Qualunque sia l’argomento, dopo un po’ che ne parli con Guercilena ti accorgi che il suo approccio è sempre molto razionale. Analisi, sintesi, conclusione. E laddove l’ultima non sia possibile, viene sostituita da un’ipotesi o una domanda. Così è anche sul tema della sicurezza, dopo che la sua squadra femminile è stata squalificata per i GPS del Romandia, dopo che l’UCI ha proposto una serie di misure più posticce che incisive e la limitazione dei rapporti, subito vietata dal garante belga.
Nel frattempo le medie si alzano e non si capisce se e come sia possibile limitare le velocità del gruppo. Non si capisce nemmeno se sia necessario intervenire sulle bici, sulle strade o cos’altro. Probabilmente perché nessuno ha ancora fatto un’analisi completa e seria.
«Io sono convinto – dice il team manager della Lidl-Trek – che il discorso sicurezza debba passare attraverso dei materiali sicuri. Il miglioramento della velocità è insito nella tecnologia della performance. Per cui se anche si decidesse di limitare un materiale, la ricerca e lo sviluppo andrebbero comunque a svilupparne un altro più veloce. Si decide di imporre cerchi da 35? L’ingegneria porterà i cerchi da 35 a essere aerodinamici e con un momento di inerzia pari a quelli da 90, per cui certe limitazioni non saranno mai soluzioni durature».


Il problema è che le performance migliorano, mentre le strade peggiorano…
Il discorso è esattamente questo. Uno dei punti da affrontare è l’attenzione alle protezioni sulle strade. Aiuterebbe un sacco se ci fosse un sistema efficace, che chiaramente sarebbe anche costoso, per proteggere determinati punti in modo migliore. E poi viene l’aspetto dei materiali, che però va studiato e pensato in modo scientifico. Servono dei regolamenti che garantiscano maggiore sicurezza e il modo giusto di applicarli. Ma secondo me non è tutto vincolato alla velocità.
Cos’altro c’è?
Una questione di approccio culturale. Bisogna mettersi nell’ordine di idee che a un certo punto si può anche frenare. Secondo me uno degli snodi è che la correttezza tra atleti è venuta un po’ meno, perché l’età media del gruppo continua a scendere. Di conseguenza la spavalderia dei 18 anni contrasta con la maturità degli atleti più grandi, che hanno un altro raziocinio nell’individuare il momento in cui è meglio frenare piuttosto che ammazzarsi.
Vuoi dirci che è possibile dire a un corridore di correre un po’ meno forte?
Parlo dei miei. Da un po’ abbiamo iniziato a dirgli: «Ragazzi, il rischio deve essere controllato. Nel senso che tra avervi fuori per tre mesi e fare secondo, fate secondo!». L’investimento che faccio su Ayuso, Ciccone, Milan, Skjelmose o Pedersen non è banale. Certo, per l’amor di Dio, se devi rischiare per la volata che vale la vittoria, allora rischia. Però se devi cadere nella curva a 70 chilometri dall’arrivo e stai fuori un mese, allora no. Devono frenare, perché il valore dell’atleta è talmente elevato che la sommatoria la fai a fine stagione, non sulla singola gara. Se devi vincere il Fiandre è una cosa, però non dirò mai a un corridore di rischiare l’osso del collo ai meno 20 dall’arrivo perché dobbiamo posizionarci bene in volata al Tour du Poitou-Charentes. Siamo tutti consapevoli che le cadute fanno male e secondo me la discussione dovrebbe essere molto più scientifica e analizzata in dettaglio.


Hai parlato della baldanza dei corridori di 18 anni…
Per le leggi del mercato l’età media del gruppo sta diminuendo. Mi ci metto anch’io, non voglio fare il buono e dire che gli altri sono cattivi. Facciamo passare gente che da un inverno all’altro passa dai 90 chilometri delle gare juniores ai 290 della Sanremo. E’ inevitabile che i rischi aumentino. Anche solo dal punto di vista fisiologico, la lucidità che può avere un ragazzino di 18 anni dopo 290 chilometri rispetto a quella di un professionista navigato, che ha già fatto esperienze graduali per arrivare a quel punto, è completamente diversa e quindi il rischio aumenta.
Secondo te il gruppo WorldTour sarebbe disponibile a una frenata sui passaggi così precoci?
Penso di no, per cui a livello teorico è molto bello, ma a livello pratico forse si fa davvero prima a mettere mani sui materiali e sulle biciclette. Però è chiaro che andremmo a scegliere la soluzione più facile pensando che sia la migliore. Secondo me invece un’analisi ha senso se la faccio in modo scientifico. Se applico dei criteri che abbiano un senso. Allora di fronte alla prova provata dei numeri, nessuno può fare delle contestazioni. Il problema invece è che ci basiamo sulle opinioni e continuiamo a non uscirne.
Come si fa un’analisi credibile?
Serve un gruppo di lavoro che analizzi le leggi del lavoro, coinvolgendo l’associazione corridori, i procuratori e i gruppi sportivi. Serve anche fare delle analisi a lungo termine, coinvolgendo degli esperti. Bisogna che nelle commissioni ci sia gente del nostro ambiente, ma l’analisi oggettiva e la soluzione devono provenire da persone con la capacità professionale e l’esperienza adeguata a risolvere il problema.


Si dovrebbe partire da un’analisi più seria?
Abbiamo un’analisi analitica di un aumento sconsiderato delle cadute rispetto agli anni 70? Stiamo parlando del danno della singola caduta o stiamo parlando realmente del volume di corridori caduti e dell’entità dei danni? Non esistono statistiche longitudinali. Non siamo in grado di dire se si cada di più o di meno nei primi 100 chilometri piuttosto che negli ultimi 20. Suppongo che nei primi 100 chilometri cadi per distrazione, mentre negli ultimi 5 per il rischio in volata. Ma anche questa è un’opinione e con le opinioni non si trovano le soluzioni. L’opinione deve essere il punto di partenza, poi bisogna fare un’analisi reale e scientifica e affidare agli esperti l’incarico di trovare le risposte.
Avete raccolto dati statistici?
Negli ultimi 2-3 anni con i dottori abbiamo iniziato a farlo. In realtà il numero di fratture non è aumentato e non è vero che si cada di più. E’ diverso invece il numero di corridori coinvolti nella stessa caduta. Come quando cade un aereo rispetto agli incidenti stradali. I corridori sono tutti più freschi, sono tutti più allenati, il gruppo è compattissimo e, se si cade, si cade tutti insieme.
Hai parlato di opinioni come punto di partenza. Tu cosa faresti?
Investiamo in tecnologia per trovare un airbag nel casco o nella maglia che, se ti schianti, ti salva la testa e la colonna vertebrale. Investirei tonnellate di soldi su sistemi di airbag uguali per tutti, che ti proteggano nella caduta evitando l’infortunio. Perché le cadute ci saranno sempre, fanno parte del nostro sport.


Come gli incidenti facevano parte della Formula Uno…
Però loro prima hanno trovato la tuta ignifuga, poi il casco. Poi sono intervenuti sui guardrail e a quel punto, anche se hanno limitato i motori, le velocità sono salite nuovamente. Il ciclismo è diverso, non si corre in un circuito con le vie di fuga e le protezioni, però secondo me il concetto di partenza deve essere individuare cosa davvero ti metta in sicurezza e poi andare a cascata su tutto il resto. Al centro dell’attenzione devono esserci il corridore e poi la struttura della strada.
Oppure si fa come dice Pidcock e si impedisce di fare il pieno di carboidrati…
L’ha detto come battuta, ma a livello teorico ha ragione. Limito l’apporto energetico e alla fine vince quello che ha più capacità di gestirsi. Se invece tutti hanno la possibilità di mettere 120 grammi di carboidrati, alla fine tutto il gruppo è in forze, perché ormai la nutrizione va in quella direzione. Ma cosa facciamo, limitiamo tutti gli aspetti nutrizionali che provano ad influire sulla vita normale? Sarebbe un lavoro controproducente e soprattutto anacronistico, perché lo sviluppo va in quella direzione. E secondo me lo sviluppo, qualunque sia l’ambito, va salvaguardato.





































































