La storia di Peron, dalla Cento alla conquista del mondo

03.01.2022
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Chi è Andrea Peron con cui proprio stamattina abbiamo parlato in relazione all’abbigliamento della Quick Step-Alpha Vinyl? Di lui aveva raccontato qualche giorno fa Gianfranco Contri in relazione alla Cento Chilometri a squadre, dicendo che dei tanti a dedicarsi alla specialità, il varesino fosse il più stradista. Per questo lo abbiamo cercato perché ci raccontasse la sua storia, ricordando di averlo conosciuto in una vita precedente quando nel 1992 delle Olimpiadi di Barcellona, vinse la Coppa Fiera Mercatale nella Cuoril di Ennio Piscina. Il più stradista di tutti, dice bene Contri?

«Da junior – risponde – c’era anche Rebellin, poi fra quelli della Cento Chilometri vera e propria anche Anastasia e Luca Colombo hanno fatto qualche anno da professionisti, anche Salvato, Brasi e Andriotto, però forse io sono quello che ha fatto una carriera più lunga. Ho corso per 15 anni e sono riuscito anche a togliermi qualche bella soddisfazione. Ero quello più stradista di tutti, forse è vero…».

I magnifici quattro di Stoccarda 1991, da sinistra Colombo, Peron, Anastasia, Contri
I magnifici quattro di Stoccarda 1991, da sinistra Colombo, Peron, Anastasia, Contri

Dall’Italia all’America

Nato a Besnate nel 1971, con la Cento Andrea vinse il mondiale di Stoccarda nel 1991 e prese l’argento a Barcellona, correndo sulle magnifiche e avveniristiche Colnago C35 realizzate con il contributo della Ferrari che l’Italia mise in strada per l’occasione, dopo averle presentate sul circuito di Fiorano. 

Da professionista fece i primi due anni (1993-1994) alla corte di Stanga e poi se ne andò in America con la Motorola, da lì alla Francaise des Jeux, la Once, la Fassa Bortolo e chiuse con cinque anni alla Csc di Bjarne Riis accanto a un altro varesino in rampa di lancio: Ivan Basso. Si ritirò dopo il Lombardia del 2006 (foto di apertura).

Nel 2000 corre alla Fassa Bortolo, qui nella crono finale della Vuelta
Nel 2000 corre alla Fassa Bortolo, qui nella crono finale della Vuelta
Eri uno stradista prestato alle cronometro?

Non mi sono mai visto così, perché la crono ho avuto grande voglia di farla. In quegli anni è stata il mio obiettivo principale, però ho sempre avuto la passione per la strada. Quando sono passato professionista, volevo fare risultati su strada, non fare il passista che tirava e basta. Però l’ho coltivata e ho vinto un campionato italiano di specialità.

Si poteva convivere?

La Cento Chilometri non era una specialità a sé stante, non era un condizionamento perché cambiassi qualcosa o rinunciassi a qualcosa. Non ha assolutamente modificato le mie caratteristiche. Ho sempre creduto che le due cose potessero convivere, anche se quando preparavamo le Olimpiadi o il mondiale, la crono era la priorità e la strada veniva un po’ sacrificata. Però una volta finito quell’obiettivo, riprendevo tranquillamente la solita routine. Nel 1992 vinsi anche delle belle gare su strada.

In qualche misura apriste la strada?

Facevamo parecchio lavoro specifico, però alla fine Zenoni aveva messo in atto una metodologia di allenamento basata non solo sulla potenza. Facevamo tantissimo ritmo, interval training in salita e allenamenti per velocizzare. Cose che davano vantaggi anche su strada. Non si trattava solo di spinta di grandissimi rapporti. A guardare l’evoluzione degli anni, è un po’ la stessa cosa che adesso vediamo con Ganna e prima ancora con Cancellara. Atleti veramente fortissimi e potentissimi a cronometro, che però vanno bene anche su strada.

La festa per i 70 anni del cittì Zenoni, con Pavarini, Colombo, Peron, Contri, Fina, Salvato, Rota, Aldo Fossa e Fusi
I 70 anni di Zenoni, con Pavarini, Colombo, Peron, Contri, Fina e Salvato, Rota, Aldo Fossa e Fusi
Ganna fa ancora più eccezione, essendo anche un pistard…

Prima chi correva su pista la strada non la guardava nemmeno. Invece Pippo ha dimostrato di essere in grado di prendere una maglia rosa e di vincere anche le tappe nei grandi Giri. Zenoni praticamente 30 anni fa aveva già sposato la stessa filosofia. Io non sono mai stato forte quanto Cancellara o Ganna, però era un po’ la stessa cosa. Facevo le crono e su strada riuscivo a difendermi benissimo: non solo in pianura, anche in salita. E’ chiaro che non potevo figurare sul Mortirolo, però al Tour de France dove ci sono le salite pedalabili, ho sempre detto la mia. Anche nelle classiche (nel palmares ha un 7° posto alla Liegi e un 10° al Lombardia, ndr). Non ho mai creduto a quelli che dicevano se fai la cronometro, non puoi fare nient’altro.

A un certo punto te ne andasti in America…

Ero un ragazzo molto aperto all’avventura, desideroso di provare cose nuove con la bicicletta, ma non solo legate alla bicicletta. Avevo spirito di avventura. Quando sono andato a correre all’estero, era la voglia di sperimentare. La curiosità di vedere cosa ci fosse al di là della mentalità classica degli anni 90. Non mi sono mai messo alcuna barriera e questo forse è andato anche a discapito della carriera.

In che senso?

Quando sono andato alla Motorola, l’ho visto come un’esperienza di vita. Avevo voglia di viaggiare, andare a scoprire cosa ci fosse negli Stati Uniti e presi l’opportunità di andare in questa squadra che faceva tanta attività anche in America. Se avessi pensato con uno schema classico, magari avrei accettato alcune delle belle offerte da team italiani. Sarebbe stato un approccio più classico, però per il mio modo di essere, per l’Andrea Peron di allora scelsi un’altra strada. Di cui non mi pento assolutamente.

Ha corso con la Motorola nel 1995 e 1996, centrando quattro vittorie
Ha corso con la Motorola nel 1995 e 1996, centrando quattro vittorie
Ti ritrovasti in squadra anche un giovane Armstrong?

Giovanissimo Armstrong, però aveva già vinto il campionato del mondo di Oslo e anche un paio di tappe al Tour. Abbiamo corso due anni insieme, poi lui si è ammalato di cancro, nel 1996 si è operato e la squadra ha chiuso come aveva già comunicato. Quando è tornato, ha vissuto una piccola parentesi con la Cofidis e alla fine è andato alla Us Postal, ma a quel punto avevamo preso strade diverse.

Il ricordo più forte di quegli anni è l’arrivo di Pau al Tour del 1995…

Il giorno dopo la scomparsa di Fabio Casartelli, tutta la squadra schierata davanti al gruppo. E due giorni dopo, la vittoria di Lance a Limoges. Fu un’esperienza toccante, forse la prima a contatto diretto con la perdita di una persona cara. Non un familiare, ma una persona molto vicina. Io con Fabio condividevo allenamenti, gare, la camera alle corse, momenti belli e momenti brutti di una carriera sportiva. E’ stata un’esperienza anche pesante, che ovviamente mi ha fatto anche crescere.

Sotto quale punto di vista?

Soprattutto quando sei nello sport, vedi tutto come un sogno. Non ti aspetti mai che il collega con cui cinque minuti prima stavi scambiando quattro chiacchiere o una battuta mentre eri in salita, quando comincia la discesa non lo vedrai più. Perché tu fai una curva e lui la fa in maniera diversa e la sua vita finisce lì. Fabio è spesso nei miei pensieri, come altre persone che sono scomparse lungo il cammino della vita. Purtroppo la morte è una parte di noi stessi, con cui dovremo avere a che fare o prima o dopo. L’importante è essere grati della vita che abbiamo ogni giorno, perché appunto non sappiamo cosa ci può succedere.

Tre giorni dopo la morte di Casartelli, a Limoges la vittoria di Armstrong
Tre giorni dopo la morte di Casartelli, a Limoges la vittoria di Armstrong
Dopo aver smesso, hai cominciato subito con lo sci alpino, le scalate…

E’ stato un ritorno verso la passione della montagna. Quando ero piccolino, sono sempre andato in montagna, ho sempre scalato e fatto alpinismo, ma l’ho lasciato un po’ da parte durante la mia carriera agonistica. E quando ho smesso di correre, ho ripreso a fare quelle cose che non potevo fare durante la mia carriera.

Come è stato smettere?

Dopo la bici, non volevo continuare in una squadra. Angelo Zomegnan (direttore del Giro d’Italia dal 2005 al 2011, ndr) mi diede la possibilità di lavorare in Rcs e ci sono rimasto per quattro anni. Poi è arrivata Castelli. Conoscevo l’azienda e sono entrato collaborando con il settore corsa e lo sviluppo dei prodotti. Sono nel ciclismo, insomma, ma a modo mio. E poi seguo anche Karpos, il marchio outdoor.

Qual è il tuo apporto?

Ci metto del mio nel creare i capi, do i miei consigli. Seguo lo sviluppo dei prodotti con le squadre. Provo anche qualcosa, ma è giusto che i feedback decisivi li diano i professionisti. Corridori e alpinisti. Io posso valutare, ma sono loro quelli che li usano e li portano tutti i giorni al limite.

E la tua curiosità si è assopita ?

Neanche un po’, avevo in programma dei viaggi, ma il Covid ha fermato tutto. Se si fosse spenta, adesso sarei in poltrona e non in giro per il mondo…