Traversoni il pescatore e il ciclismo del Pirata

15.04.2022
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Eravamo tutti così concentrati sulla crono di Eurodisney del giorno dopo, da non aver dato la giusta importanza alla tappa vinta da Mario Traversoni a Dijon.

Pantani stava per conquistare il podio al Tour del 1997, dopo il ritiro dal Giro causato dal gatto nero del Chiunzi, così le attenzioni per quel suo compagno estroso e riccioluto si ridussero purtroppo al minimo. Vinse la tappa su Simon e un gruppetto di nove, poi anche lui piombò nella concentrazione per il piccolo capitano che aveva da difendere più di 6 minuti da Olano, che gliene mangiò quasi cinque e poi si rassegnò al quarto posto finale.

L’anno dopo Traversoni accompagnò nuovamente Pantani al Tour, ma questa volta fino alla vittoria (nella foto di apertura è il primo da sinistra), ottenendo per sé il settimo posto sul traguardo di Parigi.

Traversoni ha compiuto 50 anni due giorni fa. E’ stato pro’ dal 1994 al 2002
Traversoni ha compiuto 50 anni due giorni fa. E’ stato pro’ dal 1994 al 2002

I primi 50 anni

Due giorni fa Mario ha compiuto 50 anni ed è stato come svegliarsi da un senso di eterna giovinezza, come quando della cosa ti avvisa un social e tu resti lì a rimuginarci sopra.

«Il problema – ride però lui – è che io non me li sento. L’età anagrafica è quella, però mi sento 10 anni in meno. Quel Mario non c’è più, il ciclismo è una porta chiusa. Ne sono uscito. Collaboravo con RCS, ma non sono stato confermato, probabilmente per una battuta di troppo in difesa dei corridori che a qualcuno non è piaciuta. Continuo a vederli trattati come ultima ruota del carro e non mi piace. Seguo qualche gara. Più il ciclocross, a dire il vero, perché l’unico corridore in questo momento che mi entusiasma è Van der Poel, poi per il resto vedo un ciclismo molto calcolato. Tolti appunto Mathieu e Pogacar, che hanno un modo meno monotono di interpretare le corse».

Traversoni lavora in un’azienda che produce materiali tecnici e a sua volta fa gare di pesca
Traversoni lavora in un’azienda che produce materiali tecnici e a sua volta fa gare di pesca
Qual è il ciclismo che ti piace?

Vabbè, inutile dirlo. Quello di Marco, che inventava la corsa giorno dopo giorno. Non c’era mai niente di scontato e poi forse anche in gruppo c’erano ancora i veri ruoli. Se tu facevi il tuo mestiere e sapevi farlo bene, potevi avere un contratto garantito. In questo ciclismo moderno, tolti i pochi che stanno in una nicchia, gli altri sono quasi tutti a rischio di contratto anno dopo anno. C’è un ricambio troppo grande.

Sei ancora un grande pescatore?

Ho sempre pescato, ma dopo aver smesso, mi ci sono buttato a capofitto. L’anno scorso non sono andato al mondiale per un solo punto, quest’anno sono ancora nel club azzurro, quindi mi gioco ancora la convocazione. Praticamente faccio solo quello come agonista. Non vado per passatempo, tutto quello che faccio è sempre in previsione di una gara o comunque di un appuntamento importante. La pesca non ha niente a che vedere col ciclismo, però mi ha dato un lavoro.

Anche Pantani amava pescare…

Marco era un personaggio incredibile, nel senso che quello che voleva fare, dove voleva arrivare, lui ci arrivava. Andava a caccia e sparava meglio di te. Andava a pescare e prendeva più di te. Cosa vuoi dirgli a una persona cui veniva proprio tutto facile? L’impegno ce l’ha sempre messo in tutte le cose che faceva, perché lui voleva sempre essere il numero uno. Però non lo faceva mai pesare agli altri. Quando hai un fuoriclasse così in squadra, bisogna per forza fare tutto per lui.

Traversoni ha corso con la Mercatone Uno nel 1997 e 1998. E’ passato professionista con la Carrera
Traversoni ha corso con la Mercatone Uno nel 1997 e 1998. E’ passato professionista con la Carrera
C’è ancora in te la… follia del velocista?

L’essere velocista ti resta sempre, perché è una cosa che hai dentro. Già c’è il discorso che non mi sento cinquant’anni. Mi sono risposato e adesso ho una bimba di 5 mesi e quindi faccio sempre una vita a tutta. Sono sempre accelerato, ma in bici non vado più dal giorno che ho smesso. Solo una volta l’ho ripresa in mano, alla Santini, perché dovevo fare un servizio fotografico per del vestiario nuovo.

Come andò?

Erano sei anni che non andavo in bicicletta. Ho puntato l’ultima salita coi primi, però ho avuto i crampi fino ai capelli e mi son fermato. Ho dormito credo per due giorni di fila. La bici ce l’ho ancora, ma se devo andare dal panettiere che sta a 800 metri da casa, vado a piedi o prendo la macchina.

Cosa ti pare del ciclismo di oggi?

Sono ancora in contatto con qualche ex compagno. Ogni tanto mi chiamano per qualche festa o faccio presenza in qualche gara, ma se posso evito. Non mi interessa più, perché l’ho vissuto da ciclista e poi anche dal di fuori e quello che ho visto non mi è piaciuto. Abbiamo cambiato la generazione dei corridori, adesso abbiamo tutta gente giovane che vince. Il ciclismo si è modernizzato e io non riesco a capire perché poi ci sono ancora quei vecchi bacucchi ai vertici, che comandano ancora loro. Certi direttori, certi preparatori. Non ha neanche senso parlare di ricambio generazionale, se a guidare la macchina ci sono ancora questi qua…

Domani il Carpegna, luogo di fatica e ricordi: parla Siboni

11.03.2022
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«L’aneddoto più bello – ricorda Marcello Siboni, una vita al servizio del Pirata – è dei tempi alla Carrera, quando partì senza aver fatto colazione e poi come al solito decise di allungare. Fece il Carpegna e quando finì la discesa si rese conto di essere svuotato e di non avere in tasca neanche una lira. Allora entrò in un negozio. “Sono Marco Pantani, non ho un soldo e ho una fame nera. Mi date un paio di barrette di cioccolata per arrivare a casa?”. Ovviamente gli diedero quello che chiedeva e lui ripartì. Mi disse che quando arrivò all’incrocio di Savignano, dove adesso c’è la rotatoria, era talmente sfinito che non ricordava nemmeno di essersi fermato al semaforo. Il giorno dopo ovviamente tornò su e gli portò i soldi per pagare quel che aveva mangiato».

Siboni raggiunse Pantani alla Carrera nel 1995 e ci rimase fino al 1999
Siboni raggiunse Pantani alla Carrera nel 1995 e ci rimase fino al 1999

Una vita da gregario

Domani c’è il Carpegna, che probabilmente deciderà la Tirreno-Adriatico del 2022 e come ha detto ieri Ciccone a fine intervista, è la salita del Panta. Chi meglio di Siboni può raccontarci che cosa abbia rappresentato quella salita per Marco e cosa possiamo aspettarci?

Marcello (in apertura nella foto Facebook) parla poco, abituato per una vita a starsene da parte. Amico, prima che compagno di squadra. Erano sempre insieme, anche quando Marco scoprì i rollerblade e lo convinse a seguirlo. Erano gli anni alla Carrera. Li incontrammo a Cesenatico, Marcello aveva il gesso al polso destro. Era caduto dai pattini, ma a Boifava dissero che era successo con la bici

Dal 1997 Siboni ha corso alla Mercatone Uno, nata attorno al suo capitano
Dal 1997 Siboni ha corso alla Mercatone Uno, nata attorno al suo capitano

Ritorno di fiamma

E’ stato professionista dal 1987 al 2002, con Ariostea, Jolly Componibili, Carrera e Mercatone Uno. Dopo qualche anno a riprendere le misure della vita, ha aperto la sua bottega di bici a Cesena. Cicli Siboni, zona Ponte Vecchio. Prima della pandemia vendeva anche qualcosa, ora si occupa soltanto di riparazioni. E soprattutto ha ripreso a pedalare.

«La passione si attenua – sorride abbassando lo sguardo – ma non si spegne. Seguo le corse. Sto vedendo i numeri di Pogacar, è fortissimo. Seguo anche voi su bici.PRO, ho visto quando siete nati. Mi piace tutta la parte dell’allenamento e dell’alimentazione, perché da quando ho ripreso a pedalare, ho capito che è cambiato il mondo. Di quel periodo è passato tutto, normale che sia così. Per fortuna qualcuno a volte si ricorda…».

Nel 1998, c’era anche lui nel team che conquistò il Giro d’Italia
Nel 1998, c’era anche lui nel team che conquistò il Giro d’Italia
Il Carpegna mi basta…

La sua frase, mi viene la pelle d’oca. Molte volte andava su da solo, perché aveva bisogno di ascoltare le sue vocine. La salita è dura, ma non lunghissima. Eppure valutando le sue sensazioni, Marco riusciva a capire se stesse bene. Niente strumenti, solo quello che gli dicevano gambe e testa.

Andavate mai insieme?

E’ capitato, però fino al Cippo non tante volte. Invece a Carpegna capitava più spesso (il paese si trova circa a metà salita e domani sarà sede di arrivo, ndr).

A Cesenatico con Tonina e Paolo, davanti alle due biglie dedicate a Marco
A Cesenatico con Tonina e Paolo, davanti alle due biglie dedicate a Marco
Pensi mai a quel periodo?

Non potrei mai fare finta di niente, non è che ti dimentichi o lo metti da parte. Sono stati periodi brevi ma intensi, tra una sfortuna e l’altra. Indimenticabili.

Segui le battaglie di Tonina per arrivare alla verità?

Capisco il dispiacere che ha addosso. A volte mi chiedo chi glielo faccia fare, perché Marco comunque è sempre ricordato, ma quello che è riuscita a dimostrare su Campiglio è stato eccezionale. La dimostrazione che ci fu qualcosa contro di lui. Ognuno ha il suo carattere, quello di Marco era unico. Si sentì subito tradito dall’ambiente ed era da capire.

Perché?

Era il portavoce del gruppo, a volte gli dicevo che forse si sentiva troppo indistruttibile. E infatti al primo intoppo l’ambiente e chi governava il ciclismo non fecero nulla per aiutarlo. Marco si è buttato giù perché capì di essere da solo. Non è facile da accettare.

A settembre fino al Cippo per un’intervista con Marangoni (foto Facebook)
A settembre fino al Cippo per un’intervista con Marangoni (foto Facebook)
Ti senti più con quei compagni di squadra?

Abbiamo creato un gruppo whatsapp con Zaina, Conti, Fontanelli, Fincato. Propongo sempre di organizzare una rimpatriata. Una volta in Romagna, una volta in Veneto… Si dice ma non si fa. Anzi, scrivilo, così magari si convincono.

Sei più tornato in bici a Carpegna?

Ci sono tornato a settembre, perché Marangoni mi ha proposto di fare un video. Prima abbiamo girato a Cesenatico. Poi siamo andati a Carpegna con la macchina e abbiamo fatto l’ultimo tratto.

Siboni ha la sua officina a Cesena: si occupa di riparazioni (foto Facebook)
Siboni ha la sua officina a Cesena: si occupa di riparazioni (foto Facebook)
Pensi che farà male al gruppo?

La faranno due volte, si farà sentire e l’arrivo è vicino all’ultimo scollinamento.

La discesa com’è?

Sempre stretta, ma con meno curve rispetto all’altro versante. Magari non ci saranno distacchi abissali, ma vedrete che faranno un po’ di casotto. Soprattutto se Pogacar corre lassù come alla Strade Bianche. Ci farà divertire.

Lungomare Bike Hotel, tra mare e monti la vacanza con la bici è per tutti

21.02.2022
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Immerso nella Romagna con lo sguardo rivolto al mare, il Lungomare Hotel di Cesenatico è uno dei Bike Hotel più suggestivi del territorio. Con i suoi servizi interamente dedicati alle due ruote è pronto ad ospitare ciclisti di ogni genere. Dai più piccoli ai più grandi. Dai più esperti ai principianti.

«Da noi possono venire persone che non sono mai andate in bici – dice la titolare Silvia Pasolini – per iniziare ad approcciarsi a questo sport direttamente qui. Molte persone grazie alle nostre guide si sono messe in gioco e hanno fatto le loro prime escursioni. Ci sono anche persone super allenate che vengono da noi a fare i training camp e Gran Fondo da tutto il mondo».

Grazie alla sua bike room con più di 150 bici e alle guide locali ogni singolo momento di vacanza può essere organizzato a bordo della propria bici per visitare le bellezze del territorio romagnolo che ha visto crescere campioni come Marco Pantani e ospita ancora oggi arrivi di tappa del Giro d’Italia e non solo e Gran Fondo come la Nove Colli.

Alla scoperta del territorio

L’aria di mare fa da contorno e alimenta la giornata, ma a pochi passi si possono trovare le colline che danno il nome alla Nove Colli come il monte Barbotto, la salita più dura della Gran Fondo, a cui è dedicata un’escursione. Di qui sono passate e passano tappe e corse di un giorno di tutte le categorie, dal ciclismo giovanile ai pro’ come gli arrivi del Giro d’Italia.

Grazie alle sue guide e ai molteplici pacchetti il Lungomare Bike Hotel funge da campo base per escursioni di ogni genere in sella alla propria bici, che sia da strada, Mtb o gravel. Dal passaggio al fantastico borgo di Santarcangelo al percorso sul Monte Carpegna. Oppure percorsi pianeggianti e rivitalizzanti come “La rotta del sale” suddivisa in quattro giorni, divisa tra andata e ritorno da Cesenatico e Venezia.

«Senza dimenticarsi degli accompagnatori – prosegue Silvia Pasolini – anche loro vengono coccolati e loro stessi coinvolti con i ciclisti. Abbiamo per esempio un pacchetto che si chiama “bike and family” che fornisce attività complementari. Con arrivi di tappa condivisi. Dal agriturismo all’arrivo in piazza condiviso, allo svago per i bambini».

I servizi per tutti

Per un Bike Hotel i servizi sono forse uno degli aspetti più importanti e che donano il valore aggiunto a tutta l’esperienza che si vive presso la struttura. Il Lungomare di Cesenatico ne ha una lunga lista che vuole fare sentire il ciclista supportato a 360 gradi. Il fiore all’occhiello è la bike room, che può ospitare fino a 150 bici. Costruita sotto il livello del mare ospita un servizio di assistenza meccanica 24h su 24 con il supporto di un tecnico specializzato per qualsiasi esigenza e un angolo per il lavaggio bici.

«Siamo partner esclusivo di Pinarello tra gli hotel dell’Emilia Romagna – osserva Silvia Pasolini – per il noleggio delle splendide bici. Poi abbiamo una piscina riscaldata per triathleti, centro benessere, centro massaggi, bagno turco e angolo relax. Centro estetico e massaggi sportivi. Se il tempo non è il massimo o per la preparazione invernale abbiamo una palestra Technogym con vista mare per potersi allenare anche indoor».

Oltre a questi servizi fisici è disponibile anche un supporto per le iscrizioni alla Gran Fondo e per il ritiro pacchi gara con la possibilità di essere consegnati direttamente in camera per una attenzione ai dettagli che non lascia nulla al caso. Infine è presente la cucina, disponibile a menù preparati ad hoc per il rientro da escursioni o allenamenti e piani alimentari specifici.

Il legame con il professionismo

Per una struttura di questo genere la clientela è una cartina tornasole che fa delle figure che la visitano un biglietto da visita inequivocabile. Ed il legame e le radici con la storia sportiva della zona ne è la conferma.

«Noi siamo legati molto a Marco Pantani – afferma Silvia Pasolini – lo ricordiamo e spesso ci chiedono molto di lui e di poter vedere dove si allenava e viveva. Ci piace far conoscere il territorio. La Romagna non ha nulla da invidiare a ciò che si può trovare in altre nazioni. Abbiamo l’aria del mare e le colline a pochi chilometri. Per non parlare del cibo e vino. Ci teniamo molto che le nostre guide sottolineino questi aspetti e si dedichino alla spiegazioni della storia dei monumenti e della relativa importanza. Non è un territorio che si basa solo sul turismo come profitto, ma abbiamo tanta storia da fare conoscere».

Da noi sono passati molti ciclisti professionisti che sono diventati poi amici. Paolo Savoldelli, Marco Saligari, Omar di Felice per citarne alcuni. Spesso ospitiamo squadre professionistiche per le gare che arrivano qui nei dintorni. Abbiamo ospitato anche Bernal, Pogacar e Roglic. Amici di famiglia che girano e iniziano ad fare affidamento su di noi e sui nostri servizi».

LungomareBikeHotel

Il lettino di Moro, massaggi, ricordi, campioni e nostalgia

26.01.2022
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E’ stato Cassani a riportarlo in nazionale, in quello staff trasversale che segue gli azzurri in ogni angolo del mondo. Prima Luigino Moro, nella vita precedente iniziata dieci anni dopo aver smesso di correre e fino alla chiusura della Liquigas, è stato uno dei massaggiatori di riferimento del gruppo. E’ passato attraverso anni particolari del ciclismo. E’ stato uomo di fiducia di alcuni fra i più grandi italiani degli ultimi 30 anni. Da Bartoli al Pantani del 1998, per capirci, avendo cominciato con l’Italbonifica, poi la Carrera, la Mg Technogym, la Mercatone Uno, la Mapei, la Fassa Bortolo e appunto la Liquigas. Sorridendo ammette che lentamente sta tirando i remi in barca: è del 1956, è nato in Veneto ma vive a Forlì, è sposato con Silvia dal 1982, fra un paio d’anni potrebbe andare in pensione.

«Sono stato professionista con la Inoxpran dal 1979 al 1982 – racconta – poi ho iniziato la scuola di massofisioterapista e insieme per un po’ ho fatto il gruista del soccorso stradale, così ho preso tutte le patenti che mi sono tornate poi utili nelle varie squadre. Ho sempre avuto la passione per la fisioterapia, ma l’idea iniziale era di lavorare in ospedale. Solo che in quel periodo prendevano solo terapisti della riabilitazione e così mi sono rivolto nuovamente al ciclismo».

Luigino Moro è bellunese, ma vive a Forlì. Classe 1956, è stato professionista dal 1979 al 1982
Luigino Moro è bellunese, ma vive a Forlì. Classe 1956, è stato professionista dal 1979 al 1982
Si diceva e a volte si prova a ripetere che il massaggiatore sia il confessore del corridore…

Si diceva, all’inizio era così. Ultimamente sempre meno, ora il corridore che arriva sul lettino è sempre molto distratto dal cellulare. E’ raro che lo spenga, per cui il contatto personale si riduce. Bisogna adeguarsi ai tempi. In proporzione, ho lavorato meglio con le ragazze in ritiro…

Cioè?

Sono stato a Calpe al ritiro con la nazionale femminile per sostituire il loro massaggiatore fisso. E’ stata una bella esperienza, mi sono trovato benissimo. Anche loro venivano col cellulare, però nessuna lo ha mai usato. Mi hanno dato l’impressione di essere attente e partecipi al lavoro e in questo modo anche il massaggio è più efficace.

Bisogna adeguarsi ai tempi?

Il modo di comunicare è cambiato. I direttori sportivi mandano mail e whatsapp, si parla sempre meno. Per questo ho avuto i rapporti migliori con i vecchi corridori. Ancora adesso con Bartoli ci sentiamo spesso, ma forse i corridori giovani hanno un miglior rapporto con i massaggiatori della loro età. Io per alcuni di loro potrei essere tranquillamente il padre (ride, ndr).

Nel 1998, Luigino Moro è stato il massaggiatore di Pantani, vivendo con lui i mesi più belli
Nel 1998, Luigino Moro è stato il massaggiatore di Pantani, vivendo con lui i mesi più belli
Come mai Bartoli?

Siamo molto amici, anche con la famiglia, con mia moglie siamo stati padrini al battesimo di suo figlio Gianni. Per lavoro ci siamo incrociati spesso. Alla Mg Technogym, poi alla Fassa Bortolo e alla Mapei sino alla fine della sua carriera.

E poi Pantani…

Già quando nel 1991 correva alla Giacobazzi, a volte d’inverno veniva a casa mia per fare i massaggi. Poi lo trovai alla Carrera. Infine arrivai alla Mercatone Uno quando fu rifondata nel 1997, però Marco era con Pregnolato. Quando nel 1998 ci fu un assestamento e Roberto andò via, iniziai a seguirlo io. L’ho massaggiato per tutto il 1998, quando vinse Giro e Tour e fu un’esperienza incredibile, molto bella. Ho vissuto i momenti migliori di Marco, mi ritengo fortunato.

Com’era Marco ai massaggi?

Lui entrava e ascoltava il massaggio, come Bartoli. Corridori così sensibili ce ne sono stati pochi, mi viene in mente Rolf Sorensen con cui ho fatto tre mondiali. In quel periodo i cellulari stavano arrivando e comunque servivano solo per telefonare. I momenti che ho vissuto con Marco non saprei come definirli. C’era gioia e insieme l’emozione, sapendo tutto quello che aveva fatto per tornare grande. Si era fra il pianto e la gioia. In quel periodo Pantani parlava il giusto, per avere conferme alle sue sensazioni (in apertura, il massaggio di fine Tour 1998, ndr). Aveva attimi scanzonati, ma quell’anno era sempre molto concentrato. Poi tornò Pregnolato e io non ho più lavorato con lui.

Bartoli era più estroverso, a volte bisognava spegnere i microfoni…

Michele esternava tutto quello che gli passava per la testa. Si creò un bel rapporto perché ti coinvolgeva nelle sue preoccupazioni e nei ragionamenti. La visione di corsa con lui era molto più intensa, ti faceva entrare nella sua rabbia. Ricordo Plouay…

Si sentì tradito dalla Mapei, scagliò la bici nel box dopo l’arrivo, era nero…

Prima di quel mondiale, massaggiavo sia lui sia Bettini. Michele quel giorno era furibondo, si sentì tradito, ma solo loro due sanno come sia andata. Forse Paolo pensava di partire più avanti per tirargli la volata, difficile giudicare da fuori.

Il fatto di aver corso ti ha aiutato nel tuo lavoro?

Credo che quegli anni in bici siano serviti per dare agli atleti quello che era mancato a me quando correvo. Il massaggio era di 20 minuti quando andava bene, solo ai capitani andava meglio. Una volta si lavorava solo con le mani, senza tanti apparecchi. Giusto qualcuno usava delle lampade a infrarosso, ma il solo risultato era di riscaldare il muscolo.

Moro ha lavorato a lungo con Ferretti, qui nel 2003 con Petacchi: per lui ha grande stima
Moro ha lavorato a lungo con Ferretti, qui nel 2003 con Petacchi: per lui ha grande stima
Hai lavorato con grandi direttori sportivi…

Per Ferretti ho grande stima, lo ritengo uno dei migliori. Riis è stato un grande innovatore per la comunicazione e ha cambiato il modo di pensare del tecnico. Parsani aveva un bel rapporto con gli atleti e avendo corso insieme, ci intendevamo bene. Zanatta e Chiesa li ho sempre visti come due bravi ragazzi capaci di parlare con i corridori. Giannelli è stato il migliore sul piano della logistica.

In Belgio si parla ancora della tua pizza…

Quando andavamo nell’hotel di Piva (ride, ndr), visto che da ragazzino avevo lavorato come panettiere, capitava che mi chiedessero di fare la pizza. Poi con la venuta dei cuochi, hanno iniziato a mangiarne di migliori.

C’è stato anche un periodo in cui i massaggiatori venivano visti come i… pasticcioni del doping.

Purtroppo (dice dopo una piccola pausa, ndr) abbiamo avuto dei momenti non belli. Ma una volta stabilite le regole, si riusciva a restare anche tranquillo. Alcuni però non si sono attenuti e hanno combinato qualche pasticcio. Qualche bandito c’è stato, io per fortuna ho lavorato in squadre in cui i medici facevano bene il loro lavoro e noi ci siamo tolti un bel peso. In altre squadre invece tutto è continuato come prima. Io ho sempre ritenuto importante che ognuno rimanga nel proprio lavoro.

Ecco Moro, a destra, alla festa del 10 anni del mondiale di Cipollini
Ecco Moro, a destra, alla festa del 10 anni del mondiale di Cipollini
Luigino e la nazionale?

Non ho mai avuto il piacere di lavorare con Alfredo Martini, ma anche quando veniva alle corse sentivi la sua presenza. Su di lui hanno detto di tutto, ma è ancora poco per il carisma che aveva. Ballerini ascoltava tutti quanti, poi prendeva le sue decisioni. Con Bettini sono andato una sola volta in Australia, ma il bel rapporto che c’era da corridore è rimasto. Con Cassani, cosa dire? Ci allenavamo insieme. Io smettevo e lui cominciava. Vedremo con Bennati, che ho massaggiato alla Liquigas.

Pensi davvero alla pensione?

Per venire alle corse bisogna avere grande passione e io ce l’ho, anche perché lavorando a casa si guadagnerebbe certamente di più. Mi piace ancora essere in giro e con la nazionale faccio un numero di giornate giusto, un bel compromesso rispetto alle lunghe assenze dei team. Però mi sto facendo la bici nuova per riprendere quando avrò più tempo. Ho 65 anni, potrei andarci a 67,5. Si vede ormai l’arrivo, ma ci penseremo al tempo giusto.

Il Falco e il Pirata: l’officina dei ricordi di Dino Falconi

13.01.2022
6 min
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Il tono della voce diventa flebile e lo sguardo si abbassa. Ogni ricordo che il Falco ci racconta sul Pirata assume un’atmosfera propria e assordante. Dino Falconi è stato il meccanico della Mercatone Uno dagli inizi, fino all’ultima stagione di Marco Pantani. Ancora oggi all’età di 85 anni si reca nella propria officina per riparare le bici di clienti fidati e per aprire le porte agli appassionati che bussano. Tra questi ci siamo anche noi.

Dino ci apre nel suo fantastico laboratorio situato nel centro del piccolo paesino di Barbiano, in provincia di Ravenna. Terra romagnola proprio come quella di Marco e di altri atleti conterranei con cui ha condiviso successi e sconfitte come: Vito Ortelli, Aldo Ronconi, Marino Amadori, Fabiano Fontanelli, Roberto Conti, Davide Cassani e molti altri sparsi qua e là tra salite, piadine e cappelletti. 

L’officina dei ricordi

Non appena entrati, vediamo Dino seduto al centro. Circondato da una costellazione di foto che formano una sorta di memoria impressa sulle pareti. La mascherina sul volto ci ricorda che nel tempo si può viaggiare solo con l’immaginazione. Il Falco inizia ad indicarci alcune immagini e a raccontarci i primi aneddoti.

Parte dalla foto insieme ad Aldo Moser, nella sua prima esperienza come meccanico sul campo. Era il 1971, la squadra era la GBC di Enzo Moser al Giro di Spagna.

«Alle corse -racconta Dino – ci sono andato per andare in ferie. Battista Babini mi chiese di andare in Spagna per aiutare. Da quel momento le ferie si sono prolungate per 35 anni». 

Dino e Marco

I racconti si susseguono e pian piano ripercorriamo foto per foto ogni centimetro della parete. Tant’è vero che la domanda che gli facciamo è spontanea: «Si potrebbe scrivere un libro con queste storie…». La sua risposta è secca e non lascia a interpretazioni, seppur sia una battuta. «Il libro lo scriverete quando passerò a miglior vita, ora mi piace raccontarle a voce!». 

E’ il 2003, Falconi e Pantani testano le bici da crono durante il giorno delle misure
E’ il 2003, Falconi e Pantani testano le bici da crono nel giorno delle misure

Una foto in particolare ci colpisce. Falconi ha indosso il suo immancabile grembiule da meccanico (anche oggi lo porta). Pantani è in sella alla bici.

«Lì stavamo facendo le misure per la sua bici da cronometro. Eravamo alla vigilia della Coppi e Bartali di inizio stagione. Il giorno della crono era una brutta giornata. C’era un po’ da impazzire». 

Pignolo quando serviva

«Eravamo tutti e due romagnoli, ci si capiva subito». Dino continua così il suo racconto su Pantani. Per il campione di Cesenatico la bici era sempre stata una compagna di viaggio a partire da quando era giovane. Quando per lavarla la portava in casa e la immergeva nella vasca. Per Marco la bici non aveva segreti.

«Un buon corridore – dice il Falco – deve essere un buon meccanico. E Pantani ne capiva di bici, quindi non mi dava fastidio assecondarlo nelle modifiche che voleva. Era pignolo e a volte si intestardiva, ma lo faceva sempre con un senso. Non come Chioccioli che dalla mattina alla sera cambiava idea».

Una battuta quella su Franco Chioccioli che viene subito accompagnata da un’aneddoto su un paio di ruote realizzate ad hoc dai fratelli Arrigoni della Fir. Due ruote da 28 pollici con tre razze, utilizzate al Giro d’Italia vinto nel 1991 con un mozzo realizzato su misura da Pinarello su commissione di Falconi. 

Le ruote da cronometro a tre raggi utilizzate da Chioccioli durante il Giro d’Italia del 1991
Le ruote da cronometro a tre raggi utilizzate da Chioccioli durante il Giro d’Italia del 1991

Le misure del Pirata

Il rapporto tra il Falco e il Pirata era fatto di rispetto e stima reciproca. Infatti a convincerlo a seguirlo in Mercatone Uno e a prolungare le sue “ferie” per qualche anno fu proprio Marco. Forse perché il corridore con il meccanico sviluppa una sintonia e una fiducia che aiuta a trovare il giusto feeling con la bici fin da subito. Della messa in bici infatti se ne occupava proprio Dino.

«Lo mettevo in bici io -dice- mi dava delle dritte, certo. Ma le facevo tutte io ad occhio. E forse ci andavo più vicino io che con i macchinari che si utilizzano oggi. Guarda quella foto lì, com’è bello in bici. È messo bene!».

Marco Pantani in una foto che Falconi indica per mostrare la sua posizione in bici
Marco Pantani in una foto che Falconi indica per mostrare la sua posizione in bici

Aneddoti e storie

Ci spostiamo da un lato all’altro dell’officina guidati dalla sua voce, tenendo un occhio chiuso per volare con l’immaginazione e un’altro aperto per non inciampare nei cimeli. Tra questi ci imbattiamo in una Wilier di Juan Manuel Gárate.

«Quella secondo me – dice – è il miglior telaio realizzato da Wilier. Con la forcella posteriore in carbonio». Poco più avanti appesa in alto, una bici firmata Ortelli. «Quella è una Ortelli, mi diede il telaio Vito a patto di lavorare da lui per una settimana. Il manubrio invece me lo regalò Greg Lemond. Ha una forma strana che non prese mai piede».

Infine un altro nodo alla gola prende quando ci indica un’ultima foto. «Michele Scarponi venne insieme al mio amico Orlando Maini perché passavano di qui e avevano un problema con un freno. Io glielo cambiai e lui mi volle autografare una foto che poi mi riportò Maini. E’ un bel ricordo».

Un’infinità di storie che parlano di una persona che ha vissuto il ciclismo in lungo e in largo, dietro le quinte, vestito con l’umiltà di un grembiule e il grasso tra le mani, sempre al servizio dei corridori. 

Una festa per due. Visconti e gli auguri al Pirata che non molla mai

13.01.2022
5 min
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«Pronto, Giovanni? Il 13 gennaio è il tuo compleanno e sarebbe stato anche quello di Pantani, che avrebbe compiuto 52 anni. Ti va di fare un pezzo per ricordare il Pirata? Per dirci cosa è stato per te Pantani?». Silenzio.

«Mmm, così a voce? – ribatte perplesso Visconti – lasciatemi del tempo, ci voglio pensare. Anzi, preferisco scriverlo io, perché per un articolo così ci devo pensare. Parole e ricordi devono venire da dentro».

E allora caro Giovanni ecco a te la “penna”. Buona lettura. E buon compleanno a te… E al Pirata.

Il monumento dedicato al Pirata sul Galibier. Fu posto nel giugno 2011 a 2.301 metri di quota, dove scattò quel 27 luglio 1998
Il monumento dedicato al Pirata sul Galibier. Fu posto nel giugno 2011 a 2.301 metri di quota, dove scattò quel 27 luglio 1998

Un piccolo Pirata

Pantani segna la nascita della mia carriera, ma ne segna anche e soprattutto la rinascita. 

Ricordo le battutine dei miei compagni di scuola quando in classe raccontavo che sarei partito per andare a fare delle gare in Toscana. Mi dicevano ridendo: «E chi sei, Pantani?». Chiaramente non lo ero, ma non sapete che brividi avevo nel sentirmelo dire. Io che sono nato il suo stesso giorno, il 13 gennaio. Io che ho cominciato a masticare pane e ciclismo con le sue imprese. 

Che Marco sia un mito lo dimostra il fatto che tutt’ora le battutine dei miei ex compagni di scuola siano sulla bocca dei ragazzini. Il Pirata lo conoscono tutti, non sarà mai dimenticato ed io oltre a non dimenticare la sua grandezza non scorderò mai ciò che involontariamente ha fatto per me in quella bellissima tappa del Giro d’Italia 2013, la quindicesima frazione per la precisione.

Ecco la paura

Vi spiego un po’ come sono andate le cose per farvi capire le straordinarie coincidenze di quel giorno, IL MIO GIORNO. 

Appena un anno prima, proprio nella quindicesima tappa del Giro 2012, vissi il mio giorno più brutto. Senza “girarci intorno” cominciarono le mie crisi di panico. Sono in fuga, la fuga buona che poi va in porto con Rabottini vincitore. Ad un certo punto smetto di pedalare. Sento che mi manca l’aria, non respiro.

Mi strappo la maglia. Piango. Ho paura. Mi assiste il medico di gara, ma non riesce a tranquillizzarmi. Così mi fermo da una parte letteralmente terrorizzato. Salgo in ambulanza e chiedo, anzi ordino, di mettermi la maschera dell’ossigeno.

Faranno fatica i medici e gli infermieri a convincermi, dopo non so quanto tempo, a toglierla e che sarei stato bene. Io non ci credevo. Avevo paura. Me la sono fatta addosso su quel lettino… e non è solo un modo di dire. 

Inizia così un calvario lungo un anno esatto. Un anno dove ormai le crisi le aspettavo. Sapevo quando sarebbero arrivate, ma ogni volta era la stessa paura di non farcela. Ripeto, un anno…

Sul Galibier come Pantani

Sì, perché poi succede che alla 15ª tappa del Giro d’Italia 2013 scatto sul Moncenisio all’inseguimento di Pirazzi, Rabottini ed altri corridori. Scatto e rimango “a bagnomaria” tra il gruppo e la fuga. Sento che arriva di nuovo la crisi e così è. Smetto di pedalare quasi rassegnato, ma poi la salita finisce. Riesco a fare un sospiro e a ripartire.

Scatto ancora sul Telegraphe e questa volta rimango da solo. Davanti a me solo la montagna di Marco, il Galibier e solo due minuti circa di vantaggio dal gruppo della maglia rosa, Nibali.

Nevica e tutto è così incredibile. Un anno dopo, ugualmente nella tappa numero 15, mi ritrovo in fuga verso un’impresa (in apertura la foto di questo trionfo, ndr) ed è ancora più incredibile che al mio inseguimento ci sia solo Rabottini, colui che un anno prima vinse proprio nel giorno della mia crisi. Rabottini non ce la fa. Il gruppo maglia rosa recupera, ma non troppo. L’ultimo chilometro è un misto di gioia, di rabbia, d’incredulità. 

Penso che sto vincendo sulla salita di Marco. Marco che è nato il mio stesso giorno. Marco che ha dato il “la” alla mia carriera. E’ Marco che mi dà di nuovo una spinta e non una spinta per vincere la tappa, ma per vincere le mie paure. Per ripartire.

L’abbraccio di Tonina con Giovanni, qualche anno dopo il trionfo sul Galibier…
L’abbraccio di Tonina con Giovanni, qualche anno dopo il trionfo sul Galibier…

Ecco Tonina

La sera di quella giornata pazzesca, ecco anche le prime parole al telefono con Tonina (la mamma di Pantani, ndr) grazie ad un amico in comune.

Da lì nasce un rapporto particolare con lei che mi chiede sempre come sto. Mi dice che tifa per me da dietro le quinte. E’ arrivata a dirmi che se si è riavvicinata al ciclismo ed è tornata al Giro a vedere una tappa è stato solo per me.

Poche settimane fa l’ho risentita. Anzi, l’ho rivista in videochiamata. Il mio amico Davide Lombardi l’ha incontrata a Firenze e insieme hanno deciso di chiamarmi per un saluto.

Un’emozione grande perché TONINA E’ MARCO che non molla. E’ Marco che ancora lotta contro tutto e tutti. E tutti lo vogliamo ancora rivedere vincitore. 

Ecco, questo è il mio Pantani.

Barbero, il privilegio d’aver corso per Pantani

23.12.2021
5 min
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«Borgognoni che mi massaggiava alla Lampre – dice Barbero – aveva vinto due o tre tappe al Giro d’Italia. Tanti di quelli che lavorano nel ciclismo hanno corso, a volte i corridori lo sanno, altre volte no. Io penso sempre ai miei tempi, ma non mi piace fare confronti. L’unica cosa che mi sento di dire è che Marco Pantani ancora oggi avrebbe potuto vincere Giro e Tour, anche se il livello attuale è davvero altissimo».

Intervento per Barbero sulla bici di Ravanelli, durante il ritiro in Spagna appena concluso
Intervento per Barbero sulla bici di Ravanelli, durante il ritiro in Spagna appena concluso

Il negozio di bici

Borgognoni se ne è andato troppo presto, nel 2014. Sergio Barbero invece, piemontese classe 1969, fa il meccanico alla Androni. C’era anche lui la settimana passata sull’ammiraglia di Ellena durante quelle famose sei ore intorno a Benidorm. E così, fra i ricordi del tempo andato e alcune osservazioni sul presente, è nato uno scambio di ricordi e opinioni con uno dei compagni di Pantani. Uno che lo conosceva sin da dilettante e che anni dopo, in quel giorno infernale del Galibier in cui il capitano vinse il Tour, fu costretto alla resa.

Un soldatino in gruppo

Barbero è stato professionista dal 1992 al 2007 e quando smise pensò di uscire dal gruppo, aprendo tuttavia un negozio di bici.

«Non sono un commerciante – dice – ho provato a trasmettere qualcosa della mia esperienza ai clienti, ma non ha funzionato. Era un mondo diverso. Qui se si rompe qualcosa, la butti. Là bisognava ripararla. Mi sarebbe piaciuto fare il meccanico da subito, mentre non sarei stato tagliato per fare il direttore sportivo. Non trasmetto carisma e grinta.  Sono più un soldatino, anche da corridore. Ho vinto le mie corse, ma solo quando ero libero…».

Sesto all’Emilia del 1999, pochi giorni dopo aver vinto il Giro del Lazio
Sesto all’Emilia del 1999, pochi giorni dopo aver vinto il Giro del Lazio

Al Giro con Pantani

La sua fu infatti estrazione da gregario, anche se con 11 vittorie e due mondiali in azzurro, poteva ritenersi a buon diritto un signor gregario.

«La mia fortuna – dice – è stata aver corso con Marco. Lo avevo conosciuto da dilettante, perché  correvo in una squadra emiliana e di conseguenza nel 1991 e nel 1992 facemmo assieme il Giro dei dilettanti con Maini tecnico. Quando poi passammo e a fine 1994 Reverberi mi disse che non mi avrebbe tenuto, chiesi a Marco se da loro ci fosse posto. Mi vergognavo, non sono tipo che domanda. Mi disse che erano in 17 e che portava anche sfortuna e così, sia pure al minimo, firmai il contratto che mi fu proposto da Boifava. Anche se corsi più con Chiappucci che con Marco, fu chiaro che bastava una sola parola, perché la squadra cambiasse direzione. E soprattutto fu la conferma che faceva sempre quel che diceva».

Approdo alla Lampre

La coppia si separa nel 1999, dopo Madonna di Campiglio, quando la squadra era incerta se confermare il suo impegno. Barbero provò a contattare Marco, che però in quel periodo era sparito. E solo alla fine accettò l’offerta di Saronni e andò alla Lampre.

Ecco Barbero, che tira per Casagrande al Giro del 2003, tappa dello Zoncolan. Il giorno del risveglio di Pantani
Tira per Casagrande al Giro del 2003, tappa dello Zoncolan. Il giorno del risveglio di Pantani

«Ci incontrammo a Murcia – ricorda – e quando fummo al foglio firma, mi mollò una battuta delle sue. “Se era per un problema di soldi – fece secco – potevi dirmelo”. Io gli risposi che i soldi non c’entravano e così dopo un po’ si mise a parlare della moto che si era costruito. C’era un bel rapporto. Il bello della Mercatone Uno è che era composta da uomini che si fidavano. E Marco era carismatico, al punto che anche ai primi tempi i corridori più esperti avevano soggezione a chiedergli le cose».

Ricordo di Pezzi

Fra le vittorie di ieri, Barbero ricorda soprattutto il Giro di Toscana del 1997, la prima da professionista.

«Eravamo stati all’hotel Monte del Re (hotel di Dozza che tenne a battesimo la Mercatone Uno, ndr) – ricorda – e di lì a poco saremmo andati alle corse. Ci fermammo per salutare Luciano Pezzi (presidente della squadra, ndr), un uomo semplice e schietto come Alfredo Martini. E Pezzi mi disse di stare accanto a Podenzana, di fare il possibile, perché poi saremmo andati al Giro con Marco. Al Toscana rimasi con Bartoli e alla fine riuscii ad anticiparlo. Correvo bene, non avevo bisogno del forcone puntato».

Accanto a Van Petegem, ai mondiali di Plouay 2000. Barbero ha partecipato anche a Verona 1999
Accanto a Van Petegem, ai mondiali di Plouay 2000. Ha partecipato anche a Verona 1999

Troppo inglese

Il ciclismo è cambiato davvero molto e Barbero non è sicurissimo che in quello attuale si sarebbe trovato bene.

«Quello che non invidio ai corridori di adesso – sorride – è che si parla tanto l’inglese. Alle partenze non vedo gruppetti di corridori che parlano. Prima si sentiva il friulano, veneto, lombardo, romagnolo… Ora solo inglese, poi si parte e si va subito a tutta, mentre ricordo quando si partiva piano, con Cipollini che teneva il gruppo cucito e Max Lelli che faceva ridere. Oggi mancano i corridori di vero carisma, forse l’unico in giro è Sagan. Ma non voglio fare confronti. Dico solo che a volte, quando sono in bici, mi prende la carogna e comincio a spingere a tutta in salita. La testa è sempre lì, ma il fisico ormai non la sostiene più…».

Cambiano tempi e potenze, ma la fatica?

07.12.2021
5 min
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Alcuni giorni fa pubblicammo un editoriale ispirato al secondo libro di Guillaume Martin. Il corridore/filosofo francese sostiene che l’intensità dello sforzo dei professionisti contemporanei è ben superiore a quello dei pionieri di questo sport. La frase continuava a ronzarci per la mente, con qualche dubbio. Si va veloci: le bici sono super, le metodiche di allenamento avanzatissime e l’alimentazione è mirata al tipo di sforzo da affrontare. Però com’era quando le bici pesavano 12 chili, la preparazione era empirica, si mangiava seguendo abitudini e miti più che principi scientifici e le strade erano di terra? Le velocità erano innegabilmente inferiori, ma l’intensità dello sforzo? E la fatica?

Pantani stabilì il record di scalata dell’Alpe d’Huez nel 1997, scalandola in 37’35” (Vam 1704,41 m/h). Al Tour del 1952 Coppi impiegò 45’22” (Vam 1407,78 m/h): un abisso, che però dà la grandezza di Coppi pensando che Lemond e Hinault nel 1986 impiegarono 48′. La fatica di Coppi fu davvero inferiore a quella di Marco? Cos’è la fatica se non la percezione dello sforzo?

Il battito cardiaco

Dato che sarebbe impossibile quantificare le variazioni indotte dai parametri citati, la curiosità si è spostata su quali fossero gli strumenti un tempo a disposizione per valutare le prestazioni dell’atleta. Il passo giusto per renderci conto che la medicina dello sport non esisteva ancora e che l’allenatore, per come lo intendiamo oggi, non era che una suggestione. I corridori, anche i più grandi, si affidavano ai massaggiatori per allenamenti e alimentazione. Al massimo ai direttori sportivi. E i dottori controllavano quel che si poteva.

«La medicina dello sport non c’era – racconta Massimo Besnati, fino al 2021 dottore della nazionale – non c’erano alternative, per medici e corridori. Non esistevano i test, semmai le sensazioni. Poteva capitare che il corridore si prendesse il battito in cima alla salita, ma chiaramente non c’erano strumenti per la rilevazione in tempo reale. Tante cose sono cambiate, per questo è impossibile fare raffronti. Fra i primi ad affrontare la questione con un approccio scientifico, ci fu sicuramente Giovanni Falai».

Chiediamo a Falai

Il medico toscano, che nella sua carriera è stato accanto a Gimondi e Moser, Bitossi (fu lui a venire a capo ai problemi cardiaci di “Cuore matto”) e Bartalini, Francioni, Mori e ha visitato qualche volta anche Merckx, ha compiuto 91 anni a luglio e quasi si stupisce della curiosità sull’argomento.

«Quello che si poteva fare – sorride – era misurare il battito dell’atleta a riposo la mattina e la sera per valutare se recuperava bene. Ricordo Ritter con 30 battiti a riposo e Bartali con 32. Si guardava la pressione arteriosa, ma non si andava oltre perché non avevamo gli strumenti. Però sull’argomento si può dire che le velocità di oggi non sono dovute soltanto a una fatica superiore, ma anche a bici migliori e strade più scorrevoli. Una volta la bici proprio non scorreva, sembravano gare di ciclocross e il ciclismo secondo me era più faticoso dell’attuale…».

Per anni si è creduto che la carne rossa fosse il solo modo di integrare proteine e ferro
Per anni si è creduto che la carne rossa fosse il solo modo di integrare proteine e ferro

Metodi empirici

Sul fronte invece del tipo di sforzo, ovviamente si resta nel campo dell’osservazione e di una deduzione che per i motivi citati da Besnati non può essere più di tanto precisa.

«C’erano cuori più grandi – dice Falai – proprio a livello di sviluppo, ma ci sono anche oggi. Non credo che il livello di fatica cui venivano sottoposti fosse inferiore a quello attuale, anche se oggi a parità di fatica si ottengono prestazioni superiori. L’alimentazione aiuta tanto, prima si facevano tanti errori. Ci si riempiva di proteine attraverso tante bistecche e l’alimentazione sbagliata incideva sulle difese immunitarie. Ora si studia la funzione renale, una volta al massimo osservavamo il fegato per capire se eliminava le tossine nel modo giusto. Semmai si usava qualche disintossicante. Oggi si fa tanta prevenzione a livello renale ed epatico, prima era impossibile. Si facevano valutazioni a occhio. Poi con la medicina sportiva sono arrivati nuovi strumenti che oggi rendono tutto più calcolabile e persino prevedibile. La domanda perciò è un’altra: è più faticoso correre, dare il massimo e arrivare sfiniti senza conoscere i propri limiti, oppure riuscire a tirare fuori il massimo conoscendoli anche numericamente?».

Passo Fedaia, dove si decide il Giro. Conti, ti ricordi nel 1998?

29.11.2021
6 min
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Sabato 28 maggio, arrivo del Giro sul Fedaia. In questa esplorazione delle tappe e delle salite del Giro, il penultimo giorno di corsa merita un bel respiro.

«Lo stesso che fai quando arrivi a quei rettilinei – ride Roberto Conti – e guardi verso l’alto. Lassù in cima se c’è bello vedi tutti i tornanti che si arrampicano sulla montagna. Allora il bel respiro lo tirano tutti, ma se non stai bene, vi assicuro che ti viene anche l’ansia. In certi giorni è meglio che ci siano le nuvole, almeno non vedi quello che ti aspetta…».

Il romagnolo ha smesso di correre nel 2003 sulla soglia dei 40 anni, mentre oggi ne ha 56. Fece l’ultimo anno accanto al piccolo capitano, con cui nel 1998 aveva conquistato il Giro e il Tour, e appese la bici al chiodo poco prima che Marco se ne andasse per sempre. Roberto, come Fontana, Sibo e pochi altri, è custode di storie che pochi hanno il privilegio di aver vissuto. Una di queste, che magari avrete ascoltato e letto centomila volte, riguarda proprio Pantani e la Marmolada. In quella tappa del Giro 1998 che conduceva a Selva di Valgardena e dritto nella storia.

Personale hit parade

Ma noi andiamo per gradi. Perché Conti quelle salite le ha masticate davvero (quasi) tutte e prima di parlare della Marmolada tira giù la sua personalissima classifica.

«Stiamo parlano di Dolomiti – dice – e lassù la salita più dura è quella delle Tre Cime di Lavaredo. Poi ci metterei Plan de Corones. Quindi il Fedaia, il Giau e il San Pellegrino da Falcade, che il Giro farà proprio nella tappa di quest’anno. Sono salite che si fanno rispettare, ognuna con le sue caratteristiche».

Tonkov fu il primo dei big ad attaccare, ma mancava ancora troppo al traguardo
Tonkov fu il primo dei big ad attaccare, ma mancava ancora troppo al traguardo

Il Fedaia mette ansia

Del Fedaia ha due ricordi. E volendo riprendere la sua espressione d’inizio, in uno dei due casi lo affrontò con l’ansia, guardando i tornanti lassù in alto.

«Come lunghezza del pezzo duro – dice – non è eccessiva, sono 6-7 chilometri. Però confermo (ride ancora, ndr) che anche a me capitò di avere l’ansia. Successe nel 1996 quando il Giro lo vinse Tonkov. Lavorammo tutto il giorno per lui, prima avevamo fatto il Pordoi e io ero stanco. Arrivai là sotto, guardai in alto e pensai che non sarebbe mai finito».

In vetta con il 41×24

Tra i motivi di sconforto per Conti quel giorno c’era anche la limitata scelta di rapporti che i corridori avevano a disposizione.

«Nel 1996 – ammette – avevo il 41×24. Neanche il 39, non mi sono mai trovato a girarlo (Conti era uno di quelli che in salita spingeva rapporti solitamente duri, ndr). A quelle condizioni era una salita dura. Mi ricordo che al massimo come scelta c’era il 25, per questo se guardate le immagini, in salita eravamo costretti ad andare molto sui pedali. In piedi, che è faticoso. Adesso è cambiato tutto. Con i rapportini di adesso e le frequenze di pedalata che fai, sono costretti a stare seduti».

Guerini sudò sette camicie per dare man forte al romagnolo
Guerini sudò sette camicie per dare man forte al romagnolo

Pantani al buio

In quel 2 giugno del 1998, la tappa partiva da Asiago e prima della Marmolada, il gruppo si era messo sotto le ruote Duran, Forcella Staulanza e Santa Lucia. Poi avrebbe scalato il Sella e sarebbe arrivato a Selva di Val Gardena.

L’aneddoto che rese celebre Conti nelle settimane dopo il Giro del 1998 riguardava proprio il Fedaia, che Pantani non aveva mai scalato. In quegli anni di poche ricognizioni, gliel’aveva descritta proprio Roberto e così erano andati al via.

«Quando passammo per i Serrai di Sottoguda – dice e gli verrebbe da mettersi una mano sulla testa – mi resi conto che io da lì non c’ero mai passato. Per cui arrivammo a Malga Ciapela e poi, come ho raccontato centomila volte, andai a chiedergli quando volesse attaccare. Lui mi guardò e mi disse che aspettava le gallerie, perché gli avevo raccontato la salita sbagliata. Per fortuna mi venne in mente di andargli vicino».

A Selva di Val Gardena, Guerini vinse la tappa, Pantani vestì la prima rosa di sempre
A Selva di Val Gardena, Guerini vinse la tappa, Pantani vestì la prima rosa di sempre

Tonkov in trappola

Quel confabulare prolungato fra Conti e Pantani per rimediare una situazione di lieve imbarazzo in realtà trasse in inganno Tonkov, che al pari di Marco aveva individuato nel tappone di Selva la prima buona occasione per attaccare Zulle in maglia rosa.

«Io Pavel lo conoscevo bene – ride Roberto – non uno che attaccasse da lontano. E alla fine ho scoperto che vedendoci parlare aveva capito che Marco fosse in crisi e così era partito. Poveretto, non sapeva quel che c’era dietro. Ma quando Marco finalmente attaccò, se ne rese conto».

Ecco la Mercatone in rosa del 1998. Da sinistra, Konychev, SIboni, Garzelli, Conti, Podenzana
Pantani fra Garzelli e Conti dopo la vittoria finale del Giro 1998

Un minuto a chilometro

Quest’anno la musica sarà diversa, perché là in cima ci sarà l’arrivo e la musica sarà completamente diversa. Non si percorreranno i Serrai di Sottoguda, la cui strada è stata danneggiata dalla tempesta Vaia del 2018.

«Se vai in crisi sul Fedaia – spiega – perdi anche un minuto per chilometro. Anche perché tenete conto che prima ci saranno due belle salite, compreso il San Pellegrino dal lato duro di cui s’è parlato prima. Si sale ai 2.000 metri, che a qualcuno possono dare noia. Io ero uno scalatore colombiano, si vede, perché più salivamo e meglio stavo. E poi, come disse Marco, che scalatore sei se ti dà fastidio l’altura?

«E’ una bella tappa, semmai un po’ corta. Sarebbe stata perfetta sui 200 chilometri. Con un’ora, un’ora e mezza di bici in più alla partenza, la differenza si sarebbe sentita…».