Per tutti gli italiani appassionati di ciclismo il 1998 è destinato a restare impresso nella memoria collettiva in maniera indelebile. In quell’anno Marco Pantani realizzava infatti la storica accoppiata Giro d’Italia – Tour de France. Abbiamo dovuto aspettare ben ventisei anni e l’avvento di un “fenomeno” come Tadej Pogacar perché un simile risultato sportivo si potesse ripetere. Ad accompagnare Pantani nei suoi trionfi sulle strade del Giro e del Tour nel 1998 c’erano due eccellenze italiane, anzi due eccellenze bergamasche.
Stiamo parlando di Santini e Bianchi. Da una parte Santini, che forniva le divise alla Mercatone Uno (il team di Pantani), dall’altra Bianchi, che aveva messo a disposizione del fuoriclasse di Cesenatico il suo top di gamma, la Mega Pro.
Marco Gentili, Chief Executive Officer di BianchiMarco Gentili, Chief Executive Officer di Bianchi
Di nuovo insieme
A distanza di 27 anni da quel lontano 1998 Bianchi e Santini hanno deciso di incrociare nuovamente le loro strade. Le due aziende italiane hanno di recente siglato un accordo in base al quale Santini si occuperà dello sviluppo e della produzione di un’intera collezione firmata Bianchi Milano. Un nome quest’ultimo che vuole rendere omaggio alla città dove il marchio Bianchi è nato nel 1885, esattamente 140 anni fa. La collezione comprenderà capi tecnici per ciclismo su strada, gravel e mountain bike, oltre a una selezione di abbigliamento casual per il tempo libero, pensata per chi desidera vivere la passione “celeste” anche una volta sceso dalla bicicletta.
L’accordo avrà una durata quinquennale e prevede che la vendita e la distribuzione della collezione Bianchi Milano vengano gestite direttamente e in esclusiva da Santini.
Monica Santini: CEO di Santini CyclingMonica Santini: CEO di Santini Cycling
Entusiasmo condiviso
Le dichiarazioni da parte di Bianchi e Santini su questa nuova partnership lasciano trasparire un entusiasmo comprensibile.
Monica Santini, Amministratore Delegato di Santini Cycling, ha così commentato l’accordo con Bianchi: «Questo accordo segna un nuovo capitolo nella relazione tra Santini Cycling e Bianchi. Unendo le nostre competenze, vogliamo offrire ai ciclisti una collezione che rappresenti al meglio la tradizione e, nello stesso tempo, l’innovazione del ciclismo italiano».
Anche Marco Gentili, Amministratore Delegato di Bianchi, ha espresso grande entusiasmo per la nuova partnership: «L’accordo con Santini Cycling permetterà a Bianchi di portare avanti una strategica attività di brand extension nell’abbigliamento grazie alle comprovate competenze produttive e alla capillarità distributiva di Santini. Siamo particolarmente lieti di avviare una collaborazione di lungo termine con una delle eccellenze italiane che, come Bianchi, ha saputo conquistare il mercato internazionale. Con Santini lavoreremo sinergicamente per soddisfare le esigenze dei ciclisti nel mondo che ricercano stile e prestazioni adeguate per ogni esigenza».
La collezione Bianchi Milano sarà disponibile a partire dal mese di aprile sull’e-commerce ufficiale Bianchi Milano e presso rivenditori autorizzati in tutto il mondo.
Selle Italia, uno dei brand di riferimento mondiale nella produzione di selle per biciclette, ha da qualche giorno annunciato l’acquisizione del marchio biellese Vittoria Cycling Shoes, storica realtà italiana specializzata in calzature da ciclismo. Fondata negli anni Settanta dall’ex ciclista professionista Celestino Vercelli, Vittoria ha conquistato con il passare del tempo la fiducia di atleti di fama internazionale, come Marco Pantani, grazie a scarpe di altissima qualità e dal forte carattere Made in Italy.
L’acquisizione rappresenta un passo significativo per Selle Italia, come ha sottolineato il Presidente Giuseppe Bigolin: «Allarghiamo il nostro raggio d’azione con un’azienda che condivide i nostri valori, puntando su sviluppo tecnologico, stile e tradizione italiana. Proprio come facemmo nel 2016 con Selle San Marco – ha aggiunto Bigolin – integreremo Vittoria nel nostro gruppo per creare nuove sinergie e raccogliere le sfide future del mercato».
La Famiglia Bigolin, da sinistra Roberta Boratto, Giuseppe Bigolin e Riccardo BigolinMarco Pantani, testimonial Vittoria negli anni dei grandi successiLa Famiglia Bigolin, da sinistra Roberta Boratto, Giuseppe Bigolin e Riccardo BigolinMarco Pantani, testimonial Vittoria negli anni dei grandi successi
Eccellenza italiana
Vittoria Shoes ha fatto la storia delle calzature da ciclismo, collaborando con campioni come Stephen Roche, che nel 1987 vinse Giro d’Italia, Tour de France e campionato del mondo, e il leggendario Marco Pantani, i cui trionfi negli anni ’90 furono segnati dall’utilizzo di scarpe Vittoria e selle Selle Italia. L’azienda, grazie alla sua continua innovazione tecnologica, e al design inconfondibile, ha consolidato una reputazione di eccellenza che l’ha resa protagonista sulle strade delle più importanti competizioni ciclistiche mondiali.
Per Selle Italia, l’acquisizione di Vittoria rappresenta un’opportunità non solo commerciale, ma anche strategica.
«Crediamo che il futuro passi attraverso l’innovazione tecnologica integrata alla tradizione del Made in Italy – ha aggiunto Riccardo Bigolin – e dunque lavoreremo per creare una forte sinergia tra le nostre realtà, puntando sulla scientificità del nostro brand idmatch e sulla capacità di Vittoria di innovare nel settore delle calzature sportive».
Le collezioni Vittoria includono calzature per ciclismo su strada, Mountain bike, triathlon, gravel e “new vintage”, quest’ultima pensata espressamente per gli appassionati di stile retrò. Con l’ingresso nel gruppo Selle Italia, il brand si prepara a un 2025 carico di significato, segnando una nuova era di crescita e innovazione.
L’acquisizione di Vittoria Shoes da parte di Selle Italia è un investimento anche sulla qualità e l’eccellenza italianaL’acquisizione di Vittoria Shoes da parte di Selle Italia è un investimento anche sulla qualità e l’eccellenza italiana
Selle Italia: una tradizione ultracentenaria
Fondata nel 1897, Selle Italia rappresenta un punto di riferimento globale per le selle da bicicletta. Con sede ad Asolo, in Veneto, l’azienda produce ogni anno oltre un milione di selle, vendute in tutto il mondo. Grazie all’unione con marchi storici come Selle San Marco e ora Vittoria Shoes, il gruppo conferma e rilancia il proprio impegno nel settore del ciclismo, continuando a promuovere i valori del Made in Italy: qualità, prestazioni e design unico.
Questa acquisizione non rappresenta solamente un ampliamento del portafoglio, ma un investimento nell’eccellenza italiana, rafforzando la posizione del gruppo sui mercati internazionali e mantenendo viva la tradizione del ciclismo tricolore.
Un documentario sulla storia di Ullrich induce ad alcune riflessioni. Sui corridori uniche vittime. Sull'ipocrisia di qualcuno. Sulla guardia da tenere alta
Il progetto è sempre lì. Filippo Pozzato non ha riposto nel cassetto le speranze di costruire un team tutto italiano che possa avere un futuro nel WorldTour, anzi si è consociato con DavideCassani (che aveva espresso una volontà simile all’indomani del suo addio dalle responsabilità tecniche azzurre), ma per ora siamo ancora nel campo delle possibilità future, nulla di più. E dalle sue esperienze emergono tutte le difficoltà del ciclismo italiano attuale, assolutamente non al passo con i tempi.
Pozzato insieme al presidente Uec Della Casa. Per l’organizzatore italiano bisogna lavorare molto sulla comunicazionePozzato insieme al presidente Uec Della Casa. Per l’organizzatore italiano bisogna lavorare molto sulla comunicazione
Pozzato, reduce dalle fatiche organizzative delle classiche venete rese monche dal cattivo tempo, sottolinea come al momento il problema principale riguardi la ricerca di fondi: «Sto girando l’Italia proponendo la mia idea a molte aziende e questo mi permette di capire qual sia il gradimento del ciclismo. Devo dire che l’attenzione verso la nostra proposta non manca, il problema vero è legato alle cifre e al corrispettivo che ottiene chi investe nel nostro mondo. Per questo dico che c’è un disagio generale: non sappiamo vendere il nostro prodotto perché siamo ancorati a un approccio vecchio».
Che cosa chiede chi dovrebbe investire?
Vuole avere innanzitutto ritorno d’immagine, visibilità, regole certe. Se vado da uno sponsor per fare una squadra che ambisce a entrare nel WorldTour, devo chiedere un investimento di svariati milioni di euro per almeno un quinquennio. La risposta è sempre: «Ma a fronte di una simile esposizione che cosa ho in cambio?». E lì emergono tutte le nostre difficoltà perché non basta certo far vedere la maglia nella ripresa Tv a soddisfare le richieste, oggi che siamo nell’era dell’immagine.
Bisogna riportare la gente sulle strade, soprattutto i giovani, raccontando loro le storie dei protagonistiBisogna riportare la gente sulle strade, soprattutto i giovani, raccontando loro le storie dei protagonisti
Tu però parlavi anche di regole…
Il regolamento Uci non è assolutamente chiaro. Si è voluto introdurre il sistema di promozioni e retrocessioni: può anche andar bene, se non hai mezzi e capacità per competere al massimo livello è giusto lasciar posto ad altri. Quel che è meno giusto è “congelare” la situazione per anni, far scannare i team per tre stagioni impedendo agli altri di fare investimenti. Fai come negli sport di squadra, promozioni e retrocessioni ogni anno con regole certe anche per la partecipazione alle gare. Ma il problema non riguarda solamente le WorldTour.
Ossia?
Guardate quel che avviene nelle continental: noi in Italia abbiamo una visione falsata a questo proposito perché non puoi certo fare una squadra continental con 200 mila euro. Che attività puoi fare con un budget tanto risicato? Che cosa puoi dare ai tuoi atleti? Per questo dico che siamo ancorati a schemi vecchi quando il ciclismo è andato avanti, è diventato uno sport costoso, di primo piano. Per fare una continental seria si parte dal milione di euro in su, c’è poco da fare, perché giustamente sono aumentate le professionalità che devi coinvolgere, dal nutrizionista al preparatore.
Basso è per Pozzato un modello di come costruire un team su base aziendale, ma servono budget maggioriIvan Basso è un modello di come costruire un team su base aziendale, ma servono budget maggiori
Come si fa a vendere un proprio progetto in un simile ambito?
E’ difficile, lo vedo e per questo ammiro molto gente come Ivan Basso e gli sforzi che fa. Dobbiamo renderci conto che è una questione di marketing, di saper vendere quel che si ha. C’è una generale carenza nella comunicazione: come è possibile che dopo il mondiale di Zurigo arrivano il campione del mondo Pogacar e il suo rivale Evenepoel in Italia, a correre non solo il Lombardia ma anche corse come Emilia e Tre Valli Varesine e lo sappiamo solo noi addetti ai lavori?
In altri tempi, sulla “rivincita dei mondiali” sarebbe stata fatta una campagna di stampa enorme…
Già, poi vedi nel contempo che la sfida fra Sinner e Alcaraz per un torneo d’esibizione diventa martellante, ne parlano tutti i canali, tutti i media, tutti i social. Allora capisci che siamo noi – e ci metto tutti dentro – a non saper vendere il nostro lavoro. Una responsabilità in tal senso ce l’ha l’RCS, la Gazzetta che ha abbandonato il ciclismo, non segue più gli eventi, ma questo avviene anche con i suoi: le pagine per il Giro d’Italia sono drasticamente ridotte e gli inviati anche.
Sinner e Alcaraz: le loro sfide ormai coinvolgono tutti, anche per semplici esibizioni (foto Getty Images)Sinner e Alcaraz: le loro sfide ormai coinvolgono tutti, anche per semplici esibizioni (foto Getty Images)
Per imitare il fenomeno tennis, servirebbe che avessimo un Pogacar?
Sì, quando avevamo Pantani tutti ne parlavano, ma rendiamoci conto che di Pogacar ne nasce uno al secolo e chissà dove… Io guardo il fenomeno tennis, Sinner è il frutto di almeno 15 anni d’investimenti nei tecnici, nei settori giovanili. Dietro il numero uno ora abbiamo una decina di tennisti fra i primi 100. C’è un movimento. Noi abbiamo latitato proprio in questo e continuiamo a farlo.
Un problema di gestione federale?
Sicuramente, ma è uno dei tanti. Andrebbero fatti investimenti nei settori senza attendersi subito risultati. Io credo che il ciclismo paghi anche il retaggio di una comunicazione sbagliatissima quando si è dato troppo spazio al doping senza investire sui giovani, sulle vittorie pulite. E’ stato fatto passare un brutto messaggio che ora, unito al problema sicurezza sulle strade, fa del ciclismo un soggetto meno appetibile. Le aziende che investirebbero ci sono, io ne avevo trovata una davvero grande, ma poi ha deciso di spendere quei soldi in un altro sport…
Secondo Pozzato, al ciclismo italiano servirebbe un Pantani capace di risvegliare l’attenzione dei mediaAl ciclismo italiano servirebbe un Pantani capace di risvegliare l’attenzione dei media
Eppure di messaggi positivi questo mondo continua a diffonderne…
Io sono convinto che i personaggi ci sono, le storie da raccontare ci sono. Ma su personaggi come Pellizzari, tanto per fare un nome, ci devi investire, lo devi raccontare, far conoscere anche a chi non è del settore, perché poi al passaggio sulle montagne del Giro la gente a incitarlo ci sarà. I giornali continuano a credere che il popolo italiano sia calciofilo e basta: non è più così. il calcio attira meno e ha lasciato spazi importanti, noi potremmo coprirli, ma dobbiamo andare incontro alle nuove generazioni.
Il pubblico impazzisce per Pogacar e Sinner, senza capire che il record di Milan ha un valore altrettanto immenso. Forse qualcosa manca nella comunicazione?
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Durante la diretta del Lombardiala scena di Pogacar che parla col massaggiatore sulla Colma di Sormano è stata mostrata a tutte le velocità possibili. Si è cercato di capire se lo sloveno avesse bisogno di qualcosa e non della borraccia. Ma soprattutto si è ammirata la sua scioltezza nel parlare, quasi stesse passeggiando. E proprio per questo e perché quel massaggiatore è una nostra vecchia conoscenza, ci è venuto in mente di chiamarlo.
Paco Lluna ha 55 anni e vive a Valencia. Fra le curiosità di questo 2024 accanto a Pogacar, c’è che anche lui a distanza di 26 anni è riuscito nella doppietta Giro-Tour, dato che nel 1998 lavorava nella Mercatone Uno. E siccome di ciclismo ne sa tanto, siamo partiti da quell’episodio e poi siamo andati avanti.
Ecco la sequenza: Pogacar si avvicina e chiede se in alto ci sia un altro rifornimento (immagini RAI)Il massaggiatore spagnolo, cha ha acqua e carboidrati, dice di sì (immagini RAI)E allora Pogacar tira dritto dicendo che prenderà la borraccia in cima (immagini RAI)Ecco la sequenza: Pogacar si avvicina e chiede se in alto ci sia un altro rifornimento (immagini RAI)Il massaggiatore spagnolo, cha ha acqua e carboidrati, dice di sì (immagini RAI)E allora Pogacar tira dritto dicendo che prenderà la borraccia in cima (immagini RAI)
Che cosa vi siete detti in quel momento?
Io ero in quel punto perché abbiamo un piano delle borracce fatto da Gorka, il nutrizionista. Immaginando che Tadej sarebbe partito da lontano e sarebbe passato in fuga, invece di avere solo la borraccia dell’acqua, aveva anche quella di Isocarbo, in modo da poterlo accontentare qualunque cosa volesse. Però io ero a sei chilometri dalla vetta. Quando lui mi vede, io gli chiedo: «Acqua o Iso?». E lui mi risponde: «C’è qualcuno in cima?». E quando gli ho risposto di sì, mi ha detto: «Allora la prendo dopo».
Lucidissimo, insomma…
Quando hai le gambe, fai ugualmente fatica, però sei lucido. Adesso guardano i dati e li analizzano, ma perché devi portare 200 grammi in più con una borraccia sulla bici? Meglio prenderla in cima, quando la salita è finita.
Avevi scelto tu il punto in cui posizionarti?
No, i punti li prepara il direttore sportivo, in base alle strade e alla possibilità di tagliare per andare in altri posti. Si è pensato che in quel punto avrebbero avuto bisogno di acqua per rinfrescarsi. Ma siccome lui stava bene, ha preferito lasciare a me la borraccia. Ha valutato che non gli servisse altro per fare quei 6 chilometri, come al Giro dell’Emilia.
Nei giri da solo sul San Luca, Pogacar non ha mai portato borraccia in salita: beveva in discesa e pianuraNei giri da solo sul San Luca, Pogacar non ha mai portato borraccia in salita: beveva in discesa e pianura
Cosa ha fatto all’Emilia?
Io ero su, non all’arrivo, ma nello strappo subito dopo dove in tutti i giri ha preso la borraccia. In salita non ce l’aveva mai. Beveva in discesa e nel pezzo di pianura e buttava la borraccia prima di ricominciare a salire. Tadej ha fatto tutte le salite del San Luca senza la borraccia, neanche vuota. Si fanno mille storie su watt e numeri, senza pensare che a volte si porta troppo peso per niente.
Questi sono dettagli che cura con Gorka?
Gorka gli dà le direttive. Ma Tadej sa se deve mangiare oppure no. Se gli manca il gel oppure no. Quando diamo le borracce, attacchiamo anche il gel che è previsto dal nutrizionista. Ci sono tanti tipi di gel, non diamo sempre lo stesso. Ma al Lombardia ha pensato che conosceva quei 6 chilometri di salita, perché li aveva fatti qualche giorno prima in allenamento. Quindi poteva arrivare in cima senza niente e prendere sopra quello di cui avesse avuto bisogno.
Il bello è che ha parlato come stiamo parlando adesso noi due…
Forse abbiamo alzato un po’ la voce per il rumore intorno, io di certo ho urlato per farmi capire. Perché c’è rumore delle moto, dell’elicottero, delle macchine. E meno male che era un posto senza tantissima gente, perché se c’è anche la gente, ciao…
Ti è capitato altre volte di trovarlo così lucido in altre corse?
Da neoprofessionista, la prima volta che ha fatto la Vuelta e aveva 19 anni. Nell’ultima tappa che vinse, fece un numero del genere. Mi ricordo che in quei momenti voleva la Coca Cola in corsa e allora quando potevo gli davo la lattina aperta. Lui la prendeva, ne beveva subito un po’ e poi buttava la lattina. Adesso rispetto ad allora è arrivato a un’altra maturità e a un altro livello come atleta. Lì era ancora un bambino e anche quando ha vinto il primo Tour era ancora un bambino. La gente dice che non è normale, ma guardate quello che faceva quando era ancora così piccolo.
Sul San Luca, passando davanti alla curva di Pantani: i due condividono un carisma simileSul San Luca, passando davanti alla curva di Pantani: i due condividono un carisma simile
Tu che hai conosciuto anche l’altro, cosa vedi in comune?
Come atleta magari niente, ma la gente sta diventando pazza di lui come era pazza di Marco. Lo dicevo a Johnny Carera, il suo manager: «Delle volte mi sembra di aver già vissuto tutto questo, sai?». La gente non va a vedere il ciclismo, ma va a vedere Tadej. In quei tempi la gente non andava a vedere il ciclismo, ma andava a vedere Marco. Ho una foto del Giro dell’Emilia che ho tenuto per me. C’è Tadej con dietro i cartelli per Marco. Quella foto lì mi emoziona, come quando ho mandato a Tadej una foto della Tirreno in cui sul Carpegna passava davanti alla statua di Marco. Ma come corridore no. Pogacar è più completo, ma come Marco è benvoluto da tutti.
Spiega meglio per favore.
Lo vedi che si allena a Monaco con tanti corridori diversi, non solo con compagni di squadra, ma anche con altri che se ne sono andati. L’altro giorno Tim Wellens ha pubblicato nel nostro gruppo whatsapp un video in cui Evenepoel gli faceva i complimenti per il mondiale. Anche Marco era benvoluto nel gruppo. Se parli con i corridori di quell’epoca, anche quelli della Mapei gli volevano bene, nonostante tutto quello che noi avevamo contro loro e loro avevano contro noi. Anche Tafi oggi parla benissimo di lui. Hanno un carisma simile, che anche gli avversari riconoscono. In questo forse un po’ si somigliano davvero…
Siboni oggi ripara biciclette. Davanti al Carpegna e ai ricordi che suscita ha la pelle d'oca. Riapriamo la pagina, si parla di Pantani e la sua salita
E’ colpa di Sinner oppure no? Aver licenziato preparatore e fisioterapista ha un senso oppure no? E’ giusto che l’altoatesino (foto FITP in apertura) continui a giocare con la spada di Damocle di una squalifica sulla testa? E perché per coprire la sua situazione ed evitare di finire nello stesso meccanismo che ha… ammazzato sportivamente fior di ciclisti, si sia scelto di non applicare le regole?
Lo ha spiegato bene Angelo Francini, decenni di vita federale sulle spalle, in un post su Facebook. E’ spiegato tutto con una chiarezza così lampante, che basterebbe per convocare la Federtennis e anche il CONI per chiedergliene ragione.
Fabio Pigozzi è il presidente di NADO Italia (foto La Repubblica)Fabio Pigozzi è il presidente di NADO Italia (foto La Repubblica)
Le regole violate
Nel 2007 – spiega Francini – lo Stato italiano ha istituito il NADO ITALIA, in ambito Coni. Un organo competente a giudicare in via esclusiva tutti casi di doping dei tesserati dello sport italiano. Dal 2016 Nado Italia è diventato un “organismo indipendente”. Essendo legge dello Stato, tutti gli Statuti federali impongono la sua indicazione come unico organismo antidoping. Pertanto anche la FITP, la Federtennis, lo ha inserito all’articolo 50 del proprio Statuto, senza alcun riferimento alla ITIA.
Di cosa si tratta? Si tratta della International Tennis Integrity Agency. Un soggetto apparso nel 2021 nel mondo tennistico internazionale, che però non può avere alcuna giurisdizione per i casi di doping ricadenti sui tesserati alla stessa Federtennis. Di quelli si deve occupare Nado Italia attraverso la Procura Nazionale e il Tribunale Nazionale Antidoping. L’unico organismo superiore cui ci si può rivolgere in caso di controversia è il TAS di Losanna. Invece per Sinner ci si è rivolti ad essa.
Per quale motivo non è stata effettuata l’obbligatoria segnalazione (in quanto prevista dalla Statuto della Federtennis) del caso Sinner a NADO ITALIA da parte del CONI e della FITP, che sicuramente erano stati informati dalla Federtennis internazionale? Per quale motivo i vertici di Coni e FITP hanno violato apertamente una norma dello Stato? Sono queste gravi irregolarità a sporcare il caso Sinner. Lui può essere anche in buona fede, come lo erano Agostini e Contador. Solo che mentre i due ciclisti furono lasciati soli, su Sinner è stato gettato un mantello di protezione ormai scoperto.
Stefano Agostini, classe 1989, venne squalificato per due anni nel 2013 per la stessa positività di SinnerStefano Agostini, classe 1989, venne squalificato per due anni nel 2013 per la stessa positività di Sinner
La rabbia di Agostini
Chi è Agostini? Stefano Agostini, giusto. Abbiamo rivissuto il dramma del veneto, talento brillante del ciclismo italiano che nel 2013 incappò nella positività al Clostebol, lo stesso prodotto di Sinner. In realtà (soprattutto) il dramma l’ha rivissuto lui, mentre tanti altri se ne sono accorti leggendo un suo post su Facebook e dando il via a una litania di sensazionalismo di facciata. Perché non fecero lo stesso baccano quando Stefano fu licenziato dalla Liquigas, con tanto di contributo fattivo del medico sociale?
In nessun modo la squadra e la Federazione provarono a sostenere che fosse innocente. Ci provò da solo, dicendo che quella pomata gliel’avesse data sua madre per lenire le scottature del sole. Pensarono alle solite scuse, come il massaggio e la feritina, e lo squalificarono per due anni. Se fosse stato colpevole, magari sarebbe anche tornato. Invece preferì lasciar perdere e cambiò vita.
Giro d’Italia 1999, Marco Pantani lascia il Giro senza positività né santi in paradisoGiro d’Italia 1999, Marco Pantani lascia il Giro senza positività né santi in paradiso
Figli e figliastri
Certo ci rendiamo conto che sia molto più necessario difendere il campione che ha sulle spalle il tennis nazionale. L’eroe di Torino e della Davis. Il numero uno al mondo. La gallina dalle uova d’oro. Il prodotto di una Federazione da record che si è risollevata quasi dall’indigenza. L’ispirazione per i bambini. Il figlio che ogni madre vorrebbe avere.
Ce ne rendiamo conto e lo gridammo forte anche nel 1999 quando un campione di altrettanta potenza, sportiva e mediatica, fu condannato a morte senza che ci fosse stata una positività: né analisi né controanalisi. Inutile quasi che facciamo il nome, non ce ne voglia Stefano Agostini. Si chiamava Marco Pantani e fu gettato in pasto agli squali. Con tutto il rispetto, Sinner non ha nulla più di Marco, se non migliori avvocati e gente ai piani alti disposta a metterci la faccia.
GRUISSAN (Francia) – Tadej Pogacar si avvia a conquistare la doppietta Giro-Tour che in anni più recenti ha respinto campioni come Contador e Froome, in una sorta di rincorsa che ricorda quella di Cavendish al record di Merckx. Si legge stamattina che ieri lo sloveno e anche Vingegaard abbiano battuto e di parecchio il record di Pantani su Plateau de Beille e di certo altri record cadranno. I record sono fatti per essere battuti. Però allo stesso modo in cui si è stati molto cauti nel dire che Cavendish non sia stato grande quanto Merckx, si potrebbe fare la stessa considerazione nell’affiancare Pogacar a Pantani e a quelli che prima di lui fecero l’agognata doppietta: Coppi, Anquetil, Merckx, Hinault, Roche, Indurain, Pantani.
Pogacar merita a pieno titolo di esser iscritto a questo club così esclusivo, come è probabile che la sua carriera alla fine sarà superiore a quella di molti di loro. Eppure voler a tutti i costi dipingere il prodigio con colori anche superiori a quelli che sfoggia suona un po’ pretestuoso. Tadej è un fenomeno, Vingegaard è un fenomeno, ma hanno attorno soltanto se stessi, in un duello che si protrae senza contraddittorio. Altri ottennero il loro primato nuotando in un mare pieno di squali. E’ sbagliato perseguire la sostituzione.
A Plateau de Beille, la prima vittoria di Pantani al Tour del 1998A Plateau de Beille, la prima vittoria di Pantani al Tour del 1998
Il record di Plateau de Beille
Pogacar ha scalato Plateau de Beille in 39’42” alla media di 23,800, iniziando la salita a tutto gas. Pantani impiegò 43’28”. Un risultato stupefacente, certo, che però non tiene conto del fatto che Marco fu fermato da Roberto Conti (leggete l’articolo pubblicato pochi giorni fa) per aspettare Ullrich, il suo avversario in maglia gialla, che aveva bucato. Per cui il tempo di scalata di Pantani è composto dai minuti necessari perché Ullrich si fermasse, aspettasse l’arrivo dell’ammiraglia, cambiasse bici e risalisse il gruppo che intanto non si era fermato. Già questo basterebbe.
Non è una questione di asfalti più veloci (le strade erano belle anche nel 1998), ma se volessimo guardare, potremmo parlare delle bici e ci sarebbe tanto da dire. La Bianchi con cui il romagnolo vinse il Giro e dopo il Tour era in alluminio, non aveva ruote ad alto profilo e in termini di aerodinamica non era certo al livello delle bici di adesso. Impossibile fare confronti.
Pantani non sapeva cosa fosse un powermeter e questo magari per colpa sua, refrattario com’era all’impiego di ogni tecnologia legata alla preparazione. Quando all’inizio del 1999 cercarono di imporgli l’uso del cardiofrequenzimetro, faceva di tutto per dimenticarlo a casa o in hotel. Non andava ad allenarsi in altura, gli bastava il Carpegna. E come spuntino dopo l’allenamento, mandava giù uno zabaione. Colpa sua anche quella: c’era già chi studiava la nutrizione come un fronte sensibile, ma di certo nel 1998 non c’erano le consapevolezze di oggi.
La sfida con Tonkov al Giro del 1998 tenne Pantani sulla corda sino alla fine. Non fu abbastanza fenomeno o il russo era un osso duro?La sfida con Tonkov tenne Pantani sulla corda sino alla fine. Non fu abbastanza fenomeno o il russo era un osso duro?
Fra Giro e Tour
Fu colpa sua anche il fatto che dopo il Giro non avesse alcuna intenzione di andare al Tour, per cui trascorse la sua bella decina di giorni in spiaggia e chissà cos’altro. Fu la morte di Luciano Pezzi a spingerlo verso la corsa francese. Nessuna ferrea pianificazione: quella apparteneva semmai a Ullrich e Riis, che sul Tour affrontato nel segno della scienza avevano costruito la loro storia. Nessuna altura per Marco e certamente per lui le fatiche del Giro furono superiori rispetto a quelle incontrate da Pogacar lo scorso mese di maggio.
Pantani dovette fronteggiare prima Zulle e poi Tonkov: due ossi molto duri. Il primo lo mise in croce all’inizio fino alla crono di Trieste. Il secondo lo sfidò fino a rischiare l’infarto nel giorno di Montecampione e poi nella crono finale di Lugano. Si avanzarono delle ipotesi assai brutte al riguardo: la fortuna di Pogacar è che nessuno dice contro di lui quello che un tempo era abituale dire su chi andava così forte. In questo il ciclismo è cambiato di molto, per fortuna: oggi si ha il diritto di vincere senza insinuazioni.
Il livello del Tour 2024 è vicino a quello del Tour 1998: i due rivali sono entrambi fortissimiIl livello del Tour 2024 è vicino a quello del Tour 1998: i due rivali sono entrambi fortissimi
Quali avversari
Nel Giro del 1998, che non ebbe giorni di riposo, Pantani chiuse la prima settimana 6° a 1’02” da Zulle. La seconda la chiuse 2° in classifica a 22” da Zulle. Concluse il Giro con 1’33” di vantaggio su Tonkov.
Nel Giro 2024, Pogacar ha concluso la prima settimana con 2’40” su Martinez. La seconda con 6’41” su Thomas. E ha concluso il Giro con 9’56” su Martinez.
La differenza fra i due è che Tadej è indubbiamente un fenomeno: Pantani non ha mai vinto la Liegi e nemmeno il Lombardia. Ma in quel ciclismo che faceva della specializzazione il suo punto di forza, Marco si ritrovò al Giro contro avversari che sapevano come si vincesse un Grande Giro. Fra gli avversari di Pogacar al Giro, tolti Thomas e Quintana ormai sul viale del tramonto, nessuno aveva mai vinto un grande Giro.
Il Tour del 1998, con un solo giorno di riposo, è invece molto più simile a quello attualmente in corso, con due fenomeni in testa, capaci di dominare il gruppo con superiorità disarmante. L’attacco di Ullrich all’indomani della sconfitta delle Deux Alpes somiglia tanto a quello condotto ieri da Vingegaard. Due fenomeni e dietro il vuoto. Si è tutti fenomeni, in attesa di uno più grande: la storia insegna questo. E allo stesso modo in cui i corridori degli anni Novanta fecero sentire piccini quelli del ventennio precedente, i fenomeni di oggi mettono in ombra quelli che li hanno preceduti.
All’indomani della batosta di Les Deux Alpes, Ullrich attaccò a testa bassaAll’indomani della batosta di Les Deux Alpes, Ullrich attaccò a testa bassa
E’ tutto relativo
Evviva Pogacar, campione assoluto. Evviva però anche Pantani, che ci fece sognare e per farlo dovette sfidare i giganti. Il resto sono chiacchiere da bar che ormai non attecchiscono più neppure sui social. So bene anche io che la Volvo elettrica con cui stiamo… correndo il Tour ha un’accelerazione migliore di certe auto da corsa del Novecento, ma non mi sognerei mai di dire di essere più veloce di Josè Manuel Fangio.
E comunque, giusto per non togliere interesse, il Tour è tutt’altro che finito. Mancano le Alpi e la crono finale. E sta iniziando a fare veramente caldo.
«Marco mi diede gli occhiali, poi la bandana… e lo fece ai piedi della salita. Pensai: “Mamma mia questo vuol partire subito”. E io ero già a tutta». Roberto Conti ci porta subito dentro questa intervista che di fatto è un racconto. Domenica prossima il Tour de France torna ad affrontare la scalata di Plateau de Beille.Una salita che per noi italiani evoca un ricordo molto dolce: la vittoria di Marco Pantani nel 1998. Da qui la planata verso la mitica doppietta che oggi sta cercando di fare Tadej Pogacar.
Quel giorno ci fu l’inversione di rotta della Grande Boucle dominata fin lì da Jan Ullrich. Il gigante tedesco si presentò all’inizio dei Pirenei con 5’04” di vantaggio sul Pirata. Il quale era persino contento! Un’impresa folle lo attendeva. Un’impresa che però forse solo Marco pensava potesse tramutarsi in realtà.
Nella prima tappa di “mezzi Pirenei”, cioè con qualche salita nel finale, ma ideale per le fughe, Pantani scattò sul finire dell’ultima scalata e guadagnò una ventina di secondi sul tedesco. Il giorno dopo ci fu appunto la Luchon – Plateau de Beille. E con essa la foratura di Ullrich proprio all’imbocco della salita che quasi mandò i piani all’aria. Lo scatto del Pirata ma senza fare il vuoto all’inizio. E infine le sue braccia al cielo.
Qualche anno dopo, sempre insieme Roberto Conti (a sinistra) con Pantani e Fontanelli…Qualche anno dopo, sempre insieme Roberto Conti (a sinistra) con Pantani
Roberto, cosa ricordi di quel giorno, di quella mattina al via?
Ricordo che alla partenza un compagno di Ullrich, Udo Bolts, venne da me e mi chiese: “Robi, ma siete qui per le tappe o per vincere il Tour?”. Io gli risposi per le tappe aggiungendo anche che quel giorno avremmo vinto. E lui ancora: “E allora perché ieri avete attaccato se c’era la fuga fuori?”. Io rimasi un po’ così e lui: “Robi non fregarmi!”. Ma in quel momento era la verità. Puntavamo alle tappe. Mentre Marco era veramente convinto di vincere quel Tour.
E voi?
Proprio vincere no, ma salire sul podio sì. Tra l’altro era qualcosa che già aveva fatto. In quel Tour, ma si potrebbe dire in quegli anni, c’erano delle crono lunghe e sappiamo come andava Ullirch contro il tempo. Oggettivamente sarebbe stato difficile. Quasi impossibile.
Come andò quella mattina? Cosa vi diceste nella riunione?
Fu tutto molto regolare. Se fosse andata via la fuga l’avremmo dovuta tenere vicino il più possibile. Al Tour se vanno via fughe che prendono 10′ poi si fa fatica a chiudere, anche se ti chiami Pogacar o Pantani. E così facemmo: tenemmo la fuga sempre a tiro e poi Marco fece il resto verso Plateau de Beille, la salita finale.
L’arrivo del Pirata. Riprese l’ultimo fuggitivo (Roland Meier) ai -7 km. Da lì, una cavalcata solitaria. Ullirch arrivò a 1’40”L’arrivo del Pirata. Riprese l’ultimo fuggitivo (Roland Meier) ai -7 km. Da lì, una cavalcata solitaria. Ullirch arrivò a 1’40”
Come approcciaste la salita? Chi tirò?
Adesso non ricordo proprio bene tutto, sono passati tanti anni… purtroppo, ma ricordo che quel giorno tirai poco. Non ne avevo! Ricordo bene però che pochi metri dopo l’inizio della salita Marco stava per partire e io lo fermai. Gli dissi: “No, no… Marco, aspetta”. E lui: “Ma perché non posso?”. Gli dissi che Ullrich aveva forato e che sarebbe stato meglio aspettare. Poi sarebbe sorta una guerra di antipatie, di giochi, di polemiche. Tra l’altro sarebbe potuto succedere a lui la stessa cosa. “Quando rientra attacchi”, gli dissi.
E Marco?
Non disse niente. Si mise lì buono… E poi dopo il rientro di Ullrich, partì. Mancavano ben più di dieci chilometri.
Tu e i tuoi compagni cosa sapevate durante la scalata di quello che stava combinando Marco?
Sapevo che stava guadagnando sulla fuga e su Ullrich. Ed eravamo felici per la vittoria di tappa che stava per arrivare. Ma quel che ci stupì non fu tanto la scalata, quanto quello che ci disse Marco la sera in hotel: “Ragazzi, siamo qui per vincere il Tour”. Noi gli dicemmo in coro: “Magari”. Il Tour è il Tour e come detto c’era ancora una crono lunga e lui aveva pur sempre 3’01” di ritardo da Ullrich.
Lo vedesti subito dopo l’arrivo?
No, no… in hotel. Marco tra premiazioni e interviste arrivò parecchio dopo. In quei casi si andava nella camera del suo massaggiatore. Gli si facevano i complimenti e a cena scattavano i racconti. Dopo cena telefonata a casa e poi di nuovo nel giardino o nella hall a parlare della corsa, dei progetti, delle cose che non avevano funzionato o semplicemente a scherzare. E anche quella volta andò così.
La salita di Plateau de Beille misura 16 km per una pendenza media del 7,8% e una massima del 10%. Dislivello di 1.235 mLa salita di Plateau de Beille misura 16 km per una pendenza media del 7,8% e una massima del 10%. Dislivello di 1.235 m
I corridori scaleranno Plateau de Beille dopodomani: che salita troveranno?
Una tipica salita pirenaica. Ricordo che andava su con dei lunghi e ampi drittoni con qualche tornante di tanto in tanto. Era una salita che non lasciava molto respiro, sempre attorno all’8-9 per cento con qualche rampa un po’ più dura ogni tanto. E poi ricordo che non finiva mai!
Prima abbiamo parlato del vostro approccio della salita e invece Pantani come si comportò?
In corsa non parlava tanto. Era piuttosto taciturno. E fu così anche quel giorno. Gli portavi da bere, da mangiare e lui se ne stava lì. Quando stava bene era così: taciturno, era concentrato. Pensate che quando forò Ullirch noi, anche lui, eravamo tutti in fila indiana e Marco non se ne accorse tanto era sulle sue.
Roberto, dopo l’impresa di Plateau de Beille lui vi disse che voleva vincere il Tour, ma voi avevate la sensazione che il Tour avesse davvero preso un’altra piega?
Come detto, per vincere no. In classifica Marco era dietro… Ma sapendo dei suoi attacchi, dei suoi attacchi da lontano dentro di me pensavo: “Vuoi vedere che questo qui tira fuori il coniglio dal cilindro?”.
PIACENZA – La terza tappa del Tour è partita da poco. Anche se non è tempo di fare bilanci della presenza della corsa in Italia, qualcosa si può cominciare a dire. C’è voluto il Tour per ricordarci di Gino Bartali, Gastone Nencini e Marco Pantani. E oggi che la Grande Boucle ricorderà Coppi, dovremo dirgli nuovamente grazie. A volte in questi casi torna in mente quel solito fare battute (tutto italiano e pessimista) secondo cui le cose andrebbero diversamente in questo Paese se a governarlo fossero degli stranieri. E al netto dei problemi logistici, in qualche caso propiziati proprio dall’incapacità italiana di stare nelle regole, si è visto che la capacità dei francesi di valorizzare quello che propongono è davvero magistrale.
Il pubblico di San Luca è stato oceanico: il Tour ha fatto suo per un giorno un simbolo del nostro ciclismoIl pubblico di San Luca è stato oceanico: il Tour ha fatto suo per un giorno un simbolo del nostro ciclismo
La bravura di Prudhomme
Il Tour sta alle altre corse come una squadra WorldTour sta a una grande professional. Si può fare e in effetti si fa un buon lavoro in entrambi i casi, ma è innegabile che avere soldi da spendere e spenderli per far crescere il prodotto scavi un solco piuttosto profondo rispetto a chi eventualmente pensasse più ad accumularli che a reinvestirli.
Il Tour sa raccontarsi. Propone i suoi eroi e le loro storie. Li rappresenta e li porta sulle strade in cui passerà la corsa, per prepararle il terreno. La presenza di Prudhomme in giro per l’Italia da mesi dà la misura di quanto ci tengano a conoscere e a farti sentire importante. Ti accolgono, dal Villaggio alla sala stampa. Sorridono. Sono affabili e insieme inflessibili. E ti dimostrano di fare le cose con un senso. Volete un esempio? Eccolo.
Ieri mattina al Villaggio di Cesenatico, il fotografo Stefano Sirotti ha ricevuto un premio per la presenza della sua agenzia al Tour. Al momento di consegnarglielo, Prudhomme gli ha spiattellato in faccia un indovinello.
«Ti ricordi – gli ha chiesto – in che giorno ti consegnammo il premio per i vent’anni?».
«Era il Tour del 2015», ha risposto Sirotti.
«Ma era anche il giorno dopo la prima vittoria di Bardet a Saint Jeanne de Maurienne – gli ha risposto Prudhomme – e oggi è il giorno dopo un’altra vittoria di Romain».
Se anziché limitarsi alla stretta di mano, il direttore generale del Tour de France ha avuto l’attenzione di raccogliere o farsi raccogliere simili informazioni, vuol dire che ha a cuore le persone cui si rivolge. E questo fa la differenza.
Durante la consegna del premio, Prudhomme ha spiazzato Sirotti con il suo aneddotoDurante la consegna del premio, Prudhomme ha spiazzato Sirotti con il suo aneddoto
I soldi e la memoria
Eppure, da vecchi pantaniani ormai anestetizzati dalle troppe cerimonie, non riusciamo a trovare il bello di aver ricordato Marco ieri a Cesenatico. Intendiamoci, il “Panta” lo merita ogni santo giorno che Dio ci darà da vivere. Ma perché farlo solo oggi e solo perché tre regioni italiane hanno messo i loro milioni sul piatto? Va bene, l’hanno raccontata e vestita alla grande, ma perché non lo hanno fatto prima?
Ieri nelle cronache televisive si è sentito un discreto arrampicarsi sugli specchi quando Tonina Pantani ha detto (diretta come al solito) che Marco non è stato trattato bene.
Si è voluto far notare che oggi la dirigenza del Tour sia un’altra, che non c’è più il vecchio Leblanc che a un certo punto dopo il 2000 decise di non invitare più Marco alla corsa francese che aveva vinto. Niente di strano: gli preferì la solidità (anche finanziaria) di Armstrong e dei suoi sponsor, nel cui nome fu persino coperta una positività al doping del texano.
E allora perché, se la mano che guida è un’altra, nel momento in cui Armstrong è stato visto nella giusta luce, nessuno ha sentito la necessità di rivolgere un pensiero a Marco Pantani da Cesenatico, rileggendo la storia prima che qualcuno pagasse per farlo? Le occasioni non sarebbero mancate.
La memoria di Pantani resiste alle offese e alle dimenticanze dello sportLa memoria di Pantani resiste alle offese e alle dimenticanze dello sport
Sono gli affari, lo sappiamo. E il Tour sa condurli meglio degli altri, al punto che è ormai cosa fatta anche la partenza della Vuelta 2025 – corsa di proprietà del Tour – dal Piemonte. Perciò ci prendiamo il bello dell’Italia che i francesi stanno mostrando con tanta maestria. Restiamo ammirati dalla dedizione, la gentilezza e la preparazione di Prudhomme e i suoi uomini. Ma non ce la sentiamo di abbracciarli oltre un certo limite. Non lo stanno facendo solo per noi. Se i soldi nel piatto li avesse messi la Spagna, avrebbero parlato (e anche giustamente) con identica competenza e passione di Fuente, Ocaña, Bahamontes e del povero Java Jimenez.
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Roglic non è ripartito, come si prevedeva. Troppo violenta la caduta di ieri, che però è solo una delle troppe che lo hanno fermato negli ultimi due anni
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OROPA – Marco c’era. C’è stato anche un grande Pogacar, sia chiaro, ma quando hai vissuto certe storie, quelle emozioni diventano la lente attraverso cui leggi le altre. E Marco da Oropa non se ne è mai andato, solo che oggi, a 25 anni da quella volta, la sensazione è che ci fosse più gente e che nessuno di loro voglia ancora dimenticarlo.
Detto questo, Tadej Pogacar ha fatto quello che tutti si aspettavano facesse: lui per primo. Voleva vincere anche ieri e lo vedi che gli scoccia ammettere di aver commesso qualche errore. L’idea forse era davvero portarsi a casa un Giro rosa dalla prima all’ultima tappa, ma di certo la svista di Torino ha dato allo sloveno la cattiveria giusta per non commettere la minima sbavatura. Anche quando è finito per terra a causa di un cambio bici mal orchestrato.
«Ho preso una buca in quel tratto sulle pietre – spiega – non era certo una buona strada. Stavo arrivando la curva e io avevo pensato di fermarmi prima. Invece dalla macchina mi hanno detto di farlo dopo la curva. Normalmente sarebbe stato meglio, ma stavo già pedalando sulla ruota anteriore con zero pressione, ero sul carbonio. Così sono arrivato alla curva e sono caduto. Ma niente di pazzesco, solo un po’ più di adrenalina. Ero abbastanza fiducioso. C’era tutto il tempo per rientrare con la squadra e lo abbiamo fatto. I ragazzi hanno fatto un ottimo lavoro. Siamo tornati davanti, abbiamo impostato il ritmo che ci stava meglio ed è stato perfetto».
La forza del ciclismo: migliaia di persone su tutto il percorso: a Oropa il massimoIl tubeless fuori dal cerchio e il liquido fuoriuscito che ha provocato la scivolata di PogacarLa forza del ciclismo: migliaia di persone su tutto il percorso: a Oropa il massimoIl tubeless fuori dal cerchio e il liquido fuoriuscito che ha provocato la scivolata di Pogacar
Attacco ai meno 4,3
Marco c’era, anche in quella curva con il muraglione e gli archi da cui la bandiera gigantesca calava sulla terra come un mantello incantato. E poco prima di quel punto, in un tratto dove la strada era più severa, approfittando dell’ultima tirata di Majka, Pogacar ha aperto il gas e ha preso il largo. I tifosi del Pirata lo hanno incoraggiato e lui è sparito dietro la curva con cui il cammino di Oropa si infila nel bosco. Luogo mistico questo Santuario, meta di pellegrinaggi a piedi e ora anche in bicicletta. Un luogo davvero magico.
«Già ieri – spiega Pogacar – il piano era vincere, però nell’ultima parte c’è mancato qualcosa. Oggi per noi era una tappa più adatta e la squadra è stata fantastica. Sono davvero felice di aver vinto, significa molto, come qualsiasi altra vittoria di tappa in cui prendi la maglia di leader. Durante la salita, l’atmosfera era incredibile, quindi è stato davvero un piacere percorrere gli ultimi due chilometri da solo. Il supporto dei fan è stato incredibile».
La curva Pantani ha accolto e incitato Pogacar all’attaccoLa curva Pantani ha accolto e incitato Pogacar all’attacco
Attacco programmato
Sull’arrivo, sorridendo, Majka diceva di aver pagato un po’ i 20 chilometri di ieri a tirare su un tratto di strada a lui poco adatto, quindi che questa volta ha potuto fare meno del solito. Però era contento. Si è infilato il fischietto al collo ed è sceso verso Biella, dove a 14 chilometri dall’arrivo hanno fermato i pullman. Anche il quartier tappa è giù a valle e forse per questo attorno allo sloveno siamo stranamente in pochi.
«Non dite che ho fatto la salita senza spendere – va avanti a raccontare – posso confermare che ero abbastanza al massimo. Semplicemente ho tenuto il mio ritmo e quando Rafal ha iniziato a prepararsi per l’attacco, ero già abbastanza al limite. C’era un piano, l’ho detto, ma nel ciclismo non puoi dire che quello fosse il punto prestabilito, non è matematica. Bisogna sempre improvvisare e avere feeling. Con Majka passo molto tempo in allenamento e in corsa, ci conosciamo. Sa come fare.
«E io sapevo che dovevo attaccare con violenza per creare il gap sugli avversari e poi continuare con un ritmo normale verso la vetta. E’ stato un grande sforzo oggi. Vincere era uno dei sogni, il mio obiettivo. Ora ho anche la maglia rosa, che è il mio sogno da tanto tempo. E sono super orgoglioso e super felice. Non molti corridori hanno raggiunto questo obiettivo nella loro carriera, sono contento».
Per Tiberi una foratura e all’arrivo il passivo di 2’24”: non ci volevaEnnesima caduta per Pozzovivo, travolto dalle spalle e cambio rotto. Ma l’ammiraglia era lontanaPer Tiberi una foratura e all’arrivo il passivo di 2’24”: non ci volevaEnnesima caduta per Pozzovivo, travolto dalle spalle e cambio rotto. Ma l’ammiraglia era lontana
Nulla da festeggiare
Pantani quel Giro non lo finì, lo fermarono prima. E in gruppo nei giorni che portarono a quel momento, erano tutti pronti a lamentarsi per il suo dominio schiacciante. A quel tempo chi vinceva troppo era antipatico, fortunatamente i tempi cambiano. Marco quella sera qui ad Oropa era scuro in viso, stranamente nervoso, Pogacar invece sorride, pur consapevole di avere davanti 19 tappe.
«Se anche perdessi la maglia rosa per qualche giorno – dice – non ne farei un dramma. Quando vinci una classica, penso alla Strade Bianche o la Liegi, sai che dopo l’arrivo è tutto finito. Qui invece siamo ancora agli inizi. Sto ancora pensando alle prossime 19 tappe, non è finito niente e il grande obiettivo è vincere il Giro. Non possiamo andare a festeggiare adesso, liberarci e andare fuori di testa. Domani ci sarà un’altra gara, quindi è ancora tempo di fare sul serio».
Primo Giro e prima maglia rosa della carriera: Pogacar fa un altro passo nella storiaLa UAE Emirates dopo l’arrivo si è goduta il podio di Tadej, poi i corridori sono scesi a BiellaIl ciuffo e il sorriso: Pogacar durante le interviste è parso molto rilassatoPrimo Giro e prima maglia rosa della carriera: Pogacar fa un altro passo nella storiaLa UAE Emirates dopo l’arrivo si è goduta il podio di Tadej, poi i corridori sono scesi a BiellaIl ciuffo e il sorriso: Pogacar durante le interviste è parso molto rilassato
«Penso che la tappa di Rapolano con gli sterrati – dice analizzando la settimana che inizia – più che un momento in cui fare la differenza, dovrebbe essere una tappa in cui non perdere tempo. Il giorno dopo ci sarà la prima cronometro e lì davvero vedremo quali sono i valori in campo. Geraint Thomas è uno specialista e sarà interessante vedere come si muoverà. Nella mia carriera non ho fatto cronometro così lunghe, di solito nei grandi Giri ne facciamo un paio, ma più corte (la crono di Perugia è lunga 40,6 chilometri, quella di Desenzano ne misura 31,2, ndr). Quindi troverò altri avversari con cui confrontarmi. Ma preferisco concentrarmi su me stesso, provando a ottenere il masssimo giorno per giorno. Quella di Perugia sarà una bella crono. Ho fatto la recon e non vedo l’ora che arrivi quel giorno. Tutto qui. Cosa dite se vado a riposarmi un po’? Per oggi ho già fatto abbastanza interviste…».