Uno spagnolo in Belgio. Le imprese di Orts nel cross

28.11.2023
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NIEL (Belgio) – Felipe Orts Lloret, uno spagnolo in Belgio. Uno spagnolo tra i grandi del ciclocross. Il corridore iberico sta disputando l’intera annata nel regno del cross, un po’ come la nostra Francesca Baroni, di cui vi avevamo parlato qualche tempo fa.

Orts però sta andando davvero forte. E’ anche salito sul podio del Superprestige, nel tremendo giorno di Niel, dove la disciplina del fango sfoggia a detta di molti la sua veste più pura. Il percorso era davvero tecnico e del tutto naturale.

Felipe Orts (classe 1995) è anche un ottimo biker. Se la cava nel gravel. Su strada veste i colori della Burgos-Bh
Felipe Orts (classe 1995) è anche un ottimo biker. Se la cava nel gravel. Su strada veste i colori della Burgos-Bh

Da Alicante a Bruxelles

Ma chi è dunque questo ragazzo? Insomma non capita tutti i giorni di vedere uno spagnolo a questi livelli nel ciclocross. Felipe Orts Lloret, classe 1995, di Alicante, su strada veste i colori della Burgos-Bh, nel cross sta correndo con i vessilli della Spagna, in quanto campione nazionale e della Bh, il marchio di bici. Fisico possente, Orts è alto 180 centimetri, per 70 chili.

«In effetti è difficile incontrare uno spagnolo quassù! Tanto più uno spagnolo di Alicante, del Sud della Spagna – ci racconta Orts – faccio la spola con il Belgio tutti i fine settimana, dal venerdì al lunedì. Ho deciso di fare così perché vicino casa c’è un’ottima connessione aerea con Bruxelles».

«Certo non è facile passare dalle temperature di laggiù a quelle del Belgio. Per esempio prima di Niel a casa mia c’erano 30 gradi e mi allenavo in maniche corte e qui ce ne sono 7-8, ma ormai ci sono abituato. Comunque mi sono trasferito nei Paesi Baschi proprio per avere un clima e percorsi diversi che nel resto della Spagna».

Lo spagnolo è campione nazionale in carica. Col fango è a suo agio
Lo spagnolo è campione nazionale in carica. Col fango è a suo agio

Un podio storico

Orts ha dunque agguantato anche un podio nel Superprestige, ma quel che più conta è la sua costanza agli alti livelli. I piazzamenti nei primi dieci sono diversi. Sta insistendo molto sul Superprestige e paga sempre qualcosa il giorno successivo in Coppa. Ma fare bene nel circuito belga forse è anche più importante in termini di visibilità.

«Un podio da queste parte è incredibile – dice con soddisfazione Orts – sono felicissimo. Io tra questi campioni… Però è anche vero che ci sto lavorando già da un po’. Sono molti anni, dieci, che mi sto concentrando sul ciclocross. E per riuscirci al meglio mi sono dovuto trasferire, come detto, nel Nord della Spagna. Non è il primo anno che faccio la stagione qui. E’ molto costoso, ma quest’anno le cose stanno andando bene e credo ne valga la pena».

Altre volte Orts era stato vicino al podio. Lui parla di un buon momento di forma. E forse il fatto di tornare a casa lo aiuta non poco. Il clima più caldo fa meglio al suo motore e ai suoi muscoli. Ma forse gli fa pagare qualcosa in termini di tecnica.

Tuttavia è anche vero che correndo tutti i weekend in Belgio, la stessa tecnica si mantiene viva. E tutto sommato anche i suoi colleghi del Nord durante la settimana curano molto di più la parte del “motore” che quella della guida.

A Niel, un momento storico per Orts e la sua nazione: eccolo sul podio del Superprestige (foto Instagram)
A Niel, un momento storico per Orts e la sua nazione: eccolo sul podio del Superprestige (foto Instagram)

Motore e tecnica

«L’obiettivo? E’ quello di fare meglio ad ogni anno e in ogni gara. E per questo è importante anche l’aspetto tecnico appunto. Ho una bici molto competitiva, che sviluppo a casa e con queste gare. Mi piace il fango, ma preferisco quello liquido e mi trovo molto bene anche sui tracciati secchi e veloci. Io poi sono abbastanza tecnico e di mio. Preferisco concentrami molto sulla parte fisica, tanto più che qui vanno davvero forte. E comunque in tal senso mi aiuta anche la stagione su strada».

E la sua stagione su strada è stata affrontata proprio da ciclocrossista puro: corse concentrate soprattutto a partire dal termine dell’estate, proprio per affinare la gamba e trovare i cavalli necessari per affrontare queste sfide al Nord.

In più nella sua zona, Alicante ci sono molti pro’. «Specie d’inverno – conclude Orts – con le squadre che vengono a fare i ritiri. Ma un grande salto me lo ha fatto fare la mia squadra, la Burgos-Bh, che mi ha consentito di disputare delle gare di primo livello. Gare che mi hanno dato molto».

Nel nome del padre: Christophe Sercu parla di papà Patrick

26.11.2023
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Patrick Sercu è stato un gigante della pista e un grande anche della strada. E alla sua epoca, la seconda metà degli anni ’60 e ’70, non era facile finire sulle prime pagine avendo fra i propri connazionali campioni come Merckx e De Vlaeminck, eppure Sercu ci riusciva. E ci riusciva soprattutto in pista e passando dalle Sei Giorni, di cui è tutt’oggi il Re. Il Re delle Sei Giorni: ne ha vinte ben 88.

Christophe Sercu è suo figlio. Oggi cinquantenne, è cresciuto a pane e ciclismo, e raccoglie l’eredità del papà. E’ infatti l’organizzatore della Sei Giorni di Gand, nonché il team manager del Team Flanders-Baloise, squadra professional che lavora molto con i giovani.

Christophe, partiamo dalla Sei Giorni di Gand, ormai l’unica vera Sei Giorni: qual è il segreto?

Questo ci fa piacere, ma purtroppo è l’ultima vera Sei Giorni perché l’unica altra rimasta è quella di Rotterdam. Posso solo dire: speriamo bene per il futuro. Qual è il segreto di questa? Un insieme di cose: la sua vitalità, la sua tradizione, un buon pubblico, un’organizzazione collaudata e degli ottimi corridori.

La corsa gioca ancora un ruolo centrale qui?

Direi di sì, anche per questo la gente rimane fino a tardi. Qui si incontrano amici, ci si beve una birra e si guardano le gare: abbiamo un buon equilibrio tra tutto questo e penso che sia il segreto del nostro successo.

Il ciclismo è un affare di famiglia per lei. E’ stato naturale prendere l’eredità di suo padre?

Mio papà ha sempre corso qui. Qui ha avuto successo come corridore, prima, e come organizzatore poi. Io, che gli sono sempre stato vicino, di fatto sono dentro questa organizzazione da 40 anni, da quando ero un bambino, quindi ben prima della malattia e poi della morte di mio padre (avvenuta nel 2019, ndr). Abbiamo continuato a lavorare allo stesso modo, ma abbiamo anche modernizzato il tutto. Credo che si debba andare di pari passo col proprio tempo, ma anche rispettare le tradizioni.

Ha citato suo padre, iniziamo a parlare di lui, di Patrick. Qual è il ricordo ciclistico più importante che ha?

Oh, non è facile dirlo! Ne ho moltissimi, ma sono anche lontani. Avevo 12-13 anni quando lui ha smesso di correre, ci dovrei pensare un bel po’. Però c’è una foto a casa che vedo spesso ed è un bellissimo scatto della sua ultima Sei Giorni di Milano ed io ero lì con lui. Questa foto ci ritrae da dietro, mentre lasciavamo la pista. E lui mi mette un braccio sulle spalle. Un bel ricordo. Simbolico.

Le ultime apparizioni di Patrick Sercu su pista risalgono al 1982
Le ultime apparizioni di Patrick Sercu su pista risalgono al 1982
Tra le Sei Giorni d’inverno e la strada nel resto della stagione, non era molto presente a casa suo padre… Cosa ricorda di quel tempo?

In effetti mancava moltissimo, ci sono state stagioni in cui ha fatto anche più di 200 giorni di competizione in un anno. Lo vedevamo poco, ma cercava di essere presente lo stesso.

Sentirsi non era facile come oggi? Come facevate?

Eh sì – sorride Sercu – in effetti era un bel problema. Ricordo che si doveva prendere appuntamento, quando era all’estero. Dovevi farti passare una linea dall’operatore per quel giorno a quell’ora. Si pagava un bel po’ e si aveva a disposizione un certo numero di minuti.

Immaginiamo che in casa vostra ci sia stato un certo via vai di campioni…

Ne ricordo molti, ma non erano solo corridori quelli che venivano a casa. Erano dei buoni amici. Penso ad Eddy (Merckx, ndr), a Roger (De Vlaeminck, ndr), a Martin Van Den Bossche. Però quando sei piccolo non hai la sensazione di avere di fronte dei campioni di quel calibro.

Suo papà ha corso con grandi corridori ce n’è qualcuno con cui era più legato?

Difficile dire questo o quello. Diciamo che in gruppo aveva molti amici.

Cambiava la sua personalità, il suo carattere, quando era in bici e quando invece era a casa?

Un po’ penso di sì, come tutti i corridori del resto. Ma per quel che mi riguarda lui era lo stesso, il suo carattere non cambiava una volta giù dalla bici. Era sempre una persona civile. Dire che in bici era aggressivo non è la parola giusta forse, ma di certo era molto motivato. 

Due miti in una foto: Eddy Merckx e Patrick Sercu
Due miti in una foto: Eddy Merckx e Patrick Sercu
E tra strada e pista? C’era più agonismo in lui sul parquet… visto il suo palmares?

No, no… Strada o pista era sempre molto determinato. Un grande corridore è sempre professionale.

Quando eravate a casa parlavate mai di ciclismo?

Sì, certo. Si parlava di gare. Successivamente è diventato cittì della squadra nazionale, poi ancora capo dell’organizzazione di questa Sei Giorni. Ma in generale ho avuto l’opportunità di viaggiare molto con lui dopo la sua carriera e il ciclismo c’è sempre stato in tutti noi.

Rispetto ai tempi di suo padre in cosa sono più cambiate le Sei Giorni?

Credo nell’americana. In passato queste corse erano più lunghe. Chi faceva questa specialità era davvero bravo. Alla fine si facevano 200 chilometri al giorno in pista. Si facevano anche altre gare, come quella a cronometro, ma bisognava fare i conti con le mode, con le richieste. E queste erano americane, americane, americane… Poi man mano le cose sono cambiate. Prima s’iniziava alle sei del pomeriggio e si finiva alle tre, anche le quattro di notte. Ora tutto è più corto, ci sono altre tempistiche e altri interessi.

Su strada, Sercu ha ottenuto la sua prima vittoria in Italia: l’ultima tappa della Tirreno del 1969
Su strada, Sercu ha ottenuto la sua prima vittoria in Italia: l’ultima tappa della Tirreno del 1969

Sercu e l’Italia

Patrick Sercu dunque è stato un grande, un gigante del ciclismo belga. E lì non è facile stare tra i giganti. Su pista ha vinto un’Olimpiade (Tokyo 1964) nel chilometro da fermo, 88 Sei Giorni come detto, ma anche tre titoli iridati e una trentina di campionati nazionali.

E anche su strada ha un palmares importantissimo, tanto più che ha corso spesso in supporto di Eddy Merckx. Patrick Sercu era un velocista chiaramente viste le sue doti in pista. Pensate: 13 tappe al Giro d’Italia, sei al Tour con tanto di maglia verde nel 1974.

Prima di congedarci, giusto ricordando questi numeri lo stesso Christophe, con un grande ed onorato sorriso ha aggiunto: «Quanto tempo ha passato mio papà in Italia. Ci ha corso molto: Faema, Brooklyn e anche se era belga nella Fiat… considerava l’Italia la sua seconda casa. Veramente. Lo diceva spesso».

E Museeuw ci parla di Van Aert: «Il Giro? Un rischio»

24.11.2023
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GAND (Belgio) – Metti una sera un vecchia Colnago con i colori della Mapei. «Bella – pensiamo noi – un classico. Una “botta” di puri anni ’90. Chissà di chi sarà?». Ebbene apparteneva al misterioso ospite di una delle super serate passate al velodromo Kuipke, per la Sei Giorni. Quando poi lo speaker ha dato le tre opzioni su chi fosse questo personaggio, vista quella bici non c’erano più dubbi. Il personaggio misterioso era Johann Museeuw.

Un’improbabile tutina gialla, un casco in testa e tre giri di pista tra due ali di folla già in delirio. Museeuw ha avuto due grandi eredi, Tom Boonen, prima, e Wout Van Aert, adesso. E avendo noi vissuto da vicino Boonen e ancora di più Van Aert è facile capire perché tanto calore anche per Johan.

«Ma quello è Museeuw!», pubblico in delirio e fuori gli smartphone
«Ma quello è Museeuw!», pubblico in delirio e fuori gli smartphone

Emozioni calde

Il campione belga è sempre sul pezzo. Tra l’altro gli facevamo le domande in francese e lui ci rispondeva in italiano. «Amo sempre l’Italia», ci ha detto Museeuw. Segno che tanti anni in Mapei qualcosa hanno lasciato… oltre alle bacheche piene di trofei s’intende!

«Dopo 25 anni ho rimesso piede su una pista. Il che è molto strano! Come è strana questa uniforme… che mi fa sudare tantissimo. La gente viene per la gara (la Sei Giorni di Gand, ndr), per divertirsi e per scoprire il personaggio misterioso. 

«Dopo tanti anni fa piacere questo calore del pubblico. Non è vero che un ex corridore non sente niente in certe situazioni».

Oggi il più applaudito in Belgio è Van Aert. Ormai lo abbiamo appurato nelle tante trasferte fatte in questa terra. 

«Beh – dice Museeuw – Wout è un grande corridore, ma non c’è solo lui in quanto a calore. Anche Remco Evenepoel è un atleta importantissimo e amato. In questo momento in Belgio abbiamo grandi corridori per il futuro. Meno male che voi non li avete e li abbiamo noi! Qui siamo a posto per i prossimi dieci anni».

Il tema di Van Aert al Giro d’Italia tiene banco in Belgio
Il tema di Van Aert al Giro d’Italia tiene banco in Belgio

Van Aert, rischio rosa

Con Museeuw abbiamo parlato proprio del corridore della Jumbo-Visma. In quei giorni Van Aert aveva detto di voler fare, e bene, il Giro d’Italia. Senza contare che aveva anche annunciato la sua assenza ai mondiali di cross seguita qualche giorno dopo anche da quella alla Sanremo. In Belgio non si parlava d’altro, almeno in ambito sportivo.

«L’idea della classifica al Giro – spiega perplesso Museeuw – per me è un po’ difficile per Van Aert. Quando puoi vincere il Fiandre o la Roubaix, puntare alla corsa rosa è molto rischioso. In classiche di quel genere lui ha nove possibilità su dieci di vincere, mentre di vincere il Giro ne ha cinque su dieci. Io non ho mai vinto la Sanremo, per esempio, ci ho provato, ho fatto tre volte secondo. Ma Sanremo e Giro sono due cose differenti. Se ho vinto il Fiandre, punto ancora al Fiandre».

Il discorso di Museeuw è chiaro: insistere laddove si può vincere. Ci sentiamo di dire che è anche un po’ una mentalità figlia di quegli anni. Anni in cui la specializzazione era massima, ma di certo non è da biasimare da un punto di vista prettamente tecnico.

Tour de France 2022, verso Hautacam, Van Aert resta da solo con Vingegaard e Pogacar. Quel giorno forse scatta qualcosa nella sua mente
Tour 2022, verso Hautacam, Van Aert resta da solo con Vingegaard e Pogacar. Quel giorno forse scatta qualcosa nella sua mente

Hautacam galeotto

L’idea di sacrificare troppo le classiche non convince dunque l’iridato di Lugano 1996.

«Se puoi vincere dalla Sanremo alla Liegi, passando per Fiandre e Roubaix, e forse tutti e cinque i monumenti, per me non devi cambiare le tue caratteristiche. Ma io sono vecchio!».

E’ voce più che comune che il tarlo della classifica sia entrato nella testa di Van Aert durante lo scorso Tour de France. In particolare quando verso Hautacam mise in difficoltà persino Pogacar, per di più dopo aver tirato come un folle per chilometri e giorni interi. Quel giorno Wout giunse terzo sul traguardo pirenaico.

«Che lui abbia fatto un Tour eccezionale è vero – prosegue Museeuw – Van Aert ha contribuito tantissimo al successo di Vingegaard, ma non vuol dire che può vincere il Giro o il Tour. E’ un’altra cosa fare classifica. Però è vero anche che ha un grande motore e vediamo a maggio cosa potrà fare. Per me comunque questa cosa è “pericolosa”».

Johan Museeuw (classe 1965) con la maglia iridata, oggi si gode il ciclismo da casa (foto Instagram)
Johan Museeuw (classe 1965) con la maglia iridata, oggi si gode il ciclismo da casa (foto Instagram)

Ciclismo e cappuccino

Museeuw è stato un campionissimo delle classiche. Specie quelle delle pietre. Tre Fiandre, tre Roubaix, un mondiale. Su 50 partenze nelle classiche monumento solo cinque ritiri. Lui è davvero il classico “fiammingone” e proprio per questo il ciclismo ce l’aveva e ce l’ha ancora dentro. Tanto è vero che segue moltissimo le corse. Ed è anche un accompagnatore cicloturistico: viene spesso in Italia.

«Cosa mi piace di questo ciclismo di oggi? Che vanno forte dall’inizio alla fine. Sono davvero dei fenomeni. E’ tutto un altro modo di correre rispetto a noi. Le gare sono divertenti.

«I corridori di oggi mi piacciono praticamente tutti. Okay i fenomeni, come Pogacar, Alaphilippe, Van der Poel, ma apprezzo anche i giovani corridori. Oggi i ragazzi hanno un bel carattere. E io seguo il ciclismo alla tv, con un cappuccino e un pezzo di torta… così è meno dura che pedalare!».

Alla “scoperta” del derny. La tattica sul filo dei 70 all’ora

23.11.2023
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Alla Sei Giorni di Gand abbiamo avuto l’occasione di “riscoprire” e ammirare da vicino il derny, sia la specialità, sia la moto-bici da cui prende il nome la specialità stessa. Il pistard si mette a ruota del pilota e via di corsa per tutta la gara (in apertura foto Sei Giorni Lotto Flanders).

Il derny entra in scena anche alle Olimpiadi per il Keirin, l’unica specialità che prevede l’utilizzo di un mezzo motorizzato in tutto il programma dei Giochi. Chiaramente i mezzi devono rispondere a canoni ristrettissimi di prestazioni ed utilizzo. Insomma si è voluto eliminare la variabile relativa al mezzo tecnico.

Al Kuipke le curve strette schiacciavano moltissimo. Si toccavano i 70 all’ora (foto Sei Giorni Lotto Flanders)
Al Kuipke le curve strette schiacciavano moltissimo. Si toccavano i 70 all’ora (foto Sei Giorni Lotto Flanders)

Velocità e tattica

A Gand il derny era una delle specialità più dure per le caratteristiche della pista: corta (166,66 metri) e con curve super pendenti (52 gradi). Va da sé che una volta arrivati a centro curva e in uscita, gli atleti erano schiacciati moltissimo sulla bici, specie se si considera che si andava anche a 70 all’ora. Pertanto le manche del derny, anche in virtù del fatto che erano inserite all’interno di un programma serale molto fitto, erano ben più corte dei 25-40 chilometri previsti dal regolamento UCI.

L’andatura impostata in partenza iniziava dai 40 all’ora e man mano saliva. Per questa sfida i pistard montavano i rapporti più lunghi dell’intera kermesse. L’olandese Havik per esempio utilizzava un 58×15 che, ci dicono, essere bello lungo sullo specifico anello fiammingo. Ma d’altra parte le velocità finali erano altissime.

Un po’ moto, un po’ bici

Il derny prende il nome dalla moto stessa, Derny appunto, un marchio francese che nacque nei primi decenni del 1900. Era una “moto leggera”, in pratica su un telaio di bici più robusto veniva installato un motore che era agevolato dalla spinta dei pedali. All’inizio vi furono organizzate gare specifiche su strada. Cera una cronoscalata del Ventoux, per dire. E sempre il derny era uno dei simboli della mitica Bordeaux-Parigi, che tra l’altro ritornerà il prossimo anno.

A parte qualche apparizione sporadica, l’arrivo su pista avvenne nel dopoguerra, nel 1948 in Giappone. E non è un caso che negli anni molti corridori di livello fossero del Sol Levante. Ma anche l’Italia con Guido Bontempi, Claudio Golinelli e Ottavio Dazzan ha avuto interpreti di assoluto valore.

La foto di rito dopo le manche del derny, spesso vinte da Van den Bossche (in foto) o dal compagno Jules Hesters
La foto di rito dopo le manche del derny, spesso vinte da Van den Bossche (in foto) o dal compagno Jules Hesters

Il pilota conta

A Gand i derny erano a motore termico. Oggi nei velodromi e ai Giochi sono elettrici, ma il concetto di velocità che va ad aumentare gradualmente resta lo stesso.

«E’ l’atleta che decide il passo – ci ha detto Michele Scartezzinise dice “Op” il pilota deve calare un po’, se dice “Alè” deve aumentare. E’ una gara molto tattica, si dice sempre che non si parte forte ma poi si aumenta più rapidamente di quel che sembra. Conta molto anche la sensibilità del pilota, che in certe fasi almeno deve essere bravo a non strappare».

Tuttavia quest’ultima affermazione non ha più valenza sui derny di ultimissima generazione. Questi infatti sono elettrici e controllati da remoto per l’aumento della velocità così da annullare la variabile relativa al pilota.

Nelle Sei Giorni però si resta fedeli alla vecchia linea, come ci ha detto uno dei piloti del Kuipke: «I corridori preferiscono questo tipo di derny e non quello elettrico, perché sentono il rumore che li aiuta a regolarsi. Riescono a capire meglio i distacchi. E, cosa non secondaria, il rumore del motore che sale di giri fa salire l’adrenalina».

E questo è verissimo, anche noi la prima sera siamo stati rapiti da questo crescendo motorizzato.

Il pilota gioisce per la vittoria di Lindsay De Vylder da lui guidato (foto Sei Giorni Lotto Flanders)
Il pilota gioisce per la vittoria di Lindsay De Vylder da lui guidato (foto Sei Giorni Lotto Flanders)

Come funziona?

Vince chi, al termine dei giri stabiliti, taglia per primo il traguardo. Il regolamento dice che la moto non va superata, ma bisogna fare un distinguo. Ci sono infatti delle varianti. Nelle prove ufficiali, mondiali, Olimpiadi… il pilota, unico per i finalisti, si sposta a 750 metri dall’arrivo: è questa appunto la specialità del Keirin, riservata ai velocisti. Nelle Sei Giorni invece il derny resta in pista fino alla fine e di fatto è parte integrante delle sfide.

Anzi, il pilota tante volte è più coinvolto dell’atleta stesso. Almeno così ci è sembrato a Gand. Quando vincevano urlavano più i piloti che i corridori! Ma ci sta, in fin dei conti il saper valutare le distanze per le rimonte, le velocità e gli spazi soprattutto è anche merito loro.

«Sembra facile ma non è così – ha detto Ron Zijlaard, uno dei piloti più esperti – anche noi dobbiamo prendere confidenza con la pista. Arriviamo un giorno prima per girare un po’. E’ importante che l’atleta si senta in una zona comfort, a suo agio.

«Noi che guidiamo dobbiamo essere anche in grado di capire gli altri. Se si muovono molto sulla bici allora si può attaccare. Dobbiamo sederci bene per fargli prendere meno aria possibile. E’ anche importante non stare nelle turbolenze di chi è davanti». Insomma c’è più tattica di quel che si possa immaginare.

Da sola in Belgio, l’inverno di Francesca Baroni

22.11.2023
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In questo primo grosso scorcio di stagione del ciclocross al Nord c’è anche un pizzico d’Italia. E c’è per merito di Francesca Baroni. La toscana sta di fatto disputando l’intero “inverno del fango” in Belgio. I suoi impegni principali sono infatti la Coppa del mondo e il Superprestige.

Anche domenica in Coppa è giunta 16ª e il giorno prima aveva corso il Superprestige di Merksplas, in cui aveva colto un buon 12° posto. Solo in questa stagione il tabellino di Francesca segna due vittorie, Tarvisio e Dusseldorf, e altri tre podi.

Francesca Baroni (classe 1999) sta correndo in Belgio: forse otterrà qualche vittoria in meno che in Italia, ma imparerà molto
Francesca Baroni (classe 1999) sta correndo in Belgio: forse otterrà qualche vittoria in meno che in Italia, ma imparerà molto

A casa di Van Aert

Ma certo la Coppa e il Superprestige sono un’altra cosa. Combattente, determinata, mai doma, Baroni si sta difendendo alla grande in mezzo a leonesse del calibro Pieterse, Alvarado, Brand e un livello medio molto alto.

«Ho preso una casa a Oevel – racconta Francesca – a una decina di chilometri da Herentals, non lontano da Van Aert, ma non l’ho mai incontrato. Mi piacerebbe molto, così gli chiederei di fare almeno una foto!

«Ho scelto quella zona perché è davvero comoda: in un’ora, massimo due, di auto sei davvero dappertutto. E questo mi consente di fare tutto in giornata. Senza contare che posso allenarmi a Lichtaart: il vero paradiso del ciclocross. Lì ci sono dei percorsi veramente molto belli e tecnici».

Non è facile a 24 anni stare da sola. Cucinare, lavare e soprattutto stare per molte ore in solitudine appunto. In più Francesca, al contrario di tante atlete, non fa la spola con l’Italia: resta fissa in Belgio anche nel mezzo della settimana.

«Sono arrivata a settembre – prosegue – e ci starò fino a febbraio, quindi farò la stagione totale. Ad ottobre sono tornata a casa una settimana, in quanto qui non c’erano gare. Ne ho approfittato per respirare un po’ di aria toscana! 

«Rientrerò in Italia per la classica di Fae’ Di Oderzo (il cross Del Ponte, ndr) e per la prova di Coppa del mondo in Val di Sole. Poi tornerò di nuovo qui e scenderò per il campionato italiano di Cremona».

La toscana da settembre ha preso parte a 19 gare
La toscana da settembre ha preso parte a 19 gare

Rendimento costante

Una lunga serie di piazzamenti ha costellato la stagione dell’atleta della Hubo-Remotive. Oltre a quelli citati, Francesca ha ottenuto diverse top cinque e top dieci. E anche nelle giornate in cui noi l’abbiamo vista in azione, Niel e Dendermonde, non è andata male. Specialmente a Niel. Ma quel che più conta è che mediamente i distacchi dalle vincitrici sono molto più ridotti rispetto allo scorso anno. Ricordiamo che Francesca è alla terza stagione fra le elite.

«In generale la stagione è iniziata benino – spiega Baroni – meglio dello scorso anno sicuramente, però non sono ancora dove vorrei essere. Devo lavorare tanto per raggiungere gli obiettivi che mi sono prefissata. Nel complesso sono soddisfatta dai!».

Francesca preferisce non rivelare i suoi obiettivi. Ce lo ha detto in modo esplicito e ci può anche stare: un po’ è scaramanzia e un po’ è il non voler scoprire le carte, ma è chiaro che uno di questi obiettivi ha lo sfondo tricolore. Francesca vorrebbe tornare a vestire quella maglia di campionessa italiana che indossò da U23.

«Voglio fare il meglio ad ogni gara cui partecipo – spiega Baroni – e cercare di ottenere i risultati migliori possibili. Purtroppo non sono brava in partenza. Resto dietro e mi ritrovo a dover rimontare ogni volta. Poi recupero ma non è facile».

Uno degli obiettivi principali di Baroni è quello di migliorare in partenza
Uno degli obiettivi principali di Baroni è quello di migliorare in partenza

Partenze e testa

Ma su questo aspetto sta lavorando. Prima del via è una delle atlete che più si riscalda. E’ sempre concentratissima. Si vede che è consapevole di questo problema con lo start. 

«Niel, per esempio, è stata una gara particolare – spiega Baroni – durissima, con un fango pesante. C’era tanto da spingere e tanto anche da fare a piedi. Fortunatamente ho colto una buona top 10. Su un percorso come quello, se hai una buona gamba riesci a recuperare, ma non sempre è così. In ogni caso la cosa principale resta la testa. Se non ha quella non vai da nessuna parte».

E la testa di Baroni sembra esserci, eccome. Quella che abbiamo visto in Belgio è senza dubbio una ragazza più matura. Super attenta per esempio all’integrazione pre e post gara, al riscaldamento, alla ricognizione. E anche con il suo team si vede che ha fatto un bel salto di qualità.

«Vorrei davvero ringraziare il mio team per il supporto top che mi dà ad ogni gara. Ho dei meccanici bravissimi e qui contano molto. In generale questa squadra non mi fa mai mancare nulla e il capo, Kris Alaerts, mi è sempre vicino, specialmente nei momenti più difficili».

Un giorno ad Herentals dove tutto parla di Van Aert

19.11.2023
6 min
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HERENTALS (Belgio) – Capita che in una bella (chiaramente un eufemismo!) giornata d’autunno ci si ritrovi ad Herentals, il paese di Wout Van Aert. Pianura, pianura e ancora pianura. Piste ciclabili ovunque. Un campanile in stile gotico-fiammingo e tutto ordinato in un modo che è quasi irritante!

Ci mettiamo, come molti tifosi, in “pellegrinaggio”, vale a dire alla ricerca della casa di Van Aert. Sapevamo che comunque non lo avremmo incontrato. Wout era in Sud America da Rigoberto Uran. Però questo “gioco” non ha fatto altro che portarci ancora di più nel suo mondo.

Campagna “poco” tranquilla

Herentals, paese di 26.000 abitanti nelle Fiandre Orientali, fa parte della provincia di Anversa. Qui si respira ciclismo, nel raggio di 25 chilometri sono nati non si sa quanti campioni. Due su tutti? Eddy Merckx e Tom Boonen. Ed è la patria del ciclismo anche perché tutti vanno in bici e perché il mito non è solo Van Aert. Herentals è la patria di Rik Van Looy, uno dei tre assieme al Cannibale e De Vlaeminck, che è riuscito a vincere tutti e cinque i Monumenti. Anzi, ad essere pignoli questa è più la patria di Van Looy che di Van Aert. 

Il fuoriclasse della Jumbo-Visma è infatti di Lille, non quella francese, ma un paese omonimo poco distante da Herentals. 

E proprio nelle campagne tra Herentals e Lille, ma in territorio di Herentals, c’è la sua casa. Una bella villa. Assolutamente non esagerata, col giardino e il tetto spiovente. La tranquillità in teoria regna sovrana. Campi di rape, di barbabietole e ampi pascoli.

Quando siamo andati noi, pioveva a dirotto e non c’era davvero nessuno in giro, ma giusto qualche tempo fa Van Aert si era risentito. Aveva chiesto pubblicamente di essere lasciato in pace quando era a casa. «Ogni giorno viene da me qualcuno per autografi, selfie o per propormi questo o quell’evento. Ognuno con una sua storia, una richiesta… Ormai non rispondo più», riportava la Gazet van Antwerp. 

E scatta automatico il paragone con Remco Evenepoel, per molti belgi reo di essersi trasferito in Spagna. La metà dei tifosi ama Remco, l’altra metà decisamente no. Ma tutti tifano Van Aert.

E qui è davvero un Vip, come potrebbe essere un calciatore da noi. 

Si legge della nascita del suo secondogenito. Dell’acquisto di una nuova automobile. Del primo giorno di scuola del primogenito, con tanto di foto di mamma Sarah e papà Wout che lo accompagnano.

Nella patria del ciclocross

Da Lille a Herentals ci sono una dozzina di chilometri, forse meno. Van Aert abita nel mezzo come detto. Qui non c’è davvero lo spettro di una salita, neanche uno “zampellotto”. C’è da chiedersi come faccia questo atleta ad essere tanto forte quando la strada sale. Okay esserci portati, ma un minimo di allenamento, di feeling con le pendenze, servirà pure.

Però recupera in quanto ai percorsi di cross. In questi giorni in Belgio, abbiamo visto una quantità spropositata di nuovi percorsi ciclabili, anche gravel, per quella che è una vera rete ciclistica, e badate bene non abbiamo detto ciclabile, ma ciclistica. Van Aert dunque recupera con una zona particolarmente adatta al cross. 

E’ proprio dietro casa sua infatti che c’è la foresta di Bosbergen. Qui qualche lieve avvallamento c’è… relativamente al cross chiaramente. L’area di Bosbergen-Lichtaart è tutta in sterrato, è una roccaforte per la mtb, il gravel e appunto il ciclocross. Van Aert ha una vera palestra naturale. Ci abbiamo messo in naso: era un tappeto di foglie morte, ma i sentieri promettevano bene. Ci hanno detto che nel weekend è un brulicare di rider di ogni tipo.

Ad Herentals con Van Looy

Nei negozi di bici c’erano i poster di Van Aert. Sul vetro di un ufficio c’era Van Aert. In un grande cartello al centro della piazza che annunciava vari eventi, c’era Van Aert. E lo stesso Wout, ma anche Rik Van Looy, Erwin Vervecken e Sanne Cant, i quattro campioni del mondo della città, comparivano stilizzati su un murales nel quartiere Vest (nella foto di apertura).

Nella piazza centrale, la Grote Markt, di Herentals due anni fa andò in scena una super festa in onore del corridore, al ritorno dal Tour de France. Wout aveva vinto una tappa, la maglia verde ed era stato protagonista assoluto nella prima conquista della Grande Boucle del compagno Vingegaard. Si stima ci fossero quasi 40.000 persone e non tutte riuscirono ad entrare nella piazza.

Sempre in Grote Markt c’è la statuta di Van Looy. Lo hanno ritratto in veste borghese e in anzianità, come per sottolineare che Rik era uno di loro. Non c’era bisogno di metterlo su una bici per dire al mondo che quello era Van Looy e cosa aveva fatto.

Magari un giorno di fronte a Rik ci sarà anche la statua di Wout, come quelle di Peppone e Don Camillo a Brescello. Chissà, anche lui sarà riuscito a mettere nel sacco tutti e cinque i monumenti. O magari il Giro d’Italia.

Ancora da De Lie. Resistenza, esplosività e testa da finisseur

19.11.2023
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LESCHERET (Belgio) – Nella visita a casa di Arnaud De Lie si è parlato anche di allenamenti e argomenti tecnici. Uno su tutti, il fatto che lui non è e non si sente (questo è molto importante) un velocista puro. Anzi…

Dietro a questa sua definizione ci sono determinate caratteristiche fisiche e anche un certo ambiente che le favorisce, vale a dire le sue strade di allenamento quotidiane. E questo ambiente sono le cotes delle Ardenne, che ben conosciamo per la Liegi, per la Freccia… Affrontarle non “di rimessa” come farebbe uno sprinter e con una certa predisposizione mentale, può incidere molto proprio sull’identikit del corridore.

Chiaro che Greipel, per esempio, non sarebbe mai stato uno scalatore anche se fosse vissuto quassù, ma magari avrebbe avuto un altro feeling con le salite. A tal proposito ci viene in mente una vecchia frase di Paolo Bettini che parlando delle colline vicino alla sua Cecina, disse che la Liegi non poteva che venirgli naturale.

Arnaud ci ha aperto la porta di casa: tanti i temi toccati
Arnaud ci ha aperto la porta di casa: tanti i temi toccati

Esplosività e resistenza

Lescheret sorge a circa 450 metri di quota. Collina dunque, ma De Lie afferma che ha anche un po’ di pianura non troppo lontano ideale per certi lavori o per sciogliere la gamba.

Arnaud è velocissimo, ma tiene bene nelle salite non troppo lunghe. Alto 182 centimetri per 78 chili, è chiaro che può andare bene per gare non troppo dure. Anche se lui ha dimostrato il contrario, quindi sopperisce ai chili con una grande potenza.

E proprio sul discorso della forza abbiamo parlato con Arnaud: «In questo momento della stagione – dice il corridore della Lotto-Dstny – vale a dire la ripresa, sono molto importanti entrambi: sia l’esplosività che gli allenamenti più lunghi e tranquilli. Che poi è quello che ho già fatto l’anno scorso. Abbiamo visto che ha funzionato bene, anche per le corse più lunghe di 200 chilometri e persino di 260. In questo caso penso alla Gand. In quella corsa credo di aver avuto uno dei miei giorni migliori in bici, ma ho avuto tre forature nel momento sbagliato».

«Ora che ho in mente anche le classiche, devo saper combinare bene la tenuta con l’esplosività. Ci stiamo lavorando con il mio allenatore. Sappiamo che le classiche arrivano fino a sei ore e che devi essere esplosivo nel finale, ma devi anche spendere poco per le prime quattro. Quindi in quelle due ore restanti devi sapere come aprire il gas».

«Ma per essere esplosivo nel finale devi anche essere resistente. Quest’anno si è visto che sono migliorato sotto questo aspetto, ma credo anche che la resistenza sia qualcosa che vada a migliorare naturalmente di anno in anno alla mia età».

De Lie vince il GP du Morbihan, corsa con 2.800 m di dislivello. Non a caso il secondo è stato Gregoire, che non è certo uno sprinter
De Lie vince il GP du Morbihan, corsa con 2.800 m di dislivello. Non a caso il secondo è stato Gregoire, che non è certo uno sprinter

Palestra? Il giusto

Oggi molti sprinter, ma non solo (ricordiamo che De Lie si è definito finisseur), fanno dei richiami di palestra anche nel corso della stagione. Per alcune squadre il lavoro coi pesi o a secco è una filosofia. 

«Direi che non conta molto per la squadra – spiega De Lie – semmai è più a livello personale. La palestra la faccio, ma preferisco lavorare di più sull’esplosività in bici. I richiami di forza durante la stagione qualche volta li faccio».

«Ho lavorato in palestra parecchio quest’anno dopo la caduta a Dunkerque e la conseguente frattura della clavicola. Ci ho lavorato con un fisioterapista e penso ci sia stato ancora un cambiamento nel mio fisico. Vediamo se sono diventato più forte grazie a questo. E’ un piccolo bonus alla fine, ma saranno i risultati a dirlo».

«Essendo un finisseur per vincere una gara devi avere una grande velocità di punta. Ma non basta. Stiamo lavorando super forte sugli sforzi di 5-6 minuti e anche sugli sforzi più brevi e intensi di 10-15-20-30 secondi».

Siamo nelle Ardenne e queste sono le strade davanti casa Di Lie. Lescheret sorge a circa 450 metri di quota
Siamo nelle Ardenne e queste sono le strade davanti casa Di Lie. Lescheret sorge a circa 450 metri di quota

Freddo e testa

E poi c’è un altro aspetto che ci ha colpito di De Lie, quello del freddo. L’altro giorno a casa sua il vento si faceva sentire. Non era certo un clima mediterraneo. Arnaud senza giacca era a suo agio.

Suo papà Philippe ci raccontava tuttavia che anche da quelle parti il clima è cambiato. Che una volta d’inverno la neve restava a terra a lungo, adesso non nevica quasi più. E quelle giornate con temperature anche a -15 gradi sono ormai rarissime. In questo contesto, anche se fa meno freddo, allenarsi in bici non è proprio il massimo.

«Freddo? Io non sento mai freddo – ci ha detto con la sua solita naturalezza De Lie – a me piace questo clima. Mi trovo bene. Certo, se però ci sono dieci gradi sotto zero, come è accaduto una volta, preferisco andare in Spagna al caldo!».

Anche questo può sembrare un aspetto banale, ma l’approccio mentale al freddo è indicativo. Si dice che quando piove la metà dei corridori al via siano spacciati. Avere una certa predisposizione mentale verso certe avversità vuol dire molto, così come il non sentirsi “solo” uno sprinter. 

Nella pancia e nella storia del Kuipke, il tempio delle Sei Giorni

16.11.2023
7 min
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GAND (Belgio) – Il Kuipke si trova nel centro della città, di preciso all’interno del Parco Cittadella, in questo momento un tappeto di foglie gialle a terra. Apparentemente sembra uno stabile come gli altri. Difficile dire che le sue alte vetrate custodiscano uno dei velodromi più prestigiosi e storici d’Europa.

Oltre 100 anni

Il Kuipke è stato costruito nel 1913, ma non era come adesso e neanche nello stesso punto. Si trattava di una pista ciclabile, un anello di 210 metri, ricavato all’interno del Palazzo Floreale, ma sempre nel Parco Cittadella. Nel 1922 viene realizzato il velodromo, smontabile, come oggi del resto. Quello definitivo risale agli ’60. La sua particolarità è di essere molto corto, 166,66 metri, e per questo è considerato super tecnico.

Sempre al 1922 risale la prima Sei Giorni di Gand, da allora è un vero monumento. Merito soprattutto delle mitiche edizioni in cui potevi vedere girare negli anni Buysse, Van Steenbergen, Ockers, Terruzzi, Merckx, De Vlaeminck, Sercu… fino ad arrivare a Villa, Martinello, Wiggins, Cavendish, Viviani.

Gand resiste

Oggi il Kuipke ospita quella che da molti è ritenuta l’ultima vera Sei Giorni. Non ci aspettavamo di vedere tanta gente e soprattutto tanto coinvolta. Una festa continua. Una gran voglia di partecipare a quello che, in qualche modo, diventa anche un evento mondano per la città.

Battiti alti: parola d’ordine sia per chi è sul parquet, sia per chi vive le emozioni della corsa sugli spalti e intorno.

Dal momento in cui si varcano le porte del Kuipke si entra in un altro mondo. Il mondo del ciclismo. S’inizia dal tardo pomeriggio con gli under 23 e si tira fino all’una di notte. Man mano che si svuotano gli uffici, si riempiono gli spalti e lo spazio al centro della pista. E’ qui che si fa “casino”. Sembra che stare lì senza una birra sia vietato!

Oltre la corsa

Ed è qui che stazionano anche i tifosi più caldi. Martinello ci aveva avvertito che il pubblico locale si sarebbe fatto sentire, specie con i propri beniamini: bè, ne abbiamo avuto la prova! Cori, balli e calici in alto soprattutto per Jules Hesters e Fabio Van den Bossche, entrambi di Gand.

Tutto è in movimento e in fermento. Gli atleti che girano in pista. I massaggiatori che sistemano le cabine all’interno del catino, preparano i sali o fanno il bucato. Sì, avete capito bene. I corridori si cambiano almeno un paio di volte in questa giostra continua e accanto alle cabine ci sono delle piccole lavatrici-asciugatrici.

Il pubblico intanto si muove. Le sedie sono occupate, ma intorno e nei tunnel per accedere al centro del velodromo è un brulicare continuo.

Il bar di Keisse

E la festa è anche fuori. A 200 metri dal Kuipke c’è un bar, che bisogna visitare. E’ il De Karper ed è della famiglia di Keisse. Lo gestisce il papà di Iljo. Lo scorso anno proprio sulla pista di casa il corridore della Deceuninck-Quick Step diede l’addio alla carriera. Fu omaggiato da città, tifosi e corridori. Un altro momento storico per il velodromo. 

Alle pareti e sul soffitto del bar ci sono foto e maglie. E c’è anche un pezzetto di Giro d’Italia. La bottiglia del 2015 quando Keisse vinse una tappa.

In molti passano lì per una birra (la scelta è immensa) prima di entrare al velodromo. Si respira ciclismo. Di solito ci sono gli irish pub, questo è un “belgian pub” e anziché i San Patrizio alle pareti, si venerano le bici!

Spirito invariato

Qualcuno ci ha detto che le Sei Giorni di una volta non ci sono più. Ma una cosa semplice quanto bella ce la dice Fabio Masotti, oggi tecnico della Fci ed ex pistard. «Vedete – ci spiega – oggi è cambiato tutto. Materiali, corse più brevi… ma lo spirito è lo stesso e certe cose come le cabine nella pista (foto di apertura, ndr) sono identiche a quelle di un tempo».

Intanto, mentre scriviamo, il velodromo si è riempito anche stasera. La musica è alta. L’interno della pista è pieno. Si fa festa. Il dj riesce persino a far fare la hola ai corridori mentre sono in corsa. E il Kuipke ti entra dentro.

Lappartient difende la “sua” Coppa o attacca il Belgio?

15.11.2023
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GAND (Belgio) – Da queste parti non si è ancora calmata la bufera lanciata lo scorso weekend dal presidente dell’UCI, David Lappartient. Il numero uno del ciclismo mondiale su DirectVélo aveva tuonato circa le assenze di diversi corridori di spicco nelle gare di Coppa del Mondo. Chi non farà la Coppa, non farà neanche i mondiali, né la Coppa stessa l’anno successivo: questa la summa del suo discorso.

Il che può anche starci, visto che Lappartient difende un prodotto gestito dell’UCI, ma il tutto ha preso altre pieghe quando all’interno di questa polemica ha inserito il nome di Thibau Nys, gioiellino rampante della Baloise-Trek-Lion e del cross belga.

Dendermonde, senza Van Empel e Pieterse era presumibile che Alvarado (in basso a destra) avrebbe vinto a mani basse
Dendermonde, senza Van Empel e Pieterse era presumibile che Alvarado (in basso a destra) avrebbe vinto a mani basse

La pietra dello scandalo

Il giovane Nys già da tempo aveva annunciato la sua assenza a Dendermonde, terza tappa della CdM, mentre era stato presente al Superprestige il giorno prima. Che poi è un po’ quel che avevano fatto altri big, in questo caso parliamo di due donne, Fem Van Empel e Puk Pieterse, solo che loro non avevano preferito un circuito “privato”, il Superprestige, a quello dell’UCI.

«E’ anche giusto che i ragazzi si riposino. Devono tirare il fiato. Non ci faremo mettere pressione. Serve un confronto con l’UCI», ha detto Sven Nys, papà di Thibau. In un amen suo figlio è diventato il simbolo di una lotta, quando altri ragazzi hanno fatto come lui.

E indirettamente le difese sono arrivate in suo soccorso. Bart Wellens, manager della Circus-ReUz-Technord non è stato leggerissimo con l’UCI. Di fatto ha detto che se si è arrivati a questa situazione è perché la stessa Federazione internazionale ha voluto espandere troppo il calendario della Coppa. 

«Sapevano – ha detto Wellens – che sarebbe successo questo con tante gare. Quest’anno tutto è stato amplificato dai lunghi trasferimenti (la CdM è partita dagli Usa, ndr). Una volta desideravi di correre in Coppa, adesso no». E ancora: «Un mondiale è qualcosa di speciale, senza i migliori non ha senso».

Bart Wellens, manager della Circus-ReUz-Technord
Bart Wellens, manager della Circus-ReUz-Technord

Nessuno tocchi quei tre

“Senza i migliori non ha senso”. E’ stata questa la domanda che a tutti e ad ogni latitudine è venuta spontanea: come la mettiamo allora con Wout Van Aert, Tom Pidcock e Mathieu Van der Poel? Loro non hanno fatto neanche una corsa dall’inizio della stagione del ciclocross. E con grandi probabilità saranno ancora loro a giocarsi la maglia iridata (non Van Aert, che ha già detto non ci sarà). Ma il concetto resta.

E qui ecco la levata di scudi: guai a toccare quei tre. Olandesi, ma soprattutto belgi, sono stati compatti: «Come si può fare un mondiale senza di loro?». Se questi atleti ci regalano tante emozioni durante l’anno – non solo nel cross – è anche perché fanno una certa programmazione. Lo hanno detto i tifosi, i giornalisti e persino i corridori, vedasi Lars Van der Haar.

Fatto sta che pochi giorni prima Van der Poel aveva presentato il suo calendario di gare e martedì, ma siamo certi sia stata una coincidenza, Van Aert, ha presentato il suo. 

In Belgio dall’8 ottobre al 21 febbraio sono previste 34 gare (dalle nazionali in su)
In Belgio dall’8 ottobre al 21 febbraio sono previste 34 gare (dalle nazionali in su)

Calendario e realtà

Alla fine forse il giudizio più importante è quello che il cittì belga della strada e del ciclocross, Sven Vanthourenhout, ha dato in tv a Sporza. Un quadro tecnico diretto e chiaro: «Certo che ci piacerebbe sempre vedere Van Aert all’opera nel cross, ma dobbiamo renderci conto che il ciclocross non è più la professione principale di corridori come Wout, Van der Poel o Pidcock. Sebbene la gente ami il ciclocross, non vede l’ora di vederlo competere al Fiandre, al Tour o ai mondiali su strada. Ma correre ovunque e sempre, non è più possibile. Questo fa parte del passato».

Le parole di Vanthourenhout, sono state rafforzate da quelle dello stesso Wout in seguito alla presentazione del suo calendario: «L’anno scorso ho trovato mentalmente difficile concentrarmi sulla stagione del ciclocross per poi passare subito alla primavera. Quest’anno non voglio lasciare nulla al caso per le classiche».

La polemica è in corso. Ora si aspetta il dibattito, ma appare chiaro che bisognerà rivedere soprattutto i numeri degli impegni. Tutti.

L’unica cosa che ci sentiamo di aggiungere, ma questa è una nostra sensazione, è che non sia stato un caso che Lappartient abbia tuonato proprio quando la “sua” Coppa faceva tappa in Belgio, a Dendermonde. E con il Superprestige di mezzo. Così come non è stato un caso mettere nel calderone un corridore belga, appunto Nys. Sappiamo infatti quanto sia importante il cross da queste parti e quanto sia “venerato” il Superprestige. E’ stato un colpo diretto a chi organizza troppe gare? Insomma le Federazioni che funzionano e “fanno cartello” infastidiscono l’UCI, che evidentemente ha meno controllo diretto.