo braccio destro. “Ubo” cura gli aspetti logistici e mediatici… dello slovacco
Sagan con Uboldi, il suo braccio destro. “Ubo” cura gli aspetti logistici e mediatici… dello slovacco
Gabriele, come stanno passando queste giornate del primo anno senza che Peter sia un professionista su strada?

Tutto sommato per ora sono uguali a quelle degli altri anni. Ma proprio uguali! 

Anche il tuo lavoro?

Assolutamente sì, poi ci sarà molto da scoprire. Peter è andato in montagna al Passo Pordoi con tutta la sua famiglia: fratelli, figlio, cognate… Da lì, lo scorso 3 gennaio è tornato a Montecarlo dove vive. Lì va in bici tutti giorni, ma presto ripartiremo.

Quali mete vi attendono?

Dal 10 gennaio saremo in Sud Africa con Specialized. Ci sarà anche il team manager del team di Specy e anche Patxi Vila che, oltre ad essere uno dei tecnici della Bora-Hansgrohe, è anche con noi. Alla fine siamo la squadra di sempre: dal meccanico a Peter. La stessa squadra che cerca e vuole divertirsi e finalmente ha l’occasione per farlo. Eravamo già stati insieme in Cile a dicembre. Quindi sì, ci sarà qualche cambio, ma il calendario è pieno. Quello che forse cambierà è che dovremo fare tanti viaggi, ma cambiando meno hotel. E’ tutto da scoprire, dai: almeno per me, sicuro!

Alla kermesse Beking a Montecarlo Sagan ha vinto davanti ad un sorridente Pogacar. Il gruppo dei colleghi ha voluto salutarlo così
Alla kermesse Beking a Montecarlo Sagan ha vinto davanti ad un sorridente Pogacar
Calendario fitto, hai già una traccia, una bozza?

Come detto a breve si va in Sud Africa e ci resteremo fino al 6 febbraio. Poi andremo ad Abu Dhabi, sempre per la mountain bike. Poi ci sposteremo in Spagna per due gare: Chelva e Banyoles. Dovremmo quindi fare un gara di Coppa di Francia a Marsiglia e poi a marzo Peter farà qualcosa su strada.

Ecco, proprio di questo volevamo chiederti. Abbiamo visto che era in programma qualche evento su strada. Ma in che ottica verrà affrontato?

Saranno gare di un giorno in Francia e saranno funzionali alla MTB. Nessuna velleità di risultato o ambizioni particolari. Queste gare le faremo, o dovremmo farle, con la squadra di suo fratello Juraj (la RRK Group – Pierre Baguette, ndr). 

Perché hai usato il condizionale?

Perché bisogna vedere se… ci stiamo dentro. Mi spiego, la continental di Juraj è davvero piccolina, non c’è uno staff strutturato e Peter, comunque sia, riscuote sempre un certo movimento, attenzioni mediatiche. Alla fine ci sarà un minimo di pressione attorno e bisogna vedere quale contorno riusciremo a mettere su. Che “budget” avremo. Diciamo che questi eventi su strada sono stati fissati nel nostro calendario, ma poi dovremmo riportarli nella realtà.

Che fatica per Sagan ai mondiali di Glasgow. Peter è giunto 67° a 7’14” da Pidcock
Che fatica per Sagan ai mondiali di Glasgow. Peter è giunto 67° a 7’14” da Pidcock
E si va avanti. Siamo a marzo…

Poi sarà la volta del Brasile, ancora in Mtb. Laggiù ci saranno la Brasil Ride e una prova di Coppa. Da qui seguiranno altre prove di Coppa del mondo in Europa: Nove Mesto, Val di Sole e Les Gets. Quindi un evento molto importante per noi: il Giro di Slovacchia su strada (26-30 giugno, ndr).

Il saluto di Sagan alla sua gente…

Esatto. E lì sarà una cosa un po’ più grande. Non nego che quelle gare di un giorno in Francia servono o servirebbero proprio per vedere se si sarà pronti per il grande movimento che ci sarà al Giro di Slovacchia. La sua presenza in questa corsa ci sembra una bella iniziativa.

Ubo, abbiamo parlato un po’ di tutto, ma non delle Olimpiadi in mtb: quello resta il grande goal giusto?

Sì, assolutamente è così, ma siamo anche consapevoli che qualificarsi non è difficile, bensì difficilissimo. Né Peter, né la Slovacchia hanno punti. Si parte totalmente da zero e il livello è alto, ce ne siamo accorti al mondiale di Glasgow. Peter ci proverà al 100 per cento, farà il massimo per andare a Parigi, ma è consapevole che è tosta.

In effetti è molto dura. Ma Sagan ha classe e sarebbe un bel colpo per tutto il movimento…

Sapete, il messaggio che vogliamo far passare è che noi vogliamo fare il meglio possibile, ma divertendoci. Questo è un aspetto fondamentale di tutto questo progetto. Se manca il divertimento viene meno tutto il resto. Se manca il divertimento sarebbe rimasto su strada o non avrebbe fatto nulla. Alla fine un corridore come Peter Sagan ha vinto e guadagnato abbastanza e di certo non gli serve correre in mtb. Se lo fa è per pura passione.

La nuova avventura di Fabbro, finalmente non più gregario

28.11.2023
5 min
Salva

La vita a volte è questione di scelte che vanno lette in base al momento, alle contingenze, alle prospettive. Chi frequenta gli ambienti ciclistici da un po’ di tempo, ha visto il passaggio di Matteo Fabbro dalla Bora Hangrohe alla Polti Kometa non come una retrocessione (da un team WT a una professional), ma come una liberazione. Un rilancio per la carriera di uno che, quand’era agli albori, era considerato una delle grandi speranze del ciclismo italiano. Ora ha 28 anni e può dare ancora tanto.

Fabbro ha vissuto gli ultimi 4 anni della squadra tedesca, quindi è stato protagonista della sua progressiva trasformazione, contribuendo al suo inserimento nel ristrettissimo novero delle formazioni di riferimento. Un cambio che forse ha anche contribuito alla fine del rapporto.

Matteo Fabbro quest’anno ha fatto 43 giorni di gara con cinque Top 10
Matteo Fabbro quest’anno ha fatto 43 giorni di gara con cinque Top 10

«Quando sono arrivato nel team – spiega il corridore udinese – il leader era Peter Sagan e si lavorava per lui. Quando è andato via sono cambiate molte cose, la squadra è stata rivoluzionata e io ho iniziato a sentirmi sempre meno adatto alla causa. Inoltre gli ultimi anni dal punto di vista della salute non sono stati semplici per me e progressivamente le nostre strade si sono allontanate. Loro non erano propensi a continuare, ma neanche io: avevo bisogno di un’aria nuova. Voglio però sottolineare il fatto che ci siamo lasciati in ottimi rapporti, tanto è vero che magari nel futuro le nostre strade potrebbero anche tornare a incrociarsi».

A quali problemi di salute ti riferisci?

Il Covid per me è stato una mannaia… Gli strascichi che mi ha lasciato sono stati molto pesanti, sotto forma di problemi respiratori e due nuove allergie e per un ciclista non respirare bene è un problema di non poco conto. Abbiamo provato tante soluzioni, senza essere fortunati. Ora però le cose vanno un po’ meglio e questo mi rende ottimista.

L’esordio di Fabbro fra i pro’, nel 2018 sotto, l’occhio esperto di Pellizotti. Passava con tante speranze di emergere
L’esordio di Fabbro fra i pro’, nel 2018 sotto, l’occhio esperto di Pellizotti. Passava con tante speranze di emergere
La sensazione, analizzando però la tua carriera, è che tu sia rimasto quasi prigioniero del tuo ruolo di gregario, ma non erano queste le prospettive con le quali eri passato pro’…

E’ vero, infatti voglio tornare a esprimere quello che valevo anni fa. Che cosa è successo nel frattempo? Quello che spesso succede nel ciclismo: i problemi portano mancanza di risultati e da questi di fiducia e quindi di spazio. Se guardo indietro, solo una volta mi è stata concessa libertà, per la Tirreno-Adriatico del 2021 e il quinto posto finale mi sembra sia stato una bella risposta. Ma altre occasioni per potermi esprimere non ci sono state, in compenso ho sempre lavorato per i capitani con l’abnegazione che mi è sempre stata riconosciuta.

La tua storia recente è suonata anche come un monito per i tanti ragazzi italiani che approdano nelle squadre estere del WorldTour. Molti dicono che vanno a fare i gregari, pur avendo stoffa e risultati per poter ambire ad altro.

Il rischio c’è, ma bisogna stare molto attenti nel dare giudizi. Partiamo dal fatto che se capiti fra le 5 grandi squadre del WT – tra cui la Bora – vieni inizialmente chiamato a svolgere ruoli di gregariato. Lo spazio te lo devi guadagnare, ma con i campioni che ci sono è difficile. E’ anche vero però che se vali davvero ci riesci: guardate gli esempi di Ganna e Milan, sono in grandissimi team, ma hanno saputo guadagnarsi i loro spazi. Se invece capiti in formazioni un po’ meno forti, con capitani che non accentrano tutte le attenzioni, hai più possibilità. Devi comunque metterti a disposizione, ma le occasioni per emergere ci saranno e dovrai essere bravo a sfruttarle.

Quattro anni di militanza nel team tedesco, ma ben poche occasioni per emergere, come alla Tirreno-Adriatico 2021
Quattro anni di militanza nel team tedesco, ma ben poche occasioni per emergere, come alla Tirreno-Adriatico 2021
Nel tuo caso?

Nel mio caso le contingenze hanno portato a vedere quello spiraglio stringersi sempre di più. Per questo avevo bisogno di aria nuova e l’ho trovata grazie a Ivan Basso, che ha fortemente insistito per avermi nel team. Ho trovato un ambiente familiare, che mi ha subito convinto della scelta.

Inoltre il fatto di correre in una professional può garantirti maggiori occasioni anche a livello di calendario…

Sì, mettendoci i 7 anni di esperienza accumulata in questo mondo. E’ come se fino ad ora avessi seminato, ora è venuto il tempo di raccogliere, quindi aver fatto un passo indietro è un fatto che reputo positivo, considerando anche che non ho molto da perdere. Sarà una bella sfida.

Per la Bora Hansgrohe il ciclista udinese è sempre stato prezioso supporto ai capitani in salita
Per la Bora Hansgrohe il ciclista udinese è sempre stato prezioso supporto ai capitani in salita
Sai già come sarà impostata la tua stagione?

Per grandi linee sì, il mio grande obiettivo sarà il Giro d’Italia, da correre finalmente pensando alla classifica. Ricordo l’edizione del 2020: avevamo in squadra Sagan per le tappe e Majka per la classifica, questo significa che tirai per 17 frazioni su 21… Eppure alla fine fui 23°, neanche male. Se potrò concentrare le energie sulla classifica e le tappe di montagna, sicuramente farò il mio. Correrò Ruta del Sol e Tirreno-Adriatico, il resto vedremo come svilupparlo in base alle condizioni di forma e alla situazione del momento. Io intanto sono già tornato ad allenarmi, non vedo l’ora che si cominci…

L’addio di Van Avermaet, un uomo comune in cima al mondo

22.10.2023
6 min
Salva

«Quando diventi professionista, è un punto di partenza, è come se tutti partissero alla pari, devi semplicemente metterti alla prova e capire dove puoi arrivare. E io sono stupito di dove sono arrivato». In queste parole è racchiusa l’essenza della carriera di Greg Van Avermaet, che alla Parigi-Tours ha chiuso la carriera durata 16 anni e contraddistinta da 42 vittorie. Alcune di peso specifico enorme, come l’oro olimpico di Rio 2016 che gli ha ritagliato un posto fra i grandi del ciclismo belga. Per questo il suo ritiro non poteva passare inosservato.

«Quando ho iniziato – racconta – ero uno dei tanti. Avevo ambizioni, certo, volevo incidere, chi non lo vuole? Pian piano ho sentito che in certe gare come le classiche mi sentivo di essere migliore di tanti. Ma non avrei mai pensato di arrivare in cima, al numero 1 del ranking. Eppure è successo».

Greg con la figlia Fleur. Ora avrà la possibilità di godersi di più la famiglia, cosa che gli è mancata
Greg con la figlia Fleur. Ora avrà la possibilità di godersi di più la famiglia, cosa che gli è mancata

Un portiere mancato

D’altronde non potrebbe essere altrimenti, considerando le sue origini sportive. Da ragazzino, Greg non sognava di essere un ciclista, lui che pure veniva dalle Fiandre, che aveva avuto un nonno corridore professionista e un padre buon dilettante. Lui non guardava a Merckx o De Vlaeminck, Museeuw o Boonen, i suoi idoli erano Pfaff e Preud’homme. Greg voleva fare il calciatore o meglio il portiere. Era arrivato proprio alle soglie del grande calcio, a 17 anni militava nel Beveren, squadra di prima divisione belga avversaria tante volte dei nostri club nelle Coppe. Quel sogno s’infranse un giorno, con un grave infortunio. La riabilitazione passò per la bicicletta e Greg scoprì che nella sua vita era pronto un piano B.

«Quando ho iniziato – ricorda – c’era gente come Armstrong, Hincapie, Museeuw, Cancellara. E’ stato meraviglioso misurarsi con loro e crescere attraverso di loro».

Uno in particolare è stato il suo mentore, quasi senza saperlo: «Per me Hincapie era un’ispirazione, aveva un’atmosfera particolare intorno a sé e tanti anni dopo ho capito che io lo ero diventato per gli altri. Era bello vedere ragazzi come Florian Vermeesch venire in corsa vicino a me a chiedere consigli. Anche questo significa aver fatto la propria parte».

La storia di Van Avermaet è fatta anche di cadute, soprattutto al Giro delle Fiandre (foto Velo Online)
La storia di Van Avermaet è fatta anche di cadute, soprattutto al Giro delle Fiandre (foto Velo Online)

Il ritratto… ripetuto

Sedici anni di carriera sono contraddistinti da tanti episodi. Ma per descrivere l’uomo oltre il campione, può bastarne uno, quasi avulso dalle corse, dalle vittorie e sconfitte. Lo raccontava James Startt, fotografo americano alla rivista Velo Outside.

«Ogni anno Greg ha preso parte alla trasferta canadese – ha detto – per preparare al meglio i mondiali. Alloggiava sempre allo Chateau Frontenac, storico hotel nel cuore di Quebec City. Nel 2018, dopo l’allenamento, gli dissi che avevo trovato un angolo nella reception molto particolare, con una sedia del XVIII secolo circondata da dipinti storici con cornici in foglia d’oro, dove fare un ritratto, lui vestito da ciclista in un contesto completamente diverso.

«Lui, con la divisa BMC, assunse pose che mi piacevano molto per il contrasto che esprimevano e al contempo per quel che dicevano del personaggio. Quand’era tutto fatto, mi arrivò un messaggio dall’addetto stampa: le foto non si potevano usare, non aveva usato le scarpe da ginnastica del team perché aveva fastidi a un piede. Entrai nel panico, la foto era già stata spedita, ma a risolvere le mie difficoltà e i miei timori intervenne lo stesso Greg, disposto a rivestirsi di tutto punto e rifare tutto. Provate a chiedere oggi la stessa cosa…».

Il particolare ritratto scattato da James Statts nel 2018. Una storia dietro questo scatto
Il particolare ritratto scattato da James Statts nel 2018. Una storia dietro questo scatto

Talento e buon fiuto

Van Avermaet può essere considerato l’esempio di come si possa arrivare lontano attraverso due ingredienti specifici: talento e un buon fiuto, che ti consentono di stravolgere anche quelle regole che sembravano scritte. La sua vittoria più grande è figlia di questa regola, il titolo olimpico di Rio 2016: non era una gara per lui, alla vigilia nessuno avrebbe scommesso sulle sue possibilità, lui splendido passista in una gara che sembrava disegnata apposta per chi sapeva andare in salita.

La corsa si era messa esattamente come si prevedeva. Anzi, il suo epilogo sembrava segnato quando Vincenzo Nibali lanciò l’attacco in compagnia del colombiano Henao. In discesa lo Squalo stava costruendo il suo capolavoro, ma una malefica curva lo tradì. Van Avermaet era dietro, ma era sopravvissuto, fra crisi e cadute altrui, fino ad approdare alla gloria eterna.

Van Avermaet con l’oro di Rio 2016, secondo belga a conquistarlo alle Olimpiadi
Van Avermaet con l’oro di Rio 2016, secondo belga a conquistarlo alle Olimpiadi

La maledizione del Fiandre

La sua è stata una carriera di vittorie e fallimenti, anche nei suoi due anni più ricchi: il biennio 2016-17. Nel 2016 era partito fortissimo con le vittorie all’Omloop Het Nieuwsblad e alla Tirreno-Adriatico, era stato 5° alla Sanremo e prometteva sconquassi alle classiche, ma una rovinosa caduta al Fiandre gli costò la frattura della clavicola. Sembrava che la stagione fosse ormai persa, invece risorse dalle sue ceneri approdando alla vestizione della maglia gialla al Tour e all’apoteosi di Rio. Nel 2017 la caduta sull’Oude Kwaremont al Fiandre, quando davanti Gilbert era ancora raggiungibile: quel giorno la classica che più amava sfuggì ancora una volta, la definitiva. Ma sette giorni dopo, Greg sbaragliò la concorrenza a Roubaix.

La carriera di Van Avermaet ha sempre avuto in Sagan un punto di riferimento, il suo contraltare ed è curioso che i loro ritiri siano avvenuti a una settimana di distanza, quasi un segno del cambio generazionale. Due personaggi molto diversi fra loro, caratteri opposti. Molti rivedono nella loro rivalità quella attuale fra Van Der Poel e Van Aert, dimenticando probabilmente che quest’ultima non è però scaturita dal ciclismo su strada, ma è figlia di un processo più lungo e passato attraverso il ciclocross.

Van Avermaet e Sagan al mondiale 2017. La loro rivalità è stata il sale del ciclismo per anni
Van Avermaet e Sagan al mondiale 2017. La loro rivalità è stata il sale del ciclismo per anni

Fermarsi in tempo

Van Avermaet, nel suo passo d’addio, ha rivolto un particolare pensiero al suo rivale slovacco: «Peter ha vinto molto più di me, ma quand’eravamo sul mio terreno ho potuto batterlo alcune volte e questo rende le cose più belle. Lo rispetto molto, ha reso la mia carriera ancor più bella».

Probabilmente “Golden Greg”, come viene chiamato da quel giorno di Rio, avrebbe potuto ancora continuare, ma del suo ritiro si sapeva già dalla primavera.

«Io mi diverto ancora, mi piace pedalare – ha raccontato – ma sento che quel livello, quello del ciclismo di oggi, non mi appartiene più. Le classiche non sono state un granché, così ho deciso che poteva bastare, mi scadeva il contratto con l’AG2R Citroen Team e non mi sono neanche messo a cercarne un altro. E’ meglio fermarsi quando ancora si esprime qualcosa. Io sono ancora preparato, ma non ho più lo scatto di prima e così anche una top 10 diventa proibitiva. Allora mi chiedo, a cosa servirebbe? Sono contento di quel che ho fatto».