Vittoria moderna, dal sapore antico: a Siena è Pogacar style

02.03.2024
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SIENA – Due anni fa titolammo: “La solitudine del numero uno”. Per la Strade Bianche di quest’anno potremmo riprendere quel titolo. Tadej Pogacar è stato ancora autore di un’impresa. Di quelle dal sapore antico, ma figlia più che mai del ciclismo moderno.

Si diceva che l’allungamento del percorso, con l’inserimento del circuito delle Tolfe, potesse addormentare la corsa. Che Sante Marie non sarebbe stata decisiva come in passato. E che forse, ma forse, Pogacar non avrebbe attaccato così da lontano e invece… Invece Pogacar ha fatto Pogacar! E’ andato in fuga da solo. Se pensiamo che era al debutto stagionale, in pratica era in fuga dal Giro di Lombardia!

Sul traguardo, dopo un momento d’incredulità e, forse di compiacenza, Tadej scende di sella. Alza la bici in segno di trionfo e la mostra a tutta Piazza del Campo che lo ha accolto con un boato pazzesco. Come un attore sul palco: prima da una parte, poi si volta dall’altra.

Scenari unici, ritmi alti. La fuga ha impiegato quasi due ore per partire
Scenari unici, ritmi alti. La fuga ha impiegato quasi due ore per partire

Trionfo moderno?

La cronaca è molto breve: una fuga che fa fatica ad uscire. Quando lo fa è super controllata proprio dalla UAE Emirates e dopo un “mezzo ventaglio”, ma comunque sempre con un compagno di Tadej in testa, Wellens, ecco l’affondo dello sloveno a 81 chilometri dall’arrivo. Sì, avete capito bene: 81 chilometri da Piazza del Campo.

Matej Mohoric ce lo aveva detto chiaro e tondo questa mattina che Pogacar era il favorito. Aveva ragione. Ma come è possibile che alla prima corsa della stagione si possa fare un numero del genere? Non dovrebbe mancargli qualcosa, cioè il famoso ritmo gara?

«La prima gara della stagione – ha detto Pogacar – è sempre dura dal punto di vista mentale. Mi sono preparato molto bene durante l’inverno. Durante la fuga chiedevo solo dei distacchi».

In questi giorni con la ripresa delle classiche e i big che man mano tornano e vincono, si è parlato di  approcci moderni alla gare, di freschezza muscolare. Lo stesso Brambilla l’altro giorno ci aveva avvertiti che poco avrebbe inciso il fatto che Pogacar fosse alla prima corsa dell’anno.

Piani all’aria

E allora possiamo dire che paradossalmente il non aver corso prima lo ha favorito in una gara tanto dura?

«Alla prima corsa della stagione non sai mai davvero come stai – dice il direttore sportivo Andrej Hauptman – noi sapevamo che Tadej stesse bene, ma così non avremmo potuto dirlo. Attacco vecchio stile: in realtà avevamo pianificato di partire più tardi. Ma poi quando Tadej sta bene non lo ferma nessuno. Improvvisa.

«Poi non è facile prepararsi per le corse di un giorno senza gareggiare, ma posso dire che abbiamo trovato un percorso di avvicinamento, un protocollo giusto, anche per le classiche».

Il tecnico sloveno preferisce non entrare nel dettaglio. Ed è comprensibile in un mondo che sempre di più assomiglia alla Formula 1, ma ci confida che non mancano i chilometri dietro motore, che Tadej preferisce fare dietro moto e non dietro macchina.

«Ogni campione – conclude Hauptman – è diverso e ha il suo modo di allenarsi e di trovare il suo top. Sapevo che stesse bene perché ha passato un buon inverno. Quando lo sentivo era sempre molto tranquillo. Ma di fatto la corsa resta il miglior test e così è stato anche per noi oggi. Insomma non è stata così facile questa vittoria».

Pogacar style

Mentre Tadej è sul palco, al bus della UAE i sorrisi sono lampanti. Dopo aver parlato con Hauptman ecco arrivare Joxean Fernandez Matxin. Anche allora partì su Sante Marie.

«Trionfo moderno? Io direi un trionfo Pogacar style – dice Matxin – ieri, dopo la ricognizione, abbiamo fatto la riunione e gli abbiamo chiesto: “Secondo te quando è il momento giusto per partire? “. E lui ci ha risposto: “Al primo passaggio sulle Tolfe”. “Bene, lì mancano 49 chilometri. Facciamo un passo forte prima e poi vai”. Mi sembrava giusto. Poi quando ho visto che è partito nello stesso punto del 2022 ho detto… va bene lo stesso. Solo che mancavano 81 chilometri!

«Però per un numero così bisogna fare i complimenti anche alla squadra. Perché ragazzi di altissimo livello, tutti, che si votano così a Tadej, che ci credono… danno molto a Pogacar stesso. Li ho visti disposti a menare come se la gara finisse lì a 100 metri. E Tadej ogni volta si dimostra leader e non capitano. Li ringrazia, li coinvolge».

Anche Pogacar si rende conto del numero pazzesco che ha fatto. E’ la sua fuga solitaria più lunga
Anche Pogacar si rende conto del numero pazzesco che ha fatto. E’ la sua fuga solitaria più lunga

Quella cena in Spagna

Anche con Matxin si tocca il tasto della preparazione, della freschezza fisica. E tutto sommato il tecnico spagnolo condivide la nostra disamina. E tira in ballo anche il tema dei giorni di corsa ad hoc.

«Di sicuro – racconta Matxin – ho visto un ragazzo che aveva tanta voglia di correre. Quando qualche settimana fa eravamo alla Comunitat Valenciana, Tadej si stava allenando da quelle parti. Così, una sera sono andato a cena con lui e il suo coach, il quale mi ha detto proprio che fosse fresco. Che era in condizione. Anzi quasi, quasi doveva rallentare per un paio di settimane, altrimenti sarebbe stato troppo avanti.

«Però noi abbiamo fatto un plan da gennaio a ottobre, per Tadej come tutti gli altri, e con quello andiamo avanti. Pogacar farà quattro gare, per un totale di 10 giorni di corsa prima del Giro d’Italia. Questa è la strada».

Quale UAE senza Pogacar? Un gruppo che cresce

28.02.2024
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L’anno scorso di questi tempi avevano già vinto 11 corse con sei corridori diversi, ma fra le vittorie era impossibile non annotare la Clasica Jaen Paraiso Interior e la Vuelta Andalucia, con quel diavolaccio di Pogacar che, al pari di Vingegaard, aveva cominciato subito col botto. Il 2023 fu la prima svolta, sia pure non drastica come quest’anno. Lo sloveno aveva rinunciato al UAE Tour vinto nelle due edizioni precedenti, per vivere una primavera meno impegnativa e contrastare meglio Vingegaard al Tour. Quest’anno che Tadej ha puntato su una stagione stellare fatta solo di grandi obiettivi, la musica è rimasta identica: le vittorie finora sono 10 per mano di sei corridori diversi, ma fra loro non c’è Pogacar.

Del Toro al Tour Down Under. McNulty alla Valenciana e al UAE Tour. Fisher-Black alla Muscat Classic e al Tour of Oman. Yates, anche lui in Oman. Ayuso e Hirschi con una vittoria ciascuno nell’ultimo weekend di corse in Francia. E ieri per poco Antonio Morgado non si portava a casa Le Samyn, con un colpo di reni malandrino che ha fatto tremare e non poco il gigante Laurenz Rex (foto di apertura). Quello ha alzato le braccia e Antonio si è infilato…

Al Tour of Oman, Finn Fisher-Black vince a Qurayyat la seconda tappa
Al Tour of Oman, Finn Fisher-Black vince a Qurayyat la seconda tappa

Il talento viene fuori

Con il portoghese in Belgio c’era Marco Marcato, che assieme a Baldato compone la coppia tecnica per il Nord, e con lui abbiamo affrontato il momento della squadra numero uno al mondo in questo suo cammino per non far rimpiangere il grande sloveno.

«Morgado ha perso veramente per poco – sorride il padovano – forse un paio di centimetri. Sono andato a vedere il photofinish perché la Giuria tentennava. Rex ha vinto, anche se ha rischiato, perché alzando le mani all’ultimo si è piantato e Antonio ha fatto un bel colpo di reni. In ogni caso è lì e a vent’anni ha dimostrato che può essere protagonista. Si è adattato bene alla categoria. Questi ragazzi non hanno tante paure di buttarsi e di farsi valere, quindi alla fine il talento e la bravura vengono fuori. Magari deve ancora capire i meccanismi, quando è importante star davanti a lottare per la posizione, ma questo valorizza ancora di più il suo talento. Si è adattato bene alla fatica e al tener sempre duro. E alla fine, considerando i corridori che c’erano e la selezione che c’è stata, ha fatto un grande sprint».

Ayuso e Hirschi hanno fatto doppietta nel weekend francese
Ayuso e Hirschi hanno fatto doppietta nel weekend francese

Una grande opportunità

Il ritorno a casa insomma ha lasciato in bocca un buon sapore. Ci sarà il tempo per ricaricare le batterie e poi Marcato preparerà la prossima valigia che porterà alla Parigi-Nizza e di lì nuovamente sulle strade del Nord fino alla Freccia del Brabante. Così, approfittando del tempo a disposizione, rileggiamo con lui l’inizio di stagione in attesa che sabato alla Strade Bianche il padrone torni al volante.

«Quando c’è Tadej – spiega – logicamente la squadra è incentrata su di lui. Comunque stiamo parlando del numero uno al mondo, quindi dobbiamo dargli sicuramente tutto il nostro supporto. Questo i compagni lo sanno e anzi sono ben felici di aiutarlo. Quando lavori per un leader così, sai che alla fine il lavoro viene ripagato. Secondo me lo spazio che si sta liberando adesso è un’opportunità anche per loro. Sicuramente hanno più responsabilità, però sono contenti di poter fare la corsa ed essere protagonisti. Insomma, non è solo il fatto di avere più responsabilità, ma maggiori opportunità. Almeno io la vedo così».

Jay Vine, leader de UAE Tour a partire dalla terza tappa, crolla sulla salita finale di Jebel Hafeet
Jay Vine, leader de UAE Tour a partire dalla terza tappa, crolla sulla salita finale di Jebel Hafeet

Tutti capitani

Per lo stesso motivo e per la rincorsa ai punti, quest’anno i piani di tanti ragazzi sono cambiati: non più tutti al servizio del capitano, ma ciascuno con lo spazio per assecondare il proprio talento. Non è un mistero che il UAE Team Emirates abbia reclutato alcuni fra i migliori atleti in circolazione e tenerli solo per tirare sarebbe un vero uno spreco. La differenza fra tirare e fare la corsa sta però nell’impatto psicologico. Jay Vine è stato leader del UAE Tour fino all’ultima tappa con arrivo in salita e ha perso in un solo colpo 4 minuti e la maglia.

«Quelle sono dinamiche – spiega Marcato – che non tutti i corridori gestiscono allo stesso modo. L’anno scorso Vine per esempio ha vinto il Tour Down Under, anche se è una corsa un po’ diversa. Quest’anno al UAE Tour, un po’ di pressione in più l’ha sentita senza dubbio. Abbiamo una squadra forte, non è per caso che l’anno scorso abbiamo vinto la classifica WorldTour e i nostri corridori migliori, se li prendi singolarmente, potrebbero andare tranquillamente in altre squadre a fare i capitani. Quindi a volte non è neanche semplice gestire la corsa avendo tanti talenti tutti insieme. La parte bella però è quando si aiutano fra loro, come nel giorno in cui Ayuso ha vinto la Faun-Ardeche Classic e il giorno dopo ha aiutato Hirchi a vincere la Faun Drome Classic.

«E con gli italiani sarà la stessa cosa. Covi avrà il suo spazio facendo gare su misura e anche Ulissi, un uomo su cui si può contare sempre. Diego avrà un calendario diverso dal solito, non facendo grandi Giri. Questo almeno è il programma, però le cose cambiano e se serve sappiamo che lui è comunque pronto».

Scaricato dalla Bora, ora Politt vuole la rivincita

23.02.2024
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«Sono contento che abbia trovato un ingaggio alla Uae, ma Nils Politt qui non aveva più spazio. Nei 3 anni che è stato alla Bora non è stato all’altezza del suo passato. E’ vero, a volte non ha avuto il giusto sostegno dal team, altre però è stato lui a non avere le gambe. E il suo rendimento non giustificava l’alto ingaggio che ha avuto».

Parole sferzanti, quelle del manager Ralph Denk, pesanti come raramente capita nel WorldTour. Parole che dipingono un’immagine del 29enne corridore tedesco probabilmente non del tutto fedele alla realtà.

Alla Bora aveva iniziato bene, con il successo a Nimes al Tour 2021 seguito dal Giro di Germania
Alla Bora aveva iniziato bene, con il successo a Nimes al Tour 2021 seguito dal Giro di Germania

Kristoff, quasi un mentore…

A questo punto due sono le possibilità per Politt: prestare il fianco a un giudizio così severo o smentirlo a furia di risultati. Chi conosce Nils propende per la seconda eventualità, perché ha una determinazione senza pari. Forgiata nei primissimi anni. Nato a Hurth, vicino al confine con il Belgio, nelle categorie giovanili era solito prendere la bici e passare dall’altra parte per respirare ciclismo, pedalare nella pioggia, nel vento, nel freddo, ma soprattutto sul pavé. In allenamento come in gara, anzi gareggiava più lì che in Germania. Spesso da solo, a dispetto della giovane età.

Così è andato maturando, passo dopo passo. Mentalmente allo stesso ritmo del fisico, diventando presto un marcantonio di 1,91 per un’ottantina di chili. Tanto che lo stesso Kristoff sin da giovanissimo lo ha preso sotto la sua ala protettrice, vedendone le potenzialità. Appena approdato in Katusha, dopo averlo visto finire 5° a Le Samyn in una giornata davvero difficile climaticamente parlando, gli diede una gran pacca sulle spalle e disse ai diesse del team: «Lui me lo portate alla Roubaix, perché è nato per queste gare».

Le pietre della Roubaix sono state la sua passione sin da ragazzino
Le pietre della Roubaix sono state la sua passione sin da ragazzino

L’amore per le classiche

Effettivamente Politt ha una predilezione per le classiche del Nord. Non manca mai, anche se (e qui un po’ di ragione a Denk bisogna darla) non ha più avuto lo stesso rendimento del 2019, quando mise insieme una serie di piazzamenti tra cui il 5° posto al Fiandre e il 2° a Roubaix, battuto solo da un Gilbert in giornata di grazia. Il belga riconobbe il merito del tedesco nella costruzione dell’azione decisiva, per Politt sembravano essersi schiuse le porte del paradiso.

Attenzione però: se il Uae Team Emirates ha creduto su di lui, lo ha fatto certo a ragion veduta. I dirigenti del team di Pogacar credono in lui, nelle sue potenzialità, come uomo da classiche ma anche come utile aiutante per lo sloveno soprattutto al Tour, soprattutto nelle tappe non troppo dure e nel lavoro oscuro per portarlo nelle migliori condizioni a quando dovrà prendere l’iniziativa in prima persona. Perché Politt ha un’elevata resistenza, non solo fisica.

Lo sfortunato testa a testa con Gilbert al velodromo di Roubaix nel 2019
Lo sfortunato testa a testa con Gilbert al velodromo di Roubaix nel 2019

La faccia di un pugile suonato

C’è un episodio che in sé racconta molto di chi sia il tedesco. Giro di Gran Bretagna, anno 2018. Seconda tappa, una caduta prima del finale seleziona il gruppo. Politt è tra quelli che ha le conseguenze peggiori, ma non molla. Si rimette in bici, arriva penultimo. A chi lo soccorre dice: «Mi sento un po’ stordito, ma passerà». «Guarda che hai un taglio sotto l’occhio, il sangue ti cola addosso. Sembri un pugile». «Ah sì? Ho detto che passerà…» e se ne va verso il pullman della squadra. Cinque giorni dopo sarà secondo, unico a contenere il ritardo da Stannard sotto il minuto.

La determinazione come detto è una delle sue caratteristiche principali. E’ un po’ il suo modo di mostrare il suo grande amore per questo sport, che nutre da sempre: «Quando ho iniziato, il ciclismo dalle nostre parti aveva una brutta fama – raccontò qualche tempo fa a Pez – la gente non faceva altro che associarlo al doping, ricordando l’esperienza della T-Mobile. Ma io e molti altri abbiamo insistito e andiamo avanti, credendo in quel che facciamo per dare il giusto esempio. Il ciclismo tedesco può tornare ai livelli del secolo scorso, essere un buon contraltare al calcio imperante, ma senza prendere scorciatoie».

Con il Team Stoelting è stato campione tedesco in linea nel 2014 e a cronometro l’anno prima (foto Michael Deniec)
Con il Team Stoelting è stato campione tedesco in linea nel 2014 e a cronometro l’anno prima (foto Michael Deniec)

Iniziare dalle cose semplici

I suoi inizi non sono stati facili: «Quando sono approdato alla Katusha nel 2015 ero molto nervoso. Il mio inglese al tempo non era dei migliori, faticavo a comunicare. I primi mesi furono difficili, ma sapevo che stava a me adattarmi. L’ho sempre fatto, anche nella continental dove militavo (il Team Stoelting, ndr) avevo imparato a far tutto da me, anche a lavarmi e pulirmi la bici. Lì era già un altro mondo, come passare da un piccolo hotel di provincia a uno a 5 stelle”.

Nel corso degli anni le vittorie sono arrivate, seppur non con tanta frequenza. Anche alla Bora, alla quale dopo tutto ha regalato una vittoria di tappa al Tour nel 2021 e la conquista del Giro di Germania lo stesso anno, cosa abbastanza inusuale per lui che non è certo un corridore da classifica per corse a tappe: «Su questo però avrei un po’ da dissentire, perché non sono le dimensioni del corpo a decretare che tipo di corridore puoi diventare, ma le fibre muscolari. Se hai fibre corte sarai un velocista, altrimenti sei più resistente e adatto a sforzi di un certo tipo. Certo, le grandi salite non saranno mai per me, ma per il resto posso cavarmela un po’ dappertutto».

Politt ha conquistato il titolo nazionale a cronometro nel 2023 e punta con ambizione alle Olimpiadi
Politt ha conquistato il titolo nazionale a cronometro nel 2023 e punta con ambizione alle Olimpiadi

E se il prossimo 27 luglio…

Per questo Politt è l’uomo giusto per le classiche e per questo la Uae ha investito su di lui. Domani si comincia con l’Omloop Het Nieuwsblad, poi avanti fino alla Roubaix del 7 aprile.

«La prima volta, da U23, sono caduto 5 volte, eppure è stato proprio allora che ho capito che è adatta a me. Non sono praticamente mai mancato, mi piace da morire, mi piacciono queste corse come mi piace la cronometro, soprattutto quando è lunga, oltre l’ora. E’ allora che emergono i veri valori».

Lo scorso anno ha vinto il titolo nazionale e non nasconde che vorrebbe esserci a Parigi 2024, sabato 27 luglio, il giorno della crono. Non sarà tra i favoriti, ma con uno come lui mai dare niente per scontato…

Baroncini e la UAE, blitz al Nord per le prove sul pavé

17.02.2024
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Con addosso quel senso di tutto nuovo che rende più belle anche le cose già viste, Filippo Baroncini si è affacciato sul 2024 con l’entusiasmo ben oltre il punto di ebollizione. Quale che ne sia stata la causa, il suo percorso nella Lidl-Trek non aveva più margini per andare avanti, mentre l’approdo al UAE Team Emirates è quello che il romagnolo cercava.

«Mi piace molto l’ambiente – spiega dalla Volta ao Algarve – molto più latino, ci sono tanti italiani. Non che prima stessi male, ma con i compagni ho un rapporto diverso. C’è un bel dialogo, è un ambiente in cui ci si aiuta. quindi è quello che cercavo».

L’Algarve, come abbiamo già sentito da Matteo Trentin è l’occasione per mettere nelle gambe chilometri e ritmo, in vista del weekend di apertura sulle strade del Nord. Il prossimo fine settimana alla Omloop Het Nieuwsblad sarà un ribollire feroce di ambizioni contrapposte e per Baroncini sarà la prima occasione di prendere le misure innanzitutto a se stesso. L’inverno è stato proficuo, ma finché non ti misuri con quelli che puntano al tuo stesso obiettivo, non puoi sapere a quale punto della catena alimentare ti trovi davvero. Se sarai preda o cacciatore.

Nel giorno del pavé, cielo sereno e solo uno scroscio d’acqua in avvio (foto UAE Team Emirates)
Nel giorno del pavé, cielo sereno e solo uno scroscio d’acqua in avvio (foto UAE Team Emirates)

Nel frattempo, per prendere le misure alle strade, alla bici e all’abbigliamento, il 7-8 febbraio Filippo è volato fra Belgio e Francia con Tim Wellens e Nils Politt, svolgendo prima un sopralluogo sul percorso della Parigi-Roubaix e un altro il giorno successivo su quello del Giro delle Fiandre (foto UAE Team Emirates in apertura). Un’esperienza che secondo noi merita un racconto.

Cosa siete andati a fare?

A provare i materiali, più che altro, soprattutto per la Roubaix. Pensavo che il pavé fosse più traumatico, invece con queste ruote e con i tubeless, anche se ha lasciato il segno, sono andato molto bene. Per il Fiandre invece non c’è tanto da trovare un setting particolare. Abbiamo fatto gli ultimi 50 chilometri giusto per ricordarci i nomi delle salite e cosa ci si aspetta. Siamo stai per due giorni, toccata e fuga.

Che cosa vuol dire che ha lasciato il segno?

Il primo settore di pavé della Roubaix è stato un brusco risveglio. Per Wellens era la prima volta, ci siamo guardati in faccia e si è messo a ridere da quante vibrazioni e il dolore alle braccia dopo un solo settore. Poi però abbiamo preso un po’ di feeling e via.

Tim Wellens non aveva mai messo le ruote sul pavé della Roubaix: ride per le vibrazioni (foto UAE Team Emirates)
Tim Wellens non aveva mai messo le ruote sul pavé della Roubaix: ride per le vibrazioni (foto UAE Team Emirates)
Avete lavorato più sull’assetto o sulle pressioni?

Pressioni e sezioni diverse. Ogni tot ci fermavamo, provavamo, cambiavamo ruote e coperture. E poi alla fine abbiamo tirato le somme.

Che cosa avete concluso?

Per me ci saranno sicuramente tubeless da 32, con la pressione bassa, ma neanche tanto, altrimenti sui sassi c’è rischio che scoppino, e ruote da 45 in carbonio, ovviamente. Alla fine è tutto un fatto di ruote. Una gomma dura la puoi sgonfiare quanto vuoi, ma sempre dura rimane. Noi invece abbiamo usato le Continental, che anche nelle gare normali rimangono più morbide rispetto a tante altre.

Come avete affrontato il pavé?

Abbiamo dovuto impegnarci parecchio nella prova dei vari settori. Li abbiamo tutti spinti abbastanza, anche perché se non fai così, non vai avanti. Per questo dopo due ore eravamo abbastanza finiti. Abbiamo fatto dal primo settore fino al Carrefour de l’Arbre. Da lì abbiamo fatto altri 50 chilometri in bicicletta e siamo tornati nell’hotel di Waregem, da cui il giorno dopo siamo partiti per provare il finale del Fiandre.

Il giorno dopo il sopralluogo della Roubaix, tocca al Fiandre, con 5 gradi e male a braccia e mani (foto UAE Team Emirates)
Il giorno dopo il sopralluogo della Roubaix, tocca al Fiandre, con 5 gradi e male a braccia e mani (foto UAE Team Emirates)
E come è andata?

Prima cosa: non vi dico il dolore che avevamo nelle mani. In più pioveva, c’erano cinque gradi, è stato traumatico. Anche perché il giorno prima il tempo era stato quasi buono. Giusto uno scroscio d’acqua, poi era stata una giornata asciutta, ma con tanto vento. Soffiava a 30 all’ora, siamo andati in giro per tutto il tempo col phon di fianco (ride, ndr).

Ancora gomme da 32?

Le stesse, cambieranno le pressioni. Ormai l’aerodinamica è tutto, ma al Fiandre non serve neanche stare a cercare la leggerezza estrema.

A gusto tuo: meglio Roubaix, dunque, o Fiandre?

Il Fiandre, sicuramente. Secondo me è più una corsa di gambe che di fortuna. Alla Roubaix devi essere bravo o avere la fortuna di stare al centro della strada, sulla schiena d’asino. Perché se inizi ad andare di lato, la strada è molto più rovinata e fai il doppio della fatica. Alla Roubaix secondo me ci sono tanti fattori in gioco, mentre al Fiandre conta tanto la posizione e saper correre, ma anche avere tante gambe.

Baroncini con Nils Politt: il tedesco sarà uno dei ledaer della squadra all’apertura del Nord (foto UAE Team Emirates)
Baroncini con Nils Politt: il tedesco sarà uno dei ledaer della squadra all’apertura del Nord (foto UAE Team Emirates)
Come è andata la trasferta con Wellens?

Sono stato bene, è un compagnone. Non è il solito belga un po’ chiuso. E’ veramente un ragazzo d’oro, che insegna tanto e aiuta. Ci parli volentieri con lui. Per questo mi sento più coccolato. Più seguito, è questa la parola giusta.

Per quanti giorni è andato avanti il mal di braccia del pavé?

E’ durato due giorni, poi finalmente le dita si sono sgonfiate. Ho provato con i guanti lunghi, perché era freschino. Però non avevamo messo doppio nastro, niente di particolare e forse è stato questo a far arrivare più vibrazioni alle braccia. Nel giorno della gara avremo gel e doppio nastro, sarà diverso.

In che condizioni arrivi all’apertura del Nord?

Secondo me bene, mi vedo in crescita. Anche alla Figueira Champions Classic abbiamo fatto un bel lavoro di squadra. Sono convinto che se tutto andrà bene, in Belgio ci divertiremo. Alla fine non puoi mai partire con qualche certezza, però se ci vai con la gamba giusta, secondo me ti diverti. Di sicuro la Omloop Het Nieuwsblad sarà un primo test. Ci saranno anche Politt e Wellens, che saranno i riferimenti. Dovrò imparare tanto da loro, per cui il fatto di averli in squadra è un vantaggio. Loro sanno dove muoversi e come farlo, osservarli sarà prezioso.

La Valenciana promuove McNulty, che ora vuole di più

05.02.2024
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Alla fine la Volta a la Comunitat Valenciana l’ha vinta lui, Brandon McNulty, l’americano della Uae. E non è un caso, perché ci teneva a iniziare la stagione riannodandosi subito a quella passata, forse quella della svolta nella sua carriera. A 25 anni, dopo 4 stagioni alla Uae e con la tranquillità che deriva da un contratto fino al 2027, l’uomo di Phoenix si conferma adattissimo alle corse brevi a tappe, ma vuole di più.

Per capire chi sia Brandon McNulty bisogna andare un po’ indietro nel tempo e rivivere la gara olimpica di Tokyo 2021. Erano rimasti in pochi a giocarsi la medaglia d’oro, Pogacar aveva già tentato la sua carta sull’onda del trionfo al Tour, ma a un certo punto fu proprio McNulty a prendere l’iniziativa, ad agganciare lo scatenato Carapaz. L’ecuadoregno volò verso l’oro, a Brandon invece finirono le energie, ma con il carattere riuscì a conquistare un 6° posto di prestigio. Esaurendo tutte le energie, infatti alla successiva cronometro fu un comprimario.

McNulty sul podio tra Buitrago, 2° a 14″ e Vlasov, 3° a 17″. 4° l’italiano Tonelli a 20″
Il podio finale della Volta, con Vlasov suo grande rivale già nelle 3 corse in linea iberiche precedenti

L’importanza dei Giochi

«Quando tornai a casa – racconta McNulty – tutti mi fermavano, ma nessuno mi chiedeva del Tour. Tutti dicevano che avevano visto i Giochi e avevano trepidato per me. E’ lì che ho capito quanto sono importanti e per questo mi sono messo in testa di puntare alla crono di Parigi. Soprattutto dopo la prestazione dei mondiali di Glasgow, dove sono finito ai piedi del podio battendo gente molto più qualificata di me».

L’americano non è propriamente uno scalatore, anche se in salita si difende più che bene, ma nella tappa decisiva della corsa iberica, quella di sabato che portava a Alto del Miserat, ha sfruttato le sue caratteristiche principali.

«Ho visto che potevo giocarmi le mie carte – spiega – e la squadra è stata perfetta nel portarmi alle pendici della salita nella posizione migliore. Ho sfruttato la parte pianeggiante per lanciarmi verso la più dura con un buon vantaggio che poi ho gestito dal ritorno di Buitrago e Vlasov. Sapevo di avere buone gambe e volevo sfruttarle per iniziare bene l’anno».

L’americano con Van Eetveld, poi vincitore del Trofeo Serra Tramuntana su Vlasov e lo stesso McNulty
L’americano con Van Eetveld, poi vincitore del Trofeo Serra Tramuntana su Vlasov e lo stesso McNulty

Mirino sulle classiche

McNulty si conferma quindi un ottimo elemento per le brevi corse a tappe. Vincitore del Giro di Sicilia nel 2019, quand’era ancora alla Rally UCH Cycling, secondo lo scorso anno al Giro del Lussemburgo, lo statunitense alza però il suo mirino: «Io voglio fare meglio anche nelle corse più lunghe – dice – intanto fino a una settimana di durata per poi vedere se, oltre che aiutare gli altri e puntare alle tappe, posso fare uno step in più anche nei grandi Giri. Ma soprattutto voglio di più da me stesso nelle classiche, in quelle Monumento.

«Liegi e Lombardia ad esempio sono percorsi che si adattano alle mie caratteristiche, dove posso affrontare chiunque. Tuttavia per un verso o per l’altro non sono mai riuscito ad affrontarle al meglio della mia condizione e sono curioso di sapere che cosa potrei fare. Gare d’un giorno le ho vinte, ma quelle sono speciali».

A Glasgow, McNulty ha chiuso 4° a 1’27” da Evenepoel. Lì è nato il progetto della medaglia olimpica
A Glasgow, McNulty ha chiuso 4° a 1’27” da Evenepoel. Lì è nato il progetto della medaglia olimpica

Alla scoperta di se stesso

La vittoria alla Valenciana può servire all’americano per darsi quelle risposte che, come testimoniato anche a inizio stagione in una lunga intervista a Velo, deve ancora trovare.

«Mi sento ancora – dice – come se dovessi capire che tipo di ciclista sono. Ok le corse a tappe brevi, ma vedo che vado forte anche nelle cronometro e certe volte emergo nelle corse in linea. Sento però che posso fare un ulteriore salto.

«Mi accorgo che ogni anno che passa miglioro sempre meno, ma miglioro. Questa sarà la mia quinta stagione nel WorldTour, ho ancora da imparare e quindi posso fare ancora di più. L’anno scorso però è stato importante, è come se avessi fatto “clic”. Ho avuto buoni numeri e buone opportunità, poi per vincere serve anche fortuna, che tante cose combacino».

Lo sprint vittorioso dello statunitense a Bergamo, battendo Healy e Frigo. In classifica ha chiuso 29°
Lo sprint vittorioso dello statunitense a Bergamo, battendo Healy e Frigo. In classifica ha chiuso 29°

La vittoria più importante

McNulty abbiamo imparato a conoscerlo anche qua in Italia, per la vittoria a Bergamo all’ultimo Giro d’Italia: «Per me è stata la più importante della mia carriera – ricorda – la più esaltante, seguita subito dopo dalla prestazione nella cronometro di Glasgow. Quel giorno ho capito che posso giocarmela in una specialità che è davvero particolare. Certe volte penso che sia come una corsa agli armamenti. Per andar forte non basta allenarsi, esercitarsi, molto influisce il mezzo, un po’ come nella Formula 1. Serve che la bici sia al top e così le ruote, i pneumatici e così via. Per questo d’inverno si è lavorato un po’ su tutto, perché se vorrò giocarmi le mie carte a Parigi dovrà essere tutto perfetto. Soprattutto dovrò uscire dal Tour a bomba perché il Tour sarà fondamentale».

Intanto però la stagione è appena iniziata e la vittoria alla Valenciana non ha placato la sua fame: «Mi aspetta l’Uae Tour e poi la Parigi-Nizza. Vediamo di fare qualche altro passo in avanti…».

L’ascesa e la caduta di Dombrowski. In tempi troppo brevi

03.02.2024
6 min
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Tra coloro che hanno chiuso la propria carriera quest’anno, Joe Dombrowski rappresenta un caso a parte. Il perché è presto detto: non più tardi di un paio di stagioni fa l’americano aveva vinto una tappa al Giro e sfiorato il successo alla Vuelta, sembrava davvero un corridore quantomeno da classifica per corse a tappe medio-brevi, insomma un riferimento sicuro per ogni team che cercasse risultati e quindi punti. Un atleta ormai maturo per risultati importanti. La sua parabola è declinata rapidamente, fino a portarlo a 32 anni alla dolorosa decisione.

Dopo il suo annuncio, molti sono rimasti con la curiosità di sapere che cosa è successo e l’unica risposta poteva venire dalla sua stessa voce, per capire che cosa l’ha portato al ritiro: «In realtà il mio piano era quello di continuare, ma non ho trovato una squadra per la nuova stagione. È semplice ma è proprio così che è andata a finire».

L’americano ha cercato fino all’ultimo un ingaggio. All’Astana non c’era più posto
L’americano ha cercato fino all’ultimo un ingaggio. All’Astana non c’era più posto
Nel 2021 hai vinto una tappa al Giro e ci sei andato vicino alla Vuelta. Pensi che il passaggio all’Astana ti abbia penalizzato?

Non voglio dare la colpa alla squadra dicendo che non ho reso per questa o quella ragione, ma penso che per me l’ambiente era un po’ complicato. Qualcosa mi è mancato, in particolare nel mio secondo anno. Io sono approdato all’Astana con due grandi corridori per corse a tappe come Nibali e Lopez. E in realtà, mi è piaciuto molto correre il Giro nel 2022, stavo andando davvero forte. Forse dai risultati non sembra così tanto, ma in tutti i momenti chiave della gara ero lì con i migliori. Poi Vincenzo si è ritirato, Lopez ha avuto i suoi problemi come tutti sanno. Risultato, l’anno scorso non c’era più un vero leader per i grandi giri e la squadra era un po’ più concentrata sugli sprint con Cavendish. Io non sono un corridore che poteva aiutarlo, ero un pesce fuor d’acqua.

Nel senso che non avevi un ruolo?

Sì, ma c’è anche altro. Non controllavamo la gara all’inizio, dove molte volte vedi le squadre dei velocisti mettere un ragazzo davanti per tirare. All’Astana non lo facevamo. Sembrava una caccia al palcoscenico, dovevo cercare la fuga ma essa deve arrivare fino al traguardo. Io poi ero abituato a lavorare per qualcuno, ma chi? Non avevo più un ruolo.

Alla Sky due anni d’esordio difficili per Dombrowski, a causa di incidenti e problemi fisici
Alla Sky due anni d’esordio difficili per Dombrowski, a causa di incidenti e problemi fisici
Dopo la vittoria al Giro Under 23 con quali speranze eri passato professionista?

Potevo andare in quasi tutte le squadre perché ero giovane. E quando vinci qualcosa come il Girobio o il Tour de l’Avenir, hai un bel biglietto da visita. Il ciclismo è sempre alla ricerca di giovani talenti. Quindi avevo molte opzioni diverse e alla fine ho scelto Sky perché all’epoca era la squadra migliore e sembrava essere la più all’avanguardia o la più organizzata. Penso che all’epoca fossero un gradino sopra tutti gli altri.

Mentre oggi?

Ancora oggi la reputo come la squadra più grande nella quale ho corso. La combinazione tra l’essere neopro’ e la giovane età rendeva tutto magico. Sono stati un paio d’anni difficili. Ho lottato con un infortunio. Avevo un’endofibrosi dell’arteria iliaca e non ho fatto l’operazione fino al secondo anno, perché c’è voluto molto tempo per trovare il problema. Sono stato fermo tre mesi e anche questo ha reso le cose un po’ complicate.

In casa Cannondale (oggi EF Education EasyPost) il corridore di Marshall ha vissuto una grande maturazione
In casa Cannondale (oggi EF Education EasyPost) il corridore di Marshall ha vissuto una grande maturazione
Alla Cannondale sei stato 5 anni, che ambiente era e come ti sei trovato?

Credo che sia stata la squadra più divertente che ho avuto tra tutte le squadre del WorldTour in cui ho corso, forse perché a quel tempo era in fase di transizione. Quando era Garmin, forse era una delle squadre più americane del gruppo. Quindi con molti corridori americani, un po’ come la Movistar così spagnola o l’Astana kazaka per licenza, ma molto italiana. Avere tanti connazionali rende tutto più facile. Sentivo che molti corridori della squadra erano miei amici. Ho anche amici di tutte le squadre in cui ho corso, ma lì di più…

Alla Uae hai vissuto l’esplosione di Pogacar: quanto spazio avevi per le tue personali ambizioni?

Era già prima una super squadra. Un team con molti campioni dove c’era meno spazio per le ambizioni personali. Se vai a ogni gara e i tuoi compagni di squadra sono tra i migliori al mondo, è normale che in molti casi sia necessario lavorare per gli altri. Penso di avere avuto il mio spazio e penso che abbiano cercato di gestirlo bene come avviene per ogni corridore. Ad esempio, nei grandi Giri, hai una possibilità quando è il tuo giorno di andare in fuga, puoi puntare alle tappe. Se non ti concentri sulla classifica generale, è davvero un bel modo di correre se hai un leader e puoi essere lì intorno a lui, ma poi hai anche la libertà per scegliere i giorni in cui vuoi giocarti le tue chance. Sai che gran parte del tuo lavoro è supportare qualcun altro e i diesse vedono quando sei qualcuno che può essere un buon compagno di squadra.

La vittoria di Sestola al Giro 2021, un’azione imperiosa che l’ha portato alle soglie della maglia rosa
La vittoria di Sestola al Giro 2021, un’azione imperiosa che l’ha portato alle soglie della maglia rosa
Qual è stata per te la vittoria più importante?

Direi che la vittoria di tappa nel Giro è stata bella. Forse è stato un po’ agrodolce perché il giorno dopo sono caduto, quindi non l’ho potuta davvero assaporare, anche perché puntavo a vestire la maglia rosa. In testa c’era De Marchi e nella successiva tappa di montagna, dato che avevamo un buon distacco dai favoriti della classifica generale, avrei avuto un davvero un’ottima occasione per conquistare la maglia rosa. Credo comunque che sia stata davvero una bella vittoria.

Tu sei stato fra i più grandi talenti americani di questo secolo: il ciclismo americano di oggi è più o meno forte di quando sei passato professionista?

Direi che è più forte adesso. Ci sono così tanti bravi corridori americani. Guarda cos’ha fatto Kuss, ma anche Matteo Jorgenson ora suo compagno di squadra oppure Powless o McNulty. Ma ne dimentico sicuramente qualcuno, perché in realtà ce ne sono molti e anche molto giovani.

Vuelta 2021: lo statunitense insieme a Taaramae, che lo staccherà togliendogli il successo a Picòn Blanco
Vuelta 2021: lo statunitense insieme a Taaramae, che lo staccherà togliendogli il successo a Picòn Blanco
Tu hai vissuto per anni a Nizza: intendi tornare a casa o rimarrai in Francia?

Sto bene adesso, per ora abbiamo intenzione di restare qui. Non ho davvero intenzione di tornare negli Stati Uniti. Non ho un piano immediato per quello che farò. Amo il ciclismo e amo lo sport nel profondo. Ma ho interessi anche in altre cose. E penso che nei prossimi mesi vorrò prendermi del tempo per esplorare tutte le diverse cose che sono interessanti per me e poi sapere dove mi portano. Quello che ho imparato dal ciclismo è che amo il ciclismo. Vedremo cosa sto facendo e anche dove vivremo. Per ora continuo ad andare in bici, ma mi prendo del tempo anche per sciare…

Del Toro vince e stupisce, guidato da Marcato in ammiraglia

29.01.2024
5 min
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Sull’ammiraglia della UAE Team Emirates, al Tour Down Under, era seduto Marco Marcato. Il diesse ha seguito da dentro la prima corsa WorldTour stagionale, un appuntamento importante, per tirare le somme e trarre le conclusioni sull’inverno appena trascorso. In casa UAE Team Emirates la sorpresa è stata il giovane messicano Isaac Del Toro, fresco vincitore del Tour de l’Avenir. Nemmeno il tempo di capire che fosse arrivato nel WorldTour che ha messo le ruote davanti a tutti. 

«Purtroppo – racconta da casa Marcato mentre prepara le prossime trasferte – in Australia non era presente Jay Vine (vincitore della corsa nel 2023, ndr). Di conseguenza abbiamo ripiegato su una squadra a più punte. La sorpresa è stata Del Toro, che ha vinto una tappa ed è salito sul podio finale, conquistando il terzo posto. Il Tour Down Under ogni anno diventa sempre più importante e fare un risultato del genere fa ben sperare».

Per Del Toro e Morgado il Tour Down Under ha sancito il debutto nel WorldTour
Per Del Toro e Morgado il Tour Down Under ha sancito il debutto nel WorldTour

Aspettative contenute

La curiosità intorno al debutto di Del Toro era alta, se non altro per vedere come il vincitore dell’Avenir si sarebbe confrontato con i corridori di massimo livello. Non c’erano aspettative così alte, figuriamoci una vittoria. 

«Sia per Del Toro che per Morgado – racconta il diesse – era il debutto nel WorldTour. Sappiamo di che pasta sono fatti, ma di certo non avevamo aspettative troppo alte. C’era un punto di domanda sui loro nomi, il WorldTour è un mondo diverso con gare e atleti di massimo livello. L’idea era che Del Toro avrebbe avuto le sue opportunità, ma i punti di riferimento del team erano Ulissi e Fisher-Black».

Il primo successo

Poi però è successo che nella seconda tappa della corsa australiana l’ordine di arrivo sia stato dominato dal Del Toro. 

«La vittoria alla seconda tappa – conferma Marcato – è stata una sorpresa. Il ragazzo stava bene, lo aveva già dimostrato in ritiro, ma vincere è diverso. E’ stato bravo a cogliere l’occasione. In mattinata avevamo detto che se ci fosse stato un arrivo a ranghi ridotti lui avrebbe potuto anticipare la volata. C’era uno strappo impegnativo a un chilometro dall’arrivo e lo ha preso come trampolino di lancio. Ci aveva già impressionato, perché a meno 8 dal traguardo si era messo a tirare per chiudere sui fuggitivi, una volta rientrati ha trovato la forza di scattare».

Sulla salita di Willunga l’inesperienza porta alla perdita della maglia di leader
Sulla salita di Willunga l’inesperienza porta alla perdita della maglia di leader

Dall’ammiraglia

Una stoccata ad un chilometro dall’arrivo, cercata e anche programmata, in un certo senso. Anche se la gestione dall’ammiraglia non è stata semplice…

«In macchina – continua Marcato – non avevamo il video e la radio non dava informazioni complete. Per fortuna all’arrivo c’era uno schermo e Valerio Accardo ci aggiornava via telefono. Quando Del Toro è partito all’ultimo chilometro ci ha detto che sarebbe andato a vincere. Poi Accardo si è dovuto spostare per andare a raccogliere i corridori dopo il traguardo e non abbiamo avuto aggiornamenti. Dopo un paio di minuti radio corsa ha comunicato la vittoria di un corridore della UAE. Ci siamo sciolti in un’esultanza molto bella. Del Toro l’ho rivisto solo dopo il podio, mi ha raccontato della vittoria ma era incredulo, non si aspettava nemmeno lui un debutto così».

Un po’ di impazienza preclude a Del Toro la vittoria dell’ultima tappa, c’è tempo per imparare
Un po’ di impazienza preclude a Del Toro la vittoria dell’ultima tappa, c’è tempo per imparare

Insegnamenti e ambientamento

Il messicano ha poi colto il terzo posto finale al Tour Down Under, vincendo la classifica dei giovani. Si è mosso, ha fatto vedere tante cose ma con dei limiti di lettura della gara, cosa normale. Tutto fa parte del processo di crescita: vincere conta, ma anche la sconfitta insegna

«Si è messo in gioco – dice il diesse – ha provato ed è giusto così. Peccato perché in un paio di occasioni ha sprecato della buone chance. A Willunga, per esempio, era spesso fuori posizione e ha sprecato tante energie, cosa che ha pagato nella volata finale. Anche nell’ultima tappa ha fatto vedere buone cose, ma avrebbe dovuto pazientare di più, invece ha provato spesso a uscire di forza. E’ tutto giusto, mettersi in mostra e imparare dagli errori.

«In squadra si è ambientato bene – conclude Marcato – è un ragazzo intelligente che ascolta, elabora e mette in pratica. E’ rispettoso, chiede e impara dai più grandi, come da Ulissi che al Tour Down Under lo ha guidato bene. E’ partito forte, anche perché dopo il ritiro di dicembre è andato in Messico ad allenarsi. Si è allenato al caldo e questo lo ha aiutato nelle preparazione. Ora andrà a correre in Oman, senza fretta, di tempo per crescere ce n’è».

Pogacar tra Giro, Tour, mondiale e la nostalgia di casa

26.01.2024
4 min
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ABU DHABI (Emirati Arabi Uniti) – Trovarsi di fronte Tadej Pogacar per caso e rubare 3 minuti del suo tempo. A volte capita anche questo e come è facile immaginare, non ci siamo fatti scappare l’occasione.

Il Giro d’Italia, la passione per la bici, ma senza essere maniaco. La tripletta dei tre grandi Giri? Per ora non è neppure un sogno nel cassetto.

Un 2024 parecchio intenso per Pogacar, che debutterà alla Strade Bianche
Un 2024 parecchio intenso per Pogacar, che debutterà alla Strade Bianche
Finalmente ti vedremo al Giro d’Italia! Hai già puntato qualche tappa in particolare?

In realtà ho sempre desiderato di fare il Giro e questo è il momento giusto per esserci. Per quanto riguarda le tappe, abbiamo iniziato adesso ad entrare nel dettaglio del percorso. Quindi è difficile essere precisi in questo momento. Quello che posso dire è che ci saranno diverse frazioni impegnative e in diversi momenti, dall’inizio alla fine.

La scelta di essere al Giro potrebbe condizionare la tua prestazione al prossimo mondiale?

Per il mondiale è necessario capire come andrà la stagione. L’accoppiata Giro e Tour deve essere gestita e saranno anche le mie gambe a parlare. Vorrei esserci, questo è sicuro, ma prima di tutto voglio fare bene al Giro.

Pogacar tra i vertici dello sport di Abu Dhabi e dell’UCI
Pogacar tra i vertici dello sport di Abu Dhabi e dell’UCI
E invece in ottica Olimpiadi?

Non è il tracciato più adeguato alle mie caratteristiche. Il calendario di gare che abbiamo costruito non ruota attorno alle Olimpiadi. Nel 2024 gli obiettivi saranno Giro, Tour e mondiale.

Hai mai pensato alla tripletta Giro, Tour e Vuelta?

Ad oggi no, mai dire mai, ma non è tra le priorità.

Come sarà guardare gli altri competere nella prima parte di stagione?

Devo entrare nell’ottica e di sicuro è una cosa nuova per me, anche se l’inizio del mio programma di gare non è poi così lontano. Sarò comunque molto impegnato con una preparazione diversa dagli altri anni e con le ricognizioni.

Ti piace allenarti simulando la gara?

Si, mi piace la simulazione della gara durante l’allenamento e la sfida con i miei compagni. Se fatto nella giusta maniera è uno step che ti aiuta anche nell’approccio alla competizione vera e propria.

Lo sloveno, sempre attento alla sua bicicletta
Lo sloveno, sempre attento alla sua bicicletta
Nei giorni scorsi ti sei allenato con Van Der Poel? Una coincidenza?

Siamo buoni amici, ci scriviamo spesso, ma l’incontro durante il training camp è stato pura coincidenza, ci siamo incontrati per strada.

Quanto sei maniaco con la bici e con il materiale in genere?

Mi piace la bici, sono un appassionato di tecnica e di tutto quello che utilizziamo. Non mi definisco un maniaco, però mi piace provare e pensare a cose nuove, a soluzioni che possono dare quel qualcosa in più.

A tuo parere i materiali di oggi portano dei vantaggi?

Portano dei vantaggi per quanto riguarda un incremento e un miglioramento generale delle prestazioni, ma ritengo che nel World Tour siamo tutti ad un livello simile. Qualche team ha un abbigliamento più performante, altri hanno delle ruote più veloci, ma la realtà è che siamo tutti ad un livello altissimo.

Un ragazzino, difficile vedere Pogacar senza il sorriso
Un ragazzino, difficile vedere Pogacar senza il sorriso
Hai mai utilizzato i rulli per fare degli allenamenti indoor?

Sì certo, nel periodo del Covid era l’unico modo possibile di allenarsi in modo adeguato con l’obiettivo di mantenere uno stato di forma ottimale. Uno dei nostri sponsor è MyWhoosh e in quel periodo abbiamo provato anche diverse soluzioni poi utilizzate in seguito per la piattaforma.

Quale è la parte più difficile del mestiere del corridore?

Siamo fortunati e mi ritengo molto fortunato, ma come tutti i lavori dei sogni anche il ciclismo professionistico ha i suoi lati discutibili. Talvolta mi pesa stare lontano da casa e dalla famiglia per lunghi periodi. Questa è la parte del mio lavoro che mi pesa di più.

Dalla matita alla strada, come nasce (e cresce) un casco MET

17.01.2024
8 min
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TALAMONA – Il casco di Pogacar nasce dietro quel cancello. Fuori non ci sono insegne, ma basta varcarlo per riconoscere il marchio MET sulla porta di cristallo. La Valtellina delle grandi montagne comincia più in alto, ma l’aria frizzante e le vette imbiancate danno il senso di un altro mondo rispetto alle pianure milanesi. La sigla che dà il nome al prodotto è composta dalle ultime tre lettere della parola helmet: casco.

L’azienda fu fondata nel 1987 dalla famiglia Gaiatto che ancora adesso la conduce. All’interno, da quando undici anni fa la produzione si trasferì in Cina, si trovano i reparti di progettazione, sviluppo e test. Ed è attraverso questi uffici che ci muoviamo con Ulysse Daessle che per MET Helmets segue i media e le pubbliche relazioni. Lui è francese e si è arrampicato quassù dal sud della Francia perché aveva bisogno di montagne: guardandosi intorno, c’è da capirlo.

Nostra guida in questa immersione del mondo di MET è Ulysse Daessle, francese, da 7 anni in Valtellina
Nostra guida in questa immersione del mondo di MET è Ulysse Daessle, francese, da 7 anni in Valtellina

Disegno a mano libera

Come nasce il casco? Non c’è distinzione fra il tipo di modello, ci dicono mentre ci muoviamo fra prototipi da non fotografare, il punto di partenza è per tutti il briefing fra ingegneri e disegnatori, che lavorano in simbiosi, perché il casco deve essere sicuro, ma anche bello.

«Ogni progetto è completamente nuovo – spiega Stefano Galbiati, disegnatore – non si fa mai il… copia e incolla da uno precedente. Si definisce l’obiettivo, poi abbiamo carta bianca».

Sulla parete si riconoscono bozzetti e schizzi di ogni genere (foto di apertura), che dopo la fase creativa passano al CAD (il software che consente il disegno tecnico in 2D e 3D) che permette di fare anche i primi calcoli su peso, aerodinamica e risposta agli impatti.

Disegno al CAD

«La simulazione 3D – spiega Matteo Tenni, ingegnere e Project Manager – simula gli impatti per avere dati molto precisi che poi confrontiamo con quelli di laboratorio. Prima di queste tecnologie, si faceva uno stampo pilota su cui eseguire i test, ma era una verifica a posteriori e se non andava bene, bisognava costruirne un altro. Ora con il calcolo strutturale e la simulazione virtuale, si fa un lavoro di ottimizzazione.

«Il casco non è un capo di abbigliamento, ma un dispositivo individuale di protezione. Quelli ad alte prestazioni devono unire sicurezza, leggerezza e aerodinamica e non si possono fare certi calcoli su un oggetto già finito. L’ultima verifica è quella della galleria del vento. Per il casco da crono, abbiamo previsto un cablaggio in cui dei sensori di pressione rilevano l’azione del vento. Abbiamo aperto al virtuale nel 2001 e dal 2004 abbiamo la stampa interna».

La stampa in 3D

Definite le forme, si passa alla stampa in 3D. La prima è quella a gesso: dura una notte e al mattino si ha in mano un oggetto piuttosto pesante che tuttavia riproduce fedelmente l’aspetto del casco. Verificato che la forma sia quella voluta oppure apportate le necessarie modifiche, si passa alla seconda stampa: ugualmente in 3D però a filo. Essa produce un casco certamente più leggero, diviso in due gusci da assemblare, all’interno del quale è possibile montare le imbottiture e i vari accessori.

La stanza delle stampanti dispone anche di un forno per la verniciatura e di una stampante 3D più piccola, per realizzare le rotelline di regolazione del casco. Anche questi accessori si progettano internamente.

Il primo casco

In un angolo, si riconoscono le macchine di quando la produzione si svolgeva qui. Ci sono sacchetti che contengono i granelli del polimero di varia densità e ci sono gli stampi con i compressori. In una griglia accanto, ecco il primo casco prodotto nel 1992.

Dal 2012 si fa tutto in Cina: la conseguenza di continuare a produrre qui sarebbe stata probabilmente la chiusura dell’azienda. Inizialmente, i tecnici MET viaggiavano periodicamente verso Oriente. Ora il processo è più agile, con figure di riferimento sul posto in grado di verificare che le lavorazioni siano eseguite secondo gli standard e i protocolli inviati dall’Italia. Lo stabilimento non lavora in esclusiva, ma è palese che l’esclusiva riguardi i prodotti.

Un immenso database

Ricevuto dalla fabbrica il necessario numero di campioni, si passa ai test. Il laboratorio MET fa parte di un pool di realtà impegnate nella definizione degli standard internazionali e nello sviluppo dei test di impatto. I test non sono obbligatori, potrebbero bastare quelli del laboratorio deputato alla certificazione. MET li esegue per immagazzinare dati e garantire i propri caschi a un livello superiore.

«Abbiamo un database – spiega Cesare Della Mariana, deputato ai test – nel quale si tiene conto di tutte le valutazioni fatte sul primo round di campioni. La prima fase, che si svolge al computer, serve per definire i punti di impatto. A ciascuno di essi sono associati dei valori che permetteranno di costruire le curve di distribuzione dell’urto. In questo modo possiamo verificare che il risultato del test corrisponda a quello che avevamo approvato in fase di progettazione».

Il casco e l’incudine

Prima di arrivare ai test d’impatto, il casco deve sostenere una serie di stress ambientali che lo indeboliscono al pari di quanto accade pedalando al caldo oppure al freddo.

Il protocollo europeo CE prevede prima un passaggio al caldo e poi al freddo, perché a -20°C le plastiche diventano dure e fragili. Quindi viene la fase dell’invecchiamento, in un forno girevole in cui i caschi sono sottoposti per 72 ore ai raggi UV, che indeboliscono i legami chimici degli atomi degli strati superficiali (il riferimento di temperatura è quello del sole del deserto dell’Arizona). Infine il casco viene esposto all’azione dell’acqua a temperatura ambiente. Gli standard USA e australiani (CPSC e AU/NZ) prevedono che dopo il caldo e il freddo, il casco vada immerso in acqua.

A questo punto si procede al test di caduta libera che porta a un impatto a velocità di 6,5 metri al secondo (23,4 chilometri orari). Il laboratorio è pieno di caschi da testare altri già… provati. Laddove si intravedano microfratture nella calotta interna, si ha la conferma che il casco ha retto l’impatto e ha ceduto, salvaguardando la vita del ciclista.

«Per questo – riprende Cesare Della Marianna – dopo l’impatto violento il casco va cambiato, anche se non si vedono segni. Se ha assorbito un urto violento, da qualche parte ha ceduto. Altrimenti significa che il colpo è arrivato diretto alla testa del ciclista».

Ogni mese dalla UAE arriva a MET una scatola di caschi caduti, utili per analisi e osservazioni approfondite
Ogni mese dalla UAE arriva a MET una scatola di caschi caduti, utili per analisi e osservazioni approfondite

I caschi della UAE

Per lo stesso motivo, MET ritira tutti i caschi di ritorno dai due team UAE Emirates (ne arriva una scatola ogni mese), per verificare e studiarli dopo eventuali cadute.

L’impatto della testa sull’incudine provoca ogni volta un brivido. Il rumore è secco, fa pensare parecchio. Qui si lavora per salvare vite, comprendiamo lo scrupolo di ogni passaggio: che si tratti di Tadej Pogacar o di un bambino sul seggiolino della bici di sua madre.