Il rientro in corsa di Formolo? Via libera dopo 8 settimane

07.03.2022
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Alla domanda sulle probabilità di vederlo alla partenza del Trofeo Laigueglia Formolo, in cima al Teide, ci aveva risposto così: «Il dottore ha parlato di un 20 per cento, la vedo complicata». Invece, un po’ a sorpresa, “Roccia” era al via della prima gara del calendario italiano. Corsa che ha dovuto concludere anticipatamente a causa di una caduta. 

Alla partenza, il corridore del UAE Team Emirates sfoggiava una vistosa fasciatura alla mano (foto di apertura), infortunata il 3 gennaio sulle strade del Principato di Monaco. Due mesi dopo è tornato in corsa ed anche molto bene, visto che era nel gruppo di testa pronto a giocarsi la vittoria. 

Con Maurizio Radi, Dottore Fisioterapista di Fisioradi Medical Center, abbiamo indagato come si cura e si recupera da un infortunio del genere. 

Quali sono e quante le ossa della mano (foto Chimica Online)
Quali sono e quante le ossa della mano (foto Chimica Online)

La diagnosi

Il referto medico dice che Formolo ha riportato la frattura del 5° metacarpo e del terzo medio dell’osso uncinato. Sono tutte fratture composte, infatti hanno dovuto attendere qualche settimana prima di riuscire a vederle. Se notate, sono state rilevate da una risonanza magnetica, non da una radiografia. La differenza è che la radiografia si fa in due proiezioni, mentre la risonanza è più accurata perché “seziona” l’osso e permette di esplorare tutti i dettagli.

Per le fratture a polso o mano di atleti professionisti non si ingessa più l’arto ma si usano tutori in termoplastica su misura (foto RC Therapy)
Per le fratture a polso o mano non si ingessa più, ma si usano tutori in termoplastica su misura (foto RC Therapy)

Essendo una frattura composta Formolo ha usato un tutore per immobilizzare la mano.

«Dal punto di vista medico – ci dice Maurizio – essendo una frattura composta è stato scelto un giusto trattamento conservativo. Si legge nel referto che hanno dato come convalescenza dalle 4 alle 6 settimane. Alla fine di questo periodo si ripete l’accertamento per controllare lo stato di consolidamento della frattura.

«Con questo genere di infortuni l’atleta viene tenuto fermo in via precauzionale. Anche perché allenarsi su strada non è consigliabile in questi casi. Il rischio è quello di stressare il polso e, nella peggiore delle ipotesi, scomporre la frattura, allungando i tempi di costruzione del callo osseo».

Altri casi simili

Ci sono stati dei casi nei quali alcuni corridori hanno forzato il rientro usando dei tutori appositi per poter guidare la bici. Un esempio è quello di Nibali prima del Giro d’Italia dello scorso anno, anche in quel caso si trattava di un infortunio al polso.

«In quel caso era doveroso tentare di recuperare – riprende Maurizio – perché si era nel pieno della stagione. Nel caso di Formolo non era necessario forzare le tappe visto il periodo della stagione in cui siamo. Dal punto di vista della preparazione ci sono valide alternative come i rulli».

Anche Nibali subì un infortunio simile prima del Giro d’Italia, nel suo caso si forzarono i tempi di recupero
Anche Nibali subì un infortunio simile prima del Giro d’Italia, nel suo caso si forzarono i tempi di recupero

La riabilitazione

Una volta verificato che il callo osseo si sta ricostruendo nel modo corretto può partire la riabilitazione. Come funziona questa fase? 

«Questi tipi di frattura si possono trattare da subito – spiega Radi – cominciando con della fisioterapia strumentale: tipo magnetoterapia, per creare degli stimoli che accelerano la formazioni di callo osseo. Una cosa che bisogna fare in questi casi è evitare che le articolazioni di mano e polso si irrigidiscano, quindi si può intervenire togliendo il tutore per eseguire delle mobilizzazioni passive delle dita e del polso.

«Passata la prima fase di riabilitazione, si inizia ad intervenire con degli esercizi attivi per la mano al fine di stimolare i muscoli per iniziare un rinforzo dell’avambraccio, degli estensori delle dita, del polso e dei flessori delle dita e del polso».

Una caduta ha frenato il suo rientro al Trofeo Laigueglia, per Maurizio Radi nessun pericolo di un ulteriore infortunio al polso
Una caduta ha frenato il suo rientro al Trofeo Laigueglia, per Maurizio Radi nessun pericolo di un ulteriore infortunio al polso

Il ritorno alle gare

Tornare in corsa dopo 8 settimane, è stato un rischio? Visto che Formolo è stato anche coinvolto in una caduta?

«No, un atleta di quel livello dopo un periodo di degenza così lungo – spiega – recupera pienamente. Non ha fatto una corsa stressante come una Roubaix o un Fiandre (ma per precauzione ha saltato la Strade Bianche, ndr). Una volta che viene dichiarata guarita la frattura vuol dire che c’è stato un completo consolidamento del callo osseo e quindi l’atleta si può considerare guarito».

Raffica di vento improvvisa, caduta inevitabile

06.03.2022
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Sempre Strade Bianche. L’impresa di Tadej Pogacar è ancora calda. Il gelo della notte senese non ha raffreddato quella che è stata un’impresa con la “I” maiuscola. Un’impresa nata non solo dal genio e dalle gambe dello sloveno, ma anche da un momento specifico della gara: la maxi caduta avvenuta verso metà corsa.

Chilometro 84 di gara, 100 al traguardo. La carovana sta affrontando il settore di sterrato numero 5, quello di Lucignano d’Asso. Si tratta del settore più lungo (11,9 chilometri), ma soprattutto uno dei più esposti in “quota”.

Ambiente per raffiche

Togliendo infatti il picco di Montalcino, questa è la porzione di gara più elevata della Strade Bianche. Si viaggia sul filo dei 400 metri di altezza, appena sotto. Ma soprattutto la corsa in corrispondenza di questa quota corre sulle crete senesi.

Le crete sono queste colline scoperte. Solo campi e prati. Non ci sono neanche i tipici cipressi del paesaggio toscano, ma solo questa lingua bianca che corre come un filo su e giù per le crete. Ed è qui che avviene la caduta più importante quella che incide nell’economia della corsa. E’ qui che avviene il capitombolo, ormai famoso, di Julian Alaphilippe che fa un 360 gradi seguito da un tuffo nell’erba.

Ed è sempre qui che cadono almeno 30 corridori, che scivola persino Pogacar e va a casa Tiesj Benoot, vincitore nel 2018. 

Il punto di Vendrame

«Siamo entrati nello sterrato e c’era già del vento – racconta Andrea Vendrame – Ad un tratto abbiamo girato verso sinistra e c’è stata una raffica laterale fortissima. Inaspettata. Una raffica che ci ha fatto cadere in tanti. Sono caduto anche io. Era davvero impossibile restare in piedi e purtroppo è andata così».

E questo è un elemento molto importante per l’analisi della caduta. Quando Vendrame dice: “abbiamo girato verso sinistra”, si riferisce al punto più ad Est della corsa. E’ lì che è avvenuta la caduta. E’ lì che la Strade Bianche ha cambiato direzione. Magari quello che fino a pochi chilometri prima era stato vento contro moderato, in una svolta è diventato laterale. Tutto torna.

«E’ stata fortissima – riprende Vendrame stremato all’arrivo – incredibile. Il vento ci ha spostato verso sinistra, verso il bordo della carreggiata, sul ciglio. La strada al lato era finita e a quel punto mettendo le ruote sullo sconnesso (di terra ed erba, ndr) siamo caduti. Io ero nei primi trenta, neanche troppo dietro. Davanti erano caduti. Vedevo bici che cadevano di fronte a me e altre al mio fianco. Vedevo corridori che volavano e scarpette che si sganciavano».

Questione di ruote?

E la questione vento è emersa già prima del via. Poco dopo lo start delle donne, avvenuto alle 9:10, ecco le prime folate su Siena. «Se qui è così, chissà sulle crete», aveva fatto una battuta uno degli steward del posto. Si stima, che la raffica da Nord Est possa aver superato i 70 chilometri orari (dati MeteoAm).

E infatti all’arrivo dei bus qualcuno si è domandato se non fosse il caso di cambiare le ruote. Ma la maggior parte sono partiti con quelle alte da 50-45 millimetri, anche se più del solito si è visto il “basso” profilo da 32-35 millimetri (a seconda del marchio). Gli Specialized per esempio avevano scelto le ruote Roval Alpinist da 33. Ciò nonostante non è bastato ad evitare la caduta.

Gianluca Brambilla aveva ragione quando gli abbiamo fatto notare delle sue ruote alte e del vento che si alzava. «Ma se è forte davvero cambia poco», ci aveva detto prima del via.

La ferita di Covi. Nonostante la botta, Alessandro era felicissimo per la vittoria di Pogacar
La ferita di Covi. Nonostante la botta, Alessandro era felicissimo per la vittoria di Pogacar

Parla Covi

Un’altro corridore che ci ha lasciato un po’ di pelle è stato Alessandro Covi. All’arrivo il corridore del UAE Team Emirates si tocca il gomito sinistro, anche se a catturare l’attenzione è il suo ginocchio sanguinante e impolverato.

«C’è stata questa folata e siamo caduti in tantissimi – dice Covi – Io sono stato uno dei primi, penso… Ero abbastanza davanti. Ho preso una bella botta. Non credo sia stata una questione di ruote alte o basse. E’ stato un vento talmente forte che anche se avessimo avuto le ruote basse ci avrebbe spazzato via.

«E penso anche che sarebbe successo sull’asfalto. Ci avrebbe spostato lo stesso (le immagini tv mostrano come ci sia uno scarto di almeno 5 metri verso sinistra del gruppo, ndr), ma sullo sterrato era ancora più difficile tenere la bici chiaramente».

«Vedevo i corridori a cui partiva la ruota davanti talmente il vento era teso. E poi iniziavamo ad andare forte. Eravamo in un falsopiano, penso sui 35-40 allora».

La solitudine del numero uno. Altra impresa di Pogacar

05.03.2022
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Cinquantuno chilometri all’arrivo. Tadej Pogacar è di nuovo solo, in fuga verso Siena stavolta. Alla Strade Bianche stupisce tutti, tranne se stesso. Persino Mauro Gianetti, il team manager della sua UAE Team Emirates si chiede: «Ma dove va? Manca tanto e in gruppo non sono 7-8. Sono tanti e certe squadre hanno anche tre, quattro atleti. Si possono organizzare».

Ma lui è Tadej Pogacar. Quando scatta neanche sembra faccia fatica. Cancellara, che qui ha vinto tre volte, quando attaccava si contorceva, faceva smorfie. Lui invece niente. Accelera quasi banalmente, eppure apre il vuoto

«E’ così scatta e sembra non fare fatica – dice Matxin tecnico della UAE che lo ha seguito in ammiraglia al fianco di Andrej Hauptman – Tadej è Tadej, non somiglia a nessuno».

Cavalcata solitaria

Ripercorriamo questi 50 chilometri in solitaria. Settore di Monte Sante Marie, uno dei più importanti. Pogacar forza e se ne va. Inizia la sua cavalcata. Ben presto prende vantaggio.

«L’attacco – riprende Matxin – non era stato programmato. Almeno non così… Sapevamo che quello era un punto decisivo e volevamo forzare. Ne avevamo parlato con Tadej, ma molto dipendeva dalla situazione della corsa. Poi si è ritrovato da solo. Tanto che ad un certo punto ci ha chiesto cosa doveva fare.

«Gli abbiamo detto: provaci, fidati di te. La corsa dipende da te, non da quello che fanno dietro. Se hai un minuto è perché dietro non sono brillanti. Ed è andato».

La fuga solitaria tutto sommato, da come racconta Matxin, è passata in fretta. «Andrej (Hauptman, ndr) lo ha gestito alla stragrande. Si parlavano in sloveno. Tutto è più facile così. Curva a destra, curva a sinistra, sterrato fra 300 metri, tratto al 3 per cento… gli fai compagnia, lo aiuti a far passare il tempo».

«Come si gestisce di testa una fuga del genere? Mi ricorda molto quella che fece nella sua prima Vuelta, quando partì a 46 chilometri dall’arrivo. Aveva già vinto due tappe, non aveva il podio, né la maglia bianca: gli dissi di “pensare solo avanti”, a sé stesso. Allora come adesso quindi non aveva nulla da perdere, doveva solo guardare avanti».

Al via 147 atleti. Giornata bella ma fredda. Solo in 90 sono arrivati a Siena, ma tre fuori tempo massimo
Al via 147 atleti. Giornata bella ma fredda. Solo in 90 sono arrivati a Siena, ma tre fuori tempo massimo

Pressione zero

Dalla Tv tutto sembra facile per Tadej. Ma tutti si chiedono se senta o meno la pressione. Se ha avuto almeno un dubbio quando Kasper Asgreen ha forzato e si è creato un drappello che aveva quasi dimezzato il suo vantaggio.

«Pressione? La pressione – dice Maxtin – ce l’ha chi sta in Ucraina. Chi deve arrivare a fine mese con 1.000 euro. Quella è pressione. Questo è un privilegio. Essere un ciclista professionista ed entrare in Piazza del Campo da solo e tutti che urlano il tuo nome: che pressione è? Questo deve essere orgoglio, prestigio».

A queste parole fa eco lo stesso Pogacar. «Avevo pressione zero stamattina – spiega lo sloveno – Se non me la mette il team, e in squadra nessuno me la mette, di quello che succede fuori, di quello che si aspettano gli altri non mi interesso».

Semmai un pizzico di nervosismo, Pogacar ce lo aveva prima di arrivare in Europa, visto che era rimasto tre giorni in più negli Emirati Arabi Uniti per determinati impegni. Non si era allenato come voleva (anche se ci dicono si sia “scornato” per bene con Joao Almeida nel deserto) e aveva ancora il fuso orario addosso. Ma come sempre lui guarda il bicchiere mezzo pieno.

«Alla fine – dice Tadej – mi sono riposato un po’ dopo il UAE Tour e non è stata una cattiva idea visto che la corsa è stata dispendiosa».

Anche Tadej soffre

La sua cavalcata continua. Passa uno sterrato, poi un’altro ancora. Pogacar alterna pedalate potenti in pianura ad altre più “agili” in salita (nel senso che gira velocemente rapporti duri per altri). Nel finale però mostra che è umano. Appena c’è una discesa, si stira la schiena, sgranchisce le gambe. Ha qualche dolore.

«Guardate – racconta lo sloveno – che ho sofferto molto anche io. E’ stata una volata di 50 chilometri. Già poco dopo che sono partito ero affaticato. Non ho potuto certo godermi i panorami. Però a quel punto ero fuori. Passavano i chilometri e io restavo concentrato su di me. Ero concentrato sul traguardo».

Matxin ci dice che Pogacar era sempre informato sui distacchi, che ha gestito questo sforzo da solo. La solitudine tipica del campione ciclista, dell’uomo solo al comando. «Ha la testa vincente», aggiunge Matxin.

L’ingresso in Piazza del Campo è un tripudio. Ci sono i suoi tifosi con le sue bandiere e c’è la folla comune. Ormai Pogacar inizia ad essere un nome anche oltre il mondo ciclistico. Tutti gli addetti ai lavori battono le mani. Lui si siede alle transenne. Ha faticato davvero.

E dire che era anche caduto. «Tadej – dice Covi – neanche lo devi aiutare. Fa tutto da solo!».

In realtà la squadra lo ha coperto e bene. Ed è stata anche rispettosa nel non infierire dopo la caduta di Alaphilippe. «Massimo rispetto – dice Matxin – oggi tocca a loro, domani a noi. Non è in questo caso che bisogna attaccare. Noi abbiamo solo coperto Tadej».

E gli altri?

Chissà cosa deve essere passato nella testa di Alejandro Valverde, secondo, che potrebbe quasi essere il papà di Tadej. Secondo come la sua compagna di squadra Van Vleuten. Al mattino il patron del Movistar Team, Eusebio Unzue, ce lo aveva detto: «Vedrete Annemieck e Alejandro come andranno. Sono sempre agguerriti. Alejandro non come Annemiek, perché lei è sempre “cattivissima”, ma andrà forte».

E non si sbagliava. Il murciano ha gestito lo sforzo alla perfezione. Probabilmente è stato colui che ha speso meno energie di tutti in gruppo. Come un gatto si è lanciato alla ruota di Asgreen nel contrattacco. E quello è stato l’unico momento in cui, per un istante, la corsa è sembrata riaprirsi. Contro Pogacar ci si deve accontentare di questo.

Marianne Vos, una Cervélo R5 per la Strade Bianche

05.03.2022
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La giornata del venerdì è frenetica, perché gli atleti provano una parte del tracciato e i tratti più significativi dello sterrato e i meccanici rimettono mano ai mezzi alla luce delle loro indicazioni. Siamo riusciti ad accedere al parco chiuso della corazzata Jumbo-Visma (cosa per nulla scontata) e abbiamo sbirciato il setting della Cervélo R5 che oggi Marianne Vos utilizzerà nella Strade Bianche.

Marianne Vos, una professionista meticolosa in tutto
Marianne Vos, una professionista meticolosa in tutto

Tubeless e ruote nere da 38

Non solo Marianne Vos, ma tutte le ragazze Jumbo-Visma hanno fatto montare dai meccanici i tubeless con la sezione da 28. Il modello di pneumatico è il Vittoria Graphene 2.0. I meccanici del team ci hanno detto che la pressione in occasione della gara varierà in base al peso dell’atleta e comunque compresa tra le 4,5 e 5 atmosfere, con lattice all’interno della gomma. Le ruote sono una sorta di “nobrand”. Sul cerchio compare una decal RESERVE e/o TEAMJUMBO e ricordano quanto già si vide al Tour 2021. I cerchi sono carbonio da 38 millimetri, nipples esterni e raggiature in acciaio con incroci in seconda. I mozzi hanno tutta l’aria di essere dei DTSwiss su base Spline.

Trasmissione mix Shimano

La trasmissione è a 11 rapporti con due corone per l’anteriore ed è Di2. I pignoni sono Ultegra 11-32, mentre il doppio plateau è 53-39 Dura Ace, “vecchia versione”. Le pedivelle sono da 170. Il bilanciare posteriore è Ultegra, per supportare il pignone da 32 denti. Gli shifters sono Dura Ace, come pure il deragliatore e i pedali.

Manubrio da 38

La piega è una FSA serie SL-K in carbonio da 38 centimetri di larghezza, con i manettini Shimano ruotati verso l’interno. Lo stem è sempre FSA da 100 millimetri di lunghezza, in battuta sullo sterzo e compatibile con le serie sterzo ACR. Questa soluzione permette di integrare completamente il passaggio di cavi e guaine, senza il rischio di strozzature e fermi per lo sterzo in fase di rotazione. La sella è la nuova Fizik Vento Argo 00. Il seat-post è quello full carbon di Cervélo.

La lubrificazione, curata e particolare
La lubrificazione, curata e particolare

Gli ultimi ritocchi

La Vos ha passato alcuni minuti al fianco del proprio meccanico e accanto alla bicicletta. Successivamente è stato sostituito il disco anteriore del freno, che rimane con un diametro da 160 millimetri, mentre sul posteriore è da 140. Tutta la viteria è stata ricontrollata con la chiave dinamometrica e sulle parti rotanti (catena compresa) sono stati applicati tre differenti tipologie di lubrificante, con differenti tempistiche e di viscosità diverse.

Spunta “Loulou”, tempo di ricognizione alla Strade Bianche

03.03.2022
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Sole che va e che viene. Le colline senesi si accedono e si spegnono. Corridori che passano e primo brulicare di ammiraglie. E’ la ricognizione. L’avvicinarsi della Strade Bianche fa vivere improvvisamente questi angoli di Toscana dove di solito c’è ben altra tranquillità.

I team, molti dei quali composti da corridori che ieri erano al Trofeo Laigueglia, ne approfittano per la ricognizione. «Il ciclismo è cambiato – ci dice Davide Bramati diesse della Quick Step- Alphavinyl – ormai la maggior parte fa la “recon” il giovedì e non il venerdì».

Ricognizione al giovedì

Uno dei motivi che probabilmente ha spinto a fare la prova oggi è il meteo. Domattina infatti c’è una certa probabilità di pioggia. Quindi meglio driblare uno scroscione d’acqua poco piacevole e per di più neanche influente ai fini della gara, che invece dovrebbe essere asciutta.

Però Brama ha ragione. Ormai è così: meglio avere un giorno di riposo in più nelle gambe. Meglio passare una vigilia tranquilla. Specie per chi punta alla vittoria come il campione del mondo Alaphilippe.

E sulle orme del team di Lefevere anche altre squadre hanno scelto di provare all’antivigilia. Jumbo-Visma, Lotto Soudal, Bora Hansgrohe, UAE Team Emirates, Ineos-Grenadiers, quelle che abbiamo incontrato noi. Mentre la Trek-Segafredo dovrebbe andare domani. Di sicuro domattina andranno le donne.

Quick Step da lontano

Molti hanno scelto di partire dai meno 90-100 chilometri. Uno dei vantaggi della ricognizione al giovedì è che si può provare una porzione maggiore di percorso.

La Quick Step–Alphavinyl per esempio ha scelto di provare solo i settori più lunghi e per questo è partita abbastanza indietro, in zona Torrenieri per intenderci, vale a dire poco prima del settore più lungo, quello di Lucignano d’Asso. E infatti, dopo Monte Sante Marie, Alaphilippe e compagni sono scesi “in pianura” e hanno ripreso la strada dell’hotel. 

Altri invece, dopo Monte Sante Marie, hanno tirato dritto anche per scoprire gli ultimi tre settori: Monteaperti, Colle Pinzuto e Le Tolfe.

Occhio alle ruote

Una ricognizione fatta principalmente per il “reparto ruote”. Tutti tubeless per i Quick Step. Alaphilippe non aveva ancora trovato la pressione giusta, tanto che proprio all’uscita di Monte Sante Marie l’ha fatta ritoccare al meccanico. Probabilmente l’ha fatta abbassare un po’ visto che si è “lamentato” dell’aderenza.

Il francese ci tiene molto a questa gara. L’ha vinta nel 2019 e lo scorso anno fu secondo alle spalle di Van der Poel. E’ dato in ottima condizione. E quando “Loulou” punta ed è in condizione raramente sbaglia: Leuven (e non solo) insegna.

Per tutti loro ruote a “basso” profilo: le 33 millimetri Alpinist di Roval, marchio di Specialized.

Ma tutto sommato il clan era tranquillo, anche perché a vigilare su di loro c’era Giampaolo Mondini, il responsabile dei team proprio del brand americano. Di certo ne avranno parlato a bocce ferme anche a fine ricognizione.

Ulissi e Covi (in primo piano) durante la ricognizione di questa mattina
Ulissi e Covi (in primo piano) durante la ricognizione di questa mattina

Rapporti: si cerca il 32

E qualche dubbio regnava anche in casa UAE Team Emirates. Soler ha detto al meccanico che la pressione di 5,2 bar all’anteriore andava bene per lo sterrato, ma non per l’asfalto. Così sgonfia, infatti, la ruota saltellava un po’.

Il meccanico della UAE passava con la pompa da una bici all’altra per controllare la pressione appunto. Chiedeva ai ragazzi se andava bene. E intanto annotava i dati su un quaderno. Non solo, ma chiedeva anche dei rapporti.

«Ma lasciate questi rapporti?», domanda Covi: «Io vorrei il 32». «Sì, meglio. Il 32 va bene anche per eventuali ripartenze da fermi», gli risponde il diesse Manuele Mori.

Mentre parlano notiamo che Covi e Ulissi hanno fatto una scelta diversa. Ruote basse per Diego, ruote alte per Covi. Mentre le pressioni, a parte qualche ritocco in base al peso, dovrebbero essere per tutti le stese: 5-5,2 bar all’anteriore e 5,5-5,7 bar al posteriore.

Tattica e percorso

Ma la ricognizione serve anche per memorizzare i tratti, per visionare i possibili scenari di corsa. Una corsa sempre mossa, in cui ci si concentra molto sugli undici settori di sterrato chiaramente, ma che non va sottovalutata per il suo dislivello di 3.100 metri.

«Vedete – spiegavano i diesse della UAE ai ragazzi – qui (la vetta di Monte Sante Marie, ndr) si esce sempre “spaccati”. Di solito ci sono due gruppi. Se si è in uno di questi due drappelli va bene, altrimenti la corsa è finita».

«Perché quanto manca da qui?», chiede ancora Covi mentre sgranocchia una barretta. «Mancano 42 chilometri», gli risponde Mori. «Se non vi sentite un granché meglio anticipare, come fece Formolo qualche tempo fa», continua il direttore sportivo.

«E gli altri tratti come sono?», continua Covi. «Sono più brevi, ma con degli strappi duri», gli ribatte Ulissi, che è lì al suo fianco, ben più coperto del giovane compagno.

Rodriguez solitario

Le squadre si radunano quasi sempre all’uscita degli sterrati. I corridori parlano, si confrontano tra di loro e con i meccanici e soprattutto si aspettano. E sì, perché ci sono delle belle differenze di approccio alla ricognizione.

Ognuno interpreta i tratti come meglio crede: studiare linee e “sentire la guida” andando forte, oppure osservare bene la strada e i suoi trabocchetti. Si cerca poi qualche punto di riferimento da memorizzare in caso di crisi o di attacco.

E in questa interpretazione molto influisce quanto si è fatto il giorno prima.

Laengen e Soler ieri non hanno corso a Laigueglia e infatti sono arrivati in cima con una buona manciata di minuti di vantaggio su Covi e Ulissi, che invece sono stati protagonisti nella corsa ligure.

Idem Carlos Rodriguez. Lui lo abbiamo “pizzicato” in un tratto di collegamento su asfalto, totalmente abbandonato dai compagni (ma con l’ammiraglia al seguito). Anche lo spagnolo ha corso a Laigueglia. Andava pianissimo, ma non conoscendo il percorso lo ha voluto provare tutto.

Al Borgo Pieve a Salti si respira ciclismo, in tutte le sue forme

27.01.2022
5 min
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Esiste un luogo, in Toscana, tra Buonconvento e la splendida Montalcino (siamo a circa 25 chilometri a sud da Siena percorrendo la consolare Via Cassia) che da qualche anno è indubbiamente riconosciuto quale uno dei migliori “bike hotel” del territorio. Ad essere onesti, il Borgo Pieve a Salti è molto più di una struttura turistica con una specifica inclinazione ad accogliere ospiti-ciclisti. Ma scopriamone il motivo, scambiando quattro chiacchiere con colui che del “Pieve a Salti” può esserne considerato il riferimento: Gian Paolo Sandrinelli.

Allora Gian Paolo, raccontaci un poco la storia di questo piccolo angolo di paradiso…

Siamo sulle colline che guardano Montalcino, e Pieve a Salti nasce come piccolo borgo – considerato tra i più belli d’Italia – prendendo il proprio nome dall’antica Pieve Santa Maria in Salti, una chiesa battesimale del VI/VII secolo. All’interno della nostra struttura tutto è letteralmente pervaso di storia: il corpo centrale ad esempio è un fabbricato risalente al XVII secolo. Il nostro ristorante è un luogo dove poter gustare i piatti tipici senesi e bere dell’ottimo Brunello, mentre le camere sono suddivise in standard, superior, deluxe ed appartamenti: questi ultimi davvero ideali per gruppi di ciclisti. Completano l’offerta due piscine, una coperta ed un’altra scoperta, campi da tennis, il centro SPA con sauna e bagno turco e il nostro fantastico maneggio. Da noi posso dire che si respira un’atmosfera di tranquillità assoluta».

Come nasce, o meglio da dove arriva la vostra passione per il ciclismo?

La passione per il ciclismo è qualcosa che mi porto dentro da tantissimo tempo. Sono trentino, di Mori, e dunque non poteva essere altrimenti. E’ il cuore che mi ha portato in Toscana, qui a Pieve a Salti. Ma il legame con la mia terra, con lo sport della bicicletta e con i miei amici corridori professionisti non è mai venuto a mancare. Da molti anni il Borgo Pieve a Salti ospita diversi team WorldTour in occasione della Strade Bianche. Su tutti mi piace ricordare la Lotto-Soudal e, in modo particolare, la squadra femminile della SD Worx. L’anno scorso portammo anche parecchia fortuna, considerando la vittoria della Chantal Blaak. E poi qui da noi Anna Van Der Breggen è davvero di casa: appassionatissima di buona cucina, la consideriamo davvero una di famiglia. E’ e sarà sempre la benvenuta. Quest’anno poi c’è una grande ed importante novità: siamo difatti orgogliosi di aver rafforzato la nostra partnership con il team Mtb Soudal Lee Cougan del due volte campione del mondo marathon Leonardo Paez, con il nostro logo (foto di apertura, ndr) ben evidente sulla nuova divisa!

Gian Paolo Sandrinelli General Manager del Borgo Pieve a Salti con Anna Van der Breggen
Gian Paolo Sandrinelli General Manager del Borgo Pieve a Salti con Anna Van der Breggen
Hai citato Strade Bianche: raccontaci qualcosa di più…

Per noi quella settimana è davvero magica. E’ un rito. Si respira un’atmosfera vera, di grandissimo ciclismo. Al pari di quelle che ho vissuto nelle Fiandre in coincidenza con i loro grandi eventi… Altro aspetto che vale la pena ricordare riguarda poi la collocazione geografica di Borgo Pieve a Salti. Siamo esattamente lungo uno dei tratti di sterrato del percorso (il numero 6, lungo ben otto chilometri, a circa metà gara) e dunque la stessa struttura è davvero ideale anche come base di partenza per dei sopralluoghi, per degli intensi allenamenti, oppure, più in generale, per delle bellissime escursioni sul territorio.

Borgo Pieve a Salti è anche Eroica, giusto?

Esattamente. Il rapporto con Eroica è di lunga data. Abbiamo organizzato per loro dei ristori memorabili, considerando che siamo anche sul percorso. Oggi rivestiamo ancora il ruolo di partner ufficiali, e diamo la possibilità a tutti i partecipanti di trovare nei loro pacchi gara, e così di provare, i nostri prodotti biologici: delle vere e proprie eccellenze…

Il Borgo Pieve a Salti, fin dagli inizi della sua attività nel 1978 produce alimenti biologici
Il Borgo Pieve a Salti, fin dagli inizi della sua attività nel 1978 produce alimenti biologici
Perchè la vostra attività è ben avviata anche in quel settore, corretto?

Sì, è così. L’azienda agricola Fattoria Pieve a Salti è nata nel 1978. Sin dalla propria fondazione il metodo di produzione adottato è stato di tipo semi-estensivo, e questo ha comportato l’ampio ricorso a rotazioni lunghe incentrate sul ruolo delle foraggere miglioratrici (leguminose) coltivate in alternanza con i cereali antichi e minori tipici di questa zona. Questo ha determinato col tempo l’adesione allo schema di certificazione volontaria in materia di agricoltura biologica per la produzione in modo sostenibile di alimenti sani. La costante volontà nel voler ridurre l’impatto ambientale delle nostre attività, e nel voler chiudere il ciclo di produzione e trasformazione per poter produrre alimenti realmente a Km zero, ha poi determinato – a partire dal 1998 – la messa in opera di un impianto aziendale di trasformazione dei cereali completamente auto prodotti.

Borgo Pieve a Salti

Verso Montalcino, le ultime dagli sterrati e dai meccanici

19.05.2021
4 min
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E oggi si riparte. Dopo il giorno di riposo il Giro d’Italia affronta la super chiacchierata tappa Perugia-Montalcino, quella con gli sterrati. Incredibile come la Strade Bianche, che si tiene a marzo, abbia lanciato questo genere di percorso e di corsa. In tutto il mondo l’appeal è fortissimo.

E’ di ieri la notizia che in Belgio ci sia una sorta di rivolta popolare con la televisione di Stato perché abbia scelto di non trasmettere in chiaro il Giro d’Italia con un Evenepoel così in palla e tappe come quella in Toscana.

Quattro settori di sterrato

Ma davvero cosa ci possiamo attendere da questa tappa? Molto, sia dal punto di vista delle emozioni, che da quello paesaggistico, che ovviamente dal punto di vista strettamente agonistico.

Da Perugia a Montalcino i chilometri da affrontare sono 162 e di questi 35,1 sono su sterrato. Si concentrano dal chilometro 92, in località Torrenieri, al chilometro 153, quando il gruppo entrerà nell’abitato di Tavernelle. E anche il dislivello non manca, si superano i 3.000 metri e l’arrivo è in cima ad uno strappo. I 35 chilometri di sterrati si dividono in quattro settori. Il più lungo è il secondo (in apertura) e misura 13,5 chilometri.

Fondo perfetto

Dal Comitato di tappa giungono voci di un grande lavoro sulle strade. Alcuni settori, sono stati abbondantemente risistemati, come il primo. C’era un discesa un po’ dissestata e anche per non compromettere troppo il Giro (ricordiamo non è una classica di un giorno) si è “levigato” il fondo. Come? Prima con delle piccole ruspe a sistemare gli avvallamenti più importanti, poi con il riporto di molta “breccia” e infine con il rullo. Inoltre la pioggia della scorsa settimana è stata una vera manna in quanto ha compattato tutto. Si è pensato persino allo sfalcio dei rovi e dei cespugli ai lati per allargare la visuale. Insomma gli sterrati sono in ottime condizioni.

Montalcino poi si è vestita a festa. Come tutte le altre città del Giro, un suo monumento è stato illuminato di rosa, solo che qui si è andati oltre. Si sono addobbati persino i tipici cipressi. E poi i fiocchi per la città, gli eventi gravel e in e-bike di contorno che vanno avanti da settimane, la gara juniores di domenica scorsa vinta da Svrcek.

Gomme più robuste

Ma se questo è quello che succedeva a Montalcino, ieri nella zona di Perugia, dove soggiornavano le squadre, i meccanici lavoravano sodo, tuttavia meno del previsto. A quanto pare infatti, si è intervenuto quasi esclusivamente su ruote e gomme.

«Noi – ci ha detto Matteo Cornacchione meccanico della Ineos-Grenadiers di Bernal – utilizziamo le ruote Shimano Dura Ace da 40 o da 60 millimetri di profilo a seconda di ciò che vuole il corridore. L’unica cosa che abbiamo cambiato sono state le gomme: usiamo i tubolari Continental Rbx, cioè Roubaix, sempre da 25 millimetri. Semplicemente hanno una sponda e una carcassa più robuste. Li utilizziamo nelle classiche del Nord e abbiamo l’esperienza della Strade Bianche. Per il resto le bici sono totalmente identiche ad una tappa normale».

E dello stesso parere è anche Nazareno Berto, storico meccanico della carovana ed ora in forza alla Bardiani Csf Faizanè.

«Si è lavorato solo sulle ruote – dice Berto – I ragazzi useranno tubolari Pirelli da 28 millimetri, mentre di solito montiamo quelli da 25. L’unica differenza per gli sterrati è l’utilizzo delle ruote basse, che poi sono quelle da 30 millimetri le Deda Elementi SL30TDB, per tutti».

Bernal, un motore speciale anche per le classiche

11.03.2021
3 min
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Bernal sul podio della Strade Bianche è stato una sorpresa? Neanche un po’. E mentre il colombiano fa la gamba alla Tirreno-Adriatico (in apertura durante la tappa di oggi all’attacco verso Chiusdino) pensando al prossimo vero obiettivo che sarà il Giro d’Italia, noi vi portiamo a un giorno di qualche anno fa: il 17 settembre del 2015.

Egan era da poco arrivato in Italia e si cercava una corsa in cui farlo provare su strada, essendo fondamentalmente un biker. Fu così che Franco Bellia propose di schierarlo al via della Sognando il Fiandre, corsa che faceva la salita di Buti, ai piedi del Monte Serra, poi affrontava quattro giri di un circuito con una salita sterrata. Egan attaccò e fece il vuoto. L’unico che gli tenne le ruote fu Federico Rosati, un giovane che aveva fatto con lui il viaggio dall’Umbria alla Toscana. Egan non se la sentì di staccarlo. Lo attese a ogni giro e poi ovviamente vinse.

Bernal in azione alla Sognando il Fiandre del 2015, con Federico Rosati
In azione alla Sognando il Fiandre del 2015, con Federico Rosati

La nostra guida nella memoria è Paolo Alberati, che accolse Bernal a casa sua proprio quell’anno, portandolo poi da Gianni Savio. E la conferma che viene dall’ex professionista umbro, oggi allenatore, è che il podio di Siena non sia stato affatto una sorpresa.

Come mai?

Innanzitutto perché sognava da anni di fare la Strade Bianche. Se ne cominciò a parlare proprio dopo quella corsa di Buti e lui ce l’aveva nel sangue. Egan è di quelli che ancora corrono con il gusto di farlo.

Dici che ha mantenuto le qualità di quando era biker?

Se parliamo di esplosività, credo sia interessante quello che è successo nell’ultimo periodo. Mi piace sapere come si allena, per cui ogni tanto capita di sentirsi. E mi ero accorto che negli ultimi due anni si era messo a fare allenamenti monstre, anche di 7 ore con dei tratti dietro moto con suo padre. Di conseguenza l’esplosività della mountain bike, su cui si allenava al massimo per 3 ore e mezza, è andata calando.

Cosa c’è di interessante dunque nell’ultimo periodo?

Ha avuto problemi alla schiena, che potrebbero anche essere derivati da quei carichi eccessivi, e l’infortunio lo ha costretto a non fare più quei lunghi allenamenti. Credo che ne sia stato avvantaggiato. Perché lavorando meno ore, ha ritrovato l’esplosività che era la sua caratteristica dei primi tempi.

E qui Bernal in azione con Van der Poel sugli sterrati di Siena
E qui in azione con Van der Poel sugli sterrati di Siena
Era tanto più esplosivo di ora?

Quando lo portai da Ellena, alla Androni, consegnammo loro i test fatti al centro Uci di Aigle. Aveva fatto dei test massimali di breve durata e dissero che il suo rapporto potenza/peso era fra i migliori di sempre. Anche più dei pistard. Per cui i 1.362 watt di Van der Poel nel finale della Strade Bianche non avrebbe potuto farli, anche perché non ha quella struttura fisica. Ma non c’è da meravigliarsi che fosse lì.

Pensi che potrebbe fare bene anche in una Liegi?

Bisogna vedere se gli entra nel cuore, come è stato con la Strade Bianche. Di certo, se torna a lavorare per i Giri e a fare i grossi volumi di prima, l’esplosività sarà destinata a calare. Quando correva in mountain bike, voleva vincere i grandi Giri. Però mi ricordo anche di quando si mise in testa di vincere il Gran Piemonte, dopo aver vinto il Tour, e se lo portò a casa. 

Hai detto che corre con il gusto di farlo.

Come per la Strade Bianche, sognava di fare il Giro da 4 anni. Vedrete quanto si divertirà.

Cioni, raccontaci quel folletto di nome Pidcock

10.03.2021
4 min
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Ultima Strade Bianche, parla Cioni. Primi 5 arrivati tutti con un passato (per alcuni anche un presente) in altre discipline, ciclocross e/o mountain bike. Un caso? Difficile pensarlo e ritenere che le caratteristiche del percorso toscano fossero un terreno ideale per chi ha radici nell’offroad è riduttivo.

Guardiamo ad esempio Thomas Pidcock. Dopo la bellissima stagione nel ciclocross, al suo esordio fra i pro’ ha già fatto vedere di che pasta sia fatto alla Kuurne-Bruxelles-Kuurne, terzo addirittura in volata. Dario David Cioni, uno dei preparatori della Ineos Grenadiers non ne è stupito: «La classica belga ha dato in questo senso risposte ancora più importanti, essere così brillante dopo 5 ore di gara, giocarsi la vittoria allo sprint ha detto molto del suo potenziale. Tutti pensano che sia un semplice scalatore, ma non è così. Non è certo fermo allo sprint… In Toscana ha fatto benissimo, ma lì per uno come lui era quasi più semplice».

Ai mondiali di cross ha pagato il percorso pesante e i suoi appena 59 chili
Ai mondiali di cross ha pagato il percorso e i 59 chili

Cioni, il precursore

Parlarne con Cioni non è casuale. Dario è stato un precursore della multidisciplina in Italia: nazionale nella mountain bike sul finire degli anni Novanta, autore di un clamoroso secondo posto in Coppa del mondo nel 1996 a Sankt Wendel (considerata al tempo la “Roubaix” delle ruote grasse), poi non ha resistito ai richiami della strada, dove si è costruito una carriera lunga e rispettabile. Un po’ si rivede in Pidcock, anche se le caratteristiche tecniche sono molto diverse: «Chi pensava che, vedendo le ultime gare di ciclocross della stagione, peccasse di resistenza sbagliava. Ma non dobbiamo dimenticare – prosegue Cioni – che sono discipline diverse. Nel ciclocross gli altri avevano accelerazioni nel finale che il britannico soffriva, nelle gare su strada i ritmi gli sono attualmente più congeniali, ma è agli inizi, ogni gara è una scoperta per lui e per noi».

I tre di questo podio del cross, protagonisti anche alla Strade Bianche
I tre di questo podio del cross, protagonisti anche alla Strade Bianche
Un Pidcock in Italia non c’è, forse perché si è iniziato troppo tardi a parlare di multidisciplina?

All’estero fare più discipline è normale soprattutto agli inizi, qui si è sempre stati più settorializzati. E’ un discorso che coinvolge anche la Federazione, nel passato non si è mai guardato alle varie discipline in un contesto unico. Parlando anche per esperienza personale, il ciclocross è in un’altra stagione e non dovrebbe essere visto come un ostacolo per la strada, mentre la Mtb per le sue caratteristiche tecniche sarebbe un giusto anello di congiunzione. Non bisogna però dimenticare che molto dipende dal singolo atleta. Qui parliamo di campioni veri, come Van Der Poel o lo stesso Pidcock, che riescono a cambiare disciplina con facilità.

Che cosa andrebbe fatto per accelerare su questa ricerca di cambiamento, anche culturale?

Io penso che le squadre continental dovrebbero avere un occhio di riguardo verso i giovani, soprattutto gli under 23 delle altre discipline ciclistiche. Attraverso di loro sarebbe più facile creare quelle strutture di passaggio. D’altronde se guardiamo al ciclocross, di ragazzi interessanti in Italia ce ne sono. Le continental sarebbero un ponte ideale per fare esperienza su strada senza precludere la loro carriera anche invernale, come per il campione olandese o per Tom.

Pidcock ha debuttato con la Ineos nel vecchio Tour du Haut Var
Pidcock la debuttato con la Ineos nel vecchio Tour du Haut Var
Cioni incontrò diffidenza quando cambiò disciplina?

Io ebbi la fortuna di correre in Mtb nella Mapei e di passare con loro alla strada. Quando ero alla Grassi e sempre con la Mapei avevo già fatto uno stage su strada correndo già ai massimi livelli in mountain bike. Io poi ho iniziato molto tardi nel ciclismo, a 18 anni, e ho concentrato tutte le esperienze in pochi anni.

E Thomas come viene visto nel gruppo, per questo suo essere tecnicamente dalle mille sfaccettature?

I tempi sono diversi, ormai non ci si stupisce più dei risultati di questi ragazzi provenienti da altre discipline. Lo stesso Roglic ha un passato addirittura nel salto con gli sci e quest’anno sono approdati al professionismo atleti provenienti dal triathlon o dalla corsa in montagna. Uno come Pidcock ormai è la normalità, non fa quasi più notizia…