Il Manghen, le sfide, la scuola. Quanto spinge il piccolo Andreaus

09.02.2025
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La sua casa si trova quasi ai piedi del Passo Manghen, la salita che nell’immaginario di chiunque sia nato a Borgo Valsugana e sogni di fare strada con la bicicletta rappresenta il confine fra diventare grandi o restare piccoli. La prima volta che Elia Andreaus ha salito il gigante della Valsugana aveva 15 anni. Arrivò in cima con Thomas Capra e i compagni del Veloce Club Borgo e oggi, a tre anni di distanza, il suo sogno sta per diventare realtà.

Dal Team Giorgi, in cui ha corso il secondo anno da junior, la sua strada ha incrociato quella del CTF Friuli, divenuto nel frattempo Bahrain Victorious Development Team, In cui ha ritrovato suo fratello Marco: tre anni di più. Eppure, nonostante sia tutto più grande, Elia mantiene i piedi per terra. Va a scuola, si allena in bici e vive i 18 anni come è giusto che siano. Chi lo conosce meglio lo descrive come un vulcano che non sta mai fermo. Va a pesca e va a sciare, ricorda l’esplosività di Trentin prima che Matteo diventasse saggio e sul lavoro è una macchina da guerra. Grande motore, grandi mezzi e il gusto di battere sulle salite i record altrui. Lo sentiamo nel pomeriggio al termine di un allenamento, nella routine di tutti i giorni che lo vede uscire di scuola alle 12,20, andare rapidamente a casa che per fortuna non è distante e partire con la bici alle 13,30.

«Adesso si stanno allungando le giornate – sorride – il problema c’è a novembre e dicembre. Di questi tempi si fanno anche tre ore con la luce, che è buono. E tutto sommato andare in bici dopo scuola va bene, in certi giorni serve anche per sfogarsi».

Elia Andreaus, classe 2006, ha corso fino allo scorso anno nel Team Giorgi
Elia Andreaus, classe 2006, ha corso fino allo scorso anno nel Team Giorgi
Con l’ingresso nel devo team le cose stanno cambiando?

Eh sì, l’anno scorso ero abituato molto bene al Team Giorgi. Non ci facevano mancare nulla, però adesso è tutto più organizzato. Siamo seguiti di più, alla fine è come essere professionisti. Si sapeva che sarebbe diventato un devo team, era nell’aria.

Quanto è stato brusco il passaggio da junior a under 23?

Rispetto all’anno scorso l’impegno è cresciuto. Faccio più ore, però allo stesso tempo riesco a conciliare scuola e bici senza problemi. Ovviamente se la domenica devo fare cinque ore, sabato sera non esco con gli amici, anche se ogni tanto vado lo stesso (ride, ndr). Credo che fino all’esame di maturità mi terranno un po’ tranquillo, poi sicuramente le ore aumenteranno. Da luglio si farà sul serio.

Qualche mese fa ci hai spiegato di avere un tutor scolastico: è ancora così?

Sì, ce l’ho dalla seconda superiore, perché in prima non si poteva avere. Comunico i giorni in cui ci sono impegni sportivi e i professori mi vengono incontro per le ore di assenza, che non vengono conteggiate. Anche le verifiche e le interrogazioni si possono programmare. Ad esempio dal 14 al 21 febbraio sarò in ritiro con la squadra a Udine. L’ho comunicato agli insegnanti già da tempo e quindi abbiamo concordato che le verifiche e le interrogazioni di quella settimana le recupererò dopo il rientro.

Da quest’anno, Andreaus corre nel Bahrain Victorious Development Team: 15 atleti, 8 italiani
Da quest’anno, Andreaus corre nel Bahrain Victorious Development Team: 15 atleti, 8 italiani
Ti aspettano e ti mettono sotto il giorno stesso che torni a scuola?

No, quello no. Non è che torno dal ritiro e il giorno dopo mi interrogano. Mi accordo con gli insegnanti e stabiliamo quando fare ogni cosa. Da quel punto di vista quasi tutti i professori mi vengono incontro, sono fortunato.

La squadra comincia da Rodi, quando è previsto il tuo debutto?

Non in quella trasferta, perché fra una cosa e l’altra prende quasi 20 giorni. Io non so ancora dove e quando partirò, in teoria potrei cominciare alla Popolarissima, che è il 16 marzo. Poi forse farò alcune corse in Slovenia la settimana dopo, ma penso che conoscerò a breve il calendario definitivo. Non so se ci saranno corse con i professionisti, si vedrà in base a come si sviluppa la stagione.

Squadra nuova, chi segue la tua preparazione?

Da quest’anno ho iniziato a lavorare con Alessio Mattiussi, che segue anche altri corridori del devo team. Invece nell’ultimo anno e mezzo, ero allenato da Paolo Alberati e seguito come procuratore da Fondriest. Maurizio per me che sono trentino è una figura di riferimento. Quando usciamo in bicicletta, quelle due o tre volte all’anno, nonostante la sua età si vede che va forte. Adesso ovviamente le cose sono un po’ cambiate, magari gli tiriamo un po’ noi il collo o almeno lui ci dice così.

E’ il 17 giugno 2021, Elia ha 15 anni e conquista il Manghen con Thomas Capra
E’ il 17 giugno 2021, Elia ha 15 anni e conquista il Manghen con Thomas Capra
Che posto è Borgo Valsugana per fare ciclismo?

Per allenarsi è il top, anche se in inverno è dura: ad esempio durante le vacanze di Natale, partivo la mattina alle 10 e c’erano 7 gradi sotto zero. Però in estate è il massimo, perché la mattina ad agosto parti con 18 gradi e ti alleni per tutto il giorno al fresco e comunque non al caldo come in altre parti.

Quali sono le tue salite preferite intorno casa?

Mi piace Panarotta, che prendi a Levico, a 15 chilometri da Borgo. Poi c’è il Manghen, che è forse è la più iconica che abbiamo qua. Se vado su in cima, poi scendo dall’altra parte e faccio la distanza. Sono proprio dei bei posti.

Qual è un obiettivo raggiungibile per questo primo anno da U23?

A livello di risultati, almeno fino all’esame di maturità, non mi pongo grandi obiettivi. Semmai mi piacerebbe capire che tipo di corridore sono e ovviamente vorrei crescere il più possibile. Si vedrà strada facendo, anche perché non ho idea di quanta differenza di livello ci sia fra juniores e under 23.

La prima vittoria 2024 di Elia Andreaus è stata la Piccola Liegi, seguita da altri 4 successi
La prima vittoria 2024 di Elia Andreaus è stata la Piccola Liegi, seguita da altri 4 successi
Ti alleni mai con tuo fratello Marco?

Allenarci insieme non capita spessissimo, perché lui ha finito la scuola, quindi può uscire la mattina. Magari capita di farlo nel weekend e usciamo insieme anche a Thomas Capra, che vive qui vicino.

Qual è la cosa che meno ti piace dell’allenamento?

Quando il mese è brutto e magari inizia a piovere o fa freddo, ma dipende dalla temperatura. Se è sotto zero, sinceramente il primo giorno sto al caldo, magari faccio un po’ meno o faccio un po’ di rulli o posticipo il lavoro al giorno dopo. Se invece ci sono 5 gradi e magari pioviggina, si esce ugualmente. Anche sabato scorso ho fatto 4 ore sotto l’acqua. Il vero problema non è tanto essere bagnati, quanto prendere freddo.

Qual è invece la cosa più bella dell’allenamento?

Sfogarsi e poter mangiare di tutto. Mangiare quello che si vuole dopo tante ore di bici è uno dei piaceri della vita…

Felline racconta il suo Savio: nonno, manager e punto di riferimento

09.02.2025
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LALLIO – Certi articoli ti capitano tra le mani, delicati come fossero fatti di cristallo. Mentre Fabio Felline ritirava le sue nuove biciclette al Trek Store in provincia di Bergamo ci si rendeva conto di come il torinese fosse in procinto di cambiare vita. Durante quella mattinata l’ex corridore professionista faceva fatica a distaccarsi dal modo di parlare degli atleti. D’altronde non si può pretendere di voltare pagina nella propria vita come se si fosse davanti a un libro. Tante volte si usa questa metafora quando si vuole dire che una persona è davanti a un grande cambiamento. La vita, però, non gira pagina ma continua tenendo ben saldo quanto si è scritto in precedenza

L’Androni Giocattoli è stata la squadra di Gianni Savio, che ha lanciato tanti corridori italiani, qui con Cattaneo
L’Androni Giocattoli è stata la squadra di Gianni Savio, che ha lanciato tanti corridori italiani, qui con Cattaneo

L’animo torinese

Il destino poi a volte si mette di traverso, decidendo di metterti alla prova in maniera definitiva. Così nell’inverno che lentamente ha decretato l’addio di Felline al ciclismo agonistico si è aggiunta anche la perdita di un punto di riferimento: Gianni Savio. Il “Principe” era diventato un punto saldo nella vita di Fabio Felline e del ciclismo italiano. Per anni la sua figura ha rappresentato il ponte attraverso il quale speranze di corridori provenienti da terre lontane si sono aggrappate per cercare un posto nel ciclismo che conta. Savio per Felline è stato prima un nome lontano, poi un team manager e infine cognato e nonno.

«Gianni – racconta Felline in un angolo dello store – l’ho conosciuto quando ero un bimbo, poi il nostro rapporto di lavoro si è concretizzato tra il 2011 e il 2012 dopo la chiusura della Geox-TMC Transformers, squadra in cui correvo appena passato professionista. Durante quell’inverno avevo voglia di tornare a una dimensione più piccola di ciclismo, nonostante avessi la possibilità di andare alla Liquigas. Scelsi, invece, di correre all’Androni Giocattoli con Gianni (Savio, ndr) che era la squadra di Torino e di un manager torinese».

Non solo italiani, l’Androni è stata il trampolino di lancio per tanti atleti sudamericani, qui Savio con Bernal
Non solo italiani, l’Androni è stata il trampolino di lancio per tanti atleti sudamericani, qui Savio con Bernal
Che anni sono stati per te?

Di quelle stagioni ho ricordi molto belli, sono riuscito a vincere quattro corse e, cosa più importante, mi sono trovato benissimo. Sono stati due anni cruciali, che mi hanno permesso di spiccare il volo verso le grandi squadre. Da lì è iniziato il mio percorso di sei anni in Trek, poi è arrivata la parentesi dell’Astana e ancora la Trek.

Cosa ti ricordi del vostro primo incontro?

Appena l’ho conosciuto ho avuto l’impressione di aver davanti un signore, di quelli che oggigiorno ce ne sono sempre meno. Si è dimostrato subito una persona di parola. La prima volta che lo vidi nell’inverno del 2011 gli dissi che sarei voluto entrare nella sua squadra. Lui mi chiese qual era il mio contratto e in nemmeno una settimana mi fece una proposta di pari livello. Avrebbe potuto farla a ribasso ma visto che alla Geox avevo firmato un contratto triennale decise di rispettarlo.

Che team manager era?

Super positivo, grintoso. Il suo motto era, prima di partire, “cattivi e determinati”, ovviamente in senso agonistico. La cosa bella era che non si abbatteva mai, cercava sempre di vedere il bicchiere mezzo pieno. Non l’ho mai visto fare una scenata davanti ai corridori, piuttosto ti prendeva da parte e ti parlava faccia a faccia. Savio era una persona in grado di gestire perfettamente i rapporti umani e di lavoro, caratteristica che lo ha reso impeccabile.  

Anni dopo è tornato nella tua vita, ma in vesti differenti.

Tra la fine del 2016 e l’inizio del 2017 ho incontrato sua figlia, Nicoletta. Sapevo che Gianni avesse una figlia ma fino a quel momento non avevo mai avuto modo di conoscerla. Da lì si è creata quella che è stata la nostra storia personale: una famiglia con un piccolo che si chiama Edoardo, e Gianni che era suo nonno.

Qui Savio con la famiglia, a sinistra la figlia Nicoletta, compagna di Felline
Qui Savio con la famiglia, a sinistra la figlia Nicoletta, compagna di Felline
Dal lato familiare che “Savio” hai conosciuto?

La cosa bella è che uno nel mondo della bici lo mitizzava un po’, lui era il “Principe”. Invece era una persona da scoprire, con le sue manie ma anche le sue cose semplici. Aveva un rapporto stupendo con gli animali, di rispetto. Piccole cose che ti fanno capire l’animo buono, come andare a trovare e dar da mangiare al cavallo di sua figlia Nicoletta. Aveva anche una grande passione per i cani. Se in casa trovava una formica o un ragno non li schiacciava, ma prendeva un pezzo di carta per farli passare sopra e metterli fuori dalla finestra. 

Qual è l’aspetto più bello della persona che ti porti un po’ anche dietro?

Che non si lamentava mai, non demordeva mai, a volte quasi ti infastidiva (ride, ndr) e ti chiedevi come fosse possibile che non avesse mai un problema. Aveva sempre questo lato positivo, ed è una cosa che mi ha sempre colpito perché, al contrario, io sono più brontolone. A volte anche Nicoletta mi diceva: «Dovresti prendere da mio papà sotto certi aspetti». E in qualche modo ho sempre cercato di farlo. 

Il lato “nascosto” di Gianni Savio, nonno amorevole. Qui con il piccolo Edoardo
Il lato “nascosto” di Gianni Savio, nonno amorevole. Qui con il piccolo Edoardo
Invece dal lato ciclistico com’è cambiato il vostro rapporto negli anni? 

Era super rispettoso, se avevo voglia di parlare lui c’era, altrimenti non si intrometteva. In passato gli ho chiesto dei consigli, anche aiuto quando ne ho sentito il bisogno. Però non era mai una figura invasiva, ma una porta a cui bussare.

C’è stato un momento in cui hai avuto l’esigenza di bussare a quella porta?

Sì, tante volte. Anche solo a fine del 2024 quando non sapevo bene cosa fare. Savio fino all’ultimo mi ha dato una mano, cercando una soluzione, oppure anche con una parola di conforto per farmi vedere il bicchiere mezzo pieno, come solo lui era capace di fare. E’ una persona che manca e che secondo me mancherà sempre di più.

La chiusura della Drone Hopper è stato un duro colpo per il “Principe”
La chiusura della Drone Hopper è stato un duro colpo per il “Principe”
Hai corso con lui in Androni, squadra che poi ha chiuso nel 2022 è stato un colpo duro?

Mi è dispiaciuto perché quella squadra è sempre stata un po’ la sua ragione di vita, nel ciclismo. Quindi sicuramente vedevi che, nonostante lui abbia sempre mantenuto la sua proverbiale positività, era un uomo che dentro di sé era stato ferito. il progetto era continuato con la Petrolike, peccato che non abbia potuto continuare a viverlo.

Il ricordo di Gianni che ti porti dentro?

Dal lato personale certi consigli dietro le quinte, quando ti diceva determinate cose. Ma quelli li voglio tenere per me. Però sapeva trovare il momento giusto per dirti qualcosa, e quando lo faceva il suo consiglio o la sua parola prendevano un valore incredibile. 

Da ciclista, invece?  

D’inverno capitava che mi dicesse: «Fabio, andiamo a berci una cioccolata calda?». Solo perché voleva parlarmi e chiedermi come andasse la vita, per sapere se tutto fosse in ordine. Cose d’altri tempi che nessun manager fa più. Quelli sono i comportamenti e le attenzioni per i quali rimarrà un personaggio unico.

Prima salita, prima vittoria: una Longo Borghini extra lusso

08.02.2025
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Stamattina si scherzava tramite messaggi sul fatto che oggi sarebbe stata una tappa importante, per cui quando finalmente riusciamo a parlare con Elisa Longo Borghini della vittoria appena messa in tasca a Jebel Hafeet, il suo tono di voce è allegro come di chi ha svolto correttamente l’espressione di algebra e alla fine è arrivato al giusto risultato.

Il trasferimento dopo l’arrivo è lungo un paio d’ore, c’è il tempo per raccontare e commentare le gare dei giorni scorsi. La nuova Colnago Y1Rs usata nelle tappe veloci e la V4Rs di oggi. Due anni fa, sulla stessa salita la campionessa italiana aveva vinto davanti alla compagna Gaia Realini, ma oggi è arrivata da sola facendo il forcing decisivo a 3,5 chilometri dalla vetta.

«Fa certamente un bell’effetto – dice e la sentiamo sorridere – perché è la prima vittoria in maglia UAE e per giunta qui in UAE. Loro ci tengono molto e oggi le ragazze sono state veramente eccezionali. Con Silvia (Persico, ndr) abbiamo fatto una grande dormita e siamo rimaste fuori dal ventaglio, però Backstedt ci ha aspettato e ci ha riportato dentro in un secondo. Il piano a quel punto era chiaro: toccava alle altre staccarmi, mentre io avrei cercato di vincere la tappa».

Prima vittoria in maglia UAE Team Adq per Longo Borghini e per giunta in UAE: doppio colpo
Prima vittoria in maglia UAE Team Adq per Longo Borghini e per giunta in UAE: doppio colpo

Una vittoria di squadra

Ce lo aveva raccontato prima di sparire sul Teide. Un primo ritiro per arrivare pronta nella corsa degli Emiri che da quest’anno sono i suoi datori di lavoro. Dai tre gradi sotto zero di Ornavasso alle scaldate sulle Canarie e poi il volo per il deserto. Il UAE Team Adq è arrivato in UAE il primo febbraio e le ragazze hanno avuto il tempo per acclimatarsi.

«Avevo delle belle sensazioni – prosegue Elisa – e sapevo di stare bene. Il ritiro al Teide è andato bene e, nonostante difficilmente si sbilanci, quando ho sentito Slongo dire che avrei potuto fare bene, ho capito che avevo le gambe giuste. E io ci tenevo, io voglio sempre vincere. Per me, per la squadra, per le mie compagne. E’ stata proprio una vittoria di squadra, nel senso che mi sono imposta di forza ma dopo un grande lavoro delle mie compagne. Adesso spero di poter mantenere questa condizione in vista delle delle classiche».

I ventagli al mattino potevano complicare il compito delle ragazze UAE
I ventagli al mattino potevano complicare il compito delle ragazze UAE

La corsa di casa

Per il UAE Team Adq è un risultato per il quale brindare, sia pure con bevande analcoliche, come prescrive la religione di laggiù. Già nel ritiro di Benidorm si era capito che fare bene al UAE Tour Women sarebbe stato il modo migliore per cominciare la stagione, allo stesso modo in cui toccherà presto a Pogacar cercare di imitare la Longo.

«Sin dall’inizio – sorride – ci hanno detto chiaramente che questa era la corsa di casa e che dovevamo fare bene. E’ ovvio, non chiedono di vincere, però di far vedere e onorare la maglia. Penso che sia anche giusto, visto che è l’unica corsa che facciamo in Medio Oriente. Tutti gli sponsor sono di qui e anche per questo sono contenta di aver tagliato il traguardo per prima, perché è un modo per ripagare la fiducia che mi hanno dato».

Il calore dall’asfalto

Non si pensi che sia stato facile. Distanza di 152 chilometri. Vento e ventagli in pianura. Caldo. E poi la salita finale di quasi 15 chilometri fino a 1.000 metri di quota, che hanno fatto assestare la media di gara sui 38,560 orari.

«Questa salita fa tanta selezione – spiega Longo Borghini – perché non c’è un metro di ombra ed è come salire in una cappa di caldo. Per cui, se fai troppi fuori giri li paghi, perché senti il calore arrivare dall’asfalto. E’ un po’ come quando fai le salite in estate, in piena estate, a mezzogiorno. Noi siamo riuscite a gestirla bene e ne sono orgogliosa. Mi sono ritrovata in un gruppo che crede tanto in me e questo mi dà un sacco di motivazione. Anche le ragazze, credendoci molto, danno il 110 per cento. Oggi mi sono sempre state vicine. Aspettare le mosse delle altre poteva essere un rischio, però a volte devi rischiare per cercare di vincere le corse».

Il UAE Tour Women è la corsa di casa per la squadra emiratina: un obiettivo dichiarato da tempo
Il UAE Tour Women è la corsa di casa per la squadra emiratina: un obiettivo dichiarato da tempo

Il doppio Teide

Domani l’ultima tappa: un piattone di 145,5 chilometri avanti e dietro, con mille curve per la marina di Abu Dhabi, ma senza dislivello. Poi sarà il tempo di tornare in Europa, dove la attende un’altra sorpresa.

«Finita la corsa – spiega Elisa – rimarremo un giorno qui in UAE per visitare degli sponsor e rientreremo in Italia l’11 febbraio. Farò qualche giorno tranquilla a casa e finalmente incrocerò mio marito Jacopo (Mosca, ndr) che non vedo dal 9 di gennaio quando è partito per l’Australia. Lui poi ripartirà il giorno di San Valentino per la Figueira Champions Classic e a seguire l’Algarve, mentre io tornerò sul Teide e preparerò gli appuntamenti di marzo, con la Strade Bianche come prima corsa. E’ la prima volta che vado sul Teide per due volte così ravvicinate a inizio stagione. E’ una decisione della squadra che sta investendo anche su questo, per cui sarò su con due compagne e ovviamente ci sarà anche l’immancabile Slongo. Ma facciamo un passo per volta. Cominciare così è un bel modo di affrontare il resto, sono contenta. Ci vediamo al ritorno in Europa».

Due super biker in gruppo: Hatherly e Pidcock. Palla a Celestino

08.02.2025
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In questo ciclismo stellare e fatto di super campioni, ci sono storie tecniche che fanno esaltare gli appassionati. Recentemente all’AlUla Tour si sono scontrati due grandissimi della mtb. Ma come, direte voi, due biker in una gara su strada? Oltre a Tom Pidcock, che tra l’altro ha vinto l’intera gara, c’era Alan Hatherly, sudafricano passato nelle fila della Jayco-AlUla.

Con Mirko Celestino, cittì della nazionale di mtb e grande ex sia delle ruote grasse che della strada, abbiamo fatto un paragone tra i due. Un confronto che ci ha consentito di conoscere meglio Hatherly. Alla fine, nel discorso è stato chiamato in causa, seppur marginalmente, anche Mathieu Van der Poel, ma il confronto con Celestino ha messo in evidenza ancora una volta la bellezza del ciclismo quando si ha a che fare con dei veri campioni del pedale. Questa commistione tra strada e mtb resta, e forse diventa sempre più, affascinante.

Mirko, un altro grande biker che passa su strada. Che tipo di atleta è Hatherly e che stradista può diventare?

Alan Hatherly è sempre stato un atleta di alto livello, ma quest’anno ha fatto il vero salto di qualità. Quando raggiungi certi risultati significa che hai maturato una crescita sia fisica che mentale che ti rende pronto per qualsiasi sfida. Io condivido questa sua scelta di provare la strada. Alla fine, sappiamo che per molti biker il sogno è la strada, quindi se c’è la possibilità è giusto provarci.

Chiaro…

Abbiamo visto alcuni tentativi falliti o non super, come quello di Nino Schurter o più recentemente di Victor Koretzky, tornati entrambi alla mtb. Ma ogni atleta ha una storia a sé. La mtb e la strada sono due mondi diversi. Personalmente, se dovessi tornare indietro, rifarei la stessa scelta: prima la strada, poi la mtb. Ma sono stato felice di aver cambiato disciplina a 33 anni, perché ho potuto capire le differenze tra i due mondi.

Secondo Pinotti, Hatherly potrebbe essere adatto anche alle cronometro (ha vinto il titolo nazionale). Ha le doti per emergere in questa specialità?

Un biker ha un’esplosività naturale che può tornare utile nelle cronometro, nei prologhi e nelle tappe in cui si parte subito forte. La mtb non lascia spazio a calcoli: devi partire a tutta e arrivare più forte possibile. Questo può essere un vantaggio su strada. Insomma, non è così strano che un biker vada bene a crono. Gli atleti della mtb sono abituati a pedalare da soli, a sostenere un impegno costante. Non so dire con certezza come potrebbe cavarsela su una crono lunga, ma in un prologo o in una crono breve potrebbe dire la sua.

Confrontando Pidcock e Hatherly, che differenze tecniche e fisiche ci sono tra i due?

Sono entrambi molto capaci tecnicamente, ma Pidcock ha impressionato di più, perché pur facendo poche gare di mtb riesce a fare la differenza anche sul tecnico. Sotto questo aspetto lo vedo più forte persino di Van der Poel e di molti biker puri.

E Hatherly invece?

Alan non è mai stato un biker da acrobazie estreme, non è mai stato il più spettacolare, ma ha altre doti. Quest’anno ha dimostrato di avere un’accelerazione sugli strappi e una progressione notevole. Per questo lo vedrei bene anche su strada, perché ha caratteristiche simili a Pidcock.

Tra i due, chi è più scalatore?

Pidcock senza dubbio è più adatto alle montagne. Hatherly ha più esplosività e forza. Posto che comunque sono relativamente simili, anche se il sudafricano è un po’ più alto (8 centimetri, ndr).

Se dovessi paragonare Hatherly a un corridore su strada, a chi lo accosteresti?

Fatte le dovute proporzioni, cosa che va premessa, direi che ha caratteristiche che lo avvicinano a Van der Poel. Ha esplosività e forza, mentre Pidcock è scattante ma anche è più scalatore.

E mentalmente, come li sembrano? Come li hai visti quando erano sul campo di gara?

Come diciamo in gergo, Pidcock ha più “carogna”, più cattiveria agonistica: lo abbiamo visto anche alle Olimpiadi di Parigi e come è entrato su Koretzky nell’ultimo giro. Hatherly non ha paura di nessuno, è maturo e sicuro di sé, ma in generale mi sembra più tranquillo.

Vista questa sua “bonta”, l’adattamento al gruppo potrebbe essere un problema per lui?

Credo di sì, ma non solo per il suo carattere. Il problema principale per un biker che passa su strada è proprio la gestione dello stare in gruppo. Non è questione di incapacità, ma di abitudine e di starci alle alte velocità. In mtb non hai il problema di stare nel gruppo a 50 all’ora. Io, quando sono passato alla mtb, faticavo nelle parti tecniche, ma in discesa su sterrati larghi e quindi più veloci staccavo tutti. Hatherly dovrà imparare a limare, a stare in gruppo, a sfruttare il vento e a risparmiare energie. Il vento poi… non è cosa scontata, sono quei trucchetti che s’imparano da ragazzi.

In tal senso Pidcock è avvantaggiato perché ha sempre fatto tutte e tre le specialità: ci mettiamo anche il cross…

Sicuro, e in fatti si vede che non ha problemi tecnico-tattici in nessuna disciplina e in nessuna situazione. Hatherly passerà da gare di un’ora e un quarto a gare di cinque ore. Pensiamo a Van der Poel, all’inizio, si spegneva nelle corse lunghe, perché non aveva ancora trovato il giusto ritmo e la corretta alimentazione. Questo sarà il vero banco di prova per Hatherly.

A proposito di Van der Poel, allarghiamo il confronto per un attimo anche a lui: l’olandese è potenza pura, l’inglese ha una tecnica sopraffina e una buona potenza. Il sudafricano dove si colloca?

Hatherly ha un gran motore, ma al momento si colloca un gradino sotto gli altri due. Se dovessi esprimere un giudizio per il futuro, potrebbe diventare un gregario di lusso, un braccio destro di un capitano importante. Non lo vedo ancora un fuoriclasse su strada, perché per arrivare a certi livelli ci vogliono anni di adattamento. Però è un ottimo atleta, sia chiaro…

Il bronzo di Grigolini, travolto dalla festa di Mattia

08.02.2025
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C’era anche lui, sul podio di Lievin. Certo, forse tanti guardavano al centro, a Mattia Agostinacchio con la sua sgargiante maglia arcobaleno, ma al suo fianco faceva bella mostra di sé anche la medaglia di bronzo di Filippo Grigolini. In un’altra edizione quell’impresa avrebbe forse avuto ben altra eco, in quegli anni di vacche magre per il ciclocross italiano. Ma forse proprio quel bronzo arrivato in quella che è stata un’autentica festa azzurra assume un significato ancora maggiore.

Il podio mondiale con il friulano al fianco dell’amico-rivale Agostinacchio e del francese Bruyere Joumard
Il podio mondiale con il friulano al fianco dell’amico-rivale Agostinacchio e del francese Bruyere Joumard

A distanza di qualche giorno, quel che si nota parlando con Filippo è come un cambiamento in atto, la consapevolezza di quel che davvero vale e può fare. D’altronde, alla vigilia del mondiale anche lui ambiva a un posto sul podio e averlo centrato è sinonimo di grande qualità.

«Io sapevo che poteva essere nelle mie corde, sono partito con quell’ambizione. E non mi sono scoraggiato neanche quando al secondo giro sono caduto. Ero 12°, stavo risalendo, ho dovuto ricominciare tutto da capo. Ma non mi sono lasciato andare, mi sono detto che potevo ancora rimettere a posto i pezzi del puzzle, c’era tempo».

Per Filippo il finale di mondiale è stato molto duro, ma a dispetto della stanchezza ha vinto il duello con Noval
Per Filippo il finale di mondiale è stato molto duro, ma a dispetto della stanchezza ha vinto il duello con Noval
Una medaglia vinta quindi innanzitutto di testa…

Io penso di sì, la concentrazione è stata l’elemento in più. Dopo la caduta non ho più commesso errori tecnici, perché una caduta è sempre figlia di un errore di guida. Sono andato avanti sapendo che la corsa era ancora lunga e si poteva arrivare dove volevo.

Che gara è stata, diversa dalle altre che hai effettuato all’estero in questa stagione?

Non direi, gli avversari ormai impari a conoscerli dopo le varie prove di Coppa del Mondo e aver seguito la challenge è stata secondo me fondamentale per i nostri risultati. Sai che si parte sempre a tutta, che molto si gioca già all’inizio e non devi perdere il treno dei più forti. E soprattutto che devi stare lì con la testa prima di tutto.

A Benidorm (ESP), nella prova di Coppa prima del mondiale Grigolini aveva chiuso 6°, ma in grande crescita
A Benidorm (ESP), nella prova di Coppa prima del mondiale Grigolini aveva chiuso 6°, ma in grande crescita
Tu sei stato anche davanti, a vedere da vicino la leadership. Ci hai sperato?

Per un attimo, quando il francese è caduto. Io ero dietro con Mattia e lo spagnolo, a quel punto ero secondo, lo vedevo poco davanti. Ma poi sentivo che ero affaticato, che la stanchezza si faceva sentire e dovevo sapermi gestire. Quando Mattia è partito non avevo le gambe per tenerlo, ho pensato che dovevo badare all’iberico per giocarmi il podio e così è stato.

Mattia primo, tu terzo, Patrick Pezzo Rosola che senza la caduta sarebbe stato anche lui a lottare per le prime piazze. Quanto ha contato essere abituati a confrontarvi fra voi?

Io credo che sia stato decisivo, perché ogni gara nazionale era tirata. Lo abbiamo capito dopo che Mattia ha vinto l’europeo, se io finivo secondo vicino a lui significa che anche fra gli stranieri erano pochi a quel livello. Mattia è stato uno stimolo continuo, credo di essere cresciuto molto insieme a lui.

Grigolini si era già messo in luce al Giro delle Regioni, ha vinto il Guerciotti ed è salito sul podio tricolore
Grigolini si era già messo in luce al Giro delle Regioni, ha vinto il Guerciotti ed è salito sul podio tricolore
Sui social hai raccontato l’emozione vissuta il giorno prima, allenandoti con Mathieu Van der Poel…

Sì, è stato qualcosa di magico essere al suo fianco, vederlo da vicino io che ero abituato ad ammirarlo in Tv. Dal vivo fa ancora più impressione, lo vedi imponente, che trasuda potenza. Ti dà la sensazione dell’invincibilità. Siamo stati vicini un giro, tenergli la ruota è stata una sensazione enorme.

Ora la stagione è finita e ti attende la strada, che per te è un po’ una novità visto il tuo passato, anche tricolore nella mountain bike.

Nel 2024 ho fatto una decina di gare, ma mi sono divertito più lì che nelle prove offroad. Voglio provarci per quello, mi attira di più, voglio vedere dove posso arrivare anche sull’onda di questa nuova consapevolezza. Entro in un team di primo livello come il Borgo Molino, io parto per divertirmi innanzitutto, poi vedremo che cosa uscirà fuori.

Su strada il friulano nel 2024 ha corso da allievo, centrando quasi sempre la Top 10 con il 3° posto alla Julium Classic
Su strada il friulano nel 2024 ha corso da allievo, centrando quasi sempre la Top 10 con il 3° posto alla Julium Classic
E’ chiaro però che ora le aspettative su di te sono aumentate…

Lo so, ma devo intanto capire che corridore sono e posso essere. Io credo di avere caratteristiche da passista-scalatore, ma le salite mi piacciono tanto e voglio scoprire soprattutto lì quali possono essere i miei limiti considerando anche la mia leggerezza fisica, ideale per quel tipo di percorsi.

Ti hanno fatto feste a casa?

I miei genitori erano lì, quando sono arrivato li ho visti ed erano anche più emozionati ed entusiasti di me. Loro mi hanno sempre favorito e appoggiato su tutto, mi hanno sempre incoraggiato a fare quello che volevo. Questa medaglia è anche un po’ loro, non potrò mai ringraziarli abbastanza. So che non è facile sapere che tuo figlio si allena su strada, soprattutto al giorno d’oggi, ma io sono sempre molto attento. Pedalo prevalentemente sulle strade che da Udine portano verso Gemona e Buja, uso sempre le luci, faccio grande attenzione. Ma è la mia vita e loro questo lo rispettano.

Costruiamo il velocista con Fusaz: potenza, endurance e testa

08.02.2025
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La vittoria allo sprint di Davide Stella al Tour of Sharjah, primo successo azzurro del 2025, è stata una delle prime sorprese positive della stagione. Il velocista del UAE Team Emirates Gen Z è appena passato under 23 e ha già trovato modo di mettersi alle spalle corridori più esperti. Non di certo un parterre di primi della classe ma in pochi, forse nemmeno lo stesso Stella, avrebbe immaginato di iniziare così la sua avventura nel devo team emiratino. 

Parlando con Giacomo Notari, preparatore dei ragazzi alla UAE Gen Z, è emerso che Stella nel ritiro di dicembre già dava del filo da torcere a velocisti del calibro di Molano. Lo stesso coach non si era detto troppo sorpreso, sottolineando però come il processo di crescita fosse ancora lungo. 

Davide Stella e la volata al Tour of Sharjah che gli è valsa la prima vittoria con la UAE Team Emirates Gen Z (foto Tour of Sharjah)
Davide Stella e la volata al Tour of Sharjah che gli è valsa la prima vittoria con la UAE Team Emirates Gen Z (foto Tour of Sharjah)

Resistenza

Abbandonando le gesta sportive dello sprinter e del pistard azzurro ci siamo interrogati più ad ampio raggio. La domanda che ci frullava per la testa era: “come si costruisce un velocista?”. Siamo così andati a parlare con Andrea Fusaz, allenatore della Bahrain Victorious, per allargare il discorso e capire come si lavora per far emergere le qualità di un grande sprinter. 

«Vero – ci dice subito – un ragazzo di 18 anni può competere nello sprint secco contro un velocista più maturo. Se ha raggiunto una maturità fisica e già lavora bene sia in bici che in palestra il picco di potenza ce l’ha. La cosa difficile è farlo arrivare fresco dopo gare da 180, 200 o 250 chilometri. Oppure deve riuscire a fare una volata anche dopo una settimana di gara. Il primo passo è quindi inserire dei lavori di resistenza, che nel tempo però rischiano di far abbassare il picco di potenza massima».

L’endurance si migliora in allenamento e in gara, accumulando ore in bici
L’endurance si migliora in allenamento e in gara, accumulando ore in bici
Bisogna trovare il giusto equilibrio tra potenza e resistenza…

La vera sfida è riuscire a portare quel picco di potenza e di forza che di solito hanno dopo 120 chilometri a quando ne percorrono 250. 

Il picco di potenza quindi anche da giovani può essere importante?

Tendenzialmente sì, vi faccio un esempio: un corridore come Skerl a 20 anni aveva un picco di potenza di 1.800 watt. Il lavoro che si può fare, da questo punto di vista, è quello di metterli nelle condizioni di mantenere quei valori per più tempo, magari 12 secondi invece che 8 secondi. Si tratta di allungare la durata dello sprint e di creare resistenza, ma entra in gioco anche la durability

Ovvero?

La capacità di riuscire a performare, quindi a fare i tuoi numeri migliori, nonostante si siano consumate tante energie prima. Il primo sintomo che tende a farci fermare nel momento in cui andiamo a cercare di aumentare la resistenza di un atleta è il fatto che comincia a perdere potenza. 

La durability invece incrementa con il passare delle stagioni e degli anni
La durability invece incrementa con il passare delle stagioni e degli anni
Come si può compensare questa perdita di potenza?

Con le sedute in bici si va ad allenare la componente aerobica, a quel punto è naturale che si perda leggermente quel picco di forza, che va compensato con la palestra ed esercizi in bici. 

Tutti i ragazzi riescono a fare questo passo, ovvero aumentare la resistenza in maniera importante mantenendo comunque lo spunto veloce?

Ci sono vari esempi: alcuni atleti riescono a mantenere comunque il loro picco nonostante comincino a inserire tanto lavoro aerobico. Altri, invece, migliorano abbastanza sul passo, ma poi non sono più in grado di fare quei numeri che gli permettevano di vincere. E’ un equilibrio abbastanza leggero, si parla di uno sport che comunque è di endurance, quindi se il corridore spende troppo la prima parte non sarà in grado di farti lo sprint dopo.

Cosa intendi con tante ore di endurance?

L’endurance alla fine sono ore in bici, quindi cominci con allenamenti da quattro a cinque ore. Tendenzialmente un velocista non fa 30 ore alla settimana, si ferma a volumi molto minori. Il “problema” è riuscire a fare in modo che l’atleta sia in grado di sostenere un consumo di chilojoule elevato e che poi riesca a sprintare. 

In che modo si riesce a vedere se un atleta sta perdendo il picco di potenza?

Dall’allenamento. In una seduta di solito si mettono degli sprint all’inizio e alla fine. In questo modo si ha un doppio riferimento: da freschi pieni di energie e con tanto zucchero nel sangue e poi alla fine quando il fisico ha consumato 2.000-3.000 kcal. Se analizzando i dati si vede una grande differenza di valori vuol dire che ci si sta concentrando troppo sull’endurance. In quel caso si riducono le ore.

Quanto contano le caratteristiche fisiche? Tu hai parlato di Skerl che pesa 77 chili ed è alto 177 centimetri, ma hai allenato anche Milan che pesa 85 chili ed è alto 193 centimetri…

Milan è un velocista atipico. L’ho allenato da quando era junior e si è sempre visto come fosse in grado di fare numeri ottimi. Per la sua dimensione e la sua stazza forse Greipel faceva meglio. Però Milan arriva alla volata con una forza che nessuno riesce a mantenere. Per fare un altro esempio: Cavendish per i numeri che aveva riusciva a tenere e poi fare una volata alla fine di un Grande Giro e vincerla. Lui è stato veramente un velocista fenomeno con i numeri che aveva. Ma c’è un altro dettaglio che conta.

Quale?

La testa. A mio modo di vedere i velocisti che sono riusciti a primeggiare veramente sono quelli che hanno imparato dalle loro volate. Tutti gli sprinter arrivano all’ultimo chilometro, ma solo uno vince e tutto si gioca in secondi. C’è una componente di lucidità e di serenità che non può essere messa in secondo piano. 

Bruttomesso (sullo sfondo) dopo un anno nel WT si sta avvicinando ai velocisti più forti del gruppo
Bruttomesso (sullo sfondo) dopo un anno nel WT si sta avvicinando ai velocisti più forti del gruppo
Un altro ragazzo giovane con il quale state lavorando è Bruttomesso…

Lui sta crescendo un sacco. Sia lui che Skerl sono giovani di primo o secondo anno e il loro percorso è appena iniziato. Stanno facendo i passi giusti, l’endurance e la durability migliorano invecchiando. Con il passare delle stagioni riesci a percorrere quei 200 chilometri consumando sempre meno. Migliora la resistenza e l’ossidazione lipidica, ma allo stesso tempo rimane alta la capacità di produrre acido lattico e quindi potenza nel breve tempo. 

Quanto è importante far correre gli atleti su percorsi misti, anche da under 23?

Tanto. Tornando al discorso durability di prima: una corsa ondulata porta ad avere 150 variazioni di ritmo e 150 punti in cui si producono otto picchi di potenza per brevi tratti. Il velocista deve riuscire a sprintare dopo tutti questi sforzi, sia a livello metabolico che a livello muscolare e neuro muscolare. Poi se si parla di ciclismo moderno dobbiamo dire che la palestra ha un ruolo cruciale per lo sviluppo della forza esplosiva. Così com’è importante l’alimentazione, quindi la quantità di carboidrati che mangiano durante la gara o l’allenamento.

Valverde cittì spagnolo, ma continua a correre nel gravel

08.02.2025
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La scelta del cittì della nazionale spagnola ha lasciato strascichi polemici e amari. Dalle parole risentite di Freire, che dopo l’insolita sparizione dei giorni scorsi ha raccontato di essersi sentito trattato come un burattino, a quelle ben più grate e motivate di Alejandro Valverde (in apertura, alla presentazione della Vuelta 2025). “El imbatido”, ritirato alla fine del 2022, sarà il tecnico degli spagnoli per i prossimi quattro anni, rivestendo il ruolo che fu in Italia del suo rivale di sempre Paolo Bettini, che guidò gli azzurri dal 2010 al 2013.

Un accordo complicato

E come è stato in Italia tre anni fa per la nomina di Bennati, prima che il nome venisse tirato fuori dal cilindro è passato un sacco di tempo. Colleghi giornalisti spagnoli ci hanno confidato che la trattativa delicata non sarebbe stata quella di Valverde con la Federazione, bensì con la Movistar, per non mollare del tutto il suo ruolo di uomo immagine (ovviamente retribuito) e fare in modo che non interferisca con quello di selezionatore.

«Sono molto felice – ha detto Valverde a firme fatte, incontrando la stampa a Fitur, la fiera del turismo di Madrid – di continuare come ambasciatore nella struttura Abarca Sport. Alla fine, è la mia famiglia, la squadra di tutta la mia vita e per me è un orgoglio continuare un’altra stagione. Parteciperò alle gare gravel con la squadra e collaborerò alle attivazioni che verranno presentate con gli sponsor».

Valverde sarà tecnico della nazionale, ma continuerà a gareggiare in gravel (immagine Movistar Team)
Valverde sarà tecnico della nazionale, ma continuerà a gareggiare in gravel (immagine Movistar Team)

La svolta federale

Il neopresidente federale Josè Vicioso si è insediato promettendo riforme e una precisa svolta tecnica: una rifondazione federale dopo un paio di anni non esattamente entusiasmanti.

«Devono esserci dei cambiamenti – ha detto – dobbiamo lavorare sodo e solo il tempo dirà se raggiungeremo gli obiettivi che ci siamo fissati. La presenza di Alejandro alla guida della nazionale sarà un’ispirazione per tutti. La sua esperienza è inestimabile e ha dimostrato entusiasmo per il ruolo. Il successo verrà se sapremo lavorare bene giorno dopo giorno. Dobbiamo migliorare l’immagine della federazione per ottenere sponsorizzazioni più consistenti, perché è difficile ottenerle senza atleti di successo o un’immagine positiva. Per ora dipendiamo dai fondi pubblici, ma dobbiamo trovare il modo per attrarre investitori privati. Questo sarà essenziale per la stabilità finanziaria».

Neanche lui era certo che Valverde avrebbe accettato e che riuscisse a mantenere l’equilibrio con i suoi impegni con Movistar. Ma a sentir parlare adesso il diretto interessato, si ha la sensazione che tutto sia stato incastrato nel migliore dei modi.

Josè Vicioso è il nuovo presidente della Reale Federazione Spagnola di Ciclismo (immagine RFEC)
Josè Vicioso è il nuovo presidente della Reale Federazione Spagnola di Ciclismo (immagine RFEC)
Caro Alejandro, ce ne avete messo di tempo…

Ci lavoravamo da tempo e finalmente lo abbiamo reso pubblico. Abbiamo quattro anni di lavoro davanti a noi, ci sono grandi corridori: arrivo in un buon momento. Abbiamo una bella generazione di giovani.

Perché continuare con la Movistar?

E’ la mia squadra, da Eusebio Unzue al resto del gruppo. Sono entusiasta di essere ancora per un po’ il loro ambassador e poi l’idea di gareggiare nel gravel mi attira molto e non interferisce minimamente sul mio nuovo lavoro. Selezionerò i migliori che riterrò adatti per ciascuna gara che dovremo fare e tutti avranno identiche possibilità.

Non hai paura delle critiche?

Le critiche ci saranno sempre, io farò del mio meglio. Questo non significa che ci saranno più corridori Movistar in nazionale, anche se ce ne sono sempre stati molti, perché è la sola WorldTour spagnola e solitamente offre il meglio. Però è un fatto che ci sono spagnoli fortissimi anche in altre squadre.

Innsbruck 2018, Valverde vince il mondiale dopo sei podi: è l’ultimo iridato spagnolo
Innsbruck 2018, Valverde vince il mondiale dopo sei podi: è l’ultimo iridato spagnolo
Hai accettato subito di buon grado oppure hai fatto delle valutazioni?

L’ho subito trovato entusiasmante e lo affronterò con responsabilità, come quando ero un corridore. Certo, questa è una responsabilità diversa. Da corridore, davanti al prossimo mondiale, mi sarei fregato le mani. Ma guardando i corridori che abbiamo, penso che sarebbe bello se lo vincessimo nuovamente noi. Che sia il Rwanda o anche Martigny, sarà un mondiale impegnativo. Dovremo prepararci bene.

Hai già in mente qualche nome?

Di certo Ayuso, che è già nei piani. Anche Mas, Carlos Rodríguez e LandaQuesti i nomi di adesso, ma la stagione è lunga. E anche se loro sono i più rappresentativi, per andare al mondiale e avere un ruolo importante, dovranno arrivarci bene.

E’ vero che hai chiesto di poterti valere della collaborazione di altri corridori?

Vorrei avere attorno una buona squadra. So che Samuel Sanchez è un amico e si è detto disponibile a darmi una mano, se glielo chiedessi. Essendo io il tecnico, starà a me decidere, ma ho amici molto esperti che potranno darmi il loro punto di vista.

Perché Van der Poel usa il vecchio casco? Proviamo a capire

07.02.2025
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WETTER (Germania) – Tecnicamente non si tratta di Abus, ma di un casco Canyon che evidentemente è prodotto da Abus. Il modello è il Gamechanger prima versione e resta il preferito ed usato da Van der Poel.

C’è un fattore tecnico, oppure è una scelta soggettiva del campione olandese? Feeling e convinzioni di Van der Poel che lo portano ad usare il vecchio modello? Abbiamo approfittato di una nostra visita al quartier generale di Abus e lo abbiamo chiesto direttamente a chi ha progettato e sviluppato il casco: il Product Manager Abus Lukas Tamajka (in apertura con i due modelli di Gamechanger).

Van der Poel con il vecchio Gamechanger, Philipsen con il 2.0
Van der Poel con il vecchio Gamechanger, Philipsen con il 2.0
Quando è stato sviluppato il Gamechanger 2.0?

Settembre 2021 ed è stato sviluppato con il contributo del Team Movistar, perché Abus è sponsor e partner tecnico, lo è in modo diretto del team spagnolo. Chiedemmo al team e ai corridori cosa volessero, di cosa avessero necessità e quali fossero le aspettative.

Quali richieste sono arrivate?

Prima di tutto l’aerodinamica, poi la ventilazione, il comfort. A questo abbiamo aggiunto noi l’aspetto della sicurezza. Sicurezza che è fondamentale per gli atleti e perché gli stessi prodotti che sono messi a disposizione dei professionisti vanno sul mercato anche per il cliente normale.

Nello sviluppo della nuova versione avete coinvolto anche il team di Van der Poel?

Non direttamente, ribadisco che tecnicamente loro usano un casco Canyon, Abus non è sponsor per quanto concerne i caschi. Però, tutti i test, prove ed analisi, dati e step di sviluppo che abbiamo presentato a loro, sono i medesimi che abbiamo fornito a Movistar. Noi siamo partner di Canyon, siamo sponsor del Team Alpecin-Deceunink solo per quanto concerne la sicurezza.

In termini di performance, al lato dell’utilizzo, meglio la nuova versione o la precedente?

La nuova, che è più efficiente in termini di numeri e ventilazione. Il vantaggio aerodinamico del Gamechanger 2.0 è tra il 2,5 e 4%, dipende dalla posizione della testa e dalle caratteristiche fisiche del corridore. Tradotto in watt, si arriva ad un risparmio massimo di 7 watt. E’ una sorta di casco posizionato tra il nostro casco da crono e il modello Airbreaker più areato.

La bocca anteriore presente sul 2.0 ha un significato particolare?

Per aumentare il potere di ventilazione della parte frontale in primis e di tutta la sezione interna. E’ stata disegnata ed integrata tenendo conto che gli occhiali sono aumentati di dimensioni nelle ultime stagioni. Quindi una superficie coperta maggiore, ha richiesto un ingresso maggiorato per l’aria.

Allora, perché Van der Poel usa il vecchio casco?

Esclusivamente e semplicemente per una questione di feeling personale. Una scelta soggettiva. Van der Poel è un atleta con un focus molto particolare e fa collimare i dati che vengono forniti, con le sue sensazioni, convinzioni da non tralasciare quando si parla di atleti di quel livello e credo anche immagine.

Una sorta di immagine migliore con la versione più anziana?

Potrebbe essere anche un fattore d’impatto visivo, non è da escludere in alcun modo.

Avete provato a personalizzare il 2.0 in modo specifico per Van der Poel?

Certo, con tre soluzioni differenti pur mantenendo il DNA di Gamechanger 2.0. Lui è rimasto con le sue convinzioni e sulle scelte iniziali. La versione da lui usata resta ad oggi uno dei caschi aero con performance tra le migliori.

Bragato: posizioni avanzate, le spie di un ciclismo che cambia

07.02.2025
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Il lavoro in palestra che determina le nuove posizioni in sella. Le affermazioni di Alessandro Mariano hanno dato parecchio da discutere, perché tutte le volte che si parla di biomeccanica l’interesse è tanto e gli esperti ancor di più. Quel che traspare è che anche su questo fronte il ciclismo stia vivendo una notevole evoluzione e le concezioni, che fino a 5-6 anni fa erano il cardine del ragionamento, siano ormai superate.

Il Team Performance della Federciclismo di tutto questo si nutre. Lo osserva, lo studia, formula ipotesi e le riscontra, infine elabora dei modelli prestazionali da proporre agli atleti nel giro della nazionale. Per questo quando abbiamo proposto a Diego Bragato, che lo guida, di fare un pezzetto di strada con noi, la sua apertura è risultata decisiva. Lo abbiamo strappato per qualche minuto alla preparazione degli europei su pista, alla cui volta la spedizione azzurra partirà domenica.

Diego Bragato e il responsabile del Team Performance della Federazione ciclistica
Diego Bragato e il responsabile del Team Performance della Federazione ciclistica
Davvero le posizioni in sella cambiano come conseguenza delle diverse preparazioni?

Sì, è vero, anche se secondo me è il discorso è più ampio. Dal punto di vista della biomeccanica, ci sta che risulti questa evidenza, anche se ai quadricipiti di cui parla Mariano aggiungerei anche il gluteo e il bicipite femorale, che viene potenziato in maniera diversa. Però secondo me il discorso da fare è più ampio, non è legato solo al singolo distretto muscolare, ma piuttosto a una filosofia che finalmente sta passando anche nel ciclismo, per cui non sono più soltanto corridori, ma finalmente atleti.

Che cosa cambia?

Si lavora su tutti quei concetti che magari nel ciclismo sono poco conosciuti, ma negli sport di squadra invece sì. Si ragiona ad esempio di strutturare il fisico perché sia pronto a sostenere situazioni o posizioni, nel nostro caso estreme, che una persona normale soffrirebbe. Pensiamo ai contrasti nel rugby, nel calcio, nel basket… Sono scontri duri, ma un atleta che fa quegli sport li può sostenere, perché è strutturato per cadere, per rialzarsi, per saltare e prendere dei colpi mentre salta. Li può sostenere perché ha il fisico pronto per farlo. Anche nel ciclismo abbiamo finalmente atleti in grado di fronteggiare situazioni estreme.

Ad esempio?

Ad esempio, le posizioni di cui si parla. Fatta la dovuta prevenzione, possono tenere a lungo assetti in sella in cui una persona normale si farebbe male. Infatti secondo me il problema principale non è tanto la posizione che ha Pogacar (foto di apertura, ndr), ma quelli che cercano di imitarlo senza avere alle spalle il percorso fisico e biomeccanico che ha fatto lui. Il fatto che pedalino così avanzati è una conseguenza del fatto che adesso gli atleti del ciclismo sono in grado di fare ciò che un tempo era impossibile.

Una posizione così avanzata è possibile grazie alla migliore preparazione degli atleti. Qui, Uijtdebroeks
Una posizione così avanzata è possibile grazie alla migliore preparazione degli atleti. Qui, Uijtdebroeks
Hai parlato di prevenzione.

Nel ciclismo di vertice, le squadre hanno tutto attorno all’atleta degli staff che lavorano in prevenzione, con alert relativi a sovraccarichi e quant’altro. Perciò riescono a intervenire prima di un infortunio. Di conseguenza gli atleti sono seguiti anche per poter mantenere queste posizioni efficaci ma estreme per tutto il tempo necessario.

Quando è avvenuta questa svolta?

Il ciclismo è cambiato e con esso è cambiato anche il modo di correre, di interpretare le gare. Da quando la forza è entrata in maniera predominante nella preparazione di un ciclista, ovviamente è cambiata anche la fisicità. E’ cambiato il potenziale, legato alla forza che un atleta può esprimere. Quindi di conseguenza ci siamo spostati di più sopra i pedali e di fatto tutto in avanti. Sicuramente questo determina una diversa distribuzione del peso sulle bici. In più sono cambiati molto anche i materiali quindi la combinazione di questi fattori ha reso più difficile guidare questi mezzi. Ma c’è un altro fattore legato all’esperienza da fare prima di usarli.

Cosa vuoi dire?

Secondo me dovremmo creare un percorso che porti i ragazzi ad imparare un po’ alla volta a guidare le bici da gara, come si fa in Formula Uno passando prima per i kart. Ad oggi abbiamo ragazzi che troppo spesso si trovano su bici da Formula Uno senza aver fatto la garetta con bici più normali in cui si impara a controllare e guidare. E’ necessario proporre invece un percorso in cui insegnare ai ragazzi come si guida una bici che non ha quella rigidità, che non ha quel tipo di frenata, che non ha quel tipo di comfort. Non comfort come posizione, ma come strumenti a disposizione. Imparare anche a gestire le frenate, le cose fatte come si facevano una volta. Se invece parti subito dalle bici e le posizioni estreme, è un attimo cadere e farsi davvero male.

Le posizioni avanzate da seduti assottigliano la differenza rispetto alle azioni en danseuse. Lui è Mikel Landa
Le posizioni avanzate da seduti assottigliano la differenza rispetto alle azioni en danseuse. Lui è Mikel Landa
Torniamo alla nuova fisicità degli atleti: questo essere così avanzati riduce la differenza fra pedalare da seduti e farlo in piedi?

La differenza si è assottigliata, certo. Adesso di fatto da seduti sono quasi sopra i pedali, mentre prima raggiungevano quella posizione alzandosi e venendo avanti col corpo. La differenza resta, perché quando sei in piedi, viene meno l’appoggio sulla sella, ma è vero che è inferiore.

E c’è uno studio del lavoro in palestra per rendere più efficace anche la pedalata in piedi oppure i muscoli coinvolti sono gli stessi e si può aggiungere poco?

In realtà c’è un grosso studio legato al controllo e alla stabilità del movimento. Soprattutto quando ci si alza in piedi e appunto viene meno il punto d’appoggio più importante che è la sella, il controllo del bacino deve essere fatto dai muscoli stabilizzatori e su quello in palestra si lavora molto. Per la nostra filosofia di lavoro, conoscere la tecnica di sollevamento del peso e il controllo del movimento vengono prima della velocità e del carico.

Affinché il gesto tecnico rimanga efficiente?

Perché dobbiamo saper controllare i movimenti, altrimenti le spinte non vanno dove devono, ma vanno a muovere il bacino e la schiena. Quando ti alzi sui pedali devi gestire anche la forza di gravità, per cui immaginiamo un ragazzo che si alza in piedi e spinge sui pedali senza aver lavorato su addominali, dorsali, lombari per bloccare il bacino. Lo vedremmo ondeggiare, con il bacino che si sposta a destra o sinistra. Questo vuol dire non essere bravi, si disperde potenza e si sovraccaricano dei compartimenti che soffrono.

In palestra lavorando sulla forza e sul controllo del gesto: aspetto determinante per essere più efficienti
In palestra lavorando sulla forza e sul controllo del gesto: aspetto determinante per essere più efficienti
Tirando le somme, cambia la fisicità, cambia la posizione, cambia il gesto, non cambia la bicicletta. Secondo te, tenendo conto di tutto questo, si andrà verso un cambiamento delle geometrie dei telai?

Secondo me siamo in un momento storico in cui la tecnologia ci permetterà di fare degli altri passi avanti, ma non so in quale direzione. Questo non è l’ambito che sto seguendo di più, però posso dire che qualche anno fa in pista a Montichiari abbiamo fatto dei test e la relativa raccolta dati facendo inossare ai ragazzi un abbigliamento che permetteva di leggere l’elettromiografia di superficie (la rappresentazione grafica dell’attività elettrica muscolare, ndr) durante il gesto sportivo. Leggevamo come si comportassero i muscoli durante certi movimenti e cambiando la posizione in bici. Quando si attivassero e quando si disattivassero. Secondo me, continuando con questi strumenti e questa tecnologia, potremmo raggiungere il miglior connubio tra rendimento e comodità, personalizzando le scelte tecniche per ciascun atleta.