Forlì, serata per Fabio. Lampi di una storia dura e dolcissima

07.07.2024
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FORLI’ – «Se fosse arrivato secondo – dice Maggioni – Fabio non avrebbe alzato le mani. Era un grande corridore, lui voleva vincere, era un campione. Ne ho visti pochi in corsa avere la sua lucidità e puntare dritto all’obiettivo. Lui voleva vincere e questo secondo me fa la differenza tra chi partecipa e chi punta al massimo risultato possibile. Fabio avrebbe fatto una carriera da campione, l’ho sempre detto. Era un atleta di classe, aveva questo spunto e aveva soprattutto la caparbietà nel voler arrivare all’obiettivo. E poi sarebbe stato un buon padre e un buon marito. E noi continuiamo a ricordarlo, divertendoci e provando a far divertire anche gli altri, con lo spirito che lui ci ha lasciato».

La sala si è riempita, i racconti hanno coinvolto il pubblico (foto Valentina Guardigli)
La sala si è riempita, i racconti hanno coinvolto il pubblico (foto Valentina Guardigli)

Il tempo non guarisce

Forlì, sera d’estate al Grand Hotel. Annalisa Rosetti, moglie di Fabio Casartelli, ha radunato gli amici di un tempo alla vigilia della gran fondo che porta il suo nome: La Casartelli. Suona strano raccontare questa storia all’indomani della morte di André Drege al Tour of Austria, con quel senso di quasi colpa perché il tempo ha sanato queste ferite. In realtà il tempo non ha sanato un bel niente, ci ha costretto semmai alla rassegnazione.

A 29 anni di distanza il dolore resta e per questo Annalisa ha chiesto che la serata serva soprattutto a ricordare il campione olimpico di Barcellona 92 e non le immagini del Tour 1995. Invito raccolto, a costo di lasciare il Tour de France per qualche giorno. E quando in testa alla sala si ritrovano i compagni di una volta, sembra di tornare indietro nel tempo. Storie di dilettanti, di uomini che sognavano di diventare grandi, senza tutta la scienza che oggi a 18 anni li trasforma in macchine da guerra.

Bulli e gentiluomini

«Non si può raccontare tutto», scherza Roberto Maggioni, campione del mondo della cronosquadre juniores nel 1986 e atleta olimpico a Seoul 1988. Ha corso con Casartelli alla Domus 87, la squadra di quel Locatelli cui a un certo punto voltò le spalle, non riconoscendosi nel suo ciclismo. Maggioni aveva circa due anni più di Casartelli.

«Se Fabio fosse stato qua questa sera – prosegue – avrebbe fatto casino come sempre, perché in vita sua ha sempre fatto casino. Ci siamo divertiti tanto, abbiamo riso tanto, abbiamo fatto un po’ di stupidate. Eravamo bulli – dice gonfiando il petto – era bello, avevamo vent’anni ed eravamo bulli e ci comportavamo da bulli. Lui è stato quello che mi ha iniziato al rito del festino al Ventolosa…».

Mamma Rosa e papà Sergio Casartelli (foto Valentina Guardigli)
Mamma Rosa e papà Sergio Casartelli (foto Valentina Guardigli)

I festini del Ventolosa

Il Ventolosa era un vecchio albergo, sede del ritiro della squadra bergamasca. Locatelli lo gestiva come fosse un monastero o una casa delle penitenze, con il vecchio Jair che doveva fare la spia, ma spesso era dalla parte dei corridori o fingeva di non vedere.

«Io ero appena arrivato – prosegue Maggioni – e lì non si mangiava, avevo fame. Avevamo tutti fame, quindi quando ci trovavamo facevamo dei festini segreti in cui prendevamo dolci e quant’altro e ce li mangiavamo. Avevamo fame, quindi la prima sera che io ero in ritiro, vado nella camera che Fabio divideva con Fagnini. Erano una coppia indissolubile e gli chiedo quando si sarebbe fatto il festino. E lui mi risponde: “Stai calmo Maggio, stai calmo. Siediti lì. Ogni cosa ha il suo tempo”.

«Mi siedo, lui chiama gli altri e lo vedo prendere il cacciavite e una sedia. Si avvicina alla finestra, sale sulla sedia. Io non capisco: cosa sta facendo? E lo vedo che smonta il cassone della tapparella, lo apre e dentro è pieno di roba da mangiare. Il tempo che arrivassero tutti e finalmente ho capito cosa fosse il festino».

Maggioni, Peron, Gualdi e Consonni, quattro campioni del mondo (foto Valentina Guardigli)
Maggioni, Peron, Gualdi e Consonni, quattro campioni del mondo (foto Valentina Guardigli)

Trenta paste per la vittoria

La magrezza a tutti i costi, che negli anni successivi produsse persino qualche caso di anoressia, ma che fra quei ragazzi del 68-70 si combatteva con la sfrontatezza della trasgressione.

«Quell’anno – prosegue Maggioni – Fabio vince la corsa di Diano Marina. Io attacco, ma mi prendono all’ultimo chilometro. Lancio una volata lunghissima, parte lui, imperiale, e vince. Si va al bar di nascosto, per festeggiare. Sopra al bancone c’era un vassoio con delle mattonelle così, che se ne mangio una adesso, ci vogliono 4 giorni per digerirla. Chiede al barista di darcele tutte e 30. “No no – dice il tipo del bar – quelle sono pesanti per voi che siete atleti”.

«Lo stesso ci dà questo vassoio, noi eravamo in 7-8 e le abbiamo spianate in due secondi. Il tipo ci guardava allibito, ma noi eravamo bulli (ride, ndr) e allora per esagerare, Fabio chiese altre quattro brioche. Erano le nostre scorribande quando eravamo insieme. Questa serata ricorda molto la bellezza di Fabio e il suo stile».

Conti, Fontanelli, Simoni e Perona (foto Valentina Guardigli)
Conti, Fontanelli, Simoni e Perona (foto Valentina Guardigli)

Arrivo alla Motorola

I racconti si susseguono. Ci sono Mauro Consonni, campione del mondo. C’è Andrea Peron, campione del mondo e argento olimpico. C’è Mirko Gualdi, campione del mondo e azzurro alle Olimpiadi di Barcellona, mentre Casartelli e Rebellin non ci sono più.

«A parte Fondriest che era andato per primo alla Panasonic nel 1988 – racconta Peron – con Fabio fummo i primi ad andare alla Motorola, una squadra americana. Io a differenza sua parlavo un po’ di inglese, lui prometteva che avrebbe studiato, ma intanto non cominciava mai. Jim Ochowitz, il manager, faceva leva su di me perché lo spingessi. Al primo ritiro gli parlava chiedendogli delle cose e Fabio non andava oltre rispondergli sì o no, qualunque fosse la domanda. Poi qualcosa imparò, ma ricordo che se in squadra volevamo sapere qualcosa sugli avversari e sulla corsa, dovevamo parlare con lui. Dopo pochi chilometri di gara, sapeva tutto di tutte le squadre». Si faceva capire in inglese, francese, spagnolo e sospetto anche in tedesco…».

Per Annalisa e Marco, un’immersione nell’affetto per il loro Fabio (foto Valentina Guardigli)
Per Annalisa e Marco, un’immersione nell’affetto per il loro Fabio (foto Valentina Guardigli)

La dieta dissociata

«Eravamo insieme per un mese prima delle Olimpiadi – racconta Gualdi – c’era Fabio e c’era Rebellin. Loro due erano in una doppia e io ero da solo. Al pomeriggio andavo in camera loro e stavo lì. Davide era sempre in palestra, faceva gli addominali e lo stretching. Io mai e Fabio nemmeno. Così facevamo scherzi. Un giorno il massaggiatore viene tutto preoccupato che sua figlia va per la prima volta in vacanza col moroso. E noi per prenderlo in giro iniziamo a dirgli che diventerà nonno. Finisce lì, con lui che fa gli scongiuri. Facciamo le Olimpiadi, Fabio le vince e a settembre ci ritroviamo con quel massaggiatore. Che ci punta il dito e dice che siamo due poco di buono. E quando gli chiediamo perché, risponde che presto diventerà nonno. Noi scherzavamo, era quello lo spirito che c’era.

«Come ricordo che a quel tempo si faceva la dieta dissociata. E quando tre giorni prima della gara completavi lo svuotamento dei carboidrati, non andavi avanti. Ricordo che tre giorni prima di vincere i mondiali in Giappone nel 1990, il mercoledì non riuscivo a tornare in hotel, anche se mancavano solo tre chilometri. E Fabio, che non l’aveva mai fatta, tre giorni prima delle Olimpiadi era in crisi nera. Non aveva forze e passai delle ore a rassicurarlo, dicendo che avrebbe funzionato. E alla fine andò bene…».

Questo sorriso resterà per sempre nei cuori di chi ha amato Fabio (foto Valentina Guardigli)
Questo sorriso resterà per sempre nei cuori di chi ha amato Fabio (foto Valentina Guardigli)

La medaglia d’oro

I momenti si succedono. Mauro Consonni racconta di quando in inverno andavano insieme in baita per mangiare… sano. Ci sono il racconto di Marcello Siboni e poi quello di Roberto Conti, che accolse Casartelli neoprofessionista all’Ariostea, apprezzandone l’umiltà. Le parole di Fabiano Fontanelli e Davide Perona, che corsero con lui alla ZG Mobili.

Le immagini della vittoria di Barcellona toccano dentro, con Fabio, Dekker e Ozols che alzano le braccia all’unisono. Quelle condivise da Marco Casartelli in cui suo papà lo tiene in braccio – 3 mesi lui, 25 anni Fabio – fanno male per quanto sono dolci. Si potrebbe andare avanti per ore, con quel senso di amarcord cui Fabio non si sarebbe sottratto. Nella hall dell’hotel ci sono i cimeli delle Olimpiadi. La Colnago rossa, con quei pignoncini dietro da chiedersi come facessero. La medaglia d’oro. La maglia celeste, in quella prima variazione rispetto al solito azzurro, per il grande caldo. Ci sono le foto giù dalla bici. C’è quello che Annalisa ha avuto il coraggio di cercare dentro cassetti che non apriva da anni e che là dentro non dovranno tornare mai più. Forse serviva questo choc per ripartire, con il senso di colpa di essere fortunati che tanto tempo sia passato e Marco ricordi il suo babbo come una goccia d’acqua. Fabio in qualche modo sarà con noi per sempre. In altre case, in questo momento, tanta leggerezza non è possibile. Questa serata, a pensarci bene, è anche per loro.

Caro Gualdi, ci racconti come si vincono le Olimpiadi in tre?

29.05.2024
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L’ultima volta che l’Italia vinse le Olimpiadi correndo con tre atleti, come accadrà a Parigi il 3 agosto prossimo, era il 1992. Un altro ciclismo, tanto che la corsa a cinque cerchi era campo di battaglia dei dilettanti. Gli azzurri, in corsa a Barcellona con Rebellin, Casartelli e Gualdi conquistarono l’oro con Casartelli (foto di apertura). Una gara di 194 chilometri disputata in tre e per questo dall’andamento particolare. Insieme a Mirko Gualdi ragioniamo di tattiche e di come si possa affrontare una corsa di quel calibro con soli tre atleti a disposizione. 

«Giosuè Zenoni, il cittì di quella nazionale – racconta Gualdi – aveva un acume tattico incredibile. I giorni prima degli appuntamenti importanti parlava con ognuno di noi e disponeva una tattica singola. Poi ragionava e metteva insieme tutto, creando una tattica di squadra. Ad esempio in un mondiale, lungo 14 giri, avevamo deciso che Caruso e io ci saremmo mossi nei giri pari per entrare in qualche fuga. Lo stesso avrebbero fatto Manzoni e Nicoletti nei giri dispari. Tarocco, invece, sarebbe entrato in azione nel finale e Baldato sarebbe stato coperto per aspettare la volata».

Però si correva in più di tre, l’Olimpiade com’è stata gestita?

La tattica è diventata di essere presenti nelle fughe, quelle con più di quattro corridori. C’erano Nazioni da “marcare” come Francia, Germania, Spagna e Belgio. Se un atleta di queste squadre fosse entrato nella fuga anche noi ci saremmo dovuti muovere. 

Anticipare insomma.

Pensare di organizzare un inseguimento in tre è impensabile. A Barcellona ci fu un primo attacco che andò via, poi un secondo nel quale entrai io. In un momento successivo rientrò un altro gruppo nel quale era presente Casartelli, che poi vinse. Io parlai con Zenoni prima della corsa e gli dissi che avrei preferito anticipare, perché ero convinto che si spendesse meno davanti piuttosto che dietro. 

Anche perché diventa una corsa a sfinimento…

Zenoni ebbe una bella idea. Le ultime gare di selezione prima delle Olimpiadi ci chiese di correre senza il supporto della squadra. Io andai a delle gare con la maglia della Zalf e tre compagni giovani che però non erano in grado di darmi un supporto in corsa. Zenoni voleva capire il nostro acume tattico e la capacità di battagliare da soli. Infatti dalla spedizione a cinque cerchi furono esclusi corridori più forti di me, ma che avevano corso con l’appoggio della squadra. 

Viviani, quasi certamente sarà uno dei tre stradisti di Parigi, sarà l’arma da giocare in volata o sarà di supporto?
Viviani, quasi certamente sarà uno dei tre stradisti di Parigi, sarà l’arma da giocare in volata o sarà di supporto?
Servono corridori intelligenti tatticamente.

Sì e anche bravi nel correre davanti, non di rincorsa, gente che sa stare in testa al gruppo. Provare a fare azioni di rientro, in tre, è impossibile, ci si brucia un compagno subito. 

Per questo dicevi che correre davanti diventa meno dispendioso?

Anticipare, soprattutto in un percorso come quello di Parigi con uno strappo abbastanza duro nel circuito, permette di fare una gara regolare. Mentre chi resta dietro vive di fiammate oppure si trova ad andare a ritmi folli fin dai primi passaggi. Non so l’Italia chi potrà portare, io Ganna lo avrei visto bene. 

Lui e Milan sono esclusi di partenza, visto che saranno impegnati con il quartetto pochi giorni dopo la corsa su strada.

Gli incastri saranno difficili, come sempre. Ganna diventa una perdita importante, mentre Milan non mi sembra il corridore adatto a queste corse. E’ forte, ma vincolante, deve avere una squadra che gli dà supporto, in tre non può accadere una cosa del genere. A lui preferirei Mozzato

Perché?

Intanto al Fiandre ha dimostrato di saper andare forte. E’ un regolarista, vero, ma che sa stare sempre davanti e spendere il giusto. Diventa il corridore che può seguire diversi contrattacchi o comunque restare con i migliori. Ma l’uomo certo per me è Bettiol, ha passo, regge in salita e sa muoversi anche da lontano. Le convocazioni sarebbero anche “facili” perché insieme a questi due si potrebbe portare Trentin, un altro che sa attaccare da lontano e non ha paura a farlo. 

Però sembra ormai certa la presenza di Viviani, e questo abbassa a due i posti liberi.

Partiamo dal presupposto che la tattica di gara diventa quella di anticipare. Bettiol è imprescindibile. Viviani invece può giocare due ruoli: quello di tappabuchi oppure di attendista e aspettare l’eventuale volata. Ci sarebbe da decidere se portare Mozzato o Trentin, forse meglio il secondo. 

C’è da considerare anche che Trentin non farà il Tour, Mozzato probabilmente sì.

Come ha detto Mozzato nella vostra intervista, il Tour può dare una gamba importante. Trentin non facendolo rischia di essere un passo indietro, ma lui ha le qualità per prepararsi bene. Poi è uno che sa liberarsi dalla mentalità attendista degli stradisti. Corridori che arrivano dal cross come Van Der Poel e Van Aert non hanno paura nell’uscire allo scoperto. Servirà una grande intelligenza tattica, cosa che non tutti i corridori possiedono.

Tre elementi per Parigi 2024. Bennati fa già le sue valutazioni

29.01.2024
6 min
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I “giochi per i Giochi” sono fatti. L’Italia a Parigi avrà solamente 3 uomini in gara nella prova su strada. Una gara già di per sé di difficilissima interpretazione, con un elemento in meno lo sarà ancora di più. Per questo il cittì Daniele Bennati, ora che ha chiare sia le forze in campo che il terreno di battaglia, è già al lavoro per capire che cosa andrà fatto nella corsa più importante e dura dell’intero quadriennio.

A inizio stagione la tavola è apparecchiata, ma c’è molto sul quale ragionare e Bennati pone le basi del suo lavoro.

«Partiamo dal fatto che sarà una gara con 90 partecipanti – dice – e già questo elemento fa capire che sarà una corsa unica nel suo genere. Nel calendario non ci sono eventi simili e non parlo solo di WorldTour. Si rischia che la corsa possa esplodere da un momento all’altro, ben prima che si arrivi sul circuito finale».

Il cittì azzurro Bennati ha una decina di nomi sulla sua lista, ma aspetta indicazioni dalle Classiche
Il cittì azzurro Bennati ha una decina di nomi sulla sua lista, ma aspetta indicazioni dalle Classiche
E’ vero quindi che non si può pensare di controllarla…

Anche se hai il massimo del contingente, 4 corridori, puoi al massimo cercare di inserirti nelle azioni, ma un controllo vero e proprio non ci può essere. Non dimentichiamo che stiamo parlando di una corsa della lunghezza di una Sanremo e questo è un altro elemento da considerare. Ce n’è poi un terzo, poco messo in luce finora: si correrà senza le radioline, il che significa che i corridori dovranno essere bravi a valutare la situazione all’istante.

Tutto ciò come influenza le tue scelte?

Io ho bisogno di tre corridori che siano in grado di portare a casa il risultato, ma che al contempo siano anche a disposizione dei compagni. Capitano e gregario allo stesso tempo, per dirla tutta. La corsa con 3 soli elementi lo richiede, per questo guarderò con particolare attenzione quel che avverrà nella primavera delle classiche. Intanto però sto prendendo appunti sulla programmazione di ogni singolo corridore, per capire anche come sarà il cammino di avvicinamento alla gara olimpica d’inizio agosto.

La volata vincente di Casartelli a Barcellona 1992, battendo Dekker (NED) e Ozols (LET)
La volata vincente di Casartelli a Barcellona 1992, battendo Dekker (NED) e Ozols (LET)
Con tre elementi a disposizione si torna ai tempi delle Olimpiadi per dilettanti, ultima delle quali fu quella di Barcellona 1992 vinta da Casartelli con Rebellin e Gualdi al suo fianco…

Io ero ragazzino, avevo 12 anni – rammenta Bennati – ricordo quella gara anche se chiaramente non nei particolari. Quell’evento però a ben guardare dà delle indicazioni. Erano tre corridori tutti in grado di vincere. Anzi alla fine la spuntò quello che prima della gara olimpica aveva un palmares inferiore a quello dei due compagni. Per questo penso a gente che mi dia garanzie di rendimento.

Il Coni richiede i nomi con un certo anticipo, già a giugno. Questo è un problema?

Dipende da come si guarda la situazione. Chiaramente non è come per europei e mondiali per i quali si arriva quasi sotto l’evento, qui bisogna scegliere con corposo anticipo. Si può però poi lavorare con i prescelti in maniera razionale, mirata. Per questo è fondamentale per me conoscere la programmazione di ogni corridore inserito nella mia lista. Sapere chi andrà al Giro e chi al Tour per esempio è un fattore molto importante, perché significa che seguiranno strade diverse di approccio alla corsa olimpica.

Proviamo a fare i provocatori: il Cio valuta il contingente per nazione nel suo complesso, quindi non solo per le gare su strada ma anche per quelle su pista. Considerando il numero esiguo di corridori a nostra disposizione e le ambizioni che abbiamo su pista, non si può allora pensare a elementi che possano doppiare?

Se questo significa sacrificare del tutto le nostre ambizioni su strada no, se invece significa pensare a un lavoro di concerto con gli altri tecnici per le scelte, questo avviene già. Con Velo, tecnico delle crono, ci sentiamo spesso e sa già che uno dei miei corridori farà anche la crono al fianco di Ganna, quindi dovrà essere un corridore con spiccate capacità di passista, per puntare a un buon piazzamento.

Per Ganna il calendario è ideale per la crono, ma non per la gara in linea, come per Milan
Per Ganna il calendario è ideale per la crono, ma non per la gara in linea, come per Milan
A proposito di Ganna: pensarlo fra i tre della gara in linea è davvero impossibile?

Con il calendario che abbiamo, sì. L’inseguimento a squadre c’è due giorni dopo, uno sforzo come quello richiesto per la gara su strada non lo smaltisci in poche ore. Se il calendario fosse stato invertito, con la pista nella prima settimana e la strada nella seconda, ci si poteva anche pensare. Sappiamo bene che Filippo ha scelto di puntare alla crono e al quartetto. Da valutare invece la presenza su strada di Milan che, non facendo la crono, potrebbe rientrare nella rosa per la corsa su strada.

Hai saputo delle polemiche destate dai pronostici omnisportivi d’inizio anno, che escludono Pogacar dal podio…

Ho letto la reazione di Hauptman e mi sento di dargli ragione. Tadej non è un corridore qualsiasi, pensare che la doppietta Giro-Tour possa preventivamente inficiare le sue prestazioni a Parigi è una cosa stupida. Rispetto al passato lo sloveno avrà un inizio stagione più soft, quindi si sta pensando di portarlo al meglio proprio per l’estate. Io non credo che pagherà dazio in termini di condizione fisica. Guardate quel che ha fatto Kuss nel 2023: ha corso Giro, Tour e alla Vuelta ha vinto. Con la giusta programmazione si può fare.

Hauptman e Pogacar, il tecnico sloveno ha poco gradito lo scetticismo intorno alle scelte del suo pupillo
Hauptman e Pogacar, il tecnico sloveno ha poco gradito lo scetticismo intorno alle scelte del suo pupillo
Sei d’accordo nel pensare che la formula di gara si addica molto a Pogacar?

Sì, è un mago nell’uno contro uno e la gara olimpica sarà davvero una sfida individuale. Il motore farà la differenza. La Slovenia avrà un elemento in più insieme a noi e questo conta, perché magari nella prima parte di gara ci potrà essere chi si sacrificherà di più. Il circuito finale, con la salita di un chilometro su pavé a Montmartre, sembra disegnato apposta per lo sloveno.

Dì la verità: quanti elementi hai segnati sul tuo taccuino?

Sono almeno una decina, ma siamo a inizio stagione: qualcuno potrà essere cancellato e qualcun altro aggiunto. Valuterò per ciascuno i risultati ottenuti e la competitività in ogni gara, con particolare attenzione a quelle che – e mi riferisco alle classiche – sono più attinenti alla prova olimpica. E se devo dire la verità, vorrei tanto che qualcuno con le sue prestazioni stravolgesse i miei pensieri e mi mettesse in difficoltà nelle scelte. Allora sì che saremmo a buon punto…

Tour 1995, quando la Motorola decise di continuare

24.06.2023
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«Quando ho sentito la notizia e il giorno dopo ho saputo che Mader era morto – mormora Andrea Peron – mi è sembrato di rivedere quel giorno. Vivo in Svizzera, l’ho visto in Svizzera ed ha avuto tanto risalto. C’è stata quasi la stessa dinamica, anche nel succedersi degli eventi dei giorni dopo. E’ stato come aver rivissuto quel Tour del 1995 in maglia Motorola…».

I compagni di Mader al team Bahrain Victorious hanno sfilato con il gruppo, ma il giorno dopo hanno lasciato il Giro di Svizzera
I compagni di Mader hanno sfilato con il gruppo, ma il giorno dopo hanno lasciato il Giro di Svizzera

La scelta di continuare

Oggi a Zurigo si svolgerà un evento commemorativo per Gino Mader, con i genitori al centro e il popolo delle due ruote che confluirà nel velodromo. La nostra memoria invece è andata a giorni che vivemmo in prima persona al Tour del 1995: quelli della caduta di Fabio Casartelli, della lenta sfilata del gruppo sul traguardo di Pau e della vittoria di Armstrong a Limoges con le dita al cielo. Non vogliamo rivangare il dolore, ma a pensarci bene nessuno ha raccontato ciò che avvenne nella Motorola quando si seppe che il loro compagno non ce l’aveva fatta. Come fu che decisero di andare avanti, mentre la Bahrain Victorious ha abbandonato il Giro di Svizzera? Perché decisero di proseguire? Come si vive in una squadra la perdita di un compagno?

«Eravamo all’Hotel Campanile – ricorda Peron – e ci ritrovammo sul prato lì fuori, davanti al laghetto. Jim Ochowitz, che era il team manager della Motorola, era venuto a chiederci cosa volessimo fare. Era la prima volta che succedeva una cosa del genere, fortunatamente non avevamo un precedente. Però conoscevamo tutti Fabio e la motivazione che aveva in quel Tour. Ci confrontammo a lungo e alla fine decidemmo di continuare, proprio per portare lui a Parigi. Perché comunque Fabio, sin da quando era partito dalla Normandia (il Tour del 1995 partì il primo luglio da Saint Brieuc, ndr), diceva sempre che voleva arrivare a Parigi».

Vi eravate preparati insieme, giusto?

Avevamo passato giugno allenandoci a Livigno e continuavamo a parlare di questo Tour e di quanto sarebbe stato bello arrivare a Parigi. E alla fine, decidemmo di continuare proprio per rispetto del nostro amico, altrimenti ci saremmo fermati. Siamo arrivati in fondo e la bici di Fabio ha sempre viaggiato sul tetto dell’ammiraglia fino all’ultimo traguardo. Per noi fu quello il modo migliore per concludere il Tour. Fu una decisione soggettiva del team, evidentemente al Team Bahrain hanno ponderato una scelta diversa, con altre motivazioni che meritano il massimo rispetto.

Credi che se l’incidente di Fabio non fosse avvenuto al Tour, ma in qualsiasi altra corsa, avreste continuato ugualmente?

Probabilmente no.

La sera sul lago ci fu qualcuno che non voleva andare avanti?

Eravamo tutti abbastanza uniti, non ci fu una votazione, fu piuttosto una terapia. Avevamo bisogno di stare tra di noi in modo più intimo. Tutti ci cercavano, tutti ci chiedevano, tutti volevano sapere, tutti volevano esserci vicino, invece quel momento fu solo per noi. Ci siamo confrontati, ci siamo parlati, ma alla fine tutti fummo concordi sul continuare. Fabio aveva un’energia e un entusiasmo contagiosi. Era sempre divertente, sempre motivato, sempre ottimista su tutto. Ce lo trasmetteva e quindi sapevamo che lui sarebbe voluto arrivare a Parigi. 

Hai parlato dell’intervento di Ochowitz, cosa venne a dirvi?

Jim era distrutto, come tutti, ma forse lui si sentiva addosso la responsabilità. Magari non dell’incidente, ma sicuramente del fatto di aver selezionato Fabio per il Tour. Ha sempre avuto un grande cuore e con Fabio aveva legato molto, visto che viveva anche lui a Como. Eravamo tutti più o meno nella stessa zona, eravamo quasi una famiglia.

Quando hai saputo che Fabio era morto?

In maniera chiara, all’arrivo. Però salendo sull’ultima salita ricordo che c’era un’atmosfera strana, quando passavamo noi della Motorola, la gente applaudiva in modo strano. Ricordo Darcy Kiefel, una fotografa americana, che sul Tourmalet mi fece una foto e intanto piangeva. E io pensai: perché sta piangendo? Poi, piano piano, ho realizzato tutto. Le radio non c’erano ancora. Della caduta e che fosse brutta l’avevamo saputo subito. In gruppo c’era ancora tantissima bagarre e mentre da dietro iniziavano a rientrare quelli che erano rimasti coinvolti, andai a chiedere all’ammiraglia se dovessimo aspettare Fabio, ma mi dissero che lo avevano portato in ospedale. Poi parlai con Perini, non ricordo se fosse caduto anche lui o avesse visto, e mi parve sconvolto. Continuammo la tappa, quasi tutti staccati, fino a Cauterets.

Al via della settima tappa del Giro di Svizzera è stata lanciata una colomba bianca, per salutare Gino Mader
Al via della settima tappa del Giro di Svizzera è stata lanciata una colomba bianca, per salutare Gino Mader
Il giorno dopo il gruppo pedalò a passo d’uomo fino a Pau: una processione lentissima, dopo la quale Bjarne Riis disse che avrebbe avuto più senso annullare la tappa, che farsi del male a quel modo…

Fu una giornata molto pesante, in un certo senso capisco Bjarne perché veramente era una tappa lunghissima con un sacco di salite. Fu pesante per tutti, anche perché eravamo svuotati. Già c’era la fatica di due settimane di Tour, ma soprattutto portavamo un macigno dentro e non avevamo l’adrenalina della gara. Se devo dirvi, di quel giorno non mi ricordo niente, se non l’arrivo a Pau e questa sfilata interminabile sui Pirenei a passo d’uomo, con tutto il gruppo che veniva a chiederci. Non mi ricordo che salite abbiamo fatto, dove siamo passati, niente…

Cosa ricordi della vittoria di Armstrong a Limoges?

Lance era motivatissimo per fare qualcosa che ricordasse Fabio. E lui quando era così, tirava fuori un’energia non comune. Fu una vittoria per Fabio, la sera non festeggiammo. Cercammo di mantenere un comportamento di rispetto, ma abbastanza leggero. Ci vuole tanta forza per continuare in quello stato. Quando ti succedono queste cose, trovare l’energia per andare avanti e fare delle tappe del Tour de France è pesantissimo. La tappa di Pau la facemmo a passo d’uomo, però poi la gara continuò, con tutte le difficoltà di un Tour de France.

Andrea Peron, casse 1971, è stato pro’ dal 1993 al 2006 (alla Motorola nel 1995 e 1996). Oggi lavora in Karpos, azienda del gruppo Valcismon
Andrea Peron, casse 1971, è stato pro’ dal 1993 al 2006. Oggi lavora in Karpos, azienda del gruppo Valcismon
Con la stessa testa?

Fummo costretti a reagire, ma almeno per me non c’era più il senso di cercare la vittoria, la prestazione, il risultato. C’era solo arrivare in fondo e portare Fabio a Parigi. La vera lotta fu non farci risucchiare dalle emozioni negative e dalla negatività di quanto era accaduto, altrimenti sarebbe stato impossibile andare avanti.

Tu eri compagno di stanza di Fabio in quel Tour?

Quando quella sera entrai in camera, ricordo benissimo che c’era la sua valigia aperta sul letto, perché l’avevano aperta, penso per cercare i documenti. C’era la valigia aperta, ma Fabio non c’era più. Fu una cosa pesante.

Patron del Tour in quegli anni era Jean Marie Leblanc, che assecondò in toto il volere della Motorola
Patron del Tour in quegli anni era Jean Marie Leblanc, che assecondò in toto il volere della Motorola
In questi giorni si è parlato di sicurezza delle corse.

Non credo che allora, come oggi, ci sia stata la colpa di qualcuno dal punto di vista delle protezioni. Gino Mader e Fabio prima di lui sono mancati facendo quello che amavano. Ogni ciclista si assume una parte di rischio come chi corre in moto, come è successo a Simoncelli e come ad esempio agli sciatori. Mi ricordo la morte di Ulrike Maier nel 1994, che conoscevo. Andò a sbattere su un paletto e morì. Penso agli alpinisti che muoiono in montagna. Quello che invece mi fa più rabbia sono le morti che si possono evitare.

Di cosa parli?

Penso al povero Davide Rebellin, che viene a ucciso perché un camionista gli passa sopra e non si accorge di lui. Oppure tutti i morti che ci sono quasi settimanalmente, tirati sotto da autisti distratti. Questo mi fa più rabbia, perché per loro si potrebbe fare qualcosa. La morte è sempre uguale, ma quelle morti lì non devono più succedere.

Rebellin, Casartelli e i ricordi di Gualdi: l’ultimo dei tre

03.12.2022
8 min
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Il camionista. Le telecamere. I testimoni. La giustizia. La Germania. I cicloturisti che portano fiori, le telecamere, ma il vuoto resta. Da mercoledì, ogni chiamata o messaggio inizia da Rebellin che non c’è più. Per questo con Gualdi vogliamo provare a sentirlo più vicino. Il suo messaggio di quel giorno continua a risuonare nella testa come un grido di aiuto: «Sono distrutto. I miei 2 amici di Barcellona in cielo…».

Mirko è l’ultimo dei tre: Casartelli, Gualdi e Rebellin. Le maglie celesti chiare per combattere il caldo spagnolo, i vent’anni. E di colpo ti rendi conto che il bergamasco è il custode di quei ricordi e hai quasi paura di dirglielo, temendo come potrebbe reagire.

«Guarda quando penso a questo – le lacrime arrivano e la voce si strozza – quando penso a questo, dico che mi sarebbe piaciuto davvero sedermi ancora una volta con loro due e anche con Fusi e Zenoni. Rifare quella cena con la paella che avevamo mangiato la sera della vittoria alle Olimpiadi, tutti insieme a Barcellona. Ti dici che un giorno lo faremo, invece alla fine non se ne fa mai niente. E quando succedono questi disastri, poi ti chiedi perché non l’hai fatto…».

Mirko compirà 54 anni il prossimo 7 luglio: lo stesso giorno di Zabel, scherza, ma al Tour facevano gli auguri soltanto al tedesco. Fabio ne avrebbe avuti 52, Davide ne aveva compiuti 51 ad agosto (in apertura sul traguardo dei mondiali di Stoccarda 1991, chiusi con l’argento).

Gualdi Caruso 1990
Nel 1990 in Giappone, Gualdi vinse l’oro ai mondiali dilettanti. Argento per Caruso, alla sua sinistra
Gualdi Caruso 1990
Nel 1990 in Giappone, Gualdi vinse l’oro ai mondiali dilettanti. Argento per Caruso, alla sua sinistra
Cosa hai pensato quando hai saputo che Davide era morto?

La prima reazione è stata chiedersi perché. Poi monta la rabbia. Quindi cerchi di metabolizzare e cominci a ragionare. Finché a un certo punto ti dici di essere stato fortunato, perché tutto sommato dopo tanti anni in bici, t’è andata bene. Io ho smesso perché un’auto di fronte ha girato nella strada laterale e mi ha preso in pieno. Io però posso raccontarlo e ringrazio il cielo.

Come l’hai saputo?

Avevo appena finito l’influenza ed ero a casa in smart working. A un certo punto mia moglie arriva e mi dice: «Hai visto? E’ morto Rebellin!». Cosa dici? Ho aperto subito internet e ho visto tutto, saranno state le tre del pomeriggio. E da quel momento, non ho fatto più nulla fino alle sei di sera. Ero in una sorta di trance. La cosa assurda è che ero sullo stesso divano di quando morì Fabio. Ero arrivato dall’allenamento. Mia moglie era davanti alla tele in lacrime. «Si è fatto male Fabio – mi dice – è caduto al Tour». Mi ricordo che deve essere tornata la sera alle 20 per dirmi che bisognava cenare e di andare prima a farmi la doccia, perché ero ancora vestito da bici. Penso che dopo tante cose e tante fatiche, nessuno dei due ha potuto godersi la propria storia. Nessuno di loro ha avuto la fortuna di godersi la paternità… 

Da quanto non parlavi con Davide?

Ci scambiavamo messaggi su Instagram. La settimana scorsa mi chiama Mauro Consonni e mi dice: «Mirko, guarda, qua a Como nessuno ha ricordato i trent’anni dalle Olimpiadi. Voglio organizzare una serata al Panathlon, una cena con te, Rebellin e Giosuè Zenoni, per parlare di quel mese». Gli ho risposto subito: «Guarda, è bellissimo. Giosuè vado a prenderlo io, così non guida di notte. E Davide, se vuoi cerco il numero da qualche parte, lo contattiamo». Ero felicissimo di poterlo vedere.

Olimpiadi di Barcellona, tre azzurri in gara: qui Casartelli e a sinistra il cittì Giosuè Zenoni
Olimpiadi di Barcellona, tre azzurri in gara: qui Casartelli e a sinistra il cittì Giosuè Zenoni
Cosa ricordi della preparazione alle Olimpiadi?

Ho in testa l’immagine di loro due sul letto e io in fondo, perché dormivo in un’altra stanza. Eravamo in altura al Maloja, c’erano i letti matrimoniali alla tedesca coi sacchi sopra. Io ero in singola, quindi andavo da loro a rompere le balle. Fabio era simpaticissimo, una macchietta. Si rideva, si scherzava e si sparavano le solite cavolate da ventenni. Davide rideva sempre e stava al gioco. Eravamo dei ragazzi che in quel momento condividevano lo stesso sogno. Ognuno sapeva di avere le proprie carte. E sapevamo anche che unendo le forze, uno dei tre avrebbe potuto riuscirci.

Ci riuscì Casartelli…

Fu festa grande, per tutti e anche per me, anche se non vinsi. Anzi, vi dirò di più. Dopo la premiazione, accompagnai Fabio e Annalisa alle televisioni e feci un po’ da tutore. Gli dicevo che cosa gli avrebbero chiesto, cosa avrebbe dovuto fare, perché avendo vinto il mondiale due anni prima, ricordavo le cose. Li mettevo anche un po’ in guardia. 

Davide forse era il più controllato…

Inizialmente c’era un grande divario. Invece col passare dei giorni, lui forse aveva più fondo, ma per un percorso come quello di Barcellona, la condizione di Fabio e la mia iniziarono a diventare più affidabili. Pensavamo che il caldo avrebbe fatto più differenza, invece no. Quando attaccavo sulla salita e arrivava il momento di dare la botta decisiva, la salita era già finita. Perciò, quando nella fuga in cui ero io rientrò Fabio e poi attaccò, feci di tutto per stoppare gli inseguitori. Erano in fuga in tre, pedalavano verso una medaglia. Nessuno si voltò. La foto dei tre a braccia alzate sull’arrivo è l’essenza delle Olimpiadi.

Barcellona 1992, Casartelli vince la volata della fuga a tre. La tattica degli azzurri è perfetta
Barcellona 1992, Casartelli vince la volata della fuga a tre. La tattica degli azzurri è perfetta
Quanto eravate professionisti nel vostro essere dilettanti?

Ai tempi, c’era un dilettantismo bello. Però a suo modo era già un professionismo, nel senso che comunque eravamo tutti in ritiro con le nostre squadre, facevamo tutti uno o due allenamenti settimanali con i compagni. C’era chi, come Fabio, era costretto da Locatelli. Chi come me che era costretto a stare in ritiro dalla distanza. E poi Davide che tutto sommato aveva un gruppo di corridori vicino a casa, che si aggregavano a lui quando dovevano fare chilometri.

Era forte?

Era nato per essere un atleta e poi un ciclista. Io penso che la sua colazione da atleta l’avrebbe fatta sempre e comunque in ogni momento della sua vita. La colazione, la ginnastica per la schiena, lo stretching… Non era un sacrificio per lui e io per questo lo ammiravo tantissimo. Era veramente forte e lo vedevi che si stava già preparando per il professionismo. La regola era che finivi le superiori, poi facevi il militare e dal secondo/terzo anno cominciavi a stringere i tempi. Dovevi menare, passare entro il quarto anno al massimo, sennò dopo eri vecchio. Poi successe che nel 1990 fermarono me e tutti quelli di interesse azzurro con il blocco olimpico, altrimenti saremmo passati prima.

C’era fiducia che poteste vincere una medaglia?

Corremmo in tre il Giro dell’Umbria del 1992, facendo battaglia. C’era Pantani che aveva appena vinto il Giro d’Italia, ma cadde prima della crono di apertura e nemmeno partì. Era la corsa a tappe dopo il ritorno dall’altura e quindi dovevamo metterci in crisi. Voleva dire soprattutto non guardare al risultato e cercare di far fatica. Quindi attaccare, andare in fuga, correre di squadra. Non si andava fortissimo e noi percepivamo di aver fatto tanto carico. Così erano già cominciate le voci su cosa avremmo potuto combinare alle Olimpiadi, ma noi sapevamo che il lavoro sarebbe venuto fuori. Vedevamo la tranquillità di Zenoni e di Fusi. E avendo vissuto negli anni precedenti quello che succedeva a livello di condizione atletica, ero tranquillo anche io. Sapevamo che la gamba sarebbe arrivata.

L’anno prima delle Olimpiadi, Rebellin aveva corso un grande mondiale di Stoccarda. Gualdi era campione uscente
L’anno prima delle Olimpiadi, Rebellin aveva corso un grande mondiale di Stoccarda. Gualdi era campione uscente
Aver condiviso questa avventura ha creato un rapporto prezioso?

C’era come un filo che ci teneva uniti, anche se poi si stava a lungo senza vedersi. Davide lo vissi quando venne alla Polti e facemmo anche un Giro d’Italia insieme. Fabio a quel punto non c’era già più, ma ero sempre rimasto in contatto con Annalisa. In realtà più Maria, mia moglie. Scherzando diciamo che Annalisa vuole più bene a lei che a me. Quando morì Fabio, pochi giorni dopo Maria andò a casa da lei che era là da sola col bambino. E lei si lasciò andare, parlavano di tantissime cose, senza che mia moglie mi abbia mai raccontato niente. E probabilmente in quei momenti si creò anche questo doppio legame. Che poi, diciamocelo chiaramente, eravamo tre esponenti di tre squadre molto rivali fra loro. Io poi ero andato via da Locatelli e avevo vinto il mondiale, quindi quando ci si incontrava alle gare, c’era proprio una guerra aperta. Non potevi essere amico dei corridori di Locatelli.

Chi era Fabio Casartelli?

Fabio era un bravo ragazzo, determinato come noi altri due. Eravamo una squadra e sebbene fossimo stati scelti da un altro tecnico, alla fine in quella camera nacque la complicità per vincere le Olimpiadi.

C’erano punti in comune fra voi?

Anche se sotto diversi punti di vista, eravamo tutti e tre simili. Un po’ della mitezza di Davide me la sento anch’io nel carattere e ce l’aveva sicuramente anche Fabio. Si rideva e si scherzava, eravamo sempre gentili con i meccanici. C’era un bel tasso di bontà d’animo, ma non crediate che fossimo remissivi. Davide era sagace, sottile. Eravamo tutti e tre innamorati di quello che facevamo e intelligentemente sottili nel nostro modo di essere. Avevamo il fuoco che ardeva dentro e la serenità nell’affrontare le cose.

Secondo Gualdi, con un po’ di convinzione in più, Rebellin avrebbe potuto vincere il mondiale1991
Secondo Gualdi, con un po’ di convinzione in più, Rebellin avrebbe potuto vincere il mondiale1991
Di quei tre sei rimasto soltanto tu…

Ho smesso nel 2000 e Fabio non c’era già più. Davide aveva la sua strada. Ho tifato per lui da lontano. Sapete quante volte ho pensato che sarebbe stato bello lavorare per lui quando era alla Gerolsteiner? Sarebbe stato bellissimo e l’ho pensato tante volte quando ho smesso, ma non l’ho mai detto nessuno. Lui era uno che gratificava i compagni, basta vedere quello che hanno detto tutti in questi giorni. Aveva un bel modo di fare

Era davvero così buono Rebellin?

L’unico difetto che aveva, una caratteristica che rifletteva il suo essere mite, era che in alcuni casi era portato ad attendere per paura di aver sopravvalutato la propria forma, la propria condizione. Non si rendeva conto di essere lui uno dei più forti del gruppo. Una volta ai Paesi Baschi nella riunione pre gara disse che si sarebbe mosso quando anche quelli forti fossero partiti. Lo guardammo e gli dicemmo che era lui il più forte e che gli altri aspettavano lui. Però era la traslitterazione del suo carattere, nel suo atteggiamento in gara. Se avesse avuto il coraggio di perdere, il mondiale 1991 l’avrebbe vinto lui. Quando è partito Ržaksinskij, se gli fosse andato dietro lui, l’altro si sarebbe rialzato e Davide avrebbe potuto anche vincere la volata di quelli dietro.

Hai parlato con Zenoni?

A lui ho detto: «Giosuè, accetta il mio abbraccio, come quello di un figlio che abbraccia un padre». Io non ho più un papà, lui non ha avuto figli, ma so che Davide era particolare. Ho voglia di vederlo e di stare insieme anche a Fusi che non vedo da tantissimo. Credo che andremo insieme al funerale. Il viaggio verso Madonna di Lonigo sarà il momento di stringersi ancora di più.

Da un Casartelli all’altro, la firma di Marco sui 30 anni olimpici

21.05.2022
5 min
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Non si scrive in prima persona, te lo insegnano subito. Ma questa volta faccio un’eccezione che spero mi perdonerete. Oggi parliamo in qualche modo di Casartelli con suo figlio Marco, ricordando che fu proprio Fabio nel marzo del 1992 la… vittima della mia prima intervista. Aveva vinto la Montecarlo-Alassio e poi il Trofeo Soprazocco e lo Zssdi di Trieste. Era timido, lo eravamo entrambi. Parlò di sé, di Locatelli e di Albese in cui viveva, di suo padre e sua madre. E di lì cominciammo a pedalare insieme in quella carriera che giusto trent’anni fa si tinse dell’oro olimpico e tre anni dopo si arrestò troppo presto al Tour de France. In partenza, in quel 18 luglio del 1995, mi aveva mostrato la piccola foto di suo figlio, nato da neanche tre mesi, che teneva in tasca avvolta nel cellophane.

Il 2 agosto del 1992 sul percorso di Sant Sadurni d’Andoia (Barcellona) Casartelli vince l’oro olimpico su strada
Il 2 agosto del 1992 sul percorso di Sant Sadurni d’Andoia (Barcellona) Casartelli vince l’oro olimpico su strada

Il filo conduttore

Marco l’ho visto crescere, non con la continuità di un parente o di un amico di famiglia e forse proprio per questo incontrarlo di tanto in tanto rende il percorso ancora più prodigioso. Il suo aspetto e i racconti della madre Annalisa sono uno dei fili conduttori della mia vita. Dal battesimo alla laurea. E quando è venuto fuori che ha disegnato lui la maglia commemorativa di quei Giochi, perché venga distribuita agli iscritti della Randonnée dedicata a suo padre, ammetto che nella gola s’è formato un groppo difficile da far scendere. Ci sono vite più difficili di altre, salite che sembrano non finire. Perciò quando capita di tirare il fiato e guardare il mondo dall’alto, lo stupore è commovente.

Marco si è laureato in Graphic Design lo scorso luglio
Marco si è laureato in Graphic Design lo scorso luglio

«Me lo hanno proposto Gianluigi (Marzorati, presidente della Fondazione Casartelli, ndr) e i nonni. Mi hanno chiesto – racconta – se avessi avuto voglia di provare a disegnare la grafica. Ne avevamo già parlato più di un anno fa e metterci finalmente mano è stato emozionante. Il modo per ringraziare gli amici di Albese».

Il logo dei 30 anni

Marco si è laureato lo scorso luglio in Graphic Design, ora ha la sua partita Iva e lotta per farsi un nome. Mi annunciò con orgoglio di essere prossimo al traguardo, bevendo uno spritz subito dopo i campionati italiani della crono a Faenza. Era venuto con Annalisa a salutarmi, dato che non ci si vedeva da un po’.

«Progettare qualcosa che piaccia visivamente – spiega – potrebbe essere fine a se stesso, se non racconti una storia. Per cui ho applicato uno dei processi tipici del mio lavoro. Ho individuato un punto di origine, l’azione, l’evento e un altro luogo. Per cui sono partito da Albese, il ciclismo, le Olimpiadi e Barcellona. Ho preso lo stemma di Albese e ho pensato di farne uno anche io. Ho messo la ruota della bici. La Sagrada Familia, come simbolo di Barcellona, ho rielaborato il logo delle Olimpiadi 1992 e poi il grano di Albese. Dal momento in cui ho individuato questi elementi, la grafica è venuta abbastanza in fretta. Diciamo tre settimane in tutto».

Barcellona in 3 foto

Il bimbo in quella foto nella tasca. Marchino col faccione e la maglia Motorola. Poi con la maglia rossa della Ferrari che gioca al cimitero. Marchino con la maglia gialla al Tour, per fare le foto con Armstrong. Marco e Annalisa. Lui che sorrideva perché troppo piccolo per rendersi conto, lei sempre più stanca. I nonni. Vanda e Pirro a Forlì, Rosa e Sergio ad Albese. Marco e la veste bianca della prima comunione. Poi da adolescente, identico a suo padre. E adesso, capellone, allegro e tosto com’è giusto a 27 anni.

«Vivo molto serenamente – dice – i ricordi di mio padre e il fatto che tutti me ne parlino. I trent’anni di Barcellona sono una bella ricorrenza ed è bello che ci sia gente che lo ricorda. Barcellona per me è nelle fotografie appese in casa. Ci sono quelle 2-3 immagini che ormai sono icone. Mio padre è nei racconti dei nonni e in quelli di mia madre. Lei è orgogliosa di me ed è bello vedere che mi sostiene. Per me è molto importante».

La Randonnée Casartelli si svolgerà domenica prossima, 29 maggio. Non ci sarò, perché nello stesso giorno il Giro d’Italia celebrerà il gran finale a Verona. In altri tempi avrei potuto pensare di sganciarmi, ma il mio ruolo in bici.PRO impone di non mollare per un solo istante. La vivrò nelle foto e nei racconti di altri. Con un pizzico dello stesso orgoglio di Annalisa. Lei e Marco meritano la serenità e ogni gioia possibile.

Italiani e corse a tappe: la spiegazione (dura) di Locatelli

16.05.2022
7 min
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Olivano Locatelli è tornato sull’ammiraglia. La squadra si chiama Onec Cycling e ha base a Parma. Con lui sale a volte Salvatore Commesso, suo allievo da dilettante. Locatelli ha vissuto vicende che quanto a qualità e quantità basterebbero per tre vite. In un titolo di tanti anni fa, lo definimmo “Lo stregone dei dilettanti”. Non sono stati sempre rose e fiori. I suoi metodi sono stati spesso discussi e hanno portato a inchieste e archiviazioni. Diversi corridori hanno puntato il dito, come altri continuano a ringraziarlo, ma nessuno può negare che la sua esperienza sia qualcosa di raro. Per questo e conoscendo bene le sue convinzioni tecniche, abbiamo fatto con lui una fotografia del dilettantismo di oggi (nell’immagine photors.it in apertura, il bergamasco è con Aru al Val d’Aosta del 2012).

Alcune delle sue affermazioni renderanno la sedia scomoda. Però forse questa volta vale la pena accettare la posizione disagevole, ragionare sui singoli punti senza bocciarli a priori e chiedersi se valga la pena accettare tutto come viene o non varrebbe la pena chiedere qualche cambiamento.

Quest’anno Locatelli guida la squadra emiliana della Onec Cycling (foto Facebook)
Quest’anno Locatelli guida la squadra emiliana della Onec Cycling (foto Facebook)
Ce ne hai messo per rispondere…

Avevo lasciato il telefono a casa, ero a potare gli alberi. Me lo ha insegnato mio padre. Ho gli ulivi, ma questa volta ho potato quattro betulle. A inizio settimana scorsa invece ero in Norvegia da mia figlia, a Stavanger.

La città di Kristoff…

Davvero ? Non lo sapevo.

Che cosa ti pare di questo ciclismo dilettantistico?

Non voglio fare critiche, Vicennati, ma il bel ciclismo lo abbiamo visto noi. Il blocco olimpico non era un danno, al contrario (il divieto per i dilettanti di passare professionisti dall’anno pre-olimpico, rimasto in voga fino al 1992, ndr). Riempiva il serbatoio e il livello si alzava, perché i migliori si confrontavano fra loro. In più c’erano gli stranieri che ci aiutavano. I corridori restavano di più fra i dilettanti, non come adesso. Parlo di Belli, Casartelli, Bartoli e Pantani. Guardo Pozzovivo, che fece tre anni con me e il quarto alla Zalf, ed è ancora là.

L’ultimo blocco olimpico nel 1992: Casartelli (corridore di Locatelli) vinse a Barcellona, poi arrivarono tra i pro’ i ragazzi del 1990: da Bartoli a Pantani
L’ultimo blocco olimpico nel 1992: Casartelli (corridore di Locatelli) vinse a Barcellona, poi arrivarono tra i pro’ i ragazzi del 1990: da Bartoli a Pantani
Oggi chi può passa subito.

Non mi sento di condannarli. L’anno scorso ho letto una tesi di laurea, in cui si sosteneva che il maschio di oggi ha 1/5 degli spermatozoi rispetto a quello di 40 anni fa. Il maschio ha bisogno di lavorare per produrre testosterone. Prima da bambino ti davano il secchiello e la paletta, adesso ti danno il cellulare. Faccio un altro esempio. Fino a 10 anni fa, parlavo con i padri dei corridori, adesso vengono le mamme. E ogni tanto mollo loro una battuta. «Voi siete creatrici di maschi che non sposereste mai», gli dico. Dopo un po’ sapete che mi danno ragione? Ma la colpa non è dei ragazzi, vorrei che fosse chiaro.

E di chi è?

Una decina di giorni fa a Castiglion Fiorentino, un direttore sportivo ha detto che ormai non ci sono più corridori. Io gli ho risposto ad alta voce che invece non ci sono più direttori con gli attributi (la parola usata non è esattamente questa, ndr) e tutti i ragazzi intorno si sono messi a ridere.

Che cosa dovrebbero fare i direttori sportivi?

Smetterla di affidarsi soltanto ai test sui watt, che non sono fedeli per tutti. Se ci fossimo basati su quelli, Pozzovivo, Gotti e Aru avrebbero smesso subito. Ne avevano sui 260, ma avevano anche fibra rossa che matura più lentamente. Se fai questi test sugli allievi in cerca dei numeri più alti, di sicuro troverai passisti e velocisti, quelli con le fibre bianche. Gli altri, che hanno bisogno di più tempo per maturare, neanche li guardi. E li perdi. Ricordo bene quando il presidente della mia società disse che non capivo molto di ciclismo e di far smettere Aru al primo anno, perché non valeva nulla. I corridori li abbiamo, ma li abbiamo fatti accelerare troppo nel cervello.

Pozzovivo ha corso con Locatelli per tre anni, poi è andato alla Zalf, quindi è passato pro’
Pozzovivo ha corso con Locatelli per tre anni, poi è andato alla Zalf, quindi è passato pro’
In che senso?

Li senti parlare che se non hanno il procuratore non passeranno. Si è innescata una dinamica da cui non si torna più indietro. Tutto e subito.

E’ irreversibile?

La Federazione avrà il coraggio di bloccare tutto? Dieci anni fa, una sera a cena con Di Rocco (presidente uscente della FCI, ndr), mi disse che stava tenendo duro, ma che l’UCI vuole ridurre il numero di corse e di squadre in Italia. Favorendo semmai la nascita di una squadra WorldTour e un massimo di 250 corridori. Va così da 7-8 anni, senza che i ragazzi ne abbiano colpa.

Hai parlato dei direttori sportivi.

Una volta mi scontrai con Fabrizio Tacchino (responsabile della formazione FCI, ndr) in uno dei suoi corsi di aggiornamento. Dicevo che i watt non sono reali a 18 anni e che non si poteva ridurre tutto a questo. Venne fuori una discussione dopo la quale rimanemmo a lungo senza parlare. Finché due anni dopo, mi vide e disse che voleva dirmi qualcosa. Pensai che volesse tornare su quel discorso, invece mi chiese se nel corso che stava per cominciare, avrebbe potuto usare le mie parole. Gli chiesi quali…

Ivan Gotti corse nei dilettanti con Locatelli nel triennio 1988-1990
Ivan Gotti corse nei dilettanti con Locatelli nel triennio 1988-1990
E lui?

Mi disse che era rimasto colpito dal mio consiglio di non valutare i corridori al chiuso di quattro mura, che la posizione in sella di gennaio è diversa da quella di luglio e di settembre e insomma… i miei argomenti. Gli era piaciuta soprattutto la mia espressione sul fatto che per fare il tecnico serve… l’occhiometro.

Non tutti sanno valutare i corridori guardandoli.

Infatti i corridori se ne rendono conto e finiscono tra le braccia di chi fa i test. Attenti bene, io sono stato fra i primi a farli all’Università di Torino, ma non c’erano solo quelli. Aggiungete poi che i direttori sportivi di oggi sono stati corridori pochi anni fa, sono abituati a quel sistema, senza vedere la necessità di cambiarlo. Bisognerebbe ripartire dai corridori, consapevoli che da anni abbiamo svuotato il serbatoio.

Cosa dovrebbe fare la FCI?

Prendere determinate persone, mandarle in giro a individuare i talenti e poi trovare il modo di trattenerli, affinché maturino nel tempo che serve. Ho un elenco di oltre 20 corridori fatti smettere a 24 anni dopo che erano passati a 20

Cicone ha corso alla Maiet di Locatelli nel 2013, poi è stato per due anni al Team Colpack
Cicone ha corso alla Maiet di Locatelli nel 2013, poi è stato per due anni al Team Colpack
Torni per un attimo al discorso delle fibre rosse e le bianche?

Prendete Ciccone, che era con me poi è andato via. Non hanno capito che lui non era uno da buttare nelle classiche, ma da far crescere gradualmente nelle gare a tappe. Prendete Aru. Gli dissi che aveva fibre rosse, che doveva avere pazienza e sarebbe arrivato. Lui ha ascoltato e al terzo anno ha cominciato a fare i suoi risultati. Mi piacerebbe dare una mano per trovare corridori da corse a tappe, quelli che ci mancano. Ce ne sono tanti che dovrebbero aspettare, ma se glielo proponi, ti guardano come fossi matto, con tutti questi discorsi che ci sono. Allora bisognerebbe trovare una squadra che investa e li convinca a rispettare i loro tempi, liberandoli da tanti condizionamenti.

Di cosa parli?

Pagando di tasca mia, ho mandato quattro ragazzi da sei biomeccanici diversi. Ebbene, sono tornati con 24 posizioni differenti. La geometria non dovrebbe essere una scienza esatta? Anche questo li condiziona. A volte mi trovo con i miei ex e parliamo. Negli anni capisci. E così parlando con Gotti, gli ho detto che su certi allenamenti avevamo sbagliato tutto. Lui mi ha risposto che ci credeva e quindi andava bene. Ma se togli di mezzo un po’ di queste figure, a chi li dai in mano?

Olivano Locatelli è nato a Bergamo nel 1956, ha corso nei dilettanti (foto Facebook)
Olivano Locatelli è nato a Bergamo nel 1956, ha corso nei dilettanti (foto Facebook)
Cosa pensi del ruolo dei procuratori?

Hanno le loro responsabilità, al pari dei genitori dei ragazzi. Purtroppo quello dei giovani corridori è un commercio, con squadre che negli anni ne hanno fatti passare e smettere decine. Non condanno nessuno, è il sistema che è così. Ma datemi retta, il ciclismo migliore lo abbiamo visto tanti anni fa.

Casartelli, Barcellona, 30 anni fa. Annalisa ricorda…

22.07.2021
7 min
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Era il 2 agosto del 1992. Annalisa era ferma con sua mamma, i suoceri e la banda di Albese ai 200 metri dal traguardo. Fabio si era infilato nella fuga con Dekker e Ozols e alla ragazza bastò uno sguardo per capire che avrebbe vinto lui. Barcellona riardeva di un caldo africano. I tre azzurri portati da Zenoni indossavano un completo celeste fatto proprio per respingere i raggi del sole. Mancavano pochi chilometri alla fine delle Olimpiadi di Barcellona e per l’ultima volta nella storia del ciclismo, erano in corsa i dilettanti.

Adesso fai un bel respiro e dimenticati del resto. Il Tour del 1995 è lontano dal venire, scaccia via quelle immagini e torna a quando Fabio era un ragazzo di 22 anni in un gioco così grande da fargli tremare i polsi. Sarà meglio chiudere gli occhi, c’è troppa luce oggi in questa stanza.

Prima della partenza con il cittì Zenoni. Nell’Italia corrono anche Gualdi e Rebellin. Barcellona dista 20 chilometri
Prima della partenza con il cittì Zenoni. Nell’Italia corrono anche Gualdi e Rebellin

«Per dirgli che lo avevano convocato – ricorda – lo chiamarono a casa mia. Era venuto giù per la corsa di Sant’Ermete, la Coppa della Pace, e l’aveva vinta. Probabilmente lo chiamarono a casa sua e i genitori diedero il nostro numero. Delle Olimpiadi si parlava dall’inizio dell’anno, ma sembravano lontane e irraggiungibili. Poi cominciò a vincere, ma continuava a dirmi che tanto avrebbero portato Bartoli…».

Una gran bella persona

Annalisa racconta. I quasi trent’anni per certi versi sono stati pesanti come un supplizio, perché la vita ha presentato un conto pesante e ingiusto, ma adesso voltandosi sembra che siano volati.

«Chi era Fabio? Per me era una gran bella persona – dice – l’ho conosciuto a vent’anni. Non mi va più di tanto di santificarlo, perché abbiamo tutti i nostri difetti e allora ne avevamo anche di più, legati alla nostra età. Ma era una gran bella persona. Insomma, era l’amore mio…».

Casartelli entra nella fuga e la alimenta: in caso di volata è il favorito
Casartelli entra nella fuga e la alimenta: in caso di volata è il favorito

Tre azzurri in ritiro

Il 1992 era iniziato a suon di vittorie, dalla Montecarlo-Alassio a Soprazocco, passando per Trieste. Impossibile lasciarlo a casa e Zenoni non si pose affatto il problema. A Barcellona sarebbero andati Gualdi, Rebellin e Casartelli. Per l’esclusione di Bartoli saltò l’ammiraglia di Daniele Tortoli, ma questa è un’altra storia e ancora una volta si tratterebbe di parlare di amici che non ci sono più.

I tre ragazzi volarono a Igualada, una cittadina a 70 chilometri da Barcellona e a 20 dal circuito olimpico. Zenoni li raggiunse assieme a Peron, una volta disputata la 100 Chilometri che vide la vittoria della Germania e l’argento degli azzurri, con Anastasia, Contri, Colombo e il varesino che avrebbe fatto la riserva su strada.

«Fabio era in camera con Rebellin – ricorda Gualdi – io ero da solo, ma era più il tempo che eravamo tutti e tre sullo stesso letto a chiacchierare, di quello che passavamo separati. Eravamo tranquilli, con il massaggiatore Benazzi e Fossa il meccanico. Zenoni era solito farci fare la dieta dissociata. Quattro giorni senza carboidrati, poi l’inversione e tre giorni di carico. Ricordo che nel giorno dell’inversione eravamo in allenamento e Fabio andò in crisi di fame e io con lui. Passammo dall’avere sensazioni fantastiche al non andare avanti. Mi ricordai che la stessa cosa mi era successa due anni prima quando vinsi il mondiale in Giappone. E così cominciai a dirgli di non preoccuparsi, di buttare via i pensieri cattivi».

Quando i due tornarono in hotel, Zenoni quasi li festeggiò per essere riusciti a svuotarsi così bene da ogni zucchero e poi raccomandò loro di darci dentro con i carboidrati. Quando Fabio si infilò nella fuga con quei due, benedisse quel carico di carboidrati e si mise a pensare al modo per vincere la corsa.

Fabio vinse facilmente in volata su Dekker e Ozols
Fabio vinse facilmente in volata su dekker e Ozols

Sotto al podio

Adesso fai un bel respiro e dimenticati del resto. Il Tour del 1995 è lontano dal venire, scaccia via quelle immagini e torna a quando Fabio era un ragazzo di 22 anni in un gioco così grande da fargli tremare i polsi. Sarà meglio chiudere gli occhi, c’è troppa luce oggi in questa stanza.

«Ero partita da Albese con la mia mamma – ricorda Annalisa – e con i tifosi, tutti sullo stesso pullman. Mi ricordo che la mattina della corsa, riuscii a vederlo prima che partisse. Mi ero portata un televisorino con l’antenna, mi sentivo una privilegiata, anche se perdeva sempre il segnale. Ero ai 200 metri e quando vinse feci di tutto per scavalcare le transenne, ma non volevano lasciarmi passare. Continuavo a dire di essere la morosa, ma quelli in spagnolo cosa volevate che capissero? Finché in qualche modo riuscii a raggiungerlo. Fabio mi abbracciò. Mi guardò. E mi disse: “Hai visto cosa ho combinato?”. Ridevo e piangevo, non capivo…».

Fabio salì sul podio con la maglia di Gualdi, perché la sua si era strappata. In quelle Olimpiadi a pane e salame, il podio si fece subito dopo la gara, senza neppure dare ai corridori l’occasione di cambiarsi.

Sul podio di Barcellona, il suo bellissimo sorriso di sempre
Sul podio di Barcellona, il suo bellissimo sorriso di sempre

Il biglietto di Rebellin

Il segno dei tempi. Immaginate ora la compagna del campione olimpico che scavalca le transenne e lo raggiunge prima del podio. Ma successe di peggio…

«Dopo la premiazione andai in albergo -ricorda – e venne fuori il discorso di come sarei tornata a casa. Il pullman stava per ripartire e siccome Rebellin sarebbe tornato con i suoi, avrei potuto prendere il suo biglietto. Vi immaginate a farla oggi una cosa del genere? Io sono una attenta alle regole, Fabio invece diceva che se ci avessero fatto storie, avrebbe tirato fuori la medaglia d’oro e ci avrebbero fatto passare, ma nessuno ci chiese niente. Insomma, dovevo restare su per pochi giorni e rimasi più a lungo con lui. Non avevo vestiti di ricambio. E quando sbarcammo all’aeroporto, indossavo i suoi pantaloncini corti e la maglietta della nazionale. Pensate come mi sentii quando si aprirono le porte e ci trovammo davanti giornalisti e fotografi. Già ero timida in modo imbarazzante, immaginate come mi sia potuta sentire. In realtà era timido anche Fabio e tutto questo essere chiamato alle feste, per le interviste e le foto, inizialmente gli piaceva. Poi in autunno un giorno sbottò e cominciò a dire basta».

La città di Forlì nel 2016 ha dedicato a Fabio una pista ciclabile. Sul pannello la foto di Barcellona 1992. Nella foto, Annalisa e Marco
La città di Forlì nel 2016 ha dedicato a Fabio una ciclabile. Nella foto, Annalisa e Marco

Matrimonio nel 1993

Un giorno si ritrovarono ospiti del Pavarotti & Friends, a tavola fra il Maestro e sua moglie. «Dio che imbarazzo – ricorda Annalisa – non riuscivo neanche a divertirmi, anche se mi resi conto che Pavarotti era una persona normale con cui parlare. Quando eravamo soli però ci divertivamo come matti. La vittoria non lo aveva cambiato, è sempre rimasto lui. Io a dire il vero cominciai a pensare che con tutte quelle miss intorno, sarebbe finito tutto e glielo dissi. Mi guardò e mi disse: “Sei matta?”. L’anno dopo ci sposammo e non perché fossi incinta, come disse qualcuno. Ma solo perché lui era ad Albese e io a Forlì, troppo lontano per continuare a viaggiare. L’ho imparato a mie spese quanto sia cattivo il chiacchiericcio delle persone. Così come mi resi conto di quanti migliori amici saltarono fuori dopo la vittoria delle Olimpiadi. Gente che magari non avevamo mai visto e veniva a raccontare chissà cosa…».

Il 29 giugno 2021, laurea con lode per Marco Casartelli, a destra
Il 29 giugno 2021, laurea con lode per Marco Casartelli, a destra

Gli eroi son tutti giovani e belli

Fabio se ne è andato il 18 luglio del 1995, ma in qualche modo è come se fosse ancora con noi. Rivive ogni volta che incrociamo lo sguardo o le parole di Annalisa e rivive nelle espressioni di suo figlio Marco che quel giorno non aveva che pochi mesi, mentre oggi si è laureato ed è un giovane uomo pieno di vita e di sogni. Il mondo è cambiato, le Olimpiadi sono cambiate e gli eroi di adesso fanno sembrare quelli di ieri come personaggi di film in bianco e nero. Eppure a noi piace pensare che Fabio sia ancora vivo. E anche se Annalisa è grande fan di Ligabue e grazie a Ligabue è riuscita a lasciarsi indietro grossi pezzi di dolore, pensando a Fabio a noi piace pensare alla strofa di un altro grande emiliano, più serio, con la barba e la erre moscia.

Fai un bel respiro e dimenticati del resto. Scaccia via quelle immagini e torna a quando Fabio era un ragazzo di 22 anni. Chiudi gli occhi, c’è troppa luce oggi in questa stanza. Ascolta la chitarra. «Ma nella fantasia ho l’immagine sua, gli eroi son tutti giovani e belli, gli eroi son tutti giovani e belli, gli eroi son tutti giovani e belli».