BePink, da continental a professional si moltiplica tutto per tre

09.10.2024
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Walter Zini è un fiume in piena. La stagione si sta concludendo, ma intanto il tecnico della BePink si appunta sul petto l’invito alla presentazione del Tour de France e la partecipazione al Simac Ladies Tour iniziato ieri (foto di apertura). Per la sola squadra Italiana che in apparenza si sta prodigando per diventare professional si tratta di importanti riconoscimenti su cui appoggiare saldamente i piedi per il futuro. Infatti a Milano si sta lavorando sodo per la scadenza di novembre, entro la quale si saprà se il passaggio di categoria sarà stato riconosciuto dall’UCI.

Crescono i costi. Cambia lo status degli atleti. Occorre dotarsi di strutture e nuove figure professionali. La continental per cui bastava davvero poco deve diventare un’azienda. Ed è proprio questo il fronte più impegnativo. Walter risponde, noi facciamo domande. La sfida non è semplice, ma non fa paura.

Dal 2024 la BePink è passata su bici di Officine Mattio: a destra Zini con Giovanni Monge Roffarello
Dal 2024 la BePink è passata su bici di Officine Mattio: a destra Zini con Giovanni Monge Roffarello
Walter, prego, su cosa si sta lavorando?

Sto andando avanti a fare riunioni e incontri. Il gruppo di Officine Mattio tecnicamente è molto interessato alla cosa e sono sul pezzo. Anche loro stanno portando avanti dei contatti e alla fine tireremo una riga. Sono un po’ lunghino con i tempi, perché ci siamo presi un po’ di tempo per decidere. Però vediamo se riusciamo a chiudere tutti i discorsi per la prima settimana di novembre, quando verranno comunicate le squadre. Abbiamo fatto la registrazione, i versamenti e le prime cose richieste. Se arriveremo in tempo e avremo tutto a posto, faremo la professional. Altrimenti continueremo con la continental. C’è di buono che almeno in questo caso i versamenti fatti non saranno perduti, come sarebbe se invece volessimo provare a fare la WorldTour.

Immaginiamo sia un discorso economico, ma qual è la vera differenza?

Fondamentalmente è proprio l’aspetto economico. Nelle continental si è un po’ borderline, nel senso che a parte la fideiussione e alcune altre cose, non hai particolari obblighi, almeno in Italia. La maggior parte delle atlete sono a costo zero, nel senso che prendono il rimborso dell’autostrada. Nella professional si diventa professionista a tutti gli effetti, come negli uomini. Non c’è un numero vincolato di professional, basta che hai il budget e che segui l’iter previsto dall’UCI. Quindi soprattutto superare il controllo di PWC (il revisore esterno nominato dall’UCI per la registrazione delle squadre professionistiche, ndr) per tutto quello che è la documentazione e le garanzie bancarie. Una volta passato il loro controllo, puoi fare la professional.

Fra i nomi segnalati dal 2024, quello di Elisa Valtulini, 19 anni, quarta miglior giovane al Giro Women
Fra i nomi segnalati dal 2024, quello di Elisa Valtulini, 19 anni, quarta miglior giovane al Giro Women
Per avere un ordine di grandezza, di quanto crescono i costi rispetto alla squadra attuale?

Se vuoi fare una professional fatta bene, lo triplichi. Fate conto che le ragazze sarebbero tutte professioniste e parti da un minimo salariale di 27 mila euro per quelle del primo anno. Però ad esempio se ne prendi qualcuna che rientra dal WorldTour, il minimo è già 35 mila. Poi è logico che se ne vuoi qualcuna che un po’ pedali, devi darle in più. Devi avere i direttori sportivi registrati, devi avere chi si occupa dell’aspetto finanziario, quindi un po’ di persone a libro paga. Quindi solo come monte stipendi, abbiamo fatto un prospetto per cui siamo intorno ai 560 mila euro.

Una vera azienda, insomma…

Per farla bene, devi avere 1,2 milioni. Però è vero che se lo rapporti al discorso legato all’attività che facciamo e le ore di visibilità con Discovery e quello che ne consegue, non è poi tantissimo. E’ un costo coerente, ma è ovvio che devi trovare chi è anche un po’ appassionato, perché ormai ce ne sono tanti in giro che battono cassa. E ultimamente si sta alzando un po’ troppo l’asticella. Nel femminile siamo passati dal nulla al troppo. Corridori che vincono due corse e le squadre WorldTour se le contendono per 150-200 mila euro all’anno. Sono 15 mila euro al mese, ma le ragazze sono sempre le stesse.

Monica Trinca Colonel, qui a Stoccarda, era in parola per rimanere un anno in più, invece passa alla Jayco-AlUla
Monica Trinca Colonel, qui a Stoccarda, era in parola per rimanere un anno in più, invece passa alla Jayco-AlUla
Il problema è che intanto, come fra gli uomini, svuotano il serbatoio delle squadre più piccole.

Si gestiscono così, ma non costruiscono poi molto. Adesso c’è questa sorta di cordata di Movistar e FDJ, che sembrano voler smembrare la SD Worx. Una gli ha portato via la Reusser e l’altra si è presa Vollering. Però Vollering da sola non è così infallibile, come si è visto al Tour e poi al mondiale. Mentre Reusser è una che tira e basta. E intanto pensate che SD Worx non sia lo stesso la squadra più forte? Hanno la Bredewold che è cresciuta ed è diventata un corridore vero. Continuano a vincere con Kopecky e con Wiebes. Hanno due o tre giovani che sono cresciute, come la Vas che ormai è matura e inizia a fare risultati veri. Gli altri hanno i soldi e portano via il corridore già fatto. Ma per me quello della SD Worx è un lavorare per garantirsi il futuro, l’altro è zappettare a destra e a sinistra per cercare di portarsi a casa il grosso nome. Movistar aveva Van Vleuten e poi si sono ritrovati col vuoto. Alla fine almeno l’hanno capito e hanno preso la Ferguson.

Nell’ipotesi professional, dovrai intervenire sul mercato, visto che hai un gruppo di ragazze molto giovani?

Confermo una parte di quelle che ho e poi ci sono in giro un sacco di ragazze giovani, dai 20 ai 22 anni. Ad esempio le ragazze della Ag Insurance, che sono state lasciate libere e hanno anche dei punti. L’idea comunque è quella di continuare a investire sulle giovani, perché se partiamo il progetto è di tre anni più tre. Quindi la volontà di uno degli sponsor sarebbe, se ci sarà la possibilità economica e potenziale del team, nel 2027 o 2028 provare a diventare WorldTour. A quel punto avrei un gruppo di 8-10 ragazze che adesso hanno 20-21 anni, che ne avranno 24 e inizieranno a essere mature. Saranno affiatate e pronte per il salto di qualità. Questo è il sogno che vorremmo trasformare in progetto: vediamo dove riusciamo ad arrivare.

Andrea Casagranda, 20 anni, ha messo insieme circa 55 giorni di gara, lasciando intravedere ottimi sprazzi
Andrea Casagranda, 20 anni, ha messo insieme circa 55 giorni di gara, lasciando intravedere ottimi sprazzi

Un treno che parte

Il resto è un susseguirsi di incontri con sponsor che vogliono entrare, cercando di diventare appetibili per agganciare il nome giusto. Come quello di una grossa azienda straniera, che sarebbe in ballo fra il gruppo italiano e un altro tedesco. Il marchio Be Pink cederebbe il nome a un primo sponsor ben più solido, in una struttura che Zini ha chiara davanti agli occhi e verso la quale sta navigando cercando di tenere in mano tutti i fili del discorso. Da un incontro avuto tra la Federazione e le altre continental, la sensazione è che nessuna sia avviata su questa stessa strada. Di certo il gradino è molto alto e le dinamiche sono le stesse che hanno emarginato il ciclismo italiano maschile rispetto al resto del mondo.

«Se c’è un orientamento internazionale – chiude Zini – non dico che si debba essere i primi della classe, ma nemmeno che si possa fare finta di niente. Noi ci proviamo, questo è un treno che una volta che è partito, poi diventa difficile salirci sopra».

Parigi, la caduta di Consonni e una scheggia nel muscolo

08.10.2024
6 min
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La caduta di Consonni a pochi giri dalla fine della madison olimpica. Le parole di Simone nel racconto successivo a far capire che non fosse stata una scivolata come tante e dare una dimensione anche più grande a quell’argento che sapeva già di oro. Che cosa è successo al bergamasco in pista il 10 agosto? E in che modo gli uomini della nazionale gli hanno permesso di ripartire e lo hanno curato nelle ore successive?

Lo abbiamo chiesto a Fred Morini, uno dei fisioterapisti della nazionale. Un passato da atleta e poi una vita che varrebbe il racconto di un bravo scrittore. L’umbro ascolta e annuisce. Ha ben chiaro quel che è accaduto, a partire dalla caduta. L’impatto di Consonni con il legno della pista è stato così fragoroso che, pur con tutto il rumore del palazzetto, si è percepito come il suono di uno schiaffo.

La foto dopo con Viviani e Morini mostra nello sguardo di Consonni certo la gioia, ma ancora i postumi della caduta
La foto dopo con Viviani e Morini mostra nello sguardo di Consonni certo la gioia, ma ancora i postumi della caduta
Che cosa è successo, dal tuo punto di vista?

La caduta può accadere, ma nessuno se l’aspettava, soprattutto perché eravamo alla fine. Cominciavamo già ad assaggiare più l’oro che l’argento. Erano abbastanza al limite e i portoghesi per certi versi stavano correndo un po’ meglio nella parte finale. Però per come si era messa, i nostri potevano riuscire a contenerli. Era chiaro che facessero corsa su Leitao e Oliveira, perché erano gli unici in grado di incrementare. La caduta è stata una grande botta, ce ne siamo accorti subito.

Che cosa avete visto?

Eravamo il meccanico Giovanni Carini ed io. Quando siamo arrivati, Consonni aveva il pantaloncino girato e uno strappo molto grande. Ma la prima cosa che ho visto era il casco completamente ruotato, tanto che l’ho tirato da dietro e lui subito se l’è rimesso a posto. Quindi sicuramente ha battuto anche la testa, per questo sembrava un po’ rintronato. La testa, la gamba e la spalla. E comunque è risalito su, non ci ha pensato un secondo. Un po’ per la foga, un po’ perché noi lo incitavamo, poi i fischi, il rumore, la gente. Non ha guardato più niente, ha fatto la sua corsa. Ma il grande shock che ha accumulato si è visto appena è arrivato.

Che cosa si è visto?

Appena è sceso giù dalla balaustra si è messo seduto e ha scaricato la tensione, come a Tokyo dopo il quartetto. Sembrava dovesse svenire da un momento all’altro. E così ho fatto le stesse manovre di tre anni prima. Sono intervenuto sulla parte cervicale, dove ci sono dei punti neurologici che di solito si attivano sulle persone che rischiano di perdere i sensi o che effettivamente svengono. Ho cominciato a premere forte e sembrava che si riaccendesse. Poi si è alzato, perché lo chiamavo alle interviste. E’ andato, solo che nei primi 4-5 minuti non sapeva nemmeno dove si trovasse. Era in crisi di zuccheri, perché nella madison è arrivato proprio al limite del limite. Allora gli ho dato un gel, ha bevuto qualcosa, poi si è incamminato verso la tv. E a me a quel punto è caduto l’occhio sul pantaloncino.

Cosa c’era?

Una scheggia del parquet del velodromo, che sarà stata di due centimetri, che usciva fuori dal muscolo. Dritta come uno spillo. Allora sono andato da lui e gli ho detto: «Dai Simo, bevi qualcosa» e gli ho passato una lattina di Fanta. Lui l’ha accettata e mentre la guardava, ho preso la scheggia con le mani e l’ho tirata via. Non l’avessi mai fatto… Ha imprecato, ha sentito come un coltello che invece di entrare, usciva dalla sua gamba. C’era la telecamera e Stefano Rizzato per qualche istante ha abbassato il microfono, chiedendomi cosa fosse successo. E allora gliel’ho fatta vedere e gliel’ho detto: «Avevi una scheggia di legno di due centimetri infilata nella gamba!».

E’ possibile che nel momento in cui si è ritrovato per terra abbia avuto anche un crampo?

Certo. Si è alzato di colpo e sicuramente era già parecchio provato. Il crampo l’ha avuto perché quando ha dato la botta, è rotolato e rialzarsi ha richiesto la massima contrazione muscolare. Un po’ era stanco, un po’ disidratato e di fatto è partito il crampo. Anche dietro la coscia, non dove c’era la ferita, ma tra coscia e polpaccio. Anche il senso di svenimento è connesso a una reazione adrenalinica. Il nervo vago comincia a scaricare, aveva comunque dato una bella botta. Passavano le ore e lui peggiorava, anziché migliorare. Il giorno dopo si è alzato e sembrava un novantenne che camminasse a quattro zampe, perché cominciava a sentire la botta. Aveva più segni addosso l’indomani che dopo la caduta. Ha dormito male tutta la notte, si è goduto male anche la medaglia. Anche la sera che abbiamo fatto il brindisi, era molto dolente.

Come lo hai trattato?

Un lavoro manuale, decontratturante, ma non un vero massaggio. La sera stessa e il giorno dopo. Poi un trattamento osteopatico a livello cranio-sacrale, per allentare un po’ la tensione. Il terzo giorno abbiamo lavorato sulla mobilizzazione: sempre lavoro manuale, ma anche attivo. Qualche piccolo esercizio sul bacino, sulla parte bassa della schiena, per recuperare la mobilità. Dopo due giorni già stava meglio, ma il giorno dopo è stato veramente male.

Finita la madison, Consonni torna alla balaustra. E’ frastornato e dolorante
Finita la madison, Consonni torna alla balaustra. E’ frastornato e dolorante
E’ andato in ospedale? La botta alla testa lo richiedeva?

No, l’ha visto il dottor Angelucci. Non c’erano i sintomi di fratture, per cui il dottore ci ha detto di trattarlo. La cosa in più che abbiamo fatto sono state delle medicazioni con il Duoderma, perché c’erano anche delle belle abrasioni. Abbiamo anche ripulito la ferita con delle pinzette. Per il colpo alla testa, il dottore l’ha valutato. Ha fatto anche dei test di risposta neurovisiva e neurobiologica, ma non c’era nulla di particolare. Però ci ha raccomandato di osservarlo e segnalare se avessimo visto qualcosa di particolare. Ma Simone non aveva lo stimolo di vomitare, non aveva giramenti di testa improvvisi o mancamenti. Per cui abbiamo proseguito così.

Quanto è durata la fase… novantenne?

Due giorni, poi ha cominciato rimuoversi degnamente. Ha fatto un po’ di rulli ed è uscito su strada. E devo dire che la sua caduta è stato il solo problema di queste Olimpiadi, a parte i classici problemi del quartetto, che vanno sempre in sofferenza con la schiena perché la partenza con quei rapporti è impressionante. Hanno sempre la solita patologia al fondo della schiena soprattutto a destra dove fanno l’attivazione per la partenza. E poi per il resto tutto bene, ordinaria amministrazione. Null’altro da segnalare.

Sforzi lattacidi, cosa sono e come si migliora?

08.10.2024
5 min
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Uno degli aspetti sul quale si deve migliorare per essere performanti nelle corse di un giorno è riuscire a esserlo quando la fatica ti morde le gambe. La differenza si fa nel momento in cui gli altri mollano, mentre i migliori riescono a tirare fuori ancora qualche sprazzo di energia. Ce ne siamo accorti al mondiale di Zurigo, quando Pogacar ha attaccato a 100 chilometri dal traguardo con un allungo che sembrava innocuo e poi si è trasformato nel capolavoro che tutti abbiamo ammirato. In quel frangente l’unico che ha avuto il coraggio di prendere le sue ruote è stato Andrea Bagioli. L’azione del corridore della Lidl-Trek, che vi abbiamo raccontato ha aperto in noi uno spiraglio di curiosità. Come si migliorano le proprie prestazioni nel momento in cui è richiesto quel qualcosa in più per fare la differenza? In allenamento si tratta di fare dei lavori lattacidi. Per capire in che modo si migliorano queste prestazioni ci viene in soccorso un preparatore: Paolo Artuso

«Si tratta di un discorso più ampio – esordisce il preparatore della Red Bull-Bora Hansgrohe – perché la prestazione nel ciclismo è data da due variabili: la fase aerobica e quella anaerobica. La seconda riguarda il nostro sforzo massimale, ed è rappresentata dalla VlaMax, cioè la massima potenza anaerobica o potenza glicolitica (la massima energia che un ciclista o atleta può esprimere attraverso il sistema energetico anaerobico lattacido). Per capire le le qualità anaerobiche bisogna fare dei test, uno degli ultimi visti è quello del VLA Max».

Artuso è approdato alla Bora-Hansgrohe dal 2023. In precedenza lavorava alla Bahrain
Artuso è approdato alla Bora-Hansgrohe dal 2023. In precedenza lavorava alla Bahrain
A cosa serve?

Si capisce che tipo di corridore si ha davanti. Innanzitutto ci sono due modi per calcolarlo: in laboratorio o su strada. In laboratorio si controlla il lattato basale prima di iniziare a pedalare, si fanno degli sforzi brevi massimali da 15-30 secondi e poi si misura di nuovo il lattato ogni minuto per un po’. Da questi valori si guarda il delta tra il valore basale e quello più elevato misurato per poi dividerlo per la lunghezza del test. Su strada è sicuramente più veloce e semplice e si utilizzano dei software di analisi.

Una volta terminato?

Si effettuano dei prelievi all’atleta ogni minuto. Per avere un valore si calcola il delta tra il lattato basale e quello massimale e si divide per il tempo. Da qui esce un numero compreso tra 0 e 1. Se il valore è vicino allo zero vuol dire che abbiamo davanti un corridore da corse a tappe. Viceversa, se il numero si appresta sopra lo 0,5 allora l’atleta che si ha davanti è adatto alle Classiche o alle volate.

Zurigo 2024: Bagioli ha provato a reggere l’accelerazione di Pogacar, ma l’ha pagato a caro prezzo
Zurigo 2024: Bagioli ha provato a reggere l’accelerazione di Pogacar, ma l’ha pagato a caro prezzo
Per un far sì che un corridore sia completo cosa bisogna fare?

Cercare di lavorare su tutti i parametri, ma serve attenzione, bisogna bilanciare le cose. Per esempio un ciclista con una VLA Max troppo bassa, potrebbe trovarsi in difficoltà in gara in determinate condizioni. Ad esempio: una tappa con brevi salite, una partenza a tutta o un prologo. Viceversa un ciclista con un valore più alto sarà in difficoltà su tappe con salite lunghe.

In che senso?

Partiamo dal presupposto che un atleta ha due picchi di forma durante la stagione. Facciamo un esempio: se l’obiettivo della prima parte dell’anno sono le Classiche allora si lavorerà sulla parte anaerobica. Al contrario, se nella seconda metà della stagione si vuol performare in un grande Giro si lavora sulla parte aerobica. 

Per Tiberi questo tipo di sforzi devono essere allenati, ma serve programmare la stagione in maniera diversa
Per Tiberi questo tipo di sforzi devono essere allenati, ma serve programmare la stagione in maniera diversa
Mettiamo il caso che un corridore voglia essere performante nelle corse di un giorno.

Si deve abituare il suo fisico a lavorare con alte scorte di glicogeno. Quindi dovrà fare degli sprint a tutta. Un esercizio che faccio fare spesso ai miei atleti è: tre sprint massimali di 30 secondi con un recupero di 8 minuti tra l’uno e l’altro. Il recupero è una fase fondamentale, perché il corridore deve essere il più fresco possibile tra una ripetuta e l’altra. In questo modo aumenta la glicolisi, quindi l’energia nella parte anaerobica. 

Cambia qualcosa quando ci si avvicina alle gare?

Il tempo di recupero si accorcia, in modo da tollerare al meglio il lattato. Il tempo tra una ripetuta e l’altra diventa di 30 secondi, così da abituare il fisico a lavorare in fase lattacida. 

I test del VLA Max e del VO2 Max si possono effettuare sia in laboratorio che in strada (foto Iens’Art content&agency)
I test del VLA Max e del VO2 Max si possono effettuare sia in laboratorio che in strada (foto Iens’Art content&agency)
Lo sforzo fatto da Bagioli dietro Pogacar quindi cos’è?

Un mix tra fase aerobica e anaerobica. In quel caso Bagioli ha fatto uno sforzo massimale di cinque minuti. Quindi servono sia la fase aerobica e anaerobica. Serve avere un alto valore del VO2 Max, che si allena nella fase di preparazione. Poi quando ci si avvicina alle gare sistemi il VLA Max. 

E’ possibile allenare uno sforzo del genere in allenamento?

Io sono un preparatore che crede nel processo di crescita, ma allo stesso modo penso che nulla sia paragonabile alla gara. Servono mesi di lavoro e un insieme di fattori. Puoi perfezionare le diverse fasi ma nulla sarà mai paragonabile allo sforzo della gara. I numeri fatti da Pogacar sono talmente alti che non è detto che siano replicabili, nonostante ci si alleni al meglio.

Europei in vista, ma prima torniamo con Zurlo al mondiale gravel

08.10.2024
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Alle spalle di Van der Poel e secondo miglior italiano ai mondiali gravel di Leuven, Matteo Zurlo è tornato a casa nella notte di domenica pieno di sonno e acciacchi (in apertura, nella foto Sportograf, Vakoc, il vincitore uscente Mohoric e Van der Poel). Prima di lui, nella gara degli azzurri, è finito Mattia De Marchi, uno dei migliori specialisti italiani della specialità. Ma i valori sono così simili e i confini così labili che nel 2023 al campionato italiano, il corridore della Trevigiani-Energia Pura fece meglio del friulano e conquistò la maglia tricolore. Dovendo selezionare la squadra per Leuven e avendo capito che i team della strada non avrebbero mai lasciato i loro atleti, il cittì Pontoni ha così puntato anche su un drappello di specialisti e fra loro anche Zurlo.

Leuven è stato per Zurlo il secondo mondiale gravel, dopo quello del 2023 a Treviso
Leuven è stato per Zurlo il secondo mondiale gravel, dopo quello del 2023 a Treviso

Da Leuven ad Asiago

Lo abbiamo sentito in pieno recupero dalle botte e con l’obiettivo di doppiare la convocazione azzurra sui sentieri di Asiago, teatro nel fine settimana dei campionati europei. Poi la sua stagione potrebbe essere finita. Ci sarebbe ancora in ballo la Serenissima Gravel, che lo scorso anno chiuse al 13° posto, ma quella è legata agli inviti e alla Trevigiani-Energia Pura non ne sono ancora arrivati.

«Il gravel mi piace – racconta – l’anno scorso ho vinto l’italiano e poi ho partecipato agli europei e ai mondiali, dove feci ventesimo, quindi anche benino. E’ una specialità che mi ha preso fin da subito. Domenica il percorso era molto veloce, però impegnativo.  Pieno di strappi con pavé, la solita campagna del Belgio. La gara è stata molto tirata, perché siamo partiti in 300 e c’era una qualità piuttosto alta fra professionisti del gravel e stradisti. Poi c’erano anche quelli che di solito fanno ciclocross. Insomma, c’era parecchia concorrenza. Io sono partito con il numero 75, quindi una posizione non ottimale, ma neanche brutta, tutto sommato. Però ho avuto qualche inconveniente nella partenza. Ho preso male una curva e mi sono quasi fermato».

La partenza da Halle, l’arrivo a Leuven: quasi 300 al via. Zurlo partiva dalla 75ª posizione (foto Sportograf)
La partenza da Halle, l’arrivo a Leuven: quasi 300 al via. Zurlo partiva dalla 75ª posizione (foto Sportograf)
Quindi sei partito con la necessità di risalire sin da subito?

Purtroppo, ma non è finita lì. Dopo otto chilometri sono caduto e ho perso un bel po’ di posizioni che a quel punto erano fondamentali. Si stavano creando i gruppetti e in quelli bisognava esserci. Per cui se già in partenza ero un po’ indietro, dopo la caduta sono sprofondato.

E’ stata da subito una gara veloce?

Van der Poel ha vinto a 38,5 di media, noi abbiamo fatto 37. In un percorso così, di strappi e sterrato, sono tanti, quindi era bello veloce. Non c’era una vera salita e non c’era solo pianura. Alla fine sono venuti fuori 1.600 metri di dislivello in 181 chilometri. Non sono tantissimi, ma fatta tutta a strappi si fa sentire anche nelle gambe. Si parla tanto dei percorsi del gravel, ma la sensazione è che vada come per la strada. Ci sono anni che fanno mondiali per velocisti e altri per scalatori. Si prende quel che viene, insomma. Per fortuna sono riuscito a recuperare qualcosa e alla fine siamo arrivati in un gruppetto di una ventina e ho fatto 39°. I primi sedici erano a 14 minuti, inavvicinabili. Ma ad esempio il diciassettesimo era a due minuti da noi, quindi non è che fossimo tanto distanti.

Per Van der Poel anche l’iride nel gravel, dopo cross e strada. Manca solo la MTB (foto Sportograf)
Per Van der Poel anche l’iride nel gravel, dopo cross e strada. Manca solo la MTB (foto Sportograf)
Visto il percorso, hai dovuto fare qualche scelta tecnica particolare?

Mi sono regolato. La bici è la Guerciotti Escape da gravel che mi fornisce la squadra. Come coperture ho scelto di andare su una gomma un po’ più scorrevole per l’asciutto, perché comunque non era fangoso. Ho gonfiato basso, perché a gonfiare troppo nel gravel si rimbalza. Ho messo a 2,5 atmosfere davanti e anche dietro. E poi ho nastrato sul telaio due gonfia e ripara, perché almeno avrei potuto fronteggiare due forature.

Sei stato il secondo migliore dei nostri, c’era un piano tattico oppure è stata da subito una lotta per restare a galla?

Nel gravel è difficile trovare delle tattiche, perché sono gare tirate dall’inizio alla fine. Non è come su strada, che va via la fuga e puoi decidere di lasciarla andare. Nel gravel bisogna stare davanti dal primo colpo di pedale, a meno che non sei una nazionale come quella del Belgio che ha gli uomini e i numeri per organizzare qualcosa. Per il resto, siamo grandi e anche vaccinati, quindi sappiamo gestire i momenti. Magari se ci troviamo in due davanti, ci gestiamo. Ma fondamentalmente bisogna avere tante gambe, che è l’unico modo per fare qualcosa. E noi ci abbiamo provato. Abbiamo cercato di difenderci con le unghie e coi denti e dove possibile abbiamo cercato di stare davanti.

Sei mai riuscito a vedere i primi?

Per come è andata la partenza, non li ho mai visti. Forse, se non avessi sbagliato quella curva, se avessi fatto una buona partenza e non fossi caduto, magari li avrei potuti avvicinare. Invece dopo pochi chilometri ero veramente dietro. Ho recuperato, recuperato e recuperato ancora, ma loro erano già andati. Non ho grossi rimpianti perché ho dato tutto e il fatto di cadere nel gravel è all’ordine del giorno. Come il salto di catena e altri inconvenienti che bisogna mettere in conto.

Continuerai a fare gravel?

Sicuramente è una bella esperienza. Partecipare a questo genere di questi eventi è sempre gratificante, per cui se ci saranno altre possibilità, risponderò presente. E’ una disciplina nuova, questo si sa, quindi magari non c’è ancora un grandissimo interesse generale. Però se mai si comincia, mai si può arrivare, giusto? Le potenzialità ci sono tutte, soprattutto vedendo il parterre dei corridori presenti. Non è che fossero lì a caso…

Zurlo è stato tricolore gravel nel 2023. Qui in azione alla Serenissima Gravel, chiusa in 12ª posizione
Zurlo è stato tricolore gravel nel 2023. Qui in azione alla Serenissima Gravel, chiusa in 12ª posizione
Come va con gli acciacchi?

Serviranno di sicuro 2-3 giorni. Ieri mi sono svegliato che avevo male ovunque, le braccia, le gambe, la schiena… Sono state cinque ore tirate dall’inizio alla fine e anche se stai a ruota, sugli sterrati fai fatica. Farò un massaggio domani, ma quello è soggettivo. Se uno si trova bene a farli tutti i giorni, se li può fare tutti i giorni, allora fa bene. Intanto bisogna recuperare bene e poi si farà un bel massaggio in vista del fine settimana. Correrò gli europei di Asiago e poi vediamo per la Serenissima Gravel. In ogni caso mi aspetta un bell’inverno di lavoro. Ho qualche trattativa, sicuramente andrò avanti. Adesso l’obiettivo è che mi passi in tempo questo mal di tutto…

Il lento addio della Zalf, De Carlo non vuole mollare

08.10.2024
4 min
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Piccolo Giro dell’Emilia di qualche domenica fa: primo Giovanni De Carlo, Zalf. Secondo Federico Iacomoni, Zalf. Terzo Simone Raccani, Zalf. Triplette del genere nel corso degli anni non sono state neanche così rare nel calendario italiano, ma oggi assumono un significato diverso conoscendo il momento della squadra più antica del panorama under 23 d’Italia.

Il racconto di quel giorno è simile ad altri delle ultime settimane perché la possibilità malaugurata che la società di Castelfranco Veneto non riesca ad andare avanti sembra aver dato una forza supplementare a tutti i corridori dello storico team trevigiano. E’ lo stesso De Carlo a farlo capire con la passione delle sue parole.

Il podio finale del Piccolo Giro dell’Emilia tutto targato Zalf (Photors)
Il podio finale del Piccolo Giro dell’Emilia tutto targato Zalf (Photors)

«Era stata una corsa molto movimentata dove ci eravamo mossi con grande attenzione, coprendoci l’un l’altro, rispondendo a tanti tentativi nelle fasi calde della gara. Sull’ultima salita ho provato l’azione di forza, poi allo scollinamento Iacomoni mi ha agganciato e abbiamo proceduto insieme».

A quel punto avete stabilito prima chi dovesse vincere?

Ne abbiamo parlato insieme anche al diesse. Io era da tanto che cercavo una vittoria e ne avevo bisogno proprio in funzione di quel che sarà, della ricerca di un futuro. Ci siamo messi d’accordo e devo dire grazie a Federico come ai compagni per questo successo prestigioso.

L’arrivo in pieno accordo fra De Carlo e Iacomoni. La vittoria serviva soprattutto al primo (Photors)
L’arrivo in pieno accordo fra De Carlo e Iacomoni. La vittoria serviva soprattutto al primo (Photors)
Che cosa rappresenta questo team per te?

E’ molto importante, è un po’ la rappresentazione della realizzazione di un sogno. Io sono della provincia di Treviso e chi inizia ad andare in bici, a fare le prime gare, chi vuole insistere su questa strada ha sempre avuto la Zalf come riferimento. E’ un po’ la squadra di casa, una sorta di nazionale locale alla quale tutti vogliono accedere e ne parlo volutamente al presente perché ognuno di noi una piccola speranza che tutto ciò non finisca ce l’ha.

In squadra come si vivono queste settimane dopo l’annuncio del rischio di chiusura, dopo che lo sponsor principale si è tirato indietro?

Noi lo abbiamo saputo quest’estate e sinceramente è stato un colpo per tutti. Abbiamo però cercato di reagire subito, di non farci abbattere e anzi abbiamo serrato le fila. Non c’è stato neanche bisogno di dirlo, ma corriamo sapendo che potrebbe essere l’ultima volta e quindi diamo il 110 per cento. Viviamo l’attività in maniera tranquilla, pensando a fare il nostro dovere fino all’ultimo minuto, raccogliendo tutto quel che si può, onorando questa maglia così gloriosa.

Per De Carlo la prima stagione alla Zalf è stata costellata da ben 13 Top 10 (foto Agostino Bortignon)
Per De Carlo la prima stagione alla Zalf è stata costellata da ben 13 Top 10 (foto Agostino Bortignon)
Voi che sensazione avete percepito?

Ce l’hanno comunicato in maniera molto tranquilla, in anticipo sul finale di stagione proprio per permettere a ognuno di trovare un nuovo approdo. Non è, come avviene tante volte, che si chiude per colpa di dissidi interni. Probabilmente è solo la fine di un ciclo come avviene in tanti campi della vita, anche se ripeto una piccola porta aperta è stata lasciata. Questo ci ha dato molta più voglia di emergere e penso che in gara si veda, abbiamo quella luce negli occhi che altre squadre non hanno. Non è un caso se dopo che ci hanno dato l’annuncio, i risultati sono arrivati a pioggia.

Venendo al tuo caso, tu sei un secondo anno Elite. E ora?

Io vorrei continuare, chiaramente l’età che avanza (anche se dirlo a 23 anni è davvero strano…) non gioca a mio favore. Sto valutando che cosa fare, chiaramente ogni risultato conta, infatti in tutte le gare fatte dopo il Giro del Friuli non sono mai uscito dalla Top 10. Ho ancora un paio d’anni nella categoria che vorrei sfruttare. E’ un momento particolare, non è facile correre non sapendo se l’anno prossimo sarò ancora a battagliare su queste strade.

Per la Zalf potrebbero essere le ultime settimane, se non si troverà uno sponsor di peso (foto Bortignon)
Per la Zalf potrebbero essere le ultime settimane, se non si troverà uno sponsor di peso (foto Bortignon)
Il palmarés di queste ultime settimane è dalla tua…

Io spero che qualcuno se ne accorga. Sono un passista-scalatore, in grado di emergere su più terreni, quest’anno ho portato a casa finora una vittoria e ben 13 Top 10, finendo quinto anche al Giro del Veneto. Credo di poter dare un contributo a ogni team, sia aiutando gli altri che puntando al risultato. Certo, se poi arrivasse la notizia che si continua, sarebbe come un regalo di Natale in anticipo…

Coach De Maria: «Vi dico quanto vale il nuovo Piganzoli»

08.10.2024
7 min
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Il terzo posto al Giro dell’Emilia non se l’aspettava nemmeno Piganzoli. Però nella sua squadra qualcuno era pronto a scommettere in un piazzamento nei dieci. E’ Giuseppe De Maria, tre anni da professionista e dal 2022 allenatore del valtellinese, che Ivan Basso ha fatto di tutto per trattenere anche nel 2025, quando scadrà il suo contratto con il Team Polti-Kometa. Ed è lecito immaginare che la prossima stagione lo vedrà salire un altro gradino, come è successo quest’anno prima, durante e dopo il Giro d’Italia.

«Pensavo che sarebbe potuto arrivare nei dieci – conferma il varesino, classe 1984 – ma non il podio. “Piga” non è un corridore esplosivo per quei finali, ma bisogna considerare che il San Luca arrivava dopo una corsa estremamente dura e lunga. Quindi in realtà non è stata tanto un’azione esplosiva, quanto aver mantenuto un’ottima performance sull’ultima scalata. In più c’era prima una salita più lunga, la giornata era fredda e pioveva, per cui i corridori di endurance sono stati avvantaggiati».

Giuseppe De Maria, a sinistra, assieme a Carlos Barredo, coordinatore degli allenatori Polti (foto Borserini)
Giuseppe De Maria, a sinistra, assieme a Carlos Barredo, coordinatore degli allenatori Polti (foto Borserini)
E da qui partiamo: la sensazione è che nel 2024 Piganzoli abbia salito diversi gradini.

Sì, è la realtà, è un dato di fatto che continui a migliorare. Io lo alleno, analizzo quotidianamente i suoi parametri. E ogni volta che facciamo un blocco di lavoro, un ciclo di carico, lui va più forte di prima. Succede sempre, dal 2022 quando ho iniziato a lavorare con lui. Tendenzialmente questa è una caratteristica dei corridori più talentuosi e che hanno il motore. Tu li stimoli e loro migliorano, mentre altri magari a un certo punto non ce la fanno più. Davide continua a migliorare e dopo il Giro d’Italia, ha fatto un salto in avanti incredibile.

Uno step evidente?

Sappiamo quanto possa essere utile la corsa di tre settimane a quelli che hanno motore. Piganzoli è rientrato praticamente a Burgos, perché dopo il Giro è andato allo Slovenia, ma aveva un problema al ginocchio e si è fermato. E a Burgos è arrivato undicesimo, con un livello di corridori incredibile. Ha fatto la crono migliore della sua vita fino a quel momento (27° a 1’04” da Jay Vine, ndr). Poi in Lussemburgo è andato incredibilmente forte su un percorso di salitelle brevi. E anche lì ha fatto un’altra ottima crono (15° a 43″ da Ayuso, ndr), fino ad arrivare all’Emilia. Nei giorni precedenti vedevo che era a un livello superiore. E quel podio alla fine vale sia per la prestazione, sia per la personalità.

Ha vinto ad Antalya prima del Giro e prima del Giro è andato per la prima volta sul Teide: come è andata?

Ha risposto benissimo. In altura avevamo già preparato i due Tour de l’Avenir con la nazionale a Sestriere e aveva risposto sempre in maniera clamorosa. Ricordo benissimo che dopo ogni blocco di altura, veniva giù e aveva qualcosa più di prima. In ogni caso ha iniziato il 2024 a un buon livello e ha vinto ad Antalya. Poi ha corso la Tirreno e da lì è andato in altura. Quindi ha corso il Tour of the Alps, dove è arrivato decimo, migliorando il 18° posto della Tirreno. Poi c’è stato il Giro, che ha segnato un altro step in avanti. Infatti non aveva mai dimostrato di poter reggere oltre la settimana di gara. Ricordo benissimo l’ultima scalata del Monte Grappa. Forse in televisione non si è visto perché era dietro il gruppettino dei migliori, però è arrivato fra i primi (16°, ndr) nell’ultima tappa di montagna dopo tre settimane del primo Giro d’Italia. Questo è estremamente significativo e dopo il Giro ha cambiato cilindrata, questo è certo.

La 17ª tappa del Giro, quella del Brocon, è stata la più dura per Piganzoli, che è riuscito a salvarsi
La 17ª tappa del Giro, quella del Brocon, è stata la più dura per Piganzoli, che è riuscito a salvarsi
Al Giro ha voluto tenere duro per mettersi alla prova. E’ sempre stato costante?

E’ stato estremamente continuo, tranne una tappa dell’ultima settimana dove è andato in difficoltà. Si arrivava sul Brocon, si è staccato lontano dall’arrivo, ha inseguito fra le ammiraglie per due ore, poi è rientrato sul gruppo dei primi all’inizio dell’ultima salita. E a quel punto ha concluso nei primi venti, salvando la classifica. E’ sempre stato regolare tranne quel giorno in cui poteva compromettere tutto, invece si è salvato con una notevole forza mentale. Al Giro ha tenuto duro un po’ per provarsi e un po’ perché non gli entra in testa di staccarsi e mollare. E’ impossibile. Nessuno riesce a convincerlo. Però quando tiene duro, non lo fa a metà, tiene duro sino alla fine.

E’ quantificabile lo step che ha fatto dopo il Giro?

Abbiamo fatto dei test, ovviamente. Lo step in avanti non è quantitativamente così elevato, il salto di qualità nella performance non è eccessivo. Quello che sicuramente ha ricevuto dal Giro è il discorso della durabilità. Riesce a esprimere un determinato livello con più facilità, più a lungo e di conseguenza anche i finali cambiano. In più, ora che sta prendendo consapevolezza e sicurezza nei suoi mezzi, corre in maniera diversa e quindi funziona tutto meglio. E’ sempre una questione multifattoriale.

Piganzoli ha compiuto 22 anni a luglio, è giovane. C’è da immaginare un inverno più sostanzioso per salire un altro gradino l’anno prossimo?

In realtà continueremo allo stesso modo, ma con più volume. Dopo il Giro, come dicevo prima, ha dimostrato di avere un livello tale per cui si deve allenare di più. E’ chiaro che sul piano mentale questo non sarà facile, però lo deve fare. Se per l’anno prossimo vogliamo immaginare un Giro un po’ migliore di quest’anno, il discorso passa per l’allenamento.

Il podio al GIro dell’Emilia è stato un exploit imprevedibile, anche se la condizione era ottima
Il podio al GIro dell’Emilia è stato un exploit imprevedibile, anche se la condizione era ottima
La sensazione è che fisicamente sia ancora acerbo e possa ancora svilupparsi…

Sono molto d’accordo. All’Avenir del 2022, era sui 62,5 chili e andava ugualmente fortissimo. Al primo anno da pro’ è sceso sui 61 chili, ora resta facilmente intorno ai 60. Però sicuramente ha ancora dei margini, perché avendo fatto tutta la trafila con la Fundacion Contador, ha lavorato in maniera equilibrata. Non bisogna vincere tutto a 19 anni, di conseguenza ci sono degli step ai quali continua a rispondere egregiamente.

Si prevede che dovrà lavorare parecchio anche in palestra quest’inverno?

La palestra è fondamentale per l’aspetto neuromuscolare del movimento e per migliorare l’efficienza del gesto, non prettamente per la forza. E’ già un po’ di tempo che facciamo dei lavori specifici di forza in bici, in rapporto a un corridore con le sue caratteristiche da scalatore.

Vi sentite spesso? Che tipo di rapporto c’è fra voi? 

Un ottimo rapporto. Quando non si corre, mi piace lasciare tranquilli i corridori, perché è giusto che si godano la loro pace. Abbiamo iniziato a lavorare nel 2022 con la Fundacion Contador e da subito le cose sono andate benissimo. Non ricordo una corsa che abbiamo preparato e che sia andata diversamente da come la immaginavamo. Davide è estremamente intelligente, ha due marce in più rispetto a tanti proprio perché è intelligente e responsivo. Ci troviamo molto bene, lui si fida e spesso si esce a cena: lui con la sua fidanzata e io con la mia famiglia. Ho conosciuto i suoi genitori, c’è proprio in bel rapporto.

La crono del Giro del Lussemburgo è stata la migliore del 2024, chiusa a 43″ da Ayuso
La crono del Giro del Lussemburgo è stata la migliore del 2024, chiusa a 43″ da Ayuso
Piganzoli è sempre stato forte a crono: è qualcosa da inquadrare oppure è già al centro del mirino?

E’ già al centro del mirino. Mi sembra che da junior abbia fatto terzo nel campionato italiano della cronosquadre e sia salito sul podio anche nella crono individuale. Al secondo anno da U23, ha vinto il campionato italiano e quella volta c’ero io in macchina. E’ un bel ricordo perché il percorso non ci favoriva, era per gente più pesante. Però siccome c’erano tante curve, abbiamo fatto un grande studio sulle traiettorie, abbiamo studiato il percorso anche su GoogleMaps. E siccome lui guida molto bene la bici da crono, ha vinto con 7 secondi su Montefiori. Invece non è andata per niente bene la crono della Tirreno-Adriatico…

Come mai?

Aveva una posizione sbagliata. Aveva delle pedivelle non giuste. Una serie di cose che non ci convincevano. Così siamo andati dal biomeccanico che l’ha messo a posto e al Giro è andato già molto meglio. A Burgos altro passo avanti. Al Lussemburgo ancora meglio, per cui siamo sulla direzione giusta. Bisogna perfezionare la posizione e lavorare sui materiali, perché i materiali sono determinanti. Però confermo che la crono è al centro delle nostre attenzioni, anche perché lui ci tiene tantissimo. Se vuoi farlo arrabbiare, digli di non curare la crono. Piga va forte in salita e va forte contro il tempo, non vede l’ora che ci sia una crono, non è mai una cosa che gli pesi. Una cosa ce la possiamo dire: Davide Piganzoli è decisamente il prototipo di atleta per le gare a tappe.

Addesi e il paraciclismo: inizia la caccia dei giovani talenti

07.10.2024
10 min
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Una settimana fa eravamo a Zurigo scrivendo gli ultimi pezzi. Si parlava della meraviglia di Pogacar. Del bilancio azzurro tenuto in piedi da crono, donne e juniores e del passaggio a vuoto dei professionisti. Sembrava un discorso concluso, invece mancavano all’appello le 14 medaglie del paraciclismo. Tre maglie iridate (in apertura quella di Cornegliani), per la precisione, nove argenti e due bronzi.

Quello del paraciclismo è un mondo complesso. Ci sono infinite categorie, strane manovre di classificazione, retaggi, storie ed esigenze particolari. La ricerca tecnologica e della performance progrediscono con passi da gigante. Le altre Nazioni reclutano atleti giovani, provenienti da altre esperienze se non addirittura dal professionismo. Così, viste anche le polemiche delle ultime settimane, siamo tornati a bussare alla porta di Pierpaolo Addesi, referente del settore strada da meno di due anni

Zurigo, ultime medaglie anche per Pasini, Amadeo e Farroni. A sinistra Pierpaolo Addesi, con il presidente Dagnoni e Amadio (foto Borserini/FCI)
Medaglie per Pasini, Amadeo e Farroni. A sinistra Pierpaolo Addesi, con il presidente Dagnoni (foto Borserini/FCI)
Come è andata la trasferta di Zurigo?

Bene, considerando che abbiamo cominciato a lavorare sul serio da un anno. Tutti i talenti che sono arrivati fanno parte di un progetto nato nel 2023 e, anzi, alcuni sono arrivati anche dopo. Marianna Agostini, ad esempio, oppure lo stesso Lorenzo Bernard sono arrivati dopo. L’unico che ha iniziato a gennaio è stato Andreoli, perché con lui ho preso i contatti a dicembre, l’ho incontrato a Milano e gennaio è stato inserito nel gruppo azzurro. Nonostante tutto, penso che ci siamo difesi abbastanza. A Parigi e poi a Zurigo

Si continua a dire che i risultati si coglieranno nel prossimo quadriennio: sei scaramantico oppure non credevi che gli atleti fossero già al livello giusto?

Adesso lo posso dire. Andando a Zurigo, avevo scritto un numero di medaglie volutamente più basso, vale a dire otto come a Parigi, perché ho cercato di tenere i piedi per terra. Sapevo che sarebbero state di più. Avevo una nazionale che mi aveva dato tantissime conferme anche in Coppa del mondo. E se non ci fosse stata l’ingiustizia di Bosredon inserito in H3 (*), lui che di fatto è un H4, a Parigi avremmo raccolto un argento nella crono e forse su strada sarebbe arrivato l’oro. A Zurigo, la stessa cosa. Se non ci fosse stato lui, Martino Pini avrebbe vinto il mondiale. Sono abbastanza sicuro che dal prossimo anno il francese tornerà H4, ma nel frattempo con lui si sono garantiti tre medaglie d’oro alle Paralimpiadi.

Ti ha stupito che Mazzone sia riuscito a vivere un altro mondiale?

Tanto. In concomitanza con la sua crono c’era l’incontro con il Presidente Mattarella e a Parigi, Luca era stato uno dei due portabandiera. Mi ha chiamato anche il CIP chiedendomi se fosse possibile portarlo a Roma, così ne ho parlato con lui. Ci siamo ricordati quanto andasse forte in pianura dietro moto nel ritiro di Campo Felice. Quella di Zurigo era una cronometro dove avrebbe potuto esprimere il suo massimo. Non c’erano curve, non era un percorso tecnico. Era un drittone. E lui, se lo metti in un percorso così, ancora oggi distrugge tutti. Infatti ha stravinto, in 18 chilometri ha staccato di 40 secondi atleti che negli ultimi anni lo hanno sempre battuto. Non era scontato. Luca è forte, è un atleta molto determinato, si è impegnato tantissimo.

Mazzone ha 53 anni ed è ancora vincente. Si parla di ricambio, immagini che sarà lui a decidere quando fermarsi?

Credo che in quelle categorie sia l’atleta a decidere. Dopo aver vinto ancora, non credo sia tornato a casa pensando di smettere. Io non gli dirò mai di farlo. Ma è logico che quando non arriveranno più i risultati e si renderà conto che nella sua categoria sono arrivati giovani più forti, sarà lui a capire il momento. Il quarto posto di Francesca Porcellato a Parigi, visti anche i risultati dei mondiali precedenti, fa capire che ormai eravamo fuori dalla lotta per le medaglie. 

E allora come avviene il reclutamento dei giovani?

Questa sarà la sfida del prossimo anno. Vorrei tanto che in Italia si aprisse un po’ la mentalità. In Francia è appena arrivato nei C4 un ragazzo nuovo, Mattis Lebeau, che ha vinto il mondiale crono ed è arrivato secondo su strada. Se andate a vedere il suo palmares, ai primi di settembre ha fatto il Giro di Guadalupe in mezzo agli elite, una corsa a tappe di otto giorni. Ha 25 anni e durante la stagione ha anche vinto gare su strada. Lui ha un problema alle gambe, probabilmente qualcosa a livello di sviluppo e ha un polpaccio leggermente più piccolo, che è bastato per rientrare nella categoria C4.

Vuoi dire che la ricerca è anche fra atleti che corrono nel gruppo dei normodotati?

Esatto. Devo andare a cercare situazioni come questa nel panorama nazionale. Il problema è che nel momento in cui le trovo, con chi affronto il discorso? Parlo per esperienza. Sono andato dal tecnico di una continental italiana e gli ho fatto il nome di un atleta giovane e forte, nella stessa situazione di Lebeau. Gli ho detto che il ragazzo può fare la sua attività da U23 oppure elite, però per tre volte all’anno potrebbe venire a correre con noi. Ebbene, quando gli dici questo, si offendono. Mi ha risposto che il ragazzo è normale. Come devo fare io?

Mattis Lebeau ha vinto la crono di Zurigo nella categoria C4 del paraciclismo. In preparazione ha corso il Giro di Guadalupe (foto L’Equipe)
Lebeau ha vinto la crono di Zurigo nella categoria C4 del paraciclismo. In preparazione ha corso il Giro di Guadalupe (foto L’Equipe)
E’ un problema culturale, l’handicap in Italia è motivo di disagio. Non tutti sanno che il ciclismo paralimpico sia anche quello su una bici normale e non per forza una handbike.

Esattamente. Servirebbe uno step culturale. Non è una diminuzione, non è qualcosa per cui essere presi in giro, ma una possibilità. Dovrei far capire a questi ragazzi, ma soprattutto ai loro manager, che la categoria C5 nel paralimpico equivale alla categoria elite dei normo. Non è niente di meno. Se andate a vedere gli ordini d’arrivo di tutte le gare che fanno in mezzo agli elite, davanti ci sono anche loro. Penso a Dementiev, che corre regolarmente su strada, ma anche a tanti altri che per tutto l’anno gareggiano in mezzo agli elite.

Qualunque corridore italiano avrebbe paura di essere preso in giro. La diversità a tutti i livelli nel ciclismo è uno sbarramento insormontabile: non sono neanche certo che qualcuno leggerà questo articolo…

Chiedo solo di pensarci. Parliamo di una categoria di professionisti, perché ormai a certi livelli non si va più avanti allenandosi part time. Mettiamo che trovo un atleta forte e ancora giovane, che corre da U23 oppure elite. Se il prossimo anno viene al mondiale in Belgio e mi vince una medaglia d’oro, cosa che è molto probabile, a dicembre riceve il Collare d’Oro. L’anno successivo, un corpo di Polizia lo prende al 100 per cento, perché diventa interessante in chiave olimpica. E lui si è praticamente guadagnato lo stipendio a vita, perché starà lì fino alla pensione. Considerando che una medaglia d’oro alle Olimpiadi frutta 100.000 euro. In più, se corre da U23 oppure elite, farà il corridore fino a quando ne avrà voglia. 

Parigi e Zurigo hanno visto anche un bel rimescolare di equipaggi tandem.

Corentin Ermenault, uno che ai mondiali di Grenchen 2023 era nel quartetto di bronzo dietro l’Italia di Ganna, non ha vestito la maglia francese nel 2024 per fare le Paralimpiadi e vincere delle medaglie. Possibile che non riesco a prendere un atleta forte della pista per puntare a Los Angeles? Dobbiamo mettere davanti un inseguitore fortissimo e in parte ci siamo riusciti con Plebani. Date anche a noi un atleta che nel 2027 escludete dalla maglia azzurra, un inseguitore forte per puntare le Paralimpiadi di Los Angeles nel tandem e la medaglia d’oro ce la giochiamo pure noi.

Dietro un atleta paralimpico ci sono la sua squadra e la famiglia: qui la sorella e i nipoti di Pini a Zurigo (foto Borserini/FCI)
Dietro un atleta paralimpico ci sono la sua squadra e la famiglia: qui la sorella e i nipoti di Pini a Zurigo (foto Borserini/FCI)
La guida forte fa la differenza?

Lorenzo Bernard l’ho incontrato l’anno scorso a marzo. Gli altri hanno detto che l’avevano già testato, lui racconta che fece una prova col tandem e poi fu scaricato. Quando a marzo l’ho testato qui a Francavilla, si è visto subito che c’era un motore molto grande, ma anche che era acerbo. Però una volta che hai uno così e gli metti una guida competitiva a livello mondiale, i risultati arrivano. Prendi un atleta che fa 4’10” nell’inseguimento, lo abbini a Bernard e il tandem non può andare piano. Al primo assalto con Plebani ha preso il bronzo, no? Gli altri hanno fatto questi ragionamenti, che sono replicabili anche su strada.

Dove hai puntato su Totò…

Un ex professionista, anche se nella sua carriera forse non ha sempre fatto il professionista sul serio. Ma se prendo un qualsiasi corridore che abbia dei numeri, il tandem è la somma dei numeri. Watt davanti, watt dietro. Se questa somma è alta, il tandem vince. Poi servono anche la scaltrezza, abilità a guidare e resistenza, ma quelle si affinano col lavoro.

I corridori hanno raccontato che l’ambiente della nazionale è sereno e per questo hanno potuto lavorare bene.

Dico sempre che io non sono il capo di nessuno e non devo diventare l’amico dei corridori, altrimenti qualcuno potrebbe permettersi di dire cose fuori posto. Serve rispetto. Ho un ruolo, che è guidare la nazionale. Non sono l’allenatore, non mi prendo meriti che non ho, a differenza di qualcun altro. I ragazzi vincono perché si sono impegnati e hanno fatto risultati grazie a chi li ha preparati. Alle società che ci sono dietro e alle famiglie. Perché un disabile non fa leva solamente sulla società, c’è anche il lavoro delle mogli, dei figli, di chi li circonda. Io cerco di metterli nelle condizioni di lavorare al meglio, di esprimere il massimo e cerco di farli restare sereni e tranquilli.

Il tuo ruolo in gara?

Sicuramente intervengo a livello tattico. Tutte le volte che abbiamo deciso qualcosa prima, è sempre andata bene. Al contrario, tutte le volte che non hanno fatto quello che avevamo concordato, è andata male. Farroni e a Vitelaru potevano vincere il mondiale, ma hanno fatto cose diverse da quelle concordate.

Che cosa?

A Giorgio avevo detto di superare Clement a destra nella volata, perché il vento tirava da sinistra. Era nella posizione ideale fino ai 200 metri. Poi, partita la volata, anziché rimanere a destra si è spostato sul lato opposto. Ha preso vento, ha allungato e ha perso la volata di poco. A Vitelaru invece avevo ho detto che fino a 150 metri doveva rimanere a ruota, perché lei è molto esplosiva e doveva fare una volata corta. L’olandese è stata più furba e ha fatto la finta di partire a 350 metri. Lei ha abboccato ed è partita. L’altra si è messa a ruota e poi l’ha saltata nel finale. Li ho ripresi entrambi, anche in modo severo.

Severo?

Sono stato anche io atleta e mi dava più fastidio se dopo un pessimo risultato mi dicevano che andava bene lo stesso. Se il tecnico analizza gli errori, magari sul momento ci resti male, però vuol dire che ci tiene. Farroni dopo l’arrivo piangeva. Però il giorno successivo l’ho accompagnato all’aeroporto e mi ha detto grazie. Che era giusto che lo avessi richiamato perché aveva sbagliato. La mia fortuna è essere stato nei loro panni e fare con loro quello che avrei voluto facessero con me. 

Farroni beffato in volata dal canadese Clement, probabilmente per un suo errore in volata (foto Borserini/FCI)
Farroni beffato in volata dal canadese Clement, probabilmente per un suo errore in volata (foto Borserini/FCI)
Qualcuno ha fatto notare che il bilancio di Zurigo è buono, ma che le medaglie sono meno di altri mondiali. Parlano di Cascais nel 2021…

E’ una vecchia disputa. Vincemmo 13 titoli mondiali, ma non ci si sofferma mai sul livello di partecipazione. Quell’anno le nazionali più forti avevano puntato tutti su Tokyo. Lo conferma il fatto che quei 13 ori di Cascais a Tokyo si ridussero all’oro della staffetta, cinque argenti e un bronzo. Oggi quegli atleti hanno smesso quasi tutti e a livello mondiale è venuta avanti una nuova generazione fortissima. Restano davanti soltanto Mazzone e Cornegliani, mentre abbiamo scoperto che dietro non c’era niente.

Nessun giovane?

Ho preso in mano un gruppo di atleti di una certà età, cosa era stato fatto per il ricambio? Se adesso smettessimo di cercare giovani, magari a Los Angeles porteremmo a casa qualcosa. Mirko Testa ce l’ho, Pini ce l’ho, Cortini ce l’ho, ma poi fra 10 anni con chi vinci?

(*) Per capire meglio, le categorie del paraciclismo sono suddivise in C (ciclismo), H (handbike), T (triciclo), Tandem. I numeri accanto sono inversamente proporzionali alla gravità dell’handicap. Si va da 1 che è il caso più grave a 5 che è il più lieve.

Giro delle Regioni, Bertolini torna nel suo mondo

07.10.2024
5 min
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Una vittoria con dedica speciale. La seconda tappa del Giro delle Regioni di ciclocross ospitata a Tarvisio va in archivio nel segno di Gioele Bertolini, il cui primo pensiero a fine gara è stato dedicare il suo successo a Vito Di Tano, l’ex diesse della Fas Airport Service Guerciotti (ma soprattutto ex campione del mondo) chiamato a 70 anni ad affrontare una dura sfida contro un tumore, per la quale anche noi facciamo un tifo sfrenato per lui…

Bertolini era al suo esordio stagionale e sul fango di Tarvisio, in una gara da vero ciclocross, ha ripreso il feeling con la vittoria ripartendo da quanto fatto durante l’anno in Mtb: «La stagione è stata positiva, sono tornato ad esprimermi ad un buon livello: la vittoria di due circuiti e di 3 corse internazionali credo siano un buon bottino e certamente devo ringraziare anche il Centro Sportivo Esercito che mi aiuta e supporta sempre. Nel ciclocross siamo solo agli inizi, mi sono presentato in una buona condizione, ma credo che c’è ancora molto da lavorare e la brillantezza arriverà più avanti».

Bertolini davanti a Ceolin. Già a Tarvisio il “Bullo” ha mostrato un’ottima condizione (foto Paletti)
Bertolini davanti a Ceolin. Già a Tarvisio il “Bullo” ha mostrato un’ottima condizione (foto Paletti)

I giovani col fiato sul collo…

La vittoria di Bertolini è arrivata al termine di una bella sfida con il vincitore di Corridonia Samuele Scappini: «La mia condizione è buona ma sto svolgendo dei lavori in palestra che non mi consentono di esprimermi come vorrei e poi ho trovato un avversario molto ostico come l’umbro, che mi ha tenuto il fiato sul collo per tutta la corsa».

Dietro, esordio tutto sommato positivo per il campione del mondo junior Stefano Viezzi, passato di categoria e capace di rimontare molte posizioni partendo da dietro, fino alla quinta: «Ero curioso di vedere come si esprimeva nella maggior categoria – afferma Bertolini – e devo dire che è già partito molto forte. E’ un ragazzo molto intelligente ed ha affianco a sé una dei corridori che hanno fatto la storia di questo sport, nonché nostro cittì, e saprà cogliere il meglio dei consigli che gli darà per esprimersi al meglio alle corse».

Sul traguardo Bertolini ha preceduto Scappini, Ceolin, Folcarelli e Viezzi (foto Paletti)
Sul traguardo Bertolini ha preceduto Scappini, Ceolin, Folcarelli e Viezzi (foto Paletti)

Splendido bis per Borello

Se in campo maschile c’è stato subito un cambio nelle gerarchie, fra le donne seconda vittoria consecutiva per Carlotta Borello (Team Cingolani), ma questa volta con molto maggior margine rispetto a Corridonia: «Era un percorso più esigente – racconta la vincitrice che ha preceduto la rientrante Rebecca Gariboldi, assente a Corridonia perché convolata a nozze – con un’altimetria non indifferente, il fango lo ha reso ancora più duro. A Tarvisio sono andata molto meglio della settimana prima, dopo metà del primo giro avevo già fatto la differenza».

La Borello, che seguirà tutto lo sviluppo del Giro puntando al successo finale, viene da una buona stagione alla BTC City Liubljana: «Ho lavorato molto per le compagne, più che risultati ho accumulato chilometri. Io mi sento più una ciclocrossista prestata alla strada (che pure mi piace), infatti ad agosto e settembre corro soprattutto per trovare la condizione in vista dell’inverno».

Ciclismo, ma anche ginnastica…

D’altronde non potrebbe essere altrimenti abbinando la sua attività ciclistica con quella lavorativa: «Mi sono laureata in Scienze Motorie lo scorso anno e da allora lavoro in alcune palestre tutti i pomeriggi insegnando ginnastica artistica, altro sport praticato da piccola. Dopo le imprese azzurre a Parigi, che non mi sono persa neanche per un minuto, c’è stato un autentico boom di richieste».

Il lavoro comunque non le impedisce di ambire a qualcosa d’importante anche nel ciclocross: «E’ chiaro che a una maglia azzurra ci spero come ci sperano tutti, ma passando Elite è più difficile, ci sono meno posti anche perché la concorrenza estera è molto maggiore e più forte. Non mi pongo obiettivi per non restare delusa, vedremo se i risultati mi porteranno anche a qualcosa d’importante».

Lampi fra gli juniores

Capitolo juniores: se in campo femminile si conferma Giorgia Pellizotti (Sanfiorese), fra i ragazzi c’è stata una piccola impresa per Mattia Agostinacchio (Fas Airport Service Guerciotti), che dopo essere andato in fuga e aver forato, vedendo il leader di classifica Filippo Grigolini (Team Cingolani) sfilargli davanti, è rimontato in sella facendo di nuovo la differenza. Un bel segnale non solo per il prosieguo del Giro delle Regioni, che fa rotta verso Osoppo per la terza tappa di domenica prossima, ma anche per la stagione internazionale.

EDITORIALE / Pogacar un gigante, ma non perdiamo lo stupore

07.10.2024
5 min
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Il giorno dopo la vittoria di Pogacar al Giro dell’Emilia, Van der Poel ha vinto un’altra Roubaix, anche se questa volta si chiamava mondiale gravel. Una corsa piatta, più corta dell’Inferno del Nord, in cui l’olandese ha fatto valere la sua capacità illimitata di andare forte in pianura. Visto il livello dei rivali e la comodità della bici da fuoristrada, si capisce che Mathieu abbia avuto vita (quasi) facile nel lasciarsi dietro Florian Vermeersch a 13 chilometri dall’arrivo, con Stuyven ed Hermans vicini alla soglia dei 4 minuti. Ben altra fatica è costata la vittoria a Marianne Vos, che il giorno prima ha dovuto vedersela in un arrivo allo sprint con Lotte Kopecky.

La solitudine

Nel ciclismo dei fenomeni, la solitudine è un luogo spensierato in cui far valere la propria superiorità. E’ così da qualche anno a questa parte. Ne abbiamo avuto la conferma nella Roubaix dell’olandese e la riprova ai mondiali di Zurigo e poi a Bologna, dove Pogacar ha polverizzato le velleità dei rivali, prima ancora di polverizzarne la resistenza. Un post di Adriano Malori su Instagram rende perfettamente lo stato d’animo dei rivali al via.

«Immaginate di essere Evenepoel, Roglic, Pidcock. Siete alla partenza del Giro dell’Emilia e guardando verso destra, sulla linea di partenza, vedete questo personaggio qui fresco reduce da un mondiale dominato dopo la doppia corona Giro-Tour. A quel punto le alternative sono due: sperare in una sua foratura a 500 m dall’arrivo (500 m non prima se no fa in tempo a rientrare e vincere). Mandare tutti a quel paese, imprecando perché lui sia anche qui, ed entrare nella classica osteriaccia bolognese e finire la stagione a tagliatelle col ragù e sangiovese. Qualsiasi decisione uno prenda…lui vincerà lo stesso!!».

Evenepoel, Roglic e in mezzo Pogacar: con quale spirito gli altri due erano al via dell’Emilia?
Evenepoel, Roglic e in mezzo Pogacar: con quale spirito gli altri due erano al via dell’Emilia?

Il solo fenomeno

Il giorno dopo la Strade Bianche prendemmo parole per il titolo di un altro editoriale: «Il fenomeno è solo uno, si chiama Pogacar». Lo sloveno era alla prima corsa 2024 e se la aggiudicò con 81 chilometri di fuga solitaria. Sette mesi dopo, avuta la conferma del teorema di partenza, ci troviamo alle prese con un’imbarazzante sensazione di troppo. Non perché sia troppo il vincere dello sloveno o troppo il gap rispetto agli avversari. I numeri ipotizzati giorni fa con Pino Toni, sia pure con criterio empirico che potrebbe essere ridimensionato dalla realtà dei dati, mostrano che contro uno così c’è davvero poco da fare. Contro lui e anche qualcun altro della sua squadra. «Siamo all’Agostoni per vincere – diceva ieri mattina Roberto Damiani – e per fortuna Pogacar non c’è. Il guaio però è che ci sono Hirschi e Christen».

Quando lo svizzero ha vinto la corsa, quelle parole sono risuonate profetiche. Hirschi il prossimo anno andrà via con destinazione Tudor Pro Cycling. Sarà interessante vedere se il cambio di ambiente e di allenatori lo rallenterà o se continuerà in questa meravigliosa scia di vittorie. Il UAE Team Emirates è più che mai la squadra numero uno al mondo ed è così evidentemente in ogni suo comparto.

Strade Bianche, 81 chilometri di fuga e vittoria: il portentoso 2024 di Pogacar era iniziato così
Strade Bianche, 81 chilometri di fuga e vittoria: il portentoso 2024 di Pogacar era iniziato così

Tadej come Binda

Il senso del troppo di cui parlavamo poc’anzi si è riverberato in un pensiero forse poco sportivo durante la cavalcata di Pogacar sul San Luca: lo abbiamo trovato noioso, come se ormai lo stupore si stia affievolendo. Ammettiamo che il suo non essere italiano potrebbe aver contribuito a quella sensazione. Se al suo posto ci fosse stato Piganzoli, saremmo stati per tutto il tempo a incitarlo. Ma forse dopo un anno intero di Piganzoli solo al comando, da amanti del ciclismo e non tifosi di qualcuno in particolare, avremmo avuto la stessa reazione (Piga, tu intanto provaci, poi con la noia facciamo i conti!). E allora c’è venuto in mente quanto accadde con Binda nel 1930.

A causa della sua superiorità, il campione di Cittiglio fu pagato dagli organizzatori per non partecipare al Giro. Gli promisero 22.500 lire, una somma che copriva la vittoria finale più alcune tappe. Binda accettò e ottenne anche il permesso di partecipare ad alcuni circuiti contemporanei al Giro. Così con gli ingaggi raddoppiò la somma ottenuta per non partecipare. Poi andò al Tour, il primo per squadre nazionali, ma dopo una caduta e due tappe vinte, si ritirò. Quando gli fu chiesto il perché, disse che non aveva ancora ricevuto i soldi del Giro. Glieli diedero alla vigilia del mondiale di Liegi, che Binda ovviamente vinse.

Alfredo Binda, 5 Giri, 3 mondiali, 4 Lombardia, nel 1930 fu pagato per non correre il Giro (foto Wikipedia/Mondonico Collection)
Alfredo Binda, 5 Giri, 3 mondiali, 4 Lombardia, nel 1930 fu pagato per non correre il Giro (foto Wikipedia/Mondonico Collection)

La superiorità di Pogacar non ricorda quella di Merckx, cui tanti lo stanno accostando, quando piuttosto quella di Binda. Al giorno d’oggi pare che il Giro paghi i corridori perché vengano al Giro, non certo per lasciarli a casa. Pur continuando a pensare che il fenomeno sia solo lui, speriamo anche che i rivali, da Vingegaard a Evenepoel, passando per Van der Poel, Van Aert e Hirschi, trovino gli argomenti per avvicinarsi un po’. Altrimenti più che di strapotere, sentendoci come quelli cui non va mai bene niente, con una punta di bonaria invidia per gli amici sloveni, bisognerà iniziare a parlare di una simpatica dittatura.