Fra i tanti vincitori di titoli mondiali nel ciclismo italiano, Mirko Gualdi riveste un ruolo particolare, almeno in questi giorni, perché conquistò il suo titolo (allora fra i dilettanti) nel 1990 a Utsunomiya, nel lontano Giappone. Il Paese dove ormai tra un pugno di giorni ci si giocherà il titolo olimpico, ossia l’ingresso nella leggenda. Sono passati tanti anni e la vita di Gualdi, da quel giorno, è trascorsa attraverso mille peripezie, ma alcuni particolari di quella gara sono ben presenti nella memoria e possono essere anche un buon bagaglio di esperienze per Cassani & C.
Se gli si chiede che cosa ricorda inizialmente, il lombardo non ha dubbi: «Il caldo… gareggiammo fra i 35 e i 38 gradi con l’85 per cento di umidità. Ricordo soprattutto una ricognizione sulla salita più dura nei giorni precedenti. In cima mi tolsi la maglietta, la strizzai e colava acqua come tirata fuori dalla lavatrice senza centrifuga… ».
Come vi difendeste da quel caldo opprimente?
Borracce di acqua e sali come se piovesse, ma soprattutto è importante mentalizzarsi su quel che si troverà, avere ben presente che il clima costituirà un fattore come lo fu per noi.
Il fuso orario influì?
Non poco. Noi scegliemmo di partire per tempo, considerando gli studi che indicano un recupero di un’ora al giorno. Altri scelsero altre vie, gli olandesi ad esempio partirono due giorni prima per non cambiare il ciclo metabolico, col risultato di ritirarsi tutti… Servirebbero almeno 10 giorni per trovare il giusto assetto.
Com’era il percorso?
Molto duro. Non conosco quello dell’Olimpiade, ma so che non sarà tenero neanche quello. Noi lavorammo molto sul tracciato, Zenoni lo aveva studiato nei minimi particolari. In quell’occasione imparai che mettendo in correlazione preparazione e risultati si è premiati e so che Cassani, che era in gara a Utsunomiya fra i pro’, fa lo stesso.
L’ambiente?
Erano tempi diversi da oggi, dove con gli smartphone sei sempre collegato con il mondo e quindi con casa. Noi stavamo tutti insieme in hotel, l’unico diversivo era la telefonata serale, il difficile era stare soli in camera. Fu fondamentale l’apporto dello psicologo Sergio Rota.
Che cosa ricordi della gara?
Eravamo in 6, nella prima parte l’obiettivo era piazzare un paio di corridori in ogni fuga, altrimenti si sarebbe lavorato per la volata finale di Baldato. Si formò una fuga di 12 corridori con me e Roberto Caruso dentro. In salita rimanemmo in 4, sempre con Roberto insieme a me e successivamente provai ad andare via e vidi che ero rimasto solo. Mancavano 65 chilometri al traguardo: è stata la più lunga fuga vincente dei mondiali, solamente Soukhoroutchenkov aveva completato un’azione superiore ai Giochi di Mosca ’80.
La tua carriera professionistica è durata solo 7 anni, dal 1993 al 2000, con qualche guizzo ma tanta sfortuna. Che cosa accadde?
I primi 3 anni furono contraddistinti da una marea di guai fisici: una bronchite che non andava via, poi la frattura a una spalla, nel ’95 l’operazione alla schiena. La mia prima vera gara fu il Tour ’96, dove ottenni un 2° e un 3° posto parziali. Nel ’98 fui 3° ai tricolori a cronometro e feci una grande Vuelta, finendo 21°, ma vedendomi sfuggire la vittoria per ben tre volte a un chilometro dal traguardo. Nel 2000 fui 3° a Milano nella tappa finale del Giro, venti giorni dopo ebbi un’incidente che mi costò la piena mobilità di un polso e dovetti chiudere così. Quel problema non mi ha più permesso di guidare la bici, non posso tenere il manubrio.
Da allora che cosa ha fatto Mirco Gualdi?
Sono rimasto nel mondo della bici. Per molti anni ho lavorato alla Bianchi, ora però sono responsabile commerciale della Brinke, una start up nata 7 anni fa, con sede a Desenzano del Garda, un impiego che mi dà molta soddisfazione perché c’è sempre la voglia di crescere.
Da osservatore esterno che conosce a cosa gli azzurri andranno incontro, sei fiducioso?
Sì, per più motivi. Innanzitutto perché Cassani sa quello che fa e se ha scelto quei 5 uomini ha sicuramente in mente una tattica adatta. Poi perché penso anche che una grande corsa a tappe può darti una buona gamba, ma interpretare subito dopo una grande gara in linea non è la stessa cosa, i picchi di velocità e l’interpretazione cambiano. Il principio negli anni non è cambiato: se lavori sulla preparazione, sulla prestazione i risultati poi verranno.