Alla cena in cui si è chiusa la lunga storia della Zalf Fior, Davide De Pretto si è ritrovato in mezzo a volti invecchiati che non conosceva e nomi di cui invece aveva certamente sentito parlare. Fu proprio Luciano Rui, nel raccontarci quella serata, ad accorgersi della differenza generazionale fra il vicentino di 22 anni e i suoi ragazzi del 1970 e anche prima. Eppure erano tutti lì, ciascuno con il suo pezzetto da ricordare e che ha ricomposto per l’ultima volta i 43 anni di una storia fuori dal comune.
«La Zalf ha aiutato molto la mia crescita – ci ha raccontato Davide nel ritiro di Altea, in Spagna – quando sono arrivato dalla Beltrami, che ero un po’ deluso dalla stagione. Invece sono entrato nella nuova squadra, ho visto un gruppo molto unito e sono subito riuscito ad emergere. Mi dispiace che abbia chiuso perché penso sia stata importante per ogni corridore che ha indossato la sua maglia. Però nel ciclismo di adesso, tutto corre veloce. Le devo team estere sono le squadre più importanti, quindi quelle italiane fanno anche fatica a recuperare i corridori forti per fare risultato. E’ stata una scelta forse inevitabile, dovuta».
Si dice che le squadre under 23 italiane non preparino effettivamente i corridori, tu sei arrivato qui senza le basi oppure te la sei cavata?
Diciamo che sono stato fortunato in una squadra come questa, perché avevo fatto dei risultati importanti come al Belvedere e alla Liegi. Però diciamo che mi mancavano le corse a tappe e non ero pronto come i corridori delle devo, che fanno già corse di un certo livello. Forse questo è stato anche il miglioramento che ho avuto quest’anno, facendo delle corse a tappe dove sono migliorato molto. E’ sempre un terno al lotto. Può essere che magari sei tanto preparato, quindi passi e non lo dimostri, oppure sei poco preparato, passi e fai valere le tue qualità.
Ti sei stupito della tua velocità di adattamento e dei risultati di quest’anno?
Sì, sono stupito perché dalla prima gara in Spagna e anche nel ritiro di gennaio ero andato bene, mentre ricordavo l’esperienza che avevo fatto con la Beltrami da under 23, in cui il professionismo mi sembrava un mondo irraggiungibile. Essere arrivato davanti in una gara, sia pure di seconda fascia, mi ha dato qualcosa in più anche per tutta la stagione.
Aver vinto al Tour of Austria ha fatto scattare qualcosa?
Era tanto che la inseguivo. Ho iniziato la stagione subito bene, sempre con qualche podio e qualche piazzamento nei cinque. Mi è mancata alla Coppi e Bartali, ma ero sempre piazzato. Fatalità, è arrivata al Tour of Austria che proprio non me l’aspettavo. Era uno sprint di gruppo, mi sono trovato davanti, ho fatto lo sprint e sono riuscito a vincere. Da lì mi sono sbloccato nei professionisti e mi ha dato la motivazione per continuare la stagione e adesso per affrontarne anche un’altra altrettanto positiva.
Quanto è impegnativo essere corridore e riuscire a mantenere tutti gli impegni cui siete chiamati?
È difficile, perché adesso il ciclismo è composto da tanti elementi collegati fra loro. Quindi se non segui tutto quello che ti dicono, non riesci a rendere come dovresti. Non riesci a raggiungere il 100 per cento nei periodi in cui è necessario esserlo. Ed è così impegnativo per ogni mese.
L’appetito vien mangiando per cui si punta in alto?
Certamente. Mi aspetto di migliorare ancora di più rispetto a quest’anno, perché penso di essere cresciuto man mano che passava la stagione. Ho chiuso il 2024 con buoni risultati e in buona forma, quindi sono riuscito a riposare bene e sono ripartito con più voglia di prima. Mi aspetto di fare una stagione importante.
Hai qualcosa da migliorare prima che inizino davvero le corse?
Ne parlavo con Pinotti, il mio preparatore. Quest’anno ho fatto tanti piazzamenti, ma mi è mancato sempre qualcosa allo sprint per riuscire a vincere le volate ristrette. Per cui adesso stiamo lavorando inserendo un po’ più di palestra per migliorare l’esplosività e trasformare i piazzamenti in vittorie.
Rileggendo la tua storia recente col senno di poi, mollare il ciclocross era una necessità inevitabile?
Per come è adesso, sì. Ero arrivato a un bivio. Potevo trasferirmi in Belgio e proseguire in una squadra belga, facendo tutto lassù dalla A alla Z. Oppure potevo scegliere la strada, che secondo me è quella che ti dà più da mangiare, a meno che non sei uno fra i primi dieci al mondo nel cross. Per cui penso sia stata la scelta migliore.
Il 2025 del giovane De Pretto comincerà il 15 gennaio con il secondo training camp del Team Jayco-AlUla. Da lì, passate le due settimane in cui gli allenamenti diventeranno importanti, il veneto punterà sulle prime corse proprio in Spagna. E così, dopo le vacanze in Kenya di novembre a suo dire troppo brevi fra safari e spiaggia, il primo training camp e il Natale alle spalle, con il nuovo anno si inizierà a fa salire i giri del motore. E a inseguire nuovamente la vittoria, che darà il senso di tanto tenere duro.
Affini e Sobrero sono stati ieri gli altri due cronoman azzurri. Divisi da soli 6 secondi, sono stati traditi dal fuso orario (Affini) e dal vento (Sobrero)
Nei giorni di Calpe abbiamo visto un bel viavai in casa Jayco-AlUla. Marco Pinotti, uno dei preparatori più esperti in assoluto e del team, ci parla del riassetto che sta vivendo appunto la sua squadra. Sono infatti partiti due allenatori, Alex Camier e Daniel Healy, e ne sono arrivati altri due: Fabio Baronti e Christian Schrot(in apertura foto @GreenEDGECycling).
Ma i cambiamenti non si sono limitati ai nomi. Sono cambiate anche alcune mansioni, sono state riviste alcune logistiche ed è arrivato un nuovo team di sviluppo, la Hagens Berman di Axel Merckx. Non c’è più una gerarchia verticale, ma come ha detto Pinotti: «Una struttura orizzontale».
Marco, partiamo da te. Stai assumendo un ruolo sempre più importante per quel che riguarda i preparatori e il reparto della performance, è così?
In realtà cerco di diminuire le parti di allenamento e preparazione perché sono sempre più coinvolto nei materiali. Però con gli atleti con cui ho iniziato a lavorare continuo. Faccio fatica a prenderne di nuovi. Tra uomini e donne il carico è più o meno uguale a quello degli altri anni.
E quanti ne hai in tutto?
Sei. Quattro uomini e due donne.
Abbiamo visto un bel movimento sul fronte dello staff legato alla performance: adesso quanti siete voi coach?
Sei in tutto. Anzi, sei e mezzo! Visto che uno, Andrew Smith, è anche un diesse e allena un paio di atleti. Quindi ci siamo io, Fabio Baronti, Christian Schrot, che sono i due nuovi arrivati, Peter Leo, Joshua James Hunt e Briant Stephens.
Due profili nuovi e che avevano a che fare con i giovani. Perché?
Non è stata una ricerca di coach giovani o che avessero a che fare con i giovani in senso stretto. Christian Schrot era responsabile della squadra juniores della Red Bull-Bora, l’Auto Eder, mentre Fabio Baronti veniva da un team di sviluppo, il CTF. Cercavamo dei coach con competenze che potessero andare bene per lavorare anche con i giovani e con i professionisti. Baronti, ad esempio, mi è stato segnalato. Ci siamo incontrati al Giro d’Italia, ho avuto una buona impressione e l’ho proposto al team. Poi da qui ad entrare a fare parte della squadra un po’ ci è voluto. Entrambi sono stati scelti per le loro “skills”, qualità e competenze.
C’è una gerarchia tra voi coach?
Non più. Abbiamo una struttura orizzontale. Ogni coach è responsabile di un progetto specifico. Però, per molte cose fanno riferimento a me, perché sono qui da più tempo. Non c’è un head coach vero e proprio. Abbiamo cambiato nel corso della passata stagione. Abbiamo visto che stava funzionando bene e per ora manteniamo questo assetto. Poi magari, se le cose non andranno bene, rivedremo il tutto.
E come sono divise le responsabilità?
Ognuno ha un campo di responsabilità. Io, ad esempio, mi occupo dei materiali e dei progetti legati alla cronometro. Un’altro è più improntato sulle classiche. Un altro coach si occupa della logistica dei training camp, un altro dello sviluppo dei giovani. Ogni coach è anche responsabile di uno o più camp.
Un bel cambio insomma…
Sì, abbiamo assegnato responsabilità più definite. Prima il coach allenava e basta. Ora c’è una programmazione più strutturata: i camp sono decisi con un anno di anticipo e le date sono chiare per tutti. Quando sono arrivato, i corridori avevano molta libertà. Ad esempio, Simon Yates non partecipava ai camp di gennaio e in altri andava per conto suo. Idem Groenewegen. Per un Tour ad un certo punto avevamo tre gruppi in altrettanti camp. Ora cerchiamo di avere tutti insieme, con alcune eccezioni come gli australiani che gareggiano a dicembre-gennaio. Ma non è stato il solo cambiamento.
Cioè?
Abbiamo standardizzato i test. Adesso abbiamo lo stesso protocollo di test per la squadra WorldTour e per la devo, sia maschile che femminile. Non facciamo lo stesso test a uno scalatore e a un velocista, ma tra corridori dello stesso tipo il protocollo è identico. Questo permette confronti tra atleti e tra squadre.
I test sono su strada o in laboratorio?
Sono su strada e includono sia test incrementali che profili di potenza. Abbiamo test per lo sprint e test specifici per le caratteristiche dei corridori. Più ci avviciniamo alla stagione, più i test diventano settoriali. Per esempio: ora tutti hanno fatto il classico incrementale, utile per stabilire le zone di allenamento, ma a gennaio e man mano che si avvicinano le gare ognuno farà il test per le sue caratteristiche.
Riguardo al devo team, come gestite il fronte della preparazione: sorvegliate o intervenite di persona?
Abbiamo una reportistica programmata tra le due squadre, ma loro hanno un loro coach, Jen Van Beylen, che da danni era nella Hagens Berman. Nel nostro calendario gare però ci sono posti assegnati per i corridori della development anche in alcune corse WorldTour. In base alle esigenze ci diranno loro chi possono mandarci.
I giorni del primo ritiro stagionale in casa Jayco-AlUla scorrono velocemente sotto al sole caldo della Spagna. Lo staff e i corridori lavorano guardando al futuro e intanto gettano le basi per far sì che tutto scorra liscio. Tra le novità del team australiano c’è sicuramente l’arrivo di Fabio Baronti, che ricoprirà il ruolo di coach insieme a Pinotti e altri colleghi. Il veneto, trapiantato in Friuli e arrivato nel ciclismo grazie al CTF di Roberto Bressan, vive queste ore con gioia e una voglia matta di fare. Caratteristica tipica di chi arriva in un contesto nuovo e non vede l’ora di dimostrare che tanta fiducia è meritata.
«Mi sono ambientato – ci racconta Fabio Baronti in un giovedì di “pausa” – siamo arrivati cinque giorni fa, l’8 dicembre. Abbiamo fatto un meeting per conoscerci e impostare il lavoro, poi il 10 dicembre sono arrivati i ragazzi. Lunedì prossimo, il 16, torneremo a casa per ritornare in Spagna a gennaio. Tra noi membri dello staff si è optato per fare un meeting conoscitivo a Bergamo qualche settimana fa. C’erano tutti i coach compresi i due nuovi, ovvero io e un altro ragazzo».
Un’altra vita
Quella che sta per iniziare Fabio Baronti è un’altra vita, sicuramente dal punto di vista sportivo tante cose cambieranno. Entrare a far parte dello staff di un team WorldTour in giovane età non è un caso, in certi ambiti i meriti sono addirittura doppi. La Jayco-AlUla ha cambiato qualche corridore durante l’inverno, forse una delle realtà che ha cambiato di più.
«Sono arrivati dieci nuovi atleti rispetto all’anno scorso. Ma per me è come se fossero 30 – dice con voce simpatica Baronti – anzi 29 visto che conoscevo già Ale (Alessandro De Marchi, ndr). Alcuni li conosco già perché li ho trovati da avversari con il CTF tra gli under 23. In queste prime uscite li abbiamo seguiti da vicino, per noi coach è importante vederli pedalare e prendere informazioni».
Che effetto fa entrare nel WorldTour?
Bello, è parte del percorso di crescita personale e lavorativa. Al CTF ho trovato una famiglia vera, nella quale sono entrato e ho avuto modo di apprezzare le persone e il clima. Qui alla Jayco-AlUla tutto è più professionale e ognuno ha il suo ruolo. Si vive in maniera più precisa e analitica. Il gruppo dello staff è enorme, tra squadra maschile e femminile siamo in 156.
I colleghi, come sono?
Lo zoccolo duro è sempre lo stesso, nel quale la figura di riferimento un po’ generale è Pinotti. Sono arrivato in un ambiente dove tutti sono pronti, preparati ma anche aperti al confronto. Già da subito ho percepito di poter dare qualcosa.
Che cosa?
Non sono qui per adattarmi a un metodo di lavoro, ma per metterci del mio. Lavorerò sia con il team maschile che femminile, curando il training camp per il Giro d’Italia insieme a Pinotti. Essere accanto a una figura come la sua è uno stimolo importante, credo sia anche un bella dimostrazione di fiducia. Più avanti io e lui faremo dei test sull’aerodinamica.
Come sei arrivato da loro?
Ho parlato con Pinotti a maggio, durante il Giro d’Italia. Durante tutta la stagione siamo rimasti in contatto, mi ha detto che la squadra aveva intenzione di cambiare e rinnovarsi nel reparto performance. Il fatto che venissi da un team giovanile secondo me ha giocato un ruolo chiave.
Lavorerai anche con i ragazzi del devo team, la Hagens Berman?
Non direttamente, se qualche ragazzo avrà modo di venire con noi o di essere sottoposto a dei test saremo noi a farlo. Ma loro avranno un coach.
In che modo lavorerai?
Avrò un piccolo gruppo di tre o quattro atleti con i quali lavorerò direttamente. Ma poi ognuno di noi coach sarà a disposizione degli altri e curerà delle parti della stagione. Avere a che fare con corridori esperti, alcuni anche più grandi di me (Fabio Baronti ha 29 anni, ndr) mi permette di avere un rapporto diverso, di confronto. Al CTF dovevo insegnare ai ragazzi come essere ciclisti a 360 gradi, qui mi occupo solo della parte performance.
Un rapporto più diretto?
Sicuramente avere corridori esperti mi permette di ricevere feedback più profondi e capire come muovermi. Insomma, si ottimizza il lavoro. Non sarò più in ammiraglia, magari in futuro prenderò il patentino UCI. Anche se credo che arrivati a un certo livello sia meglio dividere i compiti.
Non resta che farti un grande in bocca al lupo per questa nuova avventura.
ALTEA (Spagna) – Bisogna prepararsi per una Paternoster 3.0. Dopo aver parlato con la trentina nel ritiro del Team Jayco-AlUla, la sensazione è quella di una determinazione nuova, che poggia su una preparazione più strutturata e sostanziosa. La presenza di Marco Pinotti sarà più incisiva e l’apporto dell’ingegnere bergamasco, che già nel 2024 aveva portato una ventata di aria nuova fino alla prima vittoria, promette di essere la base per una svolta decisiva.
Letizia sorride, come al termine di un percorso faticoso che l’ha messa alla prova in modo importante. E ora che i nodi sembrano finalmente sciolti, il futuro e le corse sembrano un luogo protetto in cui essere se stessa senza dover per forza indossare i panni del personaggio che si è cucita addosso negli anni.
«Qua mi vogliono tutti bene – annota – e ci tengono tanto a me. Veramente si curano di me come persona e anche le compagne attorno mi fanno sentire apprezzata ogni giorno. E’ come se mi trasmettessero tutta la bella energia che hanno e questo conta tanto anche in gara».
Lo abbiamo già visto in primavera al Nord. Una Letizia molto più guerriera di quella cui eravamo abituati…
Per me non è stata una scoperta assoluta. Conosco le potenzialità che posso avere su strada, perché le avevo mostrate appena passata. Ovviamente era solamente questione di ritrovare quella che ero. Allora avevo solo 19 anni. Ora che sono cresciuta, fra la maturazione fisica e l’esperienza, posso sicuramente puntare un po’ più in alto. Perciò ci ho creduto, ma quello che abbiamo visto nella scorsa stagione è stata una sorpresa anche per me. Non mi aspettavo di essere migliorata così tanto. Per questo sono carica, non vedo l’ora di affrontare le corse. Ci credo veramente tanto. Perché l’ho già fatto e ora credo anche di poterlo fare ancora meglio.
Perché?
Perché l’anno scorso sono arrivata senza un’aspettativa e una preparazione adeguata al 100 per cento. Poi si sa, nel ciclismo tutto può succedere, però voglio pensare che se faccio tutto nel modo giusto, può accadere qualcosa di veramente magico.
Lo scorso anno hai cominciato a lavorare con Pinotti, la collaborazione continua?
Marco è super, cura i dettagli al 100 per cento. E’ un ingegnere e si vede nel modo in cui fa le cose. Quando parla, so che quello che dice è reale. Non dice una parola in più né una in meno. Guarda ogni allenamento in tempo reale: io torno e prima di ripartire il giorno dopo ho già i suoi feedback. Mi dice che magari in un certo tratto potevo fare qualche pedalata di più, vede particolari incredibili. E allo stesso tempo riesce a trasmettermi calma e serenità e questo con me fa tanto.
Ha aumentato le quantità di lavoro? Lo scorso anno proprio Marco ci disse che per l’attività che dovevi fare, ti allenavi ancora poco…
Effettivamente lui sta sempre avanti, sempre al passo con gli studi. Il ciclismo ha avuto un’evoluzione sotto tutti gli aspetti. E’ vero che ho aumentato tutto da quando lavoro con lui ed effettivamente i risultati sono tangibili.
E’ vero che proprio Marco ti ha suggerito di fare un pensiero alla Sanremo?
E’ un grande obiettivo. Appena hanno confermato che si farà, mi ha chiamato e mi ha detto: «Lo sai che si farà la Milano-Sanremo?». Gli ho chiesto che cosa ne pensasse e lui mi ha detto che bisognava farci un bel circoletto attorno. In pochi minuti è andato a studiarsi le prime cose, per cui di sicuro ci si prova. Si sa che poi il livello della competizione sarà altissimo. E’ una corsa che può piacere alla Longo Borghini, a Lotte Kopecky, la Wiebes e anche alla Vollering. C’è un bel gruppo di ragazze che possono veramente fare bene, però perché non pensarci?
E perché non pensare anche di riprendersi il posto che avevi da junior?
Esattamente, è proprio quello che voglio fare.
Da dove nasce questo sorriso?
E’ dicembre e non sono mai partita a dicembre con un livello così alto, ne parlavo proprio prima con Marco. Siamo felici, stiamo lavorando nella direzione giusta. Ho fatto una off-season adeguata e quindi stiamo costruendo il mio percorso. Davvero non vedo l’ora di cominciare.
Qualche giorno fa, Fabio Baldato ha rivelato che, nel finale di stagione, la sua UAE Emirates puntava al record assoluto di vittorie in una singola annata. Ci sono andati vicini, fermandosi a quattro lunghezze dal superbo bottino del Team Columbia – HTC.
Era il 2009, un anno davvero straordinario per la squadra statunitense, che concluse la stagione con uno storico record di 85 vittorie su strada, un’impresa che ha segnato un’epoca nel ciclismo moderno. La squadra, guidata dal carismatico direttore sportivo Bob Stapleton, dimostrò una versatilità senza precedenti, con successi ottenuti da 16 corridori diversi e in gare di ogni tipo: dalle classiche alle corse a tappe, passando per gli sprint più spettacolari.
Cav più Greipel, uguale 43
Il mattatore indiscusso di quel team, e di quell’anno, fu senza dubbio Mark Cavendish, autore di ben 23 vittorie. Lo sprinter dell’Isola di Man dominò le volate con una superiorità schiacciante, imponendosi come il velocista più forte al mondo. Tra i suoi trionfi spiccano le sei tappe al Tour de France, culminate con l’iconica vittoria sugli Champs-Elysees, la Milano-Sanremo e numerosi altri successi nel calendario WorldTour.
Cavendish vinse almeno una tappa in ogni corsa a tappe a cui partecipò, inclusi tre successi al Giro d’Italia. Fu, di fatto, il suo miglior anno in termini di vittorie, anche se il titolo mondiale arrivò due anni dopo.
E André Greipel? Oltre a Cavendish, il Team Columbia-HTC brillò grazie ad André Greipel, che non fu da meno con 20 successi. Il “tedescone” impressionò vincendo in Australia a gennaio e chiudendo la stagione con un trionfo a metà ottobre in Francia. Solo loro due totalizzarono 43 vittorie, un risultato straordinario. Merito anche del formidabile ultimo uomo Mark Renshaw, che non vinse alcuna gara in quell’anno, ma fu determinante nella costruzione dei successi della squadra. In questo “treno” di velocisti non va dimenticato il giovane talento Edvald Boasson Hagen, che raccolse 13 vittorie, tra cui la Gand-Wevelgem e una tappa al Giro.
Quanto talento
E poi c’erano tutti gli altri. Nel 2009 si mise in luce un giovane Tony Martin, che sfoggiò prestazioni eccezionali a cronometro e cominciò a costruire la sua carriera da specialista, battendo avversari come Fabian Cancellara al Giro di Svizzera.
Il team Columbia-HTC eccelse anche nelle cronometro, ottenendo numerosi titoli nei campionati nazionali.
Tra questi, spicca il successo di Marco Pinotti, che racconta: «Il seme di quel team nacque nell’inverno 2007-2008, dopo il ritiro della T-Mobile. La squadra era già formata, ma rimase scoperta per un po’. Bob Stapleton, il team manager, cambiò la mentalità. Eravamo un gruppo emergente di giovani, anche se io non ero più giovanissimo, avevo 32 anni, ma uno spirito ancora fresco. Quel team era costruito per uomini veloci: Cavendish esplose l’anno prima e Greipel nel 2009. Tra i due c’era una sana competizione. Inoltre, vedendo come andarono le cose negli anni successivi, quel team era pieno di talento. Boasson Hagen, il giovanissimo Martin, Lofkvist (che vinse la Strade Bianche, ndr)… Ricordo che al Giro d’Italia 2009 vincemmo 5 tappe con 5 corridori diversi».
Pinotti tra i pilastri
Pinotti spiega anche come Michael Rogers e George Hincapie fossero i “capitani” naturali della squadra.
«Rogers per le corse a tappe e Hincapie soprattutto per le classiche. Non feci il Tour con lui, ma spesso eravamo insieme. Si era creato un bel clima e quel record di vittorie fu più una conseguenza che un obiettivo. Anche se ad un certo punto della stagione il nostro addetto stampa iniziò a evidenziarlo sempre di più nei report mensili. Lui contava oltre 100 vittorie includendo anche il team femminile».
La competitività interna era altissima: «Eravamo così tanti a voler vincere che in riunione quasi si litigava… in senso buono, ovviamente. Eravamo come la UAE oggi, con strategie diverse a seconda della presenza o meno di un velocista».
Quel giorno a Bergamo
Pinotti ricorda anche un’occasione mancata. La squadra vinse tanto, puntava soprattutto alle tappe e alle corse di un giorno, non aveva il leader assoluto per le corse a tappe, ma in questo continuo puntare ci fu spazio persino per qualche rimorso. Uno dei quali riguarda proprio Marco al Giro 2009.
«Una corsa che ho sul groppone? La tappa di Bergamo al Giro 2009. Vinse il mio compagno Siutsou, ma avrei voluto vincerla io. Conoscevo bene quelle strade, ero pronto a partire dopo un sottopassaggio a Nembro. Sapevo che quel punto era favorevole, ma nella discesa precedente Siutsou prese vantaggio. Anche lui conosceva quelle strade. Ero contento per lui, ma dispiaciuto per me».
Un modello di squadra
In quel 2009 il Team Columbia-HTC ha ridefinito gli standard di successo nel ciclismo moderno, dimostrando l’importanza di strategia, coesione e talento distribuito. Ancora oggi quell’annata è ricordata come una delle più dominanti nella storia del ciclismo su strada.
«Le vittorie della UAE Emirates hanno un peso diverso, perché ottenute in un ciclismo completamente cambiato. Ma la nostra fu una bella avventura», conclude Pinotti.
Anche sul fronte tecnico, quel team rappresentò un’innovazione. Le bici Scott utilizzate erano il frutto di ricerche avanzate, con un’attenzione particolare agli aspetti aerodinamici, mutuata dall’esperienza dell’azienda nello sci. Un approccio scientifico che, di lì a poco, avrebbe ispirato squadre come il Team Sky (oggi Ineos Grenadiers).
Incontro con Cavendish. L'obiettivo Tour ha riacceso il fuoco. I propositi di ritiro spazzati da Vinokourov e dai compagni. Per il ciclismo ha vero amore
Arnaud Demare (ma anche Guarnieri) finisce fuori tempo massimo. Solo per tutta la tappa, paga freddo e crisi del giorno prima. A Tignes come sul Calvario
IL PORTALE DEDICATO AL CICLISMO PROFESSIONISTICO SI ESTENDE A TUTTI GLI APPASSIONATI DELLE DUE RUOTE:
NASCE BICI.STYLE
bici.STYLE è la risorsa per essere sempre aggiornati su percorsi, notizie, tecnica, hotellerie, industria e salute
Remco Evenepoel ci ha anche scherzato su qualche giorno fa dopo aver rivisto il titolo iridato contro il tempo: «Per fortuna che ero sul gradino più alto del podio altrimenti con questi due spilungoni ai miei lati neanche sarei entrato nelle foto». I due spilungoni erano Filippo Ganna ed Edoardo Affini, entrambi più alti di un metro e 90. Ma questa frase ha sollevato una questione interessante: l’altezza è sempre sinonimo di forza?
Pensiamoci. L’ultimo cronoman di bassa statura di un certo livello fu Chris Boardman e forse Levi Leiphemer, il quale però prima di altri aveva intuito determinate posizioni, altrimenti il gesto della crono è sempre stato a favore dei passistoni alti. Gente che può sfruttare tanti muscoli e leve lunghe.
E tutto sommato anche a Zurigo tra gli juniores e gli under 23 hanno vinto corridori di statura elevata. E prima dell’era Remco bisogna scorrere appunto a Boardman, Catania 1994, per trovare un iridato contro il tempo più basso di un metro e 75 centimetri. Ricordiamo che Remco Evenepoel è alto 171 centimetri.
Sentiamo Malori
La stazza quindi conta? E fino a che punto? Ne abbiamo parlato con i due italiani forse più esperti in materia: Adriano Malori e Marco Pinotti.
«Remco è piccolo, è vero – spiega Malori, 1,82 di statura – ma quel che conta è la muscolatura. Torniamo indietro di qualche anno. C’era Cancellara che vinceva poi venne Tony Martin. Lui era due spanne più alto, ma al tempo stessa aveva quadricipiti enormi e spalle strettissime. E per questo guadagnava: era super aerodinamico. O al contrario, prendiamo Enric Mas: anche lui è alto, ha leve lunghe e potrebbe andare forte a crono, ma non ha la stessa muscolatura di Remco. E ancora Castroviejo, che è alto 1,71. Lui è forse in assoluto il corridore più aerodinamico come posizione che abbia visto. E’ molto schiacciato, grazie anche alla sua elasticità, ma non ha la stessa potenza e spalle tanto strette, quindi perde qualcosa rispetto a Remco e agli specialisti».
Il fisico di Remco
Malori entra nel dettaglio dell’analisi della fisionomia di Evenepoel. Remco è un brevilineo: «Ma anche le braccia relativamente lunghe e questo unito alle spalle più piccole rispetto ai cronoman puri gli consente di distendersi e chiudersi bene. Ecco quindi che ha il fisico perfetto per andare forte a crono. Non solo, ma questa sua caratteristiche si riscontra anche su strada. Perché quando attacca a 60 chilometri dall’arrivo fanno fatica riprenderlo? Perché è potente e super aerodinamico».
Facendo un passo indietro e ipotizzando un paragone con gli specialisti degli anni ’90, per Malori gli sviluppi aerodinamici e le nuove posizioni lo hanno agevolato.
«Consentite infine un commento alla crono iridata. Ganna ha perso il mondiale per 6”, io sono convinto che sia andata così perché il percorso non era del tutto per specialisti. C’era una salita piuttosto impegnativa. E lì Pippo ha pagato non solo in termini di tempo, ma anche di dispendio energetico. Pensateci, l’ultimo vero percorso a crono per specialisti tra mondiali ed olimpiadi qual è stato? Quello delle Fiandre 2021 e chi ha vinto?». La risposta è implicita e dice proprio Ganna.
Parola a Pinotti
Da Malori passiamo a coach Marco Pinotti. Una brevilineo tra gli spilungoni. «Parlo dei mio caso – dice Pinotti, alto 1,76 – e nel contesto dei miei tempi. Io non avevo una grande potenza assoluta, ma avevo una buona posizione, una posizione stabile che mi consentiva di spingere bene. Remco oltre ad avere un cda (coefficiente aerodinamico, ndr) ottimo, ha anche un grande motore, una grande potenza, che unito ad un’ottima posizione ne fa un grande cronoman».
La sua abilità in questa disciplina quindi da dove viene? E’ un fattore di watt, di aerodinamica, di posizione…
«Per me è di posizione e di conseguenza di aerodinamica. Certamente Evenepoel è un cronoman atipico. Ha il busto corto, una gabbia toracica importante e quadricipiti possenti: tutto ciò lo rende particolarmente adatto al tipo di sforzo che richiede una prova contro il tempo. Chiaro che i watt assoluti contano: un cronoman di alta statura ha più muscoli, più forza, più leva… Remco non avrà mai gli stessi watt di Ganna. Il fatto è che lui ha i watt di un atleta di 65-67 chili, pure essendo più leggero (60-61 chili, ndr). E poi pensiamo a come va in pianura anche su strada».
Punti di vista
E qui Pinotti ripete esattamente quel che ha detto Malori prima: Remco è aerodinamico “per natura” e per questo riesce ad andare via quando è in fuga. Mentre va in disaccordo con Malori quando si parla di regole.
Secondo Malori le quote fisse, come la distanza fra linea del movimento centrale e punta delle appendici, svantaggiano gli atleti più alti: «In alcuni casi si vede che Ganna è sacrificato in certe posizioni – spiega Adriano – e tutti questi studi sull’aerodinamica, l’evoluzione dei materiali lo hanno aiutato ad ottimizzare la sua potenza». Mentre per Pinotti il ritocco ai regolamenti ha ridato vantaggio anche a questi ultimi e che tutto sommato Remco sarebbe stato Remco anche con materiali e posizioni meno aero.
«Io penso – conclude Pinotti – che la forza di Remco a crono dipenda molto dalla sua posizione. Fate caso a quanto è stabile. Se non fosse per le curve, sulla sua schiena potresti mettere un bicchiere d’acqua e quello non si muoverebbe, questo perché è riuscito a riportare i test in galleria su strada. Tanti in galleria del vento ottengono buone posizioni, ma poi su strada si muovono e molto di quel lavoro decade. Io credo che questa sua stabilità dipenda anche da una buona forza nella parte alta del corpo: spalle, braccia… che gli consentono di sostenersi bene».
Insomma, la regola che il cronoman debba essere alto e potente resta valida: leve lunghe e watt assoluti hanno ancora il loro perché. Poi la cura dell’aerodinamica può aiutare, certamente, ma è Remco Evenepoel la vera eccezione.
Spesso abbiamo visto in quest’ultimo Tour de France gli atleti cambiare rapporti e anche al Giro d’Italia Women le cose non sono andate diversamente. Addirittura c’è chi, come Mavi Garcia, ci hanno spiegato che ha una sorta di linea di demarcazione circa la scelta degli ingranaggi da spingere. Sopra ai 2.000 metri opta per la corona da 36 denti, al di sotto lascia la tradizionale corona da 40.
Questa regola vale per tutti? C’è una formula ben precisa? Ne parliamo con Marco Pinotti, tecnico proprio in forza alla Jayco-AlUladove corre guarda caso anche la stessa Garcia, che ha dato un po’ il “la” a questo argomento.
Tu, Marco, sei sia un coach che un ingegnere, quindi molto attento anche alla scelta dei materiali: cosa ci dici di questo “split” del dislivello come discriminante per la scelta dei rapporti?
Oggi tutto è molto standard, quindi non è così facile cambiare. Prima la guarnitura classica era con il 53-39, adesso è con il 54-40 però più che dal dislivello la scelta dipende dal percorso. Se ci sono 4.000 metri di livello, però le salite sono pedalabili e ci sono anche tante discese io tengo il 54-40, anzi, magari metto il 55. Uno pensa solo alle salite ma ci sono anche le discese. E poi com’è l’arrivo? Veloce, tira a scendere? O al contrario sale?
Quindi non esiste una formula che faccia da spartiacque insomma…
No, ripeto comanda il percorso. Il dislivello non può e non sempre dice tutto. Magari l’intera tappa ha solo 1.200 metri di dislivello, ma il finale è su uno strappo al 20 per cento e lì ti serve il 36. Magari potresti montare il 52, ma solo perché è più facile e meno rischiosa la cambiata. Semmai c’è uno standard di rapporti per cui ti alleni.
Cioè?
Magari fai il 95 per cento dei tuoi allenamenti con determinati rapporti e il restante 5 provi altro. In ogni caso non è il dislivello che conta, ma più le pendenze. E in questo caso l’esigenza di provare altro.
In questa scelta, Marco, sono più sensibili gli uomini o le donne?
Dipende dai singoli atleti. Diciamo che con le donne forse serve un pizzico in più di attenzione: hanno meno forza quindi i rapporti sono un pochino più agili in generale. E lo sono anche perché sviluppando velocità più basse, per forza di cose per mantenere una certa cadenza vanno alla ricerca di rapporti più corti. Quindi magari loro quando ci sono frazioni dure tendono a cambiare un po’ di più (a ridurre le corone soprattutto, ndr)
L’avvento delle scale ampie come l’11-30 o ancora di più l’11-34, ha inciso nelle scelte tecniche?
Certo, sia perché i salti tra un dente e l’altro sono più ampi, sia perché di base si cambiano molto meno le scale posteriori. In più va detto con le 12 velocità anche questi salti si sono ridotti. E questo è molto comodo per meccanici e atleti che ad ogni tappa non devono stare lì a trafficare con il pacco pignoni.
C’è stato un caso in cui ti sei un po’ trovato al limite con la scelta dei rapporti per i tuoi atleti?
Su strada ormai no, proprio per il discorso appena fatto dell’ampio range delle dentature moderne. A crono invece un po’ sì. Forse in qualche caso il monocorona con l’11-34 può essere un po’ atipico. Penso forse alla crono dell’anno scorso al Tour.
Perché?
Avevi magari un plateau 58-42 il che rappresenta un bel salto, sono 16 denti. E con quel dislivello e quelle pendenze della crono di Combloux la scelta non era scontata. E infatti noi allertammo un po’ i nostri corridori che scelsero la soluzione del 58-42. Gli dicemmo di stare un filo più tranquilli con la pedalata durante la cambiata, soprattutto quando la catena doveva salire dal 42 al 58. In discesa c’è il “dente di cane” e il rischio è poco, posto che comunque resta. Mentre in salita non è così scontato che stando del tutto in tiro questa salga facilmente.
Marco, nella scelta dei rapporti sono più sensibili i passisti o gli scalatori?
I velocisti, probabilmente. I passisti i rapporti li girano bene. I velocisti invece sono sensibili sia quando c’è da fare una volata che in salita.
Spiegaci meglio…
In volata sono molto attenti alle caratteristiche dell’arrivo: se tira, se è piatto, se c’è vento… Li vedi che sono lì a scegliere tra 56, 55, 54 o anche più se vogliono fare lo sprint con il 12. E lo stesso vale per quando devono affrontare le tappe in salita. Vanno alla ricerca di un rapporto che gli consenta di salire senza fare troppa fatica, o meglio: di far girare la gamba. Insomma è più facile trovare uno sprinter col 36 piuttosto che uno scalatore. E qui ritorniamo un po’ al discorso di prima delle velocità. In salita il velocista va più piano e cerca dentature più corte per fare cadenza.
Elena Cecchini si scuote, lascia la Canyon e si accasa alla Olandese SD Worx, voluta dall'iridata. Il 2020 è andato male, ma ora ha motivazioni a mille
IL PORTALE DEDICATO AL CICLISMO PROFESSIONISTICO SI ESTENDE A TUTTI GLI APPASSIONATI DELLE DUE RUOTE:
NASCE BICI.STYLE
bici.STYLE è la risorsa per essere sempre aggiornati su percorsi, notizie, tecnica, hotellerie, industria e salute
Si avvicina a grandi passi l’appuntamento olimpico, ma prima di chiudere la porta sul Tour, vogliamo condividere con voi alcuni approfondimenti. Uno riguarda la cronometro di Nizza, che ha suggellato il podio francese e a ben vedere avrà riflessi anche sulle sfide olimpiche di sabato. E’ singolare e insieme indicativo che il podio dell’ultima tappa abbia ricalcato alla perfezione quello finale. Evenepoel è stato al di sotto dei suoi standard di specialista? Va bene Pogacar, ma Vingegaard così forte era prevedibile anche contro il tempo?
A Nizza c’era anche Marco Pinotti, allenatore del Team Jayco-AlUla, che in carriera ha vinto per due volte l’ultima crono del Giro. Nel 2008, battendo Tony Martin a Milano su un percorso velocissimo: 51,298 di media. Nel 2012, battendo Geraint Thomas ancora a Milano, a 51,118 di media. Proprio in quest’ultimo caso, la maglia rosa si giocò in quell’ultima tappa, con Hesjedal che recuperò i 31 secondi di ritardo da Purito Rodiguez e conquistò il Giro con vantaggio finale di 16 secondi. Ugualmente, nella classifica di tappa finirono 6° e 26°.
«Il percorso dell’ultima crono – dice Pinotti – era meno adatto a Remco, rispetto a quella che ha vinto nella prima settimana. Era una crono dura e lui è finito terzo, perché ha perso la maggior parte del tempo nella prima parte, quella in salita. Nella parte finale invece, sei minuti tutti in pianura, lui ha fatto il miglior tempo. Secondo Campenaerts, terzo Matthews. Sesto in quel tratto è stato Vingegaard, mentre Pogacar addirittura ottavo o nono, però lui negli ultimi due chilometri ha rallentato. Quindi un parziale in linea con quello che ci saremmo aspettati in una crono piatta, cioè Remco più veloce».
Invece nei tratti precedenti?
Dal secondo al terzo intertempo c’era la discesa e Pogacar ha fatto il miglior tempo, perché abita lì. Jorgenson il secondo. Almeida, Buitrago e Tejada hanno fatto una bella discesa perché si giocavano il piazzamento. Sono andati bene anche Ciccone e Matthews, gente che ci vive o che ci ha vissuto. Remco è andato come Yates, che era in ritardo ai primi intermedi ma sempre intorno all’ottavo, nono posto e nell’ultimo tratto è scivolato tutto indietro. Nel senso che era in ritardo in salita e una volta che si è reso conto di non poter vincere la crono, non ha preso rischi. Si è visto che in discesa non era proprio lineare nelle curve.
Quindi un risultato che si poteva scrivere anche prima che corressero?
Alla fine di un Grande Giro è sempre così, quelli di classifica sono più performanti. Primo, perché ultimamente dedicano anche loro tanto tempo all’allenamento e all’aerodinamica. E poi perché quel percorso ha penalizzato gli specialisti. Campenaerts nell’altra crono era arrivato 5° a 52″ da Evenepoel: a Nizza invece è finito 13° a 3’14” da Pogacar. La prima non era una crono piatta, però Evenepoel l’ha fatta a 52,587 di media. A Nizza, Pogacar ha fatto 44,521, vuol dire che è stata dura. Quindi è normale che siano arrivati davanti quelli di classifica, che avevano più riserva. Specialisti non ce n’erano, tranne Campenaerts e Sobrero. Matteo mi ha detto di averla fatta a tutta. E’ arrivato 19° e con le forze che gli erano rimaste si è preso quasi 4 minuti.
Sobrero si è molto impegnato, ma era sfinito e ha subito un passivo di 3’55”Non era una crono per specialisti: Campenaerts (5° nella prima) si è piazzato 13° a 3’14”
In conferenza stampa Remco ha detto che la discesa era troppo pericolosa e avendo l’obiettivo delle Olimpiadi non ha voluto rischiare.
Può essere, perché la discesa non era semplicissima. Se uno abita lì e va a farla cinque volte al mese, è un’altra cosa. Non era pericolosa, però c’erano tantissime curve, dove se sei sicuro di poter lasciare i freni, guadagni 13-14 secondi. Invece nell’altra crono, Remco aveva fatto una bella discesa, perché magari l’aveva vista 2-3 volte come gli altri. E poi a Nizza, una volta che non aveva il miglior tempo in salita, cosa aveva da guadagnare a rischiare? Il terzo posto era consolidato e il secondo irraggiungibile. Avrà visto negli intertempi dov’era rispetto a Vingegaard, ha capito che la crono non la vinceva e ha deciso di non prendere rischi.
Secondo te chi ha puntato al cambio di bici ha fatto un passo falso?
C’era una strategia alternativa possibile: partire con la bici da strada e cambiarla in cima alla seconda salitella. Però c’erano 3 chilometri piatti all’inizio e già lì, con la bici da crono rispetto a quella da strada, guadagnavi minimo 15 secondi. Poi speri di riguadagnarli in salita con la bici più leggera? Può essere, ma sulla prima salita andavano a 24 di media, Pogacar anche a 28. A quelle velocità la bici da crono è ancora vantaggiosa. Altra cosa: noi abbiamo avuto da poco la bici da crono con i freni a disco. E se c’è un feedback che tutti mi hanno dato è di trovarsi meglio come guidabilità anche rispetto alla bici da strada. L’unico svantaggio resta il peso, perché una bici da crono pesa mediamente un paio di chili in più.
Pinotti ha seguito Durbridge che con la bici da crono ha… piegato la resistenza di DillierPinotti ha seguito Durbridge che con la bici da crono ha… piegato la resistenza di Dillier
Uno svantaggio che riesci a colmare con le velocità?
Vi faccio questo esempio. Io ho seguito Durbridge e avevamo davanti Silvan Dillier, che correva con la bici da strada e non andava certo a spasso. Vedendo come muoveva le spalle, si stava impegnando. Durbridge è andato regolare, eppure gli è arrivato sotto già sulla prima salita. Poi ha recuperato e in discesa Dillier con la bici da strada ci ha staccato perché noi siano andati prudenti. Ma quando siamo arrivati alla parte in pianura finale, si è messo a ruota irrispettoso delle regole, ma dopo un chilometro si è staccato. Lottavano per il 50° posto quindi non so neanche se avrà preso la penalità, però è stato divertente vedere questa differenza. Storia simile con Yates.
Cioè?
Ho seguito anche Simon e davanti a lui è partito Gall, che era 13° in classifica e ha scelto la bici da strada. Mi è sembrata una scelta assurda. Infatti, nonostante Yates avesse la bici da crono, lo ha preso sulla prima salita. L’ha passato in discesa e Gall non è più rientrato. E proprio a causa della crono ha perso una posizione. L’anno scorso a Combloux fu diverso, perché la crono era divisa in due: prima la pianura e poi quasi tutta salita. Però quando la velocità media è sopra il 23-24 all’ora, io prendo sempre la bici da crono.
Gall è partito con la bici da strada e poi ha cambiato, perdendo una posizioneQuelli che hanno usato solo la bici da strada hanno vissuto una crono a mezzo servizio: lui è Marco HallerGall è partito con la bici da strada e poi ha cambiato, perdendo una posizioneQuelli che hanno usato solo la bici da strada hanno vissuto una crono a mezzo servizio: lui è Marco Haller
I ragazzi ti hanno spiegato perché con i freni a disco la bici si guida meglio?
Prima quando avevi i freni rim e le ruote lenticolari o in carbonio, la frenata non era lineare. Adesso con i dischi è come sulla bici da strada. Prima era un problema cambiare da un giorno all’altro. Adesso frenano allo stesso modo, è un passaggio naturale. Corridori come Sobrero avevano la sensibilità per passare senza problemi da una all’altra, però la maggior parte è contenta di questo cambiamento. Adesso usano la stessa forza, staccano alla stessa distanza dalla curva e la frenata è più lineare.
Cambiando argomento, in casa UAE Emirates hanno sottolineato l’importanza della doppia guarnitura 46-60 con 11-34 dietro: perché secondo te?
Partiamo col dire che a Nizza serviva la doppia corona, la mono non andava bene. Se avessi dovuto scegliere, avrei voluto un 60-44, che per noi non era disponibile. Noi avevamo il 58 come corona più grande, l’ideale sarebbe stato un 60 o un 62, perché gli ultimi chilometri erano proprio veloci. Perciò Pogacar con il 60 è andato bene e in salita con il 46×34 era giusto. Secondo me aveva il 46-60 perché il limite del salto tra le due corone sono 14 denti. Io ho chiesto di avere il 44-60: se riescono, siamo a posto perché avremmo una copertura più grande di percorsi. Il 46×34 lo spingi bene, ma idealmente sarebbe meglio avere il 44×30, così ho una scala più lineare. Se metto il 34, uno fra il 17 e il 19 devo tenerlo fuori, invece con il 30 potrei rimetterlo. Però comunque il 46-60 è stato una buona scelta.
Questa la guarnitura 46-60 di Pogacar, prodotta da Carbon-Ti. Dietro lo sloveno aveva pignoni 11-30Questa la guarnitura 46-60 di Pogacar, prodotta da Carbon-Ti. Dietro lo sloveno aveva pignoni 11-30
Perché è stato giusto non usare la monocorona?
Si può usare quando c’è una strada molto veloce o una discesa. Però di solito, se c’è una discesa, prima c’è stata una salita. E se, come in questo caso, non è pedalabile, allora ti serve la doppia corona. Non puoi correre con il 62×38. Anche perché se usi il 62, già passare dal 13 al 14 è un bel salto rispetto a quando hai il 53. Se poi mi togli anche dei rapporti dietro e ne fai due ogni volta per montare il 38, finisce che ti serve anche una catena lunga un chilometro… Io sono più un fan della doppia corona.
Dipende anche dai percorsi?
Ormai mettono sempre sia la salita ripida che la discesa veloce, quindi devi avere l’opzione di due corone. La mono va bene nella crono di Desenzano al Giro, ma già in quella di Perugia secondo me non andava (Pogacar che ha vinto aveva la doppia, Ganna che ha fatto secondo aveva la monocorona, ndr). Le crono più belle in un Giro sono quelle dove ci sono salita e discesa. Diverso magari se si parla di una crono dei mondiali o delle Olimpiadi.
Se la crono finale è la prova delle energie residue, ha senso che Vingegaard sia arrivato secondoSe la crono finale è la prova delle energie residue, ha senso che Vingegaard sia arrivato secondo
L’anno scorso ai mondiali, la salitella al castello di Stirling premiò Evenepoel e penalizzò Ganna…
Sono scelte che fanno in base ai posti che devono raggiungere, cercando di non favorire i passisti o gli scalatori. Le Olimpiadi ad esempio quest’anno strizzano di più l’occhio agli specialisti, ma non so con quale criterio l’abbiano disegnata così. Chi organizza fa una proposta. Poi c’è una commissione che approva e penso che scelgano un percorso che possa creare la massima indecisione nella vittoria. In un Giro invece è diverso. E soprattutto la crono finale, se la fai dura, sai già che arriveranno davanti quelli di classifica. Al netto di ogni ragionamento, è così che va a finire.
Allo stesso modo in cui, vinto il Fiandre, Elisa Longo Borghini ha ringraziato Paolo Slongo, nelle parole di Letizia Paternoster è risuonato più volte quello di Marco Pinotti. La trentina non ha ancora vinto grandi corse su strada, ma è innegabile che rispetto allo scorso anno le prestazioni di questa primavera siano nettamente superiori. Per cui si è accesa la stessa curiosità. E come qualche giorno fa contattammo Paolo Slongo sul Teide, ora è la volta di Pinotti che risponde da Andorra. Si lavora in funzione del Giro d’Italia, i preparatori in questa fase hanno le loro tante cose da fare.
Letizia Paternoster è sempre stata allenata da Dario Broccardo, Maestro dello Sport che con Pinotti collaborò negli anni della BMC. Tutto quello che sa sulla cronometro a squadre, ammette onestamente il bergamasco, l’ha imparato dal tecnico trentino. Allora in che modo Marco è entrato nella routine della “Pater”?
«Ci tengo a confermare – inizia – che Letizia è sempre seguita da Broccardo. Ma io mi occupo di sovraintendere alla preparazione degli atleti, per cui quando lo scorso anno è arrivata, ho iniziato a seguire anche il suo lavoro. Devo dire che la prima sensazione era che non lavorasse abbastanza e soprattutto mi sono accorto che non caricava i file. Siccome non sono uno che le manda a dire, gliel’ho fatto presente e forse lei ha visto in questo una forma di attenzione. A un certo punto, all’inizio del nuovo anno, mi ha chiesto in che modo avrebbe potuto cambiare la preparazione. Voleva fare bene al Nord, ma era febbraio e non c’era tanto tempo. Io ho obiettato che avremmo dovuto parlarne con Broccardo, ma mi ha detto che lo avrebbe fatto lei. E così ho cominciato a darle qualche consiglio».
Crono di Monte Lussari al Giro 2023: Pinotti sulla moto alle spalle di Filippo ZanaCrono di Monte Lussari al Giro 2023: Pinotti sulla moto alle spalle di Filippo Zana
Parlando di te, Letizia ha fatto riferimenti alla necessità di crescere nell’esperienza e nella resistenza.
E ha ragione. E’ certamente un’atleta di talento, che però da solo non basta. Bisogna lavorare: gliel’ho detto subito. Si è visto alla Roubaix. Le sono mancati gli ultimi 20 chilometri, proprio perché non ha la resistenza di base necessaria. Ma ugualmente, anche se 21ª a 2’14”, è stata la migliore delle nostre e questo conferma il talento. Invece per il discorso dell’esperienza, mi chiedeva chi curare e come muoversi in gara.
E tu?
E io, consapevole che sia adatta a quelle corse, le ho dato qualche consiglio. Ero consapevole che non avessimo una squadra per chiudere sugli attacchi delle altre, soprattutto alla Roubaix, e che lei non potesse seguirle tutte. Al Fiandre siamo andati bene e tutto sommato anche alla Roubaix finché le gambe hanno tenuto.
Hai parlato di poco lavoro.
Quando mi ha cercato, sono stato un po’ duro. Le ho detto che non avrei voluto perdere tempo. Avevo visto da poco un suo file e c’era scritto che aveva fatto 5 ore a 90 watt medi. Davanti alla mia durezza, deve aver apprezzato il fatto che io guardassi quotidianamente il suo lavoro. Si è sentita supportata e si è rimboccata le maniche. Le manca l’abitudine a certe distanze, ma si sta impegnando e i risultati si iniziano a vedere.
Dario Broccardo, Maestro dello Sport trentino, è stato tecnico federale e ha collaborato con la BMC. Qui a Richmond 2015 con Oss e QuinziatoBroccardo è stato tecnico federale e ha collaborato con la BMC. Qui a Richmond 2015 con Oss e Quinziato
Sentendola parlare, è parsa un’atleta più consapevole.
E’ più matura, ma questo fa parte del processo di crescita. Sta imparando a fare le sue scelte, facciamo l’esempio della Roubaix. Dopo il Fiandre, avrebbe dovuto lavorare su pista. A noi come squadra è un discorso che interessa relativamente, ma ci siamo impegnati a lasciarla libera di andare. Invece lei ha deciso di voler tornare su per correre ancora. Mi ha detto che per Broccardo andava bene: ci ha parlato lei. Ha fatto un giorno in pista e poi è tornata al Nord.
In che modo state gestendo la preparazione olimpica?
Ho parlato con Dario. In questa fase stiamo valutando che non facendo il Giro d’Italia, Letizia potrebbe non avere un programma abbastanza importante in vista di Parigi. Come squadra, corriamo il Thuringen Ladies Tour con la Devo Tem, quindio lei non può partecipare. Quindi farebbe la Ride London e il Womens Tour, che è poco. Altre faranno un calendario più pesante di lei.
Nella Coppa del mondo di Milton, per Paternoster arriva l’argento nell’eliminazione (foto FCI)Nella Coppa del mondo di Milton, per Paternoster arriva l’argento nell’eliminazione (foto FCI)
Perché non può fare il Giro d’Italia?
Perché finisce il 14 luglio e non avrebbe tempo per fare i lavori specifici che servono per la pista.
Non credi che questa sovrapposizione con Broccardo potrebbe generare qualche confusione?
Dario la conosce da tempo e lei si fida. Non so come andrà avanti la collaborazione. Se mi chiederà consiglio, io glielo darò. Ma Dario è uno bravo e con lo studio può certamente tenersi al passo con le nuove tendenze della preparazione. Certo che Letizia ha bisogno di lavorare di più: quello che faceva prima non può assolutamente bastare.