«Non dirò che sia facile – ha detto Sivakov a Eurosport dopo il Tour – perché è comunque difficile essere all’altezza del compito. Eppure è facile essere compagno di squadra di un leader come Pogacar. Noi facciamo il nostro lavoro e lui vince. E’ un enorme piacere per noi sapere che quando inizia una corsa, spesso finisce con una vittoria, come è successo al Tour de France. Al di là di questo, è sempre un ragazzo normale. Facciamo il nostro lavoro, ci divertiamo, ridiamo molto. Abbiamo un ottimo rapporto, siamo un ottimo gruppo».
La sola vittoria 2024 di Sivakov a L’Aquila, tappa finale del Giro d’Abruzzo, chiuso 2° dietro LutsenkoLa sola vittoria 2024 di Sivakov a L’Aquila, tappa finale del Giro d’Abruzzo, chiuso 2° dietro Lutsenko
L’ambiente giusto
Forse questa volta il russo naturalizzato francese, ma nato in Italia, ha trovato al UAE Team Emirates la sua dimensione definitiva. Alla Ineos Grenadiers dava l’impressione di divertirsi meno, ma non certo di fare meno fatica. Solo che ora, a parità di impegno e magari anche d’ingaggio, si capisce che le vittorie siano un compenso migliore. Sivakov non è un gran chiacchierone. La prima volta ci parlammo a Campo Imperatore, dove aveva appena conquistato il Giro d’Italia U23, lasciandosi dietro Hamilton e Hindley, nello stesso 2007 in cui avrebbe poi conquistato anche il Valle d’Aosta. Sembrava un predestinato e così lasciavano pensare le vittorie al Tour of the Alps e al Polonia del 2019. Poi forse qualche caduta di troppo, le prestazioni sono scese e le richieste della Ineos si sono alzate e Sivakov è rientrato nei ranghi del gregario.
«La differenza rispetto a prima – ha detto prima del Lombardia – è che con la Ineos anche per andarsi a giocare la Parigi-Nizza, c’era qualcosa da dimostrare e questo iniziava a pesarmi. Invece qui alla UAE Emirates, quando non c’è Tadej, anche per noi ci sono le porte aperte».
Al Giro del 2023 Sivakov è venuto come gregario di Thomas, poi secondo a 14″ da RoglicAl Giro del 2023 Sivakov è venuto come gregario di Thomas, poi secondo a 14″ da Roglic
Le certezze di Pogacar
Un cambio di attitudine che potrebbe aver riacceso anche la fiducia. Quando mai negli ultimi tempi era capitato di vedere Sivakov attaccare come nel finale del Lombardia? Evidentemente aver fatto quell’ottimo Tour accanto a Pogacar ed essere arrivato in forze al fine stagione gli hanno restituito la voglia di provarci.
«Correre accanto a Tadej – ha spiegato – è qualcosa che colpisce, anche se difficilmente puoi farne un modello. Quando decide, lui attacca e si affida all’istinto. Quando l’ho visto in fuga al mondiale, ho capito subito che era uno di quei giorni. Non ha paura di niente, ma non mi aspettavo che avesse un simile livello. Credevo che avremmo vinto il Tour de France, non che riuscisse a conquistare tutte le altre corse. Penso che abbia impressionato tutti, ma non crediate che sia solo azzardo: sa cosa può fare. Spesso sorprende i suoi avversari, come ha fatto a Zurigo. Chi avrebbe mai immaginato che potesse attaccare a 100 chilometri dall’arrivo?».
In fuga con Pogacar a Zurigo, Sivakov ha collaborato prima di crollare: chiuderà 35°In fuga con Pogacar a Zurigo, Sivakov ha collaborato prima di crollare: chiuderà 35°
Rimpianto Delfinato
Il Tour of Guangxi non è andato come pensava. Forte della condizione mostrata al Lombardia, il russo-francese era volato in Cina per provare a vincere la corsa, ma alla fine ha dovuto accontentarsi del quinto posto, pagando la maggior esplosività di Van Eetvelt sull’arrivo di Nongla che ha deciso la corsa.
«Ho avuto delle opportunità in alcune gare – ha commentato prima di ripartire – ma è meglio essere compagno di squadra di corridori come Pogacar che lottare contro di loro. Alla fine si creano molte opportunità. Possiamo prendere l’esempio di Sepp Kuss, che lo scorso anno ha vinto la Vuelta. Se non fosse stato compagno di squadra di Roglic e Vingegaard, non credo che ci sarebbe riuscito. E’ sempre difficile trovare il proprio posto in una squadra di altissimo livello, ma sono abbastanza soddisfatto della mia stagione. La delusione vera è stata il Delfinato. Mi sono ammalato e non ho fatto la gara che avrei voluto».
Erano i giorni prima del Tour. Quelli che Adam Yates ha messo a frutto duellando con Almeida sulle salite del Giro si Svizzera e che Sivakov ha invece sciupato, ovviamente non per colpa sua, ritirandosi nell’ottava tappa. Non è come alla Ineos, ma anche qui le occasioni vanno colte quando capitano. Perché quando poi torna sulla scena Pogacar, per gli altri ci sono solo luci riflesse.
Domenica perfetta per la Ineos a sette mesi dal Giro dello scorso anno. Ganna vince la crono e racconta i giorni con quel capitano così piccolo e così duro
In un ciclismo che va veloce, sempre di più anno dopo anno, è importante vincere e confermarsi ad alti livelli stagione dopo stagione. Eppure il successo non passa solo dalle gambe, ma dalla forza della mente. La testa gioca una parte fondamentale quando si tratta di giocarsi una vittoria, avere la giusta convinzione e motivazione ci permette di tirare fuori quel qualcosa in più. Il famoso 101 per cento. Dove quell’uno fa una differenza abissale tra vincere e perdere.
Paola Pagani è una mental coach e da anni lavora nel mondo del ciclismo, affiancando atleti e aiutandoli a trovare la giusta motivazione e forza mentale per raggiungere i propri obiettivi. Non si tratta sempre e solo di vincere, ma di esprimere il massimo del proprio potenziale. Qualunque sia il ruolo svolto.
Per Pellizzari il focus non era vincere, ma dimostrare di essere il più forte in salitaPer Pellizzari il focus non era vincere, ma dimostrare di essere il più forte in salita
Il “caso” Pellizzari
L’idea di questo articolo è nata parlando, ormai più di un mese fa, con Giulio Pellizzari. Il corridore prossimo a vestire i colori della Red Bull-Bora Hansgroheaveva detto di aver bisogno di fare uno step mentale per imparare a sfruttare il suo talento al massimo e iniziare a raccogliere qualche vittoria.
«Per me la cosa più importante è dimostrare di essere il più forte – ci aveva detto Pellizzari – poi magari non vinco. Da piccolo ero scarso, per me l’obiettivo era far vedere di essere forte. Per me la gara finisce in cima alla salita. Vado a tutta e quando mi giro e vedo di aver tolto tutti i più forti da ruota sono a posto. Un esempio arriva dal Giro del Friuli: volevo staccare in salita Torres che due settimane prima aveva vinto l’Avenir con grandi numeri».
«Partendo da questo esempio – inizia a spiegare Paola Pagani – bisogna far capire al corridore, se vuole anche vincere oltre che togliersi i più forti dalla ruota in salita, che la gara non finisce in cima alla salita ma sotto lo striscione di arrivo».
Paola Pagani è mental coach formata alla scuola di Anthony RobbinsPaola Pagani è mental coach formata alla scuola di Anthony Robbins
Come si “sblocca” la mente?
Qui entra in gioco il processo di coaching. L’essere umano crea le proprie convinzioni facendo esperienza nella vita. Queste possono essere potenzianti o limitanti. Il ciclista in questione si è convinto che per dimostrare di essere il più forte deve vedere di essersi tolto i più forti da ruota in salita, dopo di che è a posto. Questa è una convinzione potenziante se l’obiettivo è la performance su quella salita o se l’arrivo è in cima alla salita, diventa meno potenziante se non addirittura limitante se l’obiettivo è la vittoria e la gara non termina sulla salita.
Continui…
Se un corridore pensa di essere un perdente perché si concentra su tutti i secondi posti ottenuti in carriera e non sulle vittorie o sulle performance di successo, allora sarà più difficile per lui essere un vincente. Esistono degli esercizi di consapevolezza che ci aiutano a ristrutturare le convinzioni che ci limitano.
La cosa importante è che il corridore arrivi a fine gara senza rimpianti, soddisfatto della sua performanceLa cosa importante è che il corridore arrivi a fine gara senza rimpianti, soddisfatto della sua performance
Si tratta di capire dove mettere il focus?
Sì, non serve dire: «Sono un campione». La cosa importante è tirare fuori sempre il meglio da se stessi e ricordare quanto lavoro si è fatto per arrivare a quell’appuntamento. Il focus deve essere positivo: ad esempio si può chiedere all’atleta di fare una lista delle sue prestazioni migliori, così da farlo focalizzare sulla performance e i suoi punti di forza.
C’è una chiave?
L’autostima. Ricordiamoci sempre che i corridori sono per lo più ragazzi giovani (ora sempre di più, ndr). Una cosa che ho notato nel tempo è che nel 90 per cento dei casi l’autostima può vacillare. Sbloccare la mente vuol dire aiutare il cervello a identificare i pensieri negativi, ristrutturarli, e buttar via il resto, come se fosse spazzatura.
Paola Pagani ha lavorato con Colbrelli dal 2019 in poi aiutandolo nella sua crescita professionalePaola Pagani ha lavorato con Colbrelli dal 2019 in poi aiutandolo nella sua crescita professionale
Il lavoro in cosa consiste?
E’ tutto molto “sottile” ovvero si tratta di andare a capire ciò che limita la persona e far crescere la consapevolezza nelle proprie qualità. Evidenziare i punti di forza in modo da aumentare le risorse. Vi faccio un altro esempio: a gennaio ho iniziato a lavorare con un ragazzo giovane. La squadra voleva lasciarlo a casa, abbiamo iniziato un lavoro di consapevolezza in cui si è impegnato al 100% per migliorare la considerazione di sé. Abbiamo lavorato insieme solamente tre mesi, ma in quei tre mesi è stato capace di migliorare talmente la stima di sé che nella seconda parte della stagione ha fatto cose strepitose.
La base qual è?
Riconoscere il proprio potenziale e il lavoro svolto. Nel ciclismo ci si allena tanto e i ragazzi tendono a vederla come una cosa normale. E’ giusto, ma bisogna sempre riconoscere gli sforzi fatti. La mente è un grande motore, serve sapere come sfruttarlo.
Scegliere le giuste parole da utilizzare con noi stessi e gli altri ci aiuta a far nascere le giuste emozioniScegliere le giuste parole da utilizzare con noi stessi e gli altri ci aiuta a far nascere le giuste emozioni
E come si fa?
Sicuramente sviluppare l’intelligenza linguistica oltre a quella emotiva è un’ottima idea. Le parole che rivolgiamo a noi stessi e agli altri danno significato alle esperienze della nostra vita e influenzano direttamente la nostra neurologia. Dal nostro dialogo interiore ed esteriore nascono le emozioni, dalle emozioni scaturiscono le azioni e dalle azioni derivano i nostri risultati. Pertanto, imparare a utilizzare parole e schemi linguistici che ci supportano positivamente rappresenta una scelta strategica, particolarmente importante quando si opera a livelli elevati.
Interrogato sul tema sollevato da Pellizzari, Nibali dice la sua. L'esempio dei campioni in allenamento fa crescere, ma i loro consigli sembrano sgraditi
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In questo periodo si parla molto anche di “riassetti” dal punto di vista di salari budget, ma anche di punti e sponsor. Il circus del pedale cerca sempre di evolversi, di adattarsi alle nuove situazioni. I team manager si sono riuniti prima del Giro di Lombardia, per parlare del salary cap. Una mossa secondo la quale ci sarebbe un contenimento dei costi e al tempo stesso una ridistribuzione degli atleti più forti nei vari team. Questo garantirebbe più spettacolo: più corridori forti in più squadre.
Oggi ci sono pochissime squadre WorldTour che detengono la maggior parte dei punti, i budget più alti, gli atleti più forti… Questo alla lunga può essere un rischio per il ciclismo, qualora venisse meno il suo appeal, con gare di cui salvo imprevisti si sa l’esito sin dall’inizio e con pochissimi protagonisti.
Alcuni team hanno fatto grande fatica nelle ultime stagioni: Astana, Cofidis, Arkea e persino un super team come la Bahrain giusto per citarne alcuniAlcuni team hanno fatto grande fatica nelle ultime stagioni: Astana, Cofidis, Arkea e persino un super team come la Bahrain giusto per citarne alcuni
Fortissimi o debolissimi
Un esempio concreto? UAE Emirates (escluso Pogacar) e Visma-Lease a Bike solo con i loro primi cinque corridori si collocherebbero al nono posto della classifica a squadre. Ripetiamo: solo cinque corridori. E per il team emiratino non abbiamo incluso Pogacar, che è una particolarità, sarebbe nono da solo!
Di fronte a queste sfide a cui è chiamato il ciclismo abbiamo interpellato Brent Copeland, team manager della Jayco AlUla, ma in questo caso e lo ribadiamo con forza, presidente dell’AIGCP, l’associazione che riunisce le formazioni professionistiche.
«Io – spiega Copeland – chiaramente ho la mia idea ma in questo caso rappresento i 35 team della Aigcp. Non decido io insomma».
Brent Copeland (classe 1971) è il presidente dell’AIGCP, Associazione Internazionale Gruppi Ciclisti ProfessionistiCopeland (classe 1971) è il presidente dell’AIGCP Associazione Internazionale Gruppi Ciclisti Professionisti
Brent, partiamo dal salary cap.
Premesso che è tutto in divenire, proprio perché è un argomento delicato, non posso scendere troppo nel dettaglio. Abbiamo un buon gruppo di lavoro, con tante idee e ne stiamo parlando già da un po’.
Perché c’è questa esigenza di un salary cap, che qualcuno ha già criticato, o di uno strumento simile?
Perché bisogna creare quello che in inglese è chiamato level playing field, cioè creare un sistema che ponga i suoi attori su un livello più egualitario possibile affinché il ciclismo sia uguale per tutti. Sappiamo che non è facile, che ci sono team più ricchi e altri meno, team più capaci e altri meno, ma non dovrebbe esserci troppa differenza di base ed economica. Non andiamo contro le squadre più grandi o più numerose, sia chiaro.
Da chi nasce l’idea di appianare certe differenze?
Dall’UCI e dal suo board. Quando l’UCI vede che una, due squadre fanno una netta differenza, che riescono a prendere tutti i corridori più forti e a vincere le corse, scatta un campanello d’allarme e ne risente lo spettacolo.
Si tratta di sopravvivenza del ciclismo, anche se forse sopravvivenza è un termine un po’ forte?
Si cerca di equilibrare il livello senza rovinare la crescita del ciclismo. Questo è un aspetto molto importante. La prima cosa che noi vogliamo è quella di non spaventare gli sponsor che investono o vogliono investire nel ciclismo. Per questo prima dicevo che si tratta di un argomento delicato.
La F1 ha stabilito un budget cup: è di 135 milioni di euro a stagione. E deve essere così ripartito: 35% costo del lavoro, 20% sviluppi e imprevisti, 45% spese produttive (foto Ferrari.com)La F1 ha stabilito un budget cup: è di 135 milioni di euro a stagione. E deve essere così ripartito: 35% costo del lavoro, 20% sviluppi e imprevisti, 45% spese produttive (foto Ferrari.com)
Quindi i vostri colloqui trattano anche di sponsor: li volete tranquillizzare con un riassetto di budget e magari di punti UCI?
Certamente, ma questo è il secondo punto. Il primo è quello dello spettacolo che può offrire il ciclismo, per far sì che le tattiche non ruotino intorno a una o due squadre, che ci possa essere più incertezza nell’esito delle gare. Il secondo punto riguarda gli sponsor. Noi dobbiamo stare attenti che gli altri sport non ci passino avanti e ce li portino via.
Spiegaci meglio…
In Formula 1 per esempio, ma anche nel calcio, sono stati introdotti dei budget cap e se investire per uno spazio su una maglia di calcio o su una vettura di Formula 1 non è più costoso come un tempo e nel frattempo da noi i costi continuano ad aumentare, per il ciclismo può essere un problema. Un altro aspetto poi non riguarda solo il salary cap fine a se stesso. Formula 1 e calcio, dobbiamo essere realisti, hanno un altro ritorno per i loro investitori e noi dobbiamo dare una garanzia a questi sponsor che investono sul ciclismo. Faccio un esempio.
Vai…
Se uno sponsor investe mille euro per 4-5 anni deve essere certo che quell’investimento mantenga il suo valore. Ma se poi l’anno dopo arriva uno sponsor che offre di più, i mille euro del primo non valgono più allo stesso modo. Perdono valore. Per questo servono dei cap. Chissà, magari anche in Italia in questo modo si muoverà qualcosa e le grandi aziende torneranno ad investire nel ciclismo.
Discorso afferrato: servono regole più chiare e che garantiscano stabilità e certezza d’investimento. Passando ad aspetti più tecnici si è parlato anche di un tetto dei punti, di una ridistribuzione dei corridori nei team. Cioè una squadra non può avere più di un “tot” di corridori con “X” punti…
Onestamente abbiamo un gruppo di lavoro molto buono ed esperto e non ne abbiamo ancora parlato fino in fondo. C’è stato qualche scambio di messaggi tra i direttori sportivi e direi potrebbe essere una buona idea. Ma come ho detto prima: l’importante è che ci sia più equità tra le varie squadre.
Jorgenson e Vingegaard, Pogacar e Adam Yates: quattro atleti formidabili in due squadre e due di loro sono gregariJorgenson e Vingegaard, Pogacar e Adam Yates: quattro atleti formidabili in due squadre e due di loro sono gregari
Urge una mossa
Certamente c’è da fare qualcosa, al netto di chi è pro o contro Pogacar, che ha cannibalizzato la stagione. Perché poi, inutile negarlo, questo tema che sì vige da tempo si è acuito quest’anno. C’è da fare qualcosa soprattutto sul fronte tecnico, dal nostro punto di vista, ed economico da quello dei manager che devono imbastire le squadre. Anche se poi a ben pensare le due cose vanno (e molto) a braccetto.
L’idea di trovare la maggior equità di cui parla Copeland, attraverso una regolamentazione dei punti UCI potrebbe non essere male e potrebbe al tempo stesso superare i limiti del tetto salariale, che in qualche modo sarebbe aggirato. Ma questa è solo una nostra supposizione.
Per sapere ufficialmente come proseguiranno i lavori, sarà necessario attendere la fine del prossimo novembre, quando l’AIGCP si riunirà di nuovo su questo tema.
1.962 chilometri dei 12.395 corsi nel 2024 visti dalla testa della corsa. Manuele Tarozzi conclude la sua terza stagione in maglia VF Group-Bardiani CSF-Faizanè con questi numeri, ai quali affianca anche due vittorie. Il corridore di Faenza è pronto per le vacanze di fine stagione, che corrispondono anche alla luna di miele, visto il matrimonio celebrato lo scorso giugno. Ma prima di partire gli chiediamo di ripercorrere insieme a noi questi 1.962 chilometri, iniziati in Spagna e terminati in Malesia.
«Tra poche ore sarò in volo – ci anticipa Tarozzi – direzione Seychelles per andare finalmente in ferie. Torneremo il 5 novembre e dal 10 sarò di nuovo in bici, d’altronde la stagione inizia il 20 gennaio e bisogna farsi trovare pronti. Ora però mi godo due settimane senza regole e pensieri, poi si pensa al 2025».
La stagione inizia con il botto, Tarozzi (a sx) e Tonelli (a dx) in parata alla prima tappa della Valenciana dopo 155 km in testaLa stagione inizia con il botto, Tarozzi (a sx) e Tonelli (a dx) in parata alla prima tappa della Valenciana dopo 155 km in testa
Di necessità virtù
Manuele Tarozzi durante questi tre anni ha intensificato sempre di più la sua presenza nelle fughe della prima ora. Nel 2022 fu una sola alla Coppa Sabatini, l’anno dopo sei, mentre quest’anno i giorni in avanscoperta sono stati ben 16.
«Mi sono accorto al Giro del Veneto di domenica – continua – che non ho il ritmo per seguire i migliori. Mi mancano quei 5 o 10 minuti di sforzo massimale per restare con loro. Così mi sono dovuto ingegnare e ho capito che se voglio vincere devo anticipare la corsa. Qualche volta arrivo anche (dice ridendo, ndr) e devo dire che è un bel modo di fare, sia per me che per la squadra».
Tarozzi con la maglia della classifica a punti della Valenciana, conquistata dopo la prima tappaTarozzi con la maglia della classifica a punti della Valenciana, conquistata dopo la prima tappa
La prima fuga quest’anno è stata alla Valenciana, con la doppietta firmata insieme a Tonelli dopo 155 chilometri. E’ stata difficile?
Non direi, anzi quelle a inizio stagione sono le fughe più semplici perché arrivi fresco, riposato e libero di mente. A gennaio e febbraio la testa è sgombra da fatiche e pensieri che invece si accumulano durante l’anno. In più nei primi mesi faccio registrare valori alti, che difficilmente replico nel resto dell’anno. Quella della Valenciana è stata una giornata particolare nella quale piano piano abbiamo staccato tutti i nostri compagni di avventura. Poi ci siamo goduti l’arrivo in parata.
Anche se ad un certo punto avete sbagliato strada.
Lì è stato un errore della traccia GPX. Tonelli ha visto che doveva girare a destra, aveva la testa bassa e si è buttato. Io mi ero accorto dell’errore e l’ho richiamato, in quel momento avevamo ancora tanto vantaggio sul gruppo. Non è stato un finale thrilling, diciamo che è andata bene!
Sulle strade della Coppi e Bartali arriva la maglia verde dedicata ai GPMSulle strade della Coppi e Bartali arriva la maglia verde dedicata ai GPM
Poi sono arrivate le tre fughe, su cinque tappe, alla Coppi e Bartali…
Il primo giorno sono andato in avanscoperta e ho preso la maglia dei GPM, così la squadra mi ha detto di tenerla. Questo mi ha portato a cercare la fuga anche il giorno dopo per prendere altri punti. L’ultima tappa, invece, sono andato in avanscoperta per evitare brutte sorprese. Con me c’era anche il secondo della classifica dei GPM quindi me la sono dovuta sudare. Sono uscito da quella gara parecchio cotto visti i 315 chilometri in fuga sui 707 totali di gara. Però era la corsa di casa, quindi l’ho fatto volentieri.
Dei tanti giorni passati in testa alla corsa quali sono stati i tuoi preferiti?
Quelli del Giro d’Italia. Non per sminuire le altre gare ma la corsa rosa è davvero unica. Il giorno migliore direi quello vissuto sulle strade di casa, da Riccione a Cento. Abbiamo fatto tutta la Via Emilia, e siccome le visite parenti sono ormai vietate mi sono dovuto inventare la fuga, anche se non ne valeva la pena.
Al Giro nella tappa di casa Tarozzi ha vinto la classifica dell’IntergiroAl Giro nella tappa di casa Tarozzi ha vinto la classifica dell’Intergiro
In che senso?
Decidere di andare in fuga prevede comunque una strategia. Si cerca di uscire allo scoperto quando sai che ci sono buone chance di arrivare al traguardo. Questa cosa si impara con il tempo. Ad esempio al Giro sai che nella tappa dei muri ci sono buone occasioni, infatti quest’anno ha vinto Alaphilippe. Io lì c’ero, ma il francese è stato più forte. Tornando alla tappa di Cento si sapeva che il gruppo avrebbe chiuso, ma sulle strade di casa si doveva fare. Ma lì era una lotta per capire chi potesse andare in fuga.
Tarozzi, sullo sfondo a destra, che sprinta per il 10° posto nella terza tappa del Tour of Istanbul dopo 70 chilometri in fuga solitaria (foto Brian Black Hodes)Tarozzi, sullo sfondo a destra, che sprinta per il 10° posto nella terza tappa del Tour of Istanbul dopo 70 chilometri in fuga solitaria (foto Brian Black Hodes)
Spiegaci meglio.
Che in certe tappe la fuga non parte perché provano tutti, come nella tappa di Sappada al Giro di quest’anno. Altri giorni si fanno 50 chilometri senza che nessuno faccia uno scatto o un allungo.
Tra l’altro tu eri anche in quella di Sappada…
Direi che è stata la più bella della stagione. Per tanti era l’ultimo giorno disponibile per provare a vincere, anche perché il giorno si scalava due volte il Monte Grappa e il verdetto era scritto. Così come a Roma. Quel giorno verso Sappada siamo andati via in 19. E’ la mia fuga preferita perché nonostante tutto ho ottenuto un buon undicesimo posto, che al Giro non fa mai male.
Al Tour of Qinghai Lake anticipa il gruppo per resistere al ritmo degli sclatori (foto Tour of Qinghai Lake)Piano riuscito: sul traguardo anticipa tutti, è la prima vittoria stagionale (foto Tour of Qinghai Lake)Al Tour of Qinghai Lake anticipa il gruppo per resistere al ritmo degli sclatori (foto Tour of Qinghai Lake)Piano riuscito: sul traguardo anticipa tutti, è la prima vittoria stagionale (foto Tour of Qinghai Lake)
Poi sono arrivate quelle più “esotiche” in Malesia e in Cina, lì riesci a goderti il panorama?
Quando sei in fuga meno. In gruppo puoi alzare lo sguardo una volta in più e respirare. Invece nel momento in cui sei in testa alla corsa devi pensare a come fare per arrivare per primo. La mente è impegnata a cercare strategie per fregare il gruppo.
La giornata più dura?
In Turchia! Mi sono sciroppato 70 chilometri da solo e mi hanno ripreso solamente a 100 metri dall’arrivo (in apertura foto Tour of Istanbul). In quei momenti, a fine gara, pensi sempre che avresti potuto fare qualcosa in più: una pedalata, una curva… Ma poi ti rivedi in video e capisci che non era possibile. Di quel giorno mi rimane l’orgoglio di essere arrivato a pochi metri dal successo e la soddisfazione di non aver buttato tutto visto il decimo posto finale. Al contrario di quanto fatto in Malesia.
In Malesia due giornate dal sapore opposto: la prima sa di beffa, la seconda (in foto) di rivincitaIn Malesia due giornate dal sapore opposto: la prima sa di beffa, la seconda (in foto) di rivincita
Perché?
Nella quarta tappa ci hanno ripreso a 200 metri dall’arrivo, ma lì siamo stati ingenui. Ci siamo fermati a un chilometro dall’arrivo per guardarci. Nessuno voleva perdere e alla fine il gruppo ci ha infilato. Non ci ho dormito la notte, e sono uno che di solito chiude gli occhi presto a letto. Avevo talmente tanta rabbia che due giorni dopo sono ripartito e ho vinto, anche se per soli nove secondi. Poi ce n’è un’altra della quale sono orgoglioso.
Quale?
La vittoria in Cina, al Tour of Qinghai Lake. Nella frazione regina, la terza, sapevo di non avere il passo degli scalatori più forti. Così ho deciso di anticipare, sapevo che se fossi arrivato con un minuto o due ai piedi dell’ultima salita sarei potuto rimanere agganciato ai migliori. Così è stato. In discesa ho recuperato un po’ e nel finale me la sono giocata con Mulubrhan allo sprint. Un doppio risultato positivo: la vittoria e la maglia di leader. Il giorno dopo l’ho persa, ma quella tappa mi ha permesso di rimanere sul podio della classifica generale.
Tre minuti, 59 secondi e 153 millesimi: è il tempo che vale il record del mondo fatto segnare da Jonathan Milanagli ultimi campionati iridati nell’inseguimento individuale a Ballerup, in Danimarca. Quattro chilometri filati via ad oltre 60 chilometri orari di media oraria: 60,260 per la precisione… con partenza da fermo!
Di questo record parliamo con Diego Bragato, responsabile del Gruppo Performance della Federciclismo. Bragato è una delle colonne portanti dei successi della pista azzurra. Conosce i motori degli atleti forse meglio degli atleti stessi. E per questo possiamo anticiparvi che questo record non è stato poi così inaspettato.
Diego Bragato è il responsabile del gruppo perfomance della FCIDiego Bragato è il responsabile del gruppo perfomance della FCI
Partiamo proprio da questo punto, Diego: ve lo aspettavate il record del mondo?
Diciamo che a Montichiari abbiamo lavorato con l’obiettivo della maglia iridata, in primis. Credevamo che il nostro primo rivale fosse Daniel Bigham e che il record potesse uscirci da questa sfida, tanto è vero che ci siamo allenati su quei tempi. Avevamo scelto di non far fare il quartetto a Milan proprio per concentrare tutte le energie sull’inseguimento individuale. E invece il ragazzino, Josh Charlton, al mattino ha un po’ stupito e spiazzato tutti abbassando lui il record di Filippo Ganna.
Una sorpresa che poteva anche destabilizzare voi e Milan soprattutto…
Infatti devo dire che Jonathan è stato bravo a non farsi influenzare dalla sua prestazione, sia per la sua prova, restando in tabella, sia nel resto della giornata. Non si è fatto ingannare da quel record in semifinale. Noi poi per la finale abbiamo ricalcolato la tabella.
Cosa intendi di preciso? Come si ricalcola una tabella?
Abbiamo rimesso tutto insieme: le sensazioni che ci aveva detto di aver avuto Jony, la temperatura e la conseguente scorrevolezza della pista, e soprattuto le pedalate che voleva avere Milan nel corso della prova. Così abbiamo individuato la cadenza ottimale dalla partenza in poi. Più che altro abbiamo lavorato, in base alle richieste di Milan, perché arrivasse il prima possibile alla cadenza desiderata. Tra qualifica e finale non abbiamo cambiato il rapporto. E poi chiaramente abbiamo impostato una tabella per il record del mondo. Visto quanto accaduto al mattino per vincere, quasi sicuramente, sarebbe servito il record.
Una volta capito come partire e individuata la cadenza: Villa e Bragato hanno messo giù una tabella di marcia da record del mondoUna volta capito come partire e individuata la cadenza: Villa e Bragato hanno messo giù una tabella di marcia da record del mondo
Diego, parlaci meglio della cadenza. E’ molto interessante. Come s’imposta?
Noi siamo abituati con Pippo (Ganna, ndr) che va in progressione. Lui magari usa anche rapporti più lunghi rispetto a Milan e poi chiude forte. Pippo fa quel chilometro finale incredibile, va a prendere chiunque. In teoria, una volta lanciato potrebbe continuare per un’ora! Jonathan invece, essendo più esplosivo, preferisce partire forte, mettersi subito sul passo e poi resistere fino alla fine. Per questo motivo per lui è importantissimo trovare subito la cadenza giusta. Come detto si è trattato di farlo arrivare il più velocemente possibile alle pedalate desiderate.
Due record in un giorno: te lo aspettavi? Come è stato possibile?
Non conoscevo quel velodromo. Era un bel po’ di tempo che non vi si teneva un evento importante. Pertanto non sapevamo quanti watt servissero, se fosse una pista scorrevole o meno… Quando nei primi giorni abbiamo visto che invece era veloce, abbiamo capito che si poteva fare. Da parte mia ero quasi certo che Charlton non avrebbe fatto due temponi simili nello stesso giorno. Non aveva quei margini di miglioramento, senza la base e il fondo della strada che invece aveva Jonathan. Ed è proprio questa base che ti permette di fare due sforzi tanto estremi in così poco tempo.
Tanto lavoro sulle partenze per Milan. L’obiettivo era arrivare alla cadenza ottimale nel più breve tempo possibile. Cosa non facile quando si spinge un 63×14Tanto lavoro sulle partenze per Milan. L’obiettivo era arrivare alla cadenza ottimale nel più breve tempo possibile. Cosa non facile quando si spinge un 63×14
Certo Diego che i record vanno giù velocemente. Quanto contano i materiali? E avevate qualche novità tecnica?
I materiali ovviamente contano tantissimo. Noi non abbiamo portato novità rispetto alle Olimpiadi, il pacchetto era lo stesso. Certo che sul fronte della bici, ma non solo, siamo messi molto bene. Anche Bigham che è un ottimo tester ha usato la stessa bici che usiamo noi, la Pinarello.
Milan ha fatto segnare un 3’59” basso: ha ancora dei margini?
Secondo me sì. Se se lo mette in testa può scendere ancora, ma questo vale anche per noi del gruppo affinché gli si possa dare il supporto migliore sotto ogni punto di vista. Io credo che con un adeguato tipo di lavoro Milan possa migliorare ancora. Poi quando si ha un gruppo con atleti che hanno motori come quello di Pippo o di Johnny è un piacere lavorare.
L’ultima gara di Milan su strada è stato l’europeo a metà settembre: da allora tutta pista? E come avete lavorato?
Da agosto in poi Jonathan ha fatto tanta strada per fare da base anche per questo mondiale. A questa ha associato anche tanti lavori di frequenza anche mentre era impegnato nella strada. Ma è stato da ottobre e in particolare nella settimana prima di quella iridata, che ha fatto dei lavori specifici a Montichiari in pista.
Il record di Milan: 151 millesimi meno di Charlton, 483 millesimi meno di Ganna (immagine da video)Il record di Milan: 151 millesimi meno di Charlton, 483 millesimi meno di Ganna (immagine da video)
Che tipo di lavori?
Abbiamo lavorato molto sulle partenze e sul ritmo. E ha continuato a fare dei richiami in palestra, come del resto ha fatto per tutto l’anno.
In quella settimana quante ore di lavoro si facevano in pista?
Facevamo due sedute al giorno: una di due ore e mezzo al mattino e una di tre ore al pomeriggio. E’ stato così dal martedì al venerdì. Il sabato ha fatto circa 4 ore di volume su strada e la domenica siamo partiti per la Danimarca.
Dai, raccontaci come hai vissuto il giro finale di quei (quasi) 4′. A quel punto eri sicuro del record?
In realtà no, proprio perché come vi dicevo Jonathan ha un’impostazione tattica diversa rispetto a Ganna. Per lui si tratta di tenere duro, di calare il meno possibile. Avevo capito che avrebbe vinto perché teneva bene a bada il suo avversario, ma per il record abbiamo dovuto attendere fino alla fine. Comunque si trattava di centesimi, bastava una sola pedalata un filo meno potente e tutto sarebbe svanito. Poi quando ha tagliato quella linea e abbiamo visto il tabellone… è scoppiata la festa.
Una famosa frase attribuita alla scrittrice britannica Virginia Woolf recita che “dietro ad ogni grande uomo c’è una grande donna”. Ed anche ex ciclista nel caso specifico di Alice Algisi che vive in primissima battuta da tanti anni la professione di suo marito Simone Consonni.
Lo scorso 20 ottobre – il giorno dopo l’argento iridato nell’omnium di Simone – hanno festeggiato il primo anniversario di matrimonio, uno dei tanti traguardi importanti che hanno tagliato assieme in quindici anni di relazione. E assieme sono cresciuti sia in bici che nella vita quotidiana, col ruolo di Algisi, a tratti gregaria, a tratti capitana, che è diventato fondamentale per equilibrare tutto. Nella loro vita di coppia non c’è solo la spesa da fare o scegliere un mobile per la casa o un film da vedere, ma anche saper gestire vittorie e sconfitte sportive con i relativi umori. Alice sa il fatto suo e ne abbiamo parlato proprio con lei, per capire come affronta le stagioni sempre più intense di suo marito.
Algisi è stata elite dal 2012 al 2015. Il suo passato da ciclista la avvantaggia nel capire Simone, ma sa avere anche una visione esterna (foto Selva)Algisi è stata elite dal 2012 al 2015. Il suo passato da ciclista la avvantaggia nel capire Simone, ma sa avere anche una visione esterna (foto Selva)
Com’è stata l’annata di Simone vista da sua moglie?
C’erano almeno cinque macro obiettivi a cui puntava. Europei in pista, Giro d’Italia, Olimpiade, europei su strada ed infine i mondiali in pista. Diciamo che è stata soprattutto una lunga estate, molto tosta. Dopo il Giro non ha staccato molto perché è partito per il ritiro in altura per Parigi. Non ci siamo visti molto a casa come altri anni, però lo sapevamo già e non è stato un grande problema. Adesso finalmente possiamo pensare alle vacanze. Faremo New York, Florida e poi un soggiorno mare ai Caraibi. Partiremo il 29 ottobre, appena Simone rientrerà dalla Tre Giorni di Londra in pista che farà con Elia (Viviani, ndr) da stasera a domenica.
E’ stata quindi una stagione pesante anche per te?
Questa è una stagione che non finisce mai (risponde ridendo, ndr), ma il ciclismo mi piace e mi piace stare al fianco di Simone mentre prepara i suoi appuntamenti oppure guardare le gare assieme a casa. Quest’anno ha cominciato presto a correre, già ad inizio gennaio, con risultati importanti. Bronzo col quartetto agli europei in pista. Uguale a Parigi oltre all’argento nella madison. Ed infine l’argento di Ballerup la settimana scorsa. Sono medaglie che valgono tanto contestualizzando il momento in cui le ha conquistate. Senza contare le vittorie ottenute guidando Jonny (Milan, ndr). Insomma, stagione lunga, ma piacevole da vivere anche per me.
Alice era presente ai mondiali in pista di Ballerup. Ha gioito da vicino per l’argento di Simone e il record di MilanAlice era presente ai mondiali in pista di Ballerup. Ha gioito da vicino per l’argento di Simone e il record di MilanL’argento e il bronzo di Parigi si sommano all’oro di Tokyo. Dietro le medaglie olimpiche di Simone c’è tanto del sostegno di Alice
Il tuo trascorso da ciclista ti aiuta a comprendere meglio le complessità del lavoro di Simone?
Non so se sono più preparata rispetto ad un’altra moglie che non ha mai corso in bici. Come esempio noi vediamo Elia ed Elena (Viviani e Cecchini, ndr) che si capiscono tanto. Sicuramente parto avvantaggiata perché riesco ad immedesimarmi prima o meglio, anche se io ho smesso nel 2015, ormai tanto tempo fa. Tuttavia secondo me non c’è tanta differenza. Per me dipende sempre dal rapporto che hai con tuo marito o compagno. Ci sono pro e contro in una relazione come la nostra.
Quali sono?
Simone ed io ci conosciamo fin da quando correvamo nelle categorie giovanile e stiamo insieme dal 2010, ormai tanto tempo anche in questo caso (sorride, ndr). Fra di noi c’è complicità e intesa. Si può anche non parlare sempre di bici, basta avere regole. E’ vero che stiamo tanto tempo lontani, ma penso comunque che ci siano più aspetti positivi che negativi.
Consonni è l’ultimo uomo di Milan. Tante vittorie quest’anno assieme, ma dietro c’è un grande lavoro psico-fisicoConsonni è l’ultimo uomo di Milan. Tante vittorie quest’anno assieme, ma dietro c’è un grande lavoro psico-fisico
Immaginiamo che tu soffra o gioisca con lui. Come ti regoli in queste circostanze?
Come dicevo prima, siamo una coppia nella vita di tutti i giorni e so quando devo motivare Simone o lasciarlo fare da solo nei momenti più difficili. Oppure prima di un grande evento. Lui è una macchina da guerra quando si prepara per un appuntamento. Ci arriva pronto, ma un mese prima tende a non essere più tale e inizia ad agitarsi. Ad esempio prima del Giro, in cui si sentiva responsabile delle volate di Milan, è stato così. Dopo le prime volate vinte non ci ha più pensato ed è tornato ad essere consapevole di sé. Uguale per le Olimpiadi. Appena inizia la gara Simone si trasforma, per fortuna.
E tu cosa gli dici in quei momenti?
Partiamo dal presupposto che anche a me viene l’ansia seguendo i suoi avvicinamenti, ma avendo già vissuto quelle situazioni in passato adesso lo lascio sfogare da solo. Può sembrare che non mi interessi, mentre invece so che a Simone basta poco per rendersi conto dei suoi mezzi. E’ vero anche però che ogni tanto ha bisogno di una spinta morale, se non addirittura di una piccola sfuriata da parte mia (ride, ndr). A Bergamo si dice “rampare fuori dalla crisi” ed io cerco di supportarlo e sopportarlo in questo. Lui si fida delle persone che reputa i suoi pilastri come posso essere io, il suo allenatore o il suo procuratore e quindi capisce il nostro intento.
Lo hai visto cambiato in questi anni sotto questo punto di vista?
Assolutamente sì e tanto. Nelle interviste lo vedo più sicuro. Oppure come per l’omnium al mondiale. Anni fa avrebbe detto “vediamo come va”, invece stavolta era convinto di poter andare a medaglia. Non voglio prendermi meriti, ma gli avevo consigliato di iniziare un percorso con un mental coach per avere quella maggiore consapevolezza di cui parlavo prima. Io gli ho sempre detto e glielo dico ancora ciò che penso rispettando i suoi tempi e i suoi stati d’animo, ma era giusto che avesse i pareri di un professionista esterno.
Simone e Alice si conoscono fin dalle categorie giovanili. Intesa e complicità sono sempre stati alla base del loro rapportoSimone e Alice si conoscono fin dalle categorie giovanili. Intesa e complicità sono sempre stati alla base del loro rapporto
Dopo l’europeo su strada in Limburgo, come ha vissuto quel momento Alice Algisi con suo marito?
Quello è stato il punto più basso della stagione. Simone era molto deluso e ne ha sofferto quando è tornato a casa. Era sconfortato più per Jonny che per sé. Avendo accumulato tanta pressione durante la stagione, si sentiva responsabile per lui. Come lo pensava per il quartetto a Parigi. In molti sono stati poco teneri nei suoi confronti e di Milan tra giornalisti e commenti sui social. Personalmente ho imparato a non leggere più certe cose o quanto meno a leggere e considerare solo ciò che ritengo detto con cognizione di causa da gente per me credibile. Per Simone però ero preoccupata per il contraccolpo psicologico visto che c’erano ancora tante gare in cui fare bene.
Eri riuscita a parlargli subito?
No, ho dovuto aspettare che non fosse di fretta. Gli ho detto che doveva fregarsene di quello che diceva la gente e che doveva azzerare tutto. Gli ho ricordato che non era certo quella volata non riuscita che abbassava il suo valore. Sono cose che capitano. Rispetto ad altri sport, il ciclismo è bello perché ti dà subito una possibilità per rimediare anche se hai fallito un obiettivo importante. E infatti sia lui che Milan sono andati ai mondiali in pista in Danimarca riscattandosi alla grande. Ero presente anch’io ed è stato bellissimo vedere l’oro con record del mondo di Jonny e l’argento di Simone nell’omnium. Perché da moglie ed ex ciclista so perfettamente tutto quello che c’è dietro.
Diamo un seguito all'intervista con Giorgia Bronzini e parliamo con Yaya Sanguineti di come si può battere Wiebes. Il solo modo è anticiparla: ecco come
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Con la medaglia di bronzo conquistata nella madison dei mondiali, Michael Morkov ha chiuso da par suo la sua lunghissima carriera, iniziata da professionista nel 2009. A 39 anni il corridore di Kokkedal appende la bici al chiodo con 6 vittorie al suo attivo, tra cui 3 titoli danesi e una vittoria di tappa alla Vuelta di Spagna. Ma è soprattutto su pista che sono arrivati i suoi sigilli, tra cui un oro olimpico a Tokyo 2020 nella madison (ma anche l’argento nell’inseguimento a squadre in quella palpitante finale con l’Italia) e 4 titoli mondiali.
Se su pista Morkov è stato un leader, su strada ha elevato a questo rango il ruolo forse più subordinato di tutti, quello di ultimo uomo, divenendo per acclamazione planetaria il migliore interprete. Un maestro che lascerà un vuoto. Morkov però non resterà inattivo: per lui è già pronta l’ammiraglia di responsabile della nazionale danese su strada. Una nuova sfida, alla guida di una delle Nazioni più forti del momento.
Morkov con la sua famiglia sul podio di Ballerup: il modo migliore per chiudere la carrieraMorkov con la sua famiglia sul podio di Ballerup: il modo migliore per chiudere la carriera
Domenica hai chiuso la tua carriera con l’ennesima medaglia, oltretutto davanti al tuo pubblico. Che sensazioni hai provato nel tagliare l’ultimo traguardo?
Sono davvero orgoglioso di aver concluso a un livello molto alto. Nei miei ultimi campionati mondiali stavo ancora lottando per la medaglia d’oro e, naturalmente, non è mai piacevole perdere, ma sono comunque felice che abbiamo ottenuto la medaglia di bronzo e abbiamo fatto felice il pubblico danese. Non potevo chiudere meglio.
Tu hai vissuto due carriere parallele: maestro nell’aiutare i velocisti e grande specialista del ciclismo su pista. Quale delle due ti ha dato maggiori soddisfazioni?
Beh, penso che sia una combinazione perché in pista ho ottenuto le mie soddisfazioni, i miei obiettivi e i miei grandi risultati. Sulla strada, ero completamente determinato ad aiutare i miei compagni di squadra, quindi penso che sia stato il giusto mix.
La gioia del danese per la vittoria di un compagno, pilotato verso il successoLa gioia del danese per la vittoria di un compagno, pilotato verso il successo
L’ultimo uomo del treno dello sprint: per chi interpreta questo ruolo, che cosa significa vedere il leader vincere?
E’ come vincere la gara da soli, perché tu come uomo di testa sei molto concentrato per vincere la gara con il tuo velocista e per tutto il giorno lavori duramente per organizzare l’intera squadra e fare che tutto funzioni fino a quegli ultimi 200 metri, quando sarà lui a giocarsi la vittoria e devo metterlo nella posizione migliore. Bisogna avere fiducia in se stessi e guidare gli altri come leader. Posizionare il mio velocista e vederlo alzare le braccia è come una mia vittoria. Quindi questa è la sensazione migliore.
Qual è la più grande emozione che hai vissuto in bicicletta?
La risposta è semplice: vincere la medaglia d’oro olimpica a Tokyo. In quella madison c’erano grandi campioni tanto è vero che ce la giocammo tutta sugli sprint, senza guadagnare giri. C’erano grandi interpreti come Hayter e Thomas, eppure io e Lasse Norman Hansen ce la facemmo per tre punti. Penso che sia la medaglia più bella che puoi vincere come atleta. E sì, è stato molto emozionante.
La vittoria di Tokyo 2020 è stata il suo momento più alto, il premio a una carrieraLa vittoria di Tokyo 2020 è stata il suo momento più alto, il premio a una carriera
Hai lavorato con tutti i migliori velocisti dell’ultimo decennio, chi è stato il migliore ma sopattutto quello che hai sentito più vicino?
Credo di aver stretto un rapporto molto stretto con tutti i velocisti con cui sono cresciuto e penso che questo rapporto umano sia anche una parte importante del successo che ho avuto con ognuno di loro. Direi sempre che il mio migliore amico è Cavendish: i suoi risultati parlano da soli, ma ha anche una conoscenza incredibile dello sprint, della tecnica pura. Sa esattamente cosa fare, il suo istinto e il suo tempismo sono perfezione pura. Ma c’è un corridore con cui ho un legame speciale…
Chi?
Viviani. Ora posso guardare indietro e vedere che forse i due migliori anni che ha avuto come professionista sono stati quelli in cui l’ho aiutato a vincere dappertutto, nel 2018 e 2019. Abbiamo vissuto un biennio speciale e penso che Elia sia il corridore che è riuscito a ottenere il massimo dal suo talento sapendo sfruttare una squadra molto forte. Aveva dei compagni di squadra molto bravi intorno a lui e quando i compagni di squadra facevano un buon lavoro per lui, riusciva sempre a concludere con una vittoria. Molti dei successi con Elia sono speciali, di cui sono orgoglioso.
Michael insieme a Viviani dopo la vittoria ad Amburgo nel 2019. I due sono molto amiciMichael insieme a Viviani dopo la vittoria ad Amburgo nel 2019. I due sono molto amici
Ora passerai sull’ammiraglia della nazionale danese: quali sono i tuoi obiettivi nel nuovo lavoro?
Battere i miei amici italiani – dice ridendo – No, a parte le battute, sono davvero motivato per questo nuovo incarico. Soprattutto per trasmettere tutta la mia esperienza ai giovani corridori danesi e spero davvero di poterli aiutare a crescere e diventare buoni professionisti e vincere gare in futuro. Quindi la mia ambizione è quella di poter gioire di altre vittorie non personalmente mie, ma nelle quali sento di averci messo qualcosa.
Oggi la Danimarca è uno dei Paesi leader nel ciclismo professionistico, ma non ha un suo team WorldTour: pensi che sia un problema?
Io non penso, corridori danesi bravi ci sono e sono riusciti a firmare con tutte le migliori squadre del WorldTour. Quindi non penso che sia strettamente necessario avere una squadra danese al massimo livello. E’ invece fondamentale avere è una squadra Continental o Professional, per tutti i ragazzi che hanno bisogno di imparare. Ci sono corridori capaci di entrare subito nel WT, ma tanti altri hanno bisogno di più tempo, di avvicinarsi con più calma, maturano più lentamente. Questo possono farlo se hai una squadra Continental molto buona. Poi abbiamo la Uno-X che è sì norvegese, ma con una forte componente nostrana ed è molto importante nello sviluppo dei talenti danesi.
Morkov con Hansen, una coppia che ha fatto storia nella madison e portato la Danimarca a svettare nel quartettoMorkov con Hansen, una coppia che ha fatto storia nella madison e portato la Danimarca a svettare nel quartetto
Che cosa c’è dietro i Vingergaard, Pedersen e gli altri big del ciclismo danese?
C’è molto lavoro sui talenti, esattamente come dicevo prima. Provengono da un livello molto alto di squadre Continental in Danimarca con un livello molto, molto alto di professionisti. Hanno un grande fisico e capacità non comuni, ma sono frutto di un ottimo programma di sviluppo per i giovani corridori.
In prospettiva vedi Albert Withen Philipsen come un altro grande campione del WorldTour?
Andiamoci piano. In tutti gli anni in cui sono stato coinvolto nel ciclismo, ho visto molte volte corridori estremamente talentuosi da junior che poi non riescono a trovare gli stessi guizzi quando le cose si fanno serie. Albert è un corridore molto promettente, ma deve ancora migliorare molto per diventare il prossimo grande nome del World Tour. Io ovviamente non vedo l’ora di supportarlo e spero che diventerà presto quello che sogna di essere lui e tutti noi danesi.
Il danese con Cavendish, con cui ha condiviso molte delle sue vittorie, compreso il record di tappe al TourIl danese con Cavendish, con cui ha condiviso molte delle sue vittorie, compreso il record di tappe al Tour
Rispetto a quando hai iniziato, che ciclismo ti lasci alle spalle?
Un ciclismo molto professionale, molto più di quando iniziai vent’anni fa. Molte cose che si facevano allora, oggi sono considerate superate. In termini di allenamento, alimentazione, altitudine, sonno, campi di allenamento, equipaggiamento, dinamiche… Sono tutti aspetti che incidono molto. Per questo il ciclismo attuale corridori molto più talentuosi rispetto al passato, forse allora era più difficile diventare professionisti. Forse ora è più facile trovare i grandi talenti.
Uscendo dai confini danesi, c’è un altro Morkov, un corridore nel quale rivedi la tua storia e le tue capacità?
Oh, ci sono un sacco di grandi corridori in giro per il mondo, penso che la bellezza del ciclismo sia che siamo tutti diversi e veniamo da realtà differenti. Naturalmente ho uno spazio speciale nel cuore per i corridori che corrono in pista e che arrivano con le abilità della pista. E anche per quelli molto bravi nel gruppo. I ragazzi che hanno il potenziale per aiutare i migliori velocisti a diventare i più veloci. Quindi è lì che terrò gli occhi per il futuro.
La Pater sta tornando. Letizia Paternoster gira in pista, lavora in palestra, poi vola dalla Trek per il debutto. La forma cresce. I guai sono alle spalle
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TORINO – Miocarditi, pericarditi e le tante insidie nell’ottenere l’idoneità sportiva. La ricerca medica fa passi da gigante senza dubbio, ma negli ultimi anni sono stati tanti, anche troppi i casi di anomalie cardiache o malori. Alcune hanno stroncato carriere illustri, come quella di Sonny Colbrelli nella primavera del 2022. Altre hanno persino portato via campioni in erba come più recentemente il ventunenne Simone Roganti o nell’ottobre dello scorso anno l’olandese Mark Groeneveld. Senza dimenticare l’ex iridato della mountain bike Dario Acquaroli, che ci ha lasciati ad appena 43 anni durante un’escursione in mountain bike. Sono soltanto alcuni dei tanti casi che vi abbiamo raccontato su queste pagine nell’ultimo periodo.
Tra un’intervista e l’altra ai portacolori della Jayco-AlUla durante le loro canoniche visite all’Istituto delle Riabilitazioni Riba di Torino, abbiamo colto l’occasione per approfondire questo tema che purtroppo resta di attualità. A darci il polso della situazione, al termine delle visite dei corridori del team australiano in vista del 2025, ci ha pensato il dottor Ali Al Mohani.
«E’ il primo anno che seguo la Jayco-AlUla – comincia a raccontare – ma faccio da anni il cardiologo e visito gli atleti dal punto di vista sportivo e cardiologico perché ottengano l’idoneità. La mia percezione è che ci stia stato un aumento di episodi anomali dopo la pandemia, sia tra gli atleti professionisti sia tra la popolazione comune in generale. E’ difficile capirne l’origine, che potrebbe essere anche dovuta proprio al Covid, perché l’infezione virale aumenta il rischio di pericarditi e miocarditi».
Il dottor Ali Al Mohani è cardiolgo del centro Irriba di Torino. Dopo il Lombardia ha svolto le idoneità per i pro’ della Jayco-AlUlaIl dottor Ali Al Mohani è cardiolgo del centro Irriba di Torino. Dopo il Lombardia ha svolto le idoneità per i pro’ della Jayco-AlUla
Il rischio cardiologico
Chiunque faccia attività sportiva agonistica, anche soltanto per partecipare a una granfondo la domenica, necessita di ricevere l’idoneità. Già dopo la prima ondata del Covid, quando si è cominciato a tornare alla normalità, tutti ricordano che alcuni esami erano ancor più approfonditi, soprattutto se si aveva contratto il virus in maniera sintomatica.
«La visita agonistica-sportiva di idoneità e quella cardiologica sull’atleta – spiega il dottor Al Mohani – devono sempre essere svolte con estrema accuratezza. Qualunque dettaglio che esca dallo schema abituale deve attirare la nostra attenzione. Un rischio cardiologico in un atleta può essere la morte improvvisa o un evento aritmico maligno. L’accortezza da guardia alta è su tutti gli atleti in generale. Il ciclismo è uno sport molto comune in età adulta tra i 40 e i 50 anni. Se per i giovani di solito le visite sono più lineari, aumentando l’età, si fa più complessa anche la visita. Oltre al rischio di infezioni virali, aritmie e cardiomiopatie, entra in scena infatti anche il rischio di cardiopatia ischemica che in tutti i pazienti si manifesta col passare degli anni».
Dopo aver contratto il Covid nel 2021, Sagan fu fermato dai medici della Bora-Hansgrohe per scongiurare ulteriori rischiDopo aver contratto il Covid nel 2021, Sagan fu fermato dai medici della Bora-Hansgrohe per scongiurare ulteriori rischi
L’aumento delle anomalie
Quali possono essere i segnali di allerta per i dottori? «Siamo molto attenti sui sintomi di allarme. Ad esempio, in caso di dolore al torace, il nostro compito è quello di interrogare il paziente e capire la tipologia di questo fastidio. Spesso gli sportivi possono confondere dolori muscoli-scheletrici con un dolore cardiaco. Poi ci sono le palpitazioni, ovvero i battiti irregolari. In questo caso, è fondamentale chiedere al paziente se ha avuto dei giramenti di testa o la percezione di perdita di conoscenza: questi sono tutti segnali che possono accendere la prima spia. Poi, c’è la prova sotto sforzo, che ci permette di analizzare che non ci siano altri segnali strumentali. Mettendo insieme tutto, capiamo chi è idoneo a mettere sotto sforzo il suo cuore e chi è da indagare».
L’aumento di anomalie nello sport è un dato di fatto. «Sentiamo sempre di casi particolari sia nel ciclismo sia nel calcio. Non sempre è facile individuarli subito – prosegue – per riuscirci bisogna fare le cose in maniera iper-spinta, soprattutto coi ciclisti, che si mettono sotto sforzo costante per un numero elevato di ore ogni settimana. Poi si allenano in ambienti aperti, per cui sono più sensibili a infezioni del miocardio o del pericardio. Sono spesso persone che non riescono a rinunciare allo sport e che, davanti all’occhio del medico, cercano di esprimere il meno possibile il loro eventuale sintomo».
Sulla morte prematura di Simone Roganti, qui al Giro di Sicilia 2023, è stata aperta un’inchiestaSulla morte prematura di Simone Roganti, qui al Giro di Sicilia 2023, è stata aperta un’inchiesta
Il rischio pericardite
Lo sportivo, dentro di sé, vuol solo sentirsi dire che tutto va bene e che è pronto per una nuova annata, ma occorre cautela.
«Fare il ciclista ad alto livello è già un fattore di rischio – spiega il dottore – per quello bisogna essere molto aggressivi sia nell’interrogazione sia nella prova sotto sforzo, per non trascurare nessun possibile valore anomalo. I ciclisti sono maggiormente esposti o magari sono vittime di infezioni virali che non curano e continuano ad allenarsi o persino a correrci sopra. Questo comportamento vizioso può portare a pericarditi e infezioni del muscolo pericardico».
L’aspetto ambientale
Rispetto ad altri sport, infatti, non va dimenticato l’aspetto ambientale delle due ruote. «Un qualunque cicloamatore – aggiunge ancora il dottore dell’istituto torinese – in media fa all’incirca un centinaio di chilometri settimanali, spalmati in un paio di uscite. In particolare, spesso per la maggior parte del tempo della sua uscita è lontano da centri abitati e, se è in solitaria, può essere esposto a rischio elevato, essendo da solo e lontano da possibili soccorsi. Per questa ragione, il nostro obiettivo è metterlo in sicurezza anche in questa eventualità. Un calciatore, invece, se è vittima di un evento acuto, si trova sempre in un campo insieme a compagni di squadra e può ricevere assistenza immediata».
Sulla tecnologia, c’è ancora da lavorare secondo il dottor Al Mohani: «Un orologio con l’intelligenza artificiale o sistemi di monitoraggio può aiutare, ma potrebbe anche confondere un po’ le acque. Tanti ciclisti vengono a farsi visitare perché hanno frequenze anomale registrate sui loro orologi. Poi alla domanda se sono mai stati sintomatici, rispondono di no. Comunque, meglio un controllo in più che uno in meno. Anche se spesso, per fortuna, si tratta di errori del dispositivo tecnologico piuttosto che del loro cuore».
La lettura del battito anomalo sullo smartwatch può dare un’indicazione, ma necessita approfondimenti (depositphotos.com)La lettura del battito anomalo sullo smartwatch può dare un’indicazione, ma necessita approfondimenti (depositphotos.com)
L’attenzione ai bambini
La prudenza, dunque, è comunque una buona prassi per le famiglie degli atleti e non solo per i diretti interessati. «Essere un atleta premuroso è un buon segnale. Ultimamente, riferendomi alla situazione piemontese che ho sotto i miei occhi, vedo più sensibilità nei confronti della Medicina sportiva e della Cardiologia dello sport. Le mamme e i familiari in generale sono più premurosi adesso. Se viene richiesta dal medico un’ecografia in più, si capisce che è qualcosa di normale, magari soltanto per investigare un piccolo soffio e togliersi il dubbio. In passato invece, si pensava: “Faccio fare la visita a mio figlio, che deve avere l’idoneità a tutti i costi”.
«Posso capire che una mamma si faccia prendere dal panico se sente che qualcosa nel cuore di suo figlio non funziona al 100%. In questi casi noi medici cerchiamo di avere un po’ di sensibilità nell’esprimere il nostro giudizio e nello spiegare il perché dell’eventuale controllo aggiuntivo. Non è mai tempo perso spendere una parola in più, né fare un controllo che magari ci toglie il dubbio. E permette poi al ragazzo o alla ragazza di tornare a fare quello che più ama in sicurezza».
Che nesso c'è fra il Covid e i problemi al cuore? Perché a Sagan è stato imposto riposo assoluto? Ne abbiamo parlato con Roberto Corsetti. Venite a leggere
Il parlare sicuro di sé tipico di Davide De Pretto ha colpito per la naturalezza con la quale ha descritto il suo primo anno da professionista e gli obiettivi che si è prefissato. Il 22 enne della Jayco-AlUla sa quanto vale e non ha paura di dirlo a voce alta, con l’atteggiamento tipico dei grandi corridori. Le 17 top 10 al suo primo anno nel mondo del WorldTour hanno sorpreso tante persone e addetti ai lavori, uno su tutti il cittì Daniele Bennati. Ma alla base del cammino intrapreso con la formazione australiana c’era la fiducia risposta in lui dai tecnici. Di De Pretto avevamo parlato a fine 2023 con Marco Pinotti, ora torniamo dall’allenatore bergamasco per continuare il discorso.
«Il 2024 di De Pretto – racconta – non ci ha sorpreso, ma ha confermato la continuità di crescita che aveva avuto da under 23. La cosa che più ci ha incuriositi, e in questo caso davvero sorpresi, è la sua capacità di andare forte da febbraio a ottobre. Lo avevamo avvicinato due anni fa con l’idea di fargli fare un anno nel devo team e per poi passare con la formazione WorldTour. Alla fine era rimasto alla Zalf e quando lo abbiamo ricontattato l’anno scorso invece, siamo stati convinti fin da subito che il salto nei professionisti fosse giusto».
De Pretto è stato costante durante tutto il 2024 con diverse top 10 conquistateDe Pretto è stato costante durante tutto il 2024 con diverse top 10 conquistate
Talento e costanza
Avere un corridore in grado di far bene per tutto l’arco della stagione è un vantaggio da non sottovalutare per una squadra come la Jayco AlUla. Nel ciclismo moderno si lavora tanto per picchi di condizione e De Pretto ha fatto vedere che se gestito bene non ha problemi ad andare forte dal primo all’ultimo giorno della stagione.
«In questo ciclismo – continua Pinotti – i corridori forti emergono in tante corse importanti, quindi è fondamentale andare a gareggiare su terreni adatti alle proprie caratteristiche. De Pretto ha fatto un primo periodo intenso da febbraio ad aprile, per poi fermarsi a maggio. Ha ripreso a correre nel mese di giugno con l’obiettivo dei mondiali U23. Nelle corse adatte a lui ha mostrato di avere talento e costanza. Nella seconda parte dell’anno abbiamo visto la sua versione migliore».
Il primo risultato di rilievo è arrivato al Tour of Oman a febbraio, terzo nella quarta tappaIl primo risultato di rilievo è arrivato al Tour of Oman a febbraio, terzo nella quarta tappa
Quali convinzioni ti sei fatto sul suo conto?
Che è un corridore solido, il quale è cresciuto e maturato ed ora è nettamente più robusto dal punto di vista fisico. Il grande passo in avanti fatto quest’anno è arrivato sulla percorrenza delle salite lunghe, dove ora riesce a spingere molti più watt. In questa stagione, inoltre, abbiamo aggiunto il lavoro in palestra cosa che gli ha permesso di assorbire meglio i carichi di lavoro e di gara.
L’obiettivo atletico del 2025?
Fargli conservare lo spunto veloce che già di natura ha. Anzi, sarebbe giusto riuscire a incrementarlo. Sono convinto che con 100 watt in più di picco massimo riuscirebbe a emergere ancora di più su certi arrivi. Considerando quante top 10 ha ottenuto non è da escludere possa arrivare qualche vittoria in più. De Pretto è capace di piazzarsi perché vede bene la corsa e si muove ottimamente nel finale di gara. E non dimentichiamoci che è un primo anno, non è semplice guadagnarsi spazio in gruppo da giovani.
La sua prima vittoria da professionista è arrivata nella prima tappa del Giro d’Austria (foto Tour of Austria)La sua prima vittoria da professionista è arrivata nella prima tappa del Giro d’Austria (foto Tour of Austria)
Intanto ha corso alla Sanremo e al Lombardia, due Classiche Monumento. Un dettaglio non da poco.
Tre. Non dimentichiamoci la Liegi. Tra quelle corse quest’anno, è la Monumento che più gli si addice anche se da qualche anno è appannaggio degli scalatori. Anche alla Sanremo ha offerto una bella prova, potrebbe essere una corsa nella quale inserirlo in futuro. Il Lombardia invece era troppo duro, sopra i 3.500 metri di dislivello fa fatica, ma il carattere c’è.
Da cosa si è visto?
Innanzitutto dal modo in cui ha onorato Il Lombardia, che ha chiuso più che dignitosamente. Inoltre noi abbiamo puntato molto su di lui, facendolo correre da leader fin dalle prime uscite. Alla Valenciana, pronti via, ha ottenuto due top 10 e in Oman un podio nella quarta tappa. Quando ho spinto per fargli firmare il contratto da noi, gli ho detto che qui avrebbe avuto spazio, ma un conto è averlo e un’altro è sfruttarlo. De Pretto ha fatto vedere che non ha paura di provare a vincere e con un po’ di esperienza in più potrà fare ancora meglio.
Con la prima stagione da pro’ alle De Pretto sarà in grado di giocarsi ancora meglio le sua chance di vittoriaCon la prima stagione da pro’ alle De Pretto sarà in grado di giocarsi ancora meglio le sua chance di vittoria
In che senso?
Al Matteotti e al Giro del Veneto se avesse corso con più pazienza avrebbe potuto portare a casa un risultato migliore, e comunque ha fatto quarto in entrambe le gare. Senza dimenticare che si è già tolto lo sfizio della prima vittoria da professionista al Giro d’Austria. Di quello sono felice perché sarebbe potuto essere un tarlo per lui visti i tanti piazzamenti, invece ha fatto vedere che sa vincere.
De Pretto stesso ha parlato di voler fare una grande corsa a tappe, pensi possa essere il prossimo step?
Credo sia in grado di assorbire una prova del genere. Può farlo. Quest’anno al Giro del Delfinato ha sofferto un po’ la salita, ma ne è uscito bene. Così come ai Paesi Baschi. Dovremo vedere bene i percorsi e non fargli fare un Grande Giro troppo duro, ma nemmeno troppo “soft”. Portarlo solo per fargli fare l’esperienza non ha senso, sarebbe meglio andare con l’obiettivo di fare bene in due o tre tappe.
Il prossimo gradino potrebbe essere un Grande Giro, ma serve il giusto percorsoIl prossimo gradino potrebbe essere un Grande Giro, ma serve il giusto percorso
Come si mantiene vivo lo spirito vincente di un ragazzo giovane come De Pretto?
Dandogli le giuste occasioni. Poi il resto lo fa da sé. Dopo le prestazioni alla Valenciana e all’Oman siamo andati alla Coppi e Bartali convinti di puntare su di lui. Poi sono arrivati i Baschi e il finale di stagione in Italia. E’ giusto dare spazio e fiducia, ma poi tutto questo va ripagato con i risultati e De Pretto ha fatto vedere di che pasta è fatto.