Feci a botte il 5 giugno 1999 più o meno verso le quattro del pomeriggio. Il motivo? Fui un po’ preso in giro, ma neanche tanto, perché Pantani, mio idolo assoluto, era stato allontano per i noti fatti di Madonna di Campiglio (in apertura la foto della vittoria del giorno prima).
Ero un facile bersaglio, visto che vivevo in un paese del Centro Italia in cui ero uno dei pochi “folli” a non seguire solo il calcio. Un ragazzino fuori dal branco era facile da prendere di mira. La verità è che la sera prima avevo festeggiato in un capannone, come si faceva all’epoca, i miei 18 anni. E questo amplificò la cosa.
Pantani batte il calcio
Cosa c’entrasse il mio compleanno con Pantani è presto detto. Avevo festeggiato insieme ad un mio coetaneo e amico fraterno, visto che eravamo nati a 48 ore di distanza l’uno dall’altro. Ma la torta non era unica. La mia non aveva su lo stemma della Lazio (un po’ ci avevo pensato ad essere sincero) come quella del mio amico che aveva quello della Juve. Sulla mia torta c’era lui: il Pirata. Marco Pantani intento a scattare con le mani basse sul manubrio.
Pantani era Pantani. Lo conoscevano le vecchiette, figuriamoci i ragazzi. Comunque se ne parlava. Sempre, ovunque, tutti. Persino nei bar. Per chi non lo sapesse nel centro Italia, soprattutto se vicino Roma, bar è sinonimo di calcio più che in ogni altra parte d’Italia. Al bar il discorso è monotematico e tutti sono allenatori. Ebbene il Pirata era riuscito anche in questo: aveva messo da parte Totti e colleghi.
Delusione…
In questa situazione, si può ben capire come quel maledetto 5 giugno, potessi esserci io nell’occhio del ciclone. Era sabato. E a quei tempi si andava ancora a scuola. Ma io la saltai perché c’erano il Tonale, il Gavia e il Mortirolo e la Rai dava la diretta integrale. Tutta l’Italia aspettava quella tappa. L’impresa era certa. Apro il mitico televideo e sbam: la doccia fu ghiacciata. Pantani fermato al Giro.
Delusione. Un senso di vuoto che ancora ricordo. La giornata, la festa della sera prima, tutto aveva perso senso. Le forze non c’erano più. E quella dichiarazione di Marco ci mise il carico: «Sono caduto e mi sono rialzato tante volte, stavolta non so se ce la farò». Ripensavo subito al momento di Montecampione, al duello con Tonkov, per me più esaltante anche del giorno di Les Deux Alpes. O alla rimonta di Oropa. Non posso non vivere più tutto questo. Non facciamo scherzi…
E poi il cazzotto
Nel pomeriggio trovai la forza di saltare sul motorino e di andare fino alla gelateria dove ci ritrovavamo di solito. Arrivai piano, senza fare curve alla Valentino Rossi come si faceva a quell’età. Davanti all’ingresso fui preso di mira.
«Ahò, hanno beccato Pantani. “Quer” dopato. E tu hai anche scritto il suo nome sulla salita di Leggio (la salita che porta nel punto più alto del paese, ndr), ah, ah, ah…».
Di colpo le forze tornarono, ma erano quelle sbagliate. Quelle della rabbia. E senza pensarci su rifilai un cazzotto a questo mio amico. Non era della mia combriccola, ma era sempre un coetaneo e compaesano. Lo presi sul collo. Forse lui schivò o forse in un ultimo barlume di lucidità deviai il pugno dal naso verso zone meno pericolose.
Io poi ero (e sono) basso e lui era abbastanza alto. Mi urlò contro, mi diede uno spintone, ma non rispose al cazzotto. Io invece ero di nuovo pronto col pugno chiuso. Forse in cuor suo sapeva che era stato un po’… un po’ poco delicato. E la cosa finì lì. Perché Pantani era anche suo. Pantani era di tutti.