EDITORIALE / Computer e compact: due facce del progresso

29.11.2021
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Che cosa faresti se ti dicessero che dovrai mettere giù i prossimi articoli con la macchina da scrivere e non più al computer? In fondo se proponi ai corridori di limitare i rapporti, dovresti valutare la stessa cosa nei tuoi confronti, no?

La macchina da scrivere

Se mi dicessero che d’ora in poi dovrò usare la macchina da scrivere, inizialmente avrò bisogno di più tempo. L’ho usata tanto da ragazzo, meno nel lavoro ma l’ho usata. M’è servita l’ultima volta per l’esame da professionista e così ogni volta che nelle sale stampa vedevo Gino Sala o Gianni Mura che continuavano a picchiarci sopra, capivo anche quel loro attaccamento e la resistenza strenua.

Serve più tempo. Servono dita allenate. Serve essere precisi per non dover strappare ogni volta il foglio e non dover usare il bianchetto. Serve conoscere la grammatica, perché non c’è il computer che ti segnala l’errore. Sparirebbe il copia e incolla. Ma alla fine se hai contenuti da esprimere, li tiri fuori a prescindere dallo strumento che usi. Quelli bravi resterebbero bravi, gli altri farebbero più fatica a nascondersi.

Il computer e prima la macchina da scrivere non hanno modificato il talento di Gianni Mura (foto Repubblica)
Il computer e prima la macchina da scrivere non hanno modificato il talento di Gianni Mura (foto Repubblica)

Sarebbe utile?

Ci sarebbe semmai da porsi la domanda successiva: sarebbe davvero utile? La risposta più evidente è no. Al di là del comfort per chi scrive, ci sarebbe da rivedere il sistema di trasmissione e servirebbe comunque qualcuno che successivamente riversasse i testi in un computer. A meno di non voler riportare il mondo indietro di trent’anni.

Nonostante ciò, la prospettiva di leggere frasi corrette (perché in qualche modo si sarebbe costretti a studiare la grammatica) e la fatica superiore imposta a chi attinge a piene mani dal lavoro degli altri sarebbero argomenti molto interessanti, per i lettori e per i colleghi.

La limitazione dei rapporti

Qualche giorno fa, Filippo Lorenzon ha proposto un quesito a tre personaggi di spicco del ciclismo: cambierebbe qualcosa sulle salite se togliessimo di mezzo le compact e in qualche modo si limitasse lo sviluppo metrico dei rapporti?

Sì, cambierebbe e anche molto. Se il computer e la macchina da scrivere non incidono sul risultato finale, le guarniture compact possono influenzarlo e di fatto ciò accade regolarmente da anni.

Vi siete mai chiesti perché fra Bartali, Coppi, Merckx, Pantani e gli altri ci fossero quei distacchi così ampi? Per la forza fisica del più forte che, a parità di sviluppo metrico, era in grado di girare il rapporto più rapidamente degli altri.

Si diceva: Pantani va più agile in salita. Ma quando mai? La lettura giusta la diede Garzelli: «Pantani non va più agile, semplicemente fa girare più degli altri lo stesso rapporto, quindi fa più velocità».

I tre soggetti intervistati non sono entrati nel merito, ma hanno attuato comprensibilmente una difesa d’ufficio: non avrebbe senso, ormai non si può più. Solo Cattaneo ha posto una questione interessante: se limitiamo la demoltiplicazione del rapporto, allora ha senso farlo anche con i rapporti lunghi. Potrebbe avere senso. 

Sarebbe utile?

Rapporti uguali per tutti, significa che la differenza la fanno gli uomini. Se la tecnologia appiattisce le differenze, una riflessione va fatta. L’abbinamento fra rapporti demoltiplicati, misuratore di potenza e radio crea la macchina perfetta.

Per spingere rapporti più duri, come dice Cattaneo, serve più lavoro, ma alla fine ci si arrende alla forza di gravità. Bisogna gestire lo sforzo, sapendo di non poter rispondere a ogni cambio di ritmo dei più leggeri. Serve conoscersi. E alla fine, se perdi terreno in salita, dovrai trovare il modo per recuperare altrove.

La perplessità di Pantani? Che i giganti restassero con lui sulle salite
La perplessità di Pantani? Che i giganti restassero con lui sulle salite

«A me sta bene perdere 4 minuti da Ullrich nelle crono – diceva Marco – quello che non mi va giù è averlo a ruota sull’Alpe d’Huez».

Il ciclismo di oggi è più credibile. Non nascondiamoci dietro alla facile equazione per cui corse più dure sono un’istigazione al doping: l’etica prescinde da certi aspetti e saper gestire le fasi avverse deve far parte del bagaglio di chiunque.

Per cui, messa a punto per i più scettici la ricerca dei motori elettrici, sarebbe probabilmente impossibile per un corridore di 70 chili rispondere alle accelerazioni a raffica di uno scalatore su una pendenza superiore al 10 per cento. Non troppo a lungo, almeno. Ogni chilo farebbe la differenza.

Non sarebbe possibile o sarebbe molto improbabile ad esempio per un corridore come Froome (66 chili) resistere e piegare Chaves (57 chili) sullo Zoncolan come accadde nel 2018. Quella frequenza di pedalata da frullatore con un 39×32 non sarebbe stata possibile. Anche Yates avrebbe sofferto, ma ciascuno di quei 9 chili in meno sarebbe stato per lui una spinta.

Ad armi pari

Lo sapete quando nacque il modo di dire “ad armi pari”? Dai duelli di una volta, quelli in cui i due contendenti erano uno di fronte all’altro e potevano disporre di identici strumenti, che fossero pistola o coltello, con tanto di testimoni chiamati per sincerarsene. I motivi della contesa erano i più disparati e alla fine vinceva sempre quello più veloce, il più lucido, quello con la mira migliore.

Perciò nel rispondere alle questioni, non è sempre utile guardare il dito, ma ogni tanto gettare lo sguardo verso la luna. Gli equilibri in corsa cambierebbero, su questo non c’è dubbio. Gli squadroni avranno sempre buon gioco, ma che almeno meccanicamente lottino ad armi pari. Vincerebbero lo stesso, ma i 65 all’ora in pianura prima di arrivare alla salita, peserebbero anche sulle gambe dei passisti. E lo spettacolo, ne siamo certi, ne guadagnerebbe parecchio. 

Monumento Ventoux

Quando c’è il Ventoux, non è mai una tappa qualsiasi

07.07.2021
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Il Mont Ventoux, chiamato anche Monte Calvo (sapete che la sua prima ascensione conosciuta è attribuita al Petrarca nel 1336?) è un appuntamento principe per il Tour de France, eppure nella sua lunga storia la Grande Boucle ha affrontato la durissima salita provenzale solamente 16 volte, 10 delle quali prendendo la sommità come punto di arrivo della tappa. Ma ogni volta, il Ventoux ha fatto sentire i suoi effetti sulla classifica e non solo…

Tra i 15 e i 21 chilometri di scalata, con pendenza media del 7,7 per cento ma punte che vanno oltre il 20, il Ventoux ha soprattutto due caratteristiche che lo rendono unico, in alternativa se non addirittura insieme: il vento estremamente forte e il gran caldo. Un caldo terribile, soprattutto nella parte finale della salita, quando l’asfalto viene reso incandescente dal sole estivo e trasmette tutto il suo calore a chi transita. Basti pensare che spesso anche i motori dei mezzi al seguito hanno pagato un pesante dazio…

Si parla di Mont Ventoux e la memoria non può non tornare a quel maledetto giorno del 1967: Tommy Simpson, 29 anni, si gioca moltissimo in quella tappa. Era partito per il Tour con l’obiettivo di vincerlo, anche perché stava per concretizzarsi un danaroso passaggio dalla Peugeot (dove volevano investire su un certo Eddy Merckx) alla Ignis, ma serviva una grande impresa. Quel giorno, il 13 luglio, fa molto caldo: alle pendici della salita Simpson sente che la gamba non è delle migliori, ma non può tirarsi indietro.

Merckx Tour 1972
Un tris d’assi nella scalata al Ventoux nel 1972: da sinistra Ocañåa, Merckx e Poulidor
Merckx Tour 1972
Merckx Tour 1972Un tris d’assi nella scalata al Ventoux nel 1972: da sinistra Ocañåa, Merckx e Poulidor

Caldo, alcol, anfetamine…

Chiede acqua ai suoi gregari: non ce n’è. Un compagno si ferma in un bar e prende l’unico liquido disponibile: una bottiglia di cognac… Simpson ne beve poco, ma sarà letale perché subito dopo ingoia una delle pasticche di anfetamine che ha acquistato la sera prima per 800 sterline. Il mix ha un effetto deflagrante: Simpson inizia a procedere a zigzag, consumato dentro e fuori. Cade, viene rimesso in sella, ricade: non si rialzerà più (nella foto di apertura il monumento a lui dedicato lungo la salita, nel punto in cui morì).

Quella era la sesta volta che il Ventoux veniva affrontato: la prima nel 1951, l’ultima nel 2016 prima dell’edizione in corso. Se si va a guardare la storia della Grande Boucle, si scoprirà che molto raramente sono emersi dei puri carneadi. Ad esempio nel 1958, prima volta che il Ventoux è stato sede finale di tappa, la spuntò Charly Gaul. Era una cronoscalata e il lussemburghese mise in fila i suoi rivali mentre l’anziano campione di casa Raphael Geminiani andava a conquistare la maglia gialla. Il Tour lo vincerà però Gaul, davanti a Vito Favero (al suo debutto al Tour, in giallo proprio fino al Ventoux) e allo stesso Geminiani.

Pantani Ventoux 2000
Armstrong e Pantani: una sfida appassionante al Tour de France del 2000
Pantani Ventoux 2000
Armstrong e Pantani: una sfida appassionante al Tour de France del 2000

La fame infinita di Merckx

Poteva mancare il nome di Merckx? Nel 1970 il Cannibale conquista la sua settima vittoria di tappa (una nella cronosquadre) e prima della fine ne coglierà altre due. Alla fine il suo vantaggio sul secondo, Joop Zoetemelk è di 12’41”, perfino ridotto vista la sua schiacciante superiorità mostrata giorno dopo giorno. Due anni dopo a svettare sul Monte Calvo è il francese Bernard Thevenet, ma è solo l’avvisaglia di quello che sarà capace di fare: il simbolo del primato è ancora di Merckx, che vincerà “accontentandosi” di 6 vittorie parziali.

Due imprese sono legate al nome di Pantani: la prima è indiretta, nel 1994, quando Eros Poli va a conquistare il successo a Carpentras dopo aver svettato per primo sul Ventoux, lui che scalatore non era proprio. Alle sue spalle Pantani in maglia Carrera attacca dal gruppo e stabilisce un record di scalata. Sei anni dopo Marco mette la sua firma da specialista, uno dei più grandi della storia, vincendo al termine di un’epica sfida con Lance Armstrong. Anche l’albo d’oro di quel Tour, come gli altri sei conquistati dal texano, ha una barra sul nome de vincitore, ma resta indimenticabile nella memoria di chi ha avuto la fortuna di assistere.

Froome Ventoux 2016
La bici è a terra inutilizzabile e Froome inizia a correre: c’è una maglia da difendere…
Froome Ventoux 2016
La bici è a terra inutilizzabile e Froome inizia a correre: c’è una maglia da difendere…

Maratoneta per 600 metri…

Ultimo in questa galleria di personaggi è Thomas De Gendt, primo nel 2016. Una vittoria al termine di una delle sue proverbiali fughe con le quali si è costruito una carriera niente male. Più che la sua vittoria con 2” sul compagno d’avventura Pauwels, di quel giorno si ricorda la vicenda nella quale è incorso Chris Froome: il britannico, già maglia gialla, a un chilometro dal traguardo cade insieme a Porte e Mollema. La sua bici è distrutta, il tempo scorre, così il corridore della Sky si improvvisa podista e comincia a correre verso il traguardo. Più avanti gli danno una bici dell’assistenza, ma è troppo piccola, giù e di nuovo a correre.

A 400 metri ecco la bici dall’ammiraglia, ma ormai il traguardo è lì. La classifica dice che la maglia è persa, va al connazionale Adam Yates, ma dopo vibranti proteste il distacco viene neutralizzato e Froome torna in testa. Particolare curioso: oggi in quel che era il team Sky milita proprio Yates (che tuttavia non è presente al Tour), non più Froome.

Felice Gimondi, Marco Pantani, Tour 1998

Tour, una corsa poco italiana? Guardiamo i numeri

24.06.2021
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Il Tour del ritorno all’estate, il Tour della rivincita slovena Pogacar-Roglic, il Tour del minimo di presenze italiane da anni a questa parte. A due giorni dal via la Grande Boucle si sofferma a contare i suoi numeri, in attesa che le ruote inizino a dare i loro verdetti in un’estate infuocata che avrà un’appendice destinata a pesare, visto che solo 6 giorni dopo l’arrivo a Parigi ci si giocherà l’oro olimpico dall’altra parte del mondo.

Andiamo per ordine: Tadej Pogacar va a caccia del bis consecutivo, un’impresa che al Tour non è certo infrequente. Il primo a riuscirci fu Lucien Petit Breton, nel 1907 e 1908. Da allora ben 11 corridori hanno compiuto lo stesso iter, qualcuno come Bernard Hinault riuscendoci due volte (1978-79 e 1981-82), qualcun altro andando anche oltre, come Chris Froome autore di un tris e Jacques Anquetil, Eddy Merckx e Miguel Indurain arrivati al poker consecutivo. Armstrong andò anche oltre, ma sulla sua carriera come noto è stato passato un deciso colpo di spugna…

Chiappucci Tour 1992
Chiappucci pur senza vincere il Tour è rimasto nel cuore dei francesi, per la doppia maglia a pois
Chiappucci Tour 1992
Chiappucci pur senza vincere il Tour è rimasto nel cuore dei francesi, per la doppia maglia a pois

Da Bottecchia a Pantani, 10 grandi colpi

Uno della “magnifica dozzina” era italiano, Ottavio Bottecchia, primo nel 1924 e 1925 e soprattutto primo italiano a vincere la Grande Boucle. Bottecchia era un corridore che agiva in Francia, era quasi ritenuto uno di casa, ben diverso il discorso quando iniziarono ad arrivare i campioni da questa parte delle Alpi, come Bartali (1938-48), Coppi (1949-52), Nencini (1960), Gimondi (1965) fino ai più recenti trionfi di Pantani nel ’98 e Nibali nel 2014, ultimo italiano a salire sul podio agli Champs Elysees.

Proprio considerando il podio, le 10 vittorie si uniscono ai 15 secondi e 15 terzi posti, quindi i successi rientrano in una congrua media matematica.

Il Tour non è fra le manifestazioni sportive francesi più favorevoli ai nostri colori, considerando che in altri sport vige da quelle parti il detto “la course des italiens”. Molto dipende anche dalla partecipazione.

Petacchi Tour 2010
Due sole vittorie italiane nella classifica a punti: una per Petacchi, trionfatore nel 2010
Petacchi Tour 2010
Due sole vittorie italiane nella classifica a punti: una per Petacchi, trionfatore nel 2010

Le firme di Bitossi e Petacchi

Con 9 presenze italiane sparse per vari team, torniamo a contingenti nazionali che ricordano fortemente gli anni Ottanta, quando squadre e corridori nostrani privilegiavano il Giro e le partecipazioni in Francia erano ridotte al minimo. Nel nuovo secolo mai si era scesi alla singola cifra, ma non essendo presenti team italiani la cosa ha un suo perché.

Abbiamo detto che il Tour è sempre stato poco italiano, ma è davvero così? la maglia verde della classifica a punti è stata vinta solo da due italiani, Franco Bitossi nel 1968 e Alessandro Petacchi nel 2010. Quella a pois del miglior scalatore ha registrato 14 successi azzurri, da Bottecchia negli anni dei suoi trionfi a Claudio Chiappucci nel 1991 e ’92.

Gli italiani più combattivi

Quella bianca di miglior giovane ha visto 5 successi italiani (Moser nel ’75, Pantani nel ’94 e ’95, Basso nel 2002, Cunego nel 2006), ma non vanno dimenticati i 6 premi alla combattività conquistati da Gimondi nel ’65, Ghirotto nel ’93 seguito l’anno dopo da Poli, Chiappucci sempre nel ’91 e ’92 fino ad Alessandro De Marchi che mise la sua firma nel 2014.

Azzini Tour 1910
Una foto-documento: al centro Ernesto Azzini dopo la sua vittoria alla 15esima tappa del Tour, a Parigi
Azzini Tour 1910
Una foto-documento: a destra Ernesto Azzini dopo la sua vittoria alla 15esima tappa del Tour, a Parigi

Vittorie di tappa

Capitolo vittorie di tappa: si resta quasi stupiti vedendo che l’Italia è al terzo posto nella classifica per nazioni con 268 centri, certamente lontana dai 710 della Francia e 477 del Belgio, ma ben protetta dal ritorno dell’Olanda, ferma a 177. Se le ultime vittorie risalgono al 2019 con Viviani, Trentin e Nibali, la prima è datata addirittura 1910, per merito di Ernesto Azzini, un gigante di quasi due metri che fu anche il primo ad abbinare una vittoria di tappa al Tour a una al Giro. Scomparso a soli 38 anni per una forma di tisi, il suo nome resta comunque una pietra miliare nella storia italiana del Tour.

Campiglio, 5 giugno 1999. Il giorno che spensero il sole

05.06.2021
12 min
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Paolo era ancora nel camper, nulla lasciava presagire quel che sarebbe accaduto. Sentì bussare. Disse semplicemente: «Avanti». Marco stava vincendo il Giro con un vantaggio più che tranquillizzante, in quel bel giorno di giugno fuori c’era il sole. Era un mattino che già solo svegliarti ti metteva di buon umore. Pregnolato aveva la faccia stravolta.

«Vieni su, fai il favore. C’è Marco incazzato duro, che non riusciamo a convincerlo. Ha dato un pugno nel vetro e si è spaccato tutta la mano. Vieni a vedere se riesci a calmarlo».

«Ma cosa dici?». Paolo si sentì morire.

«Sai cosa è successo?» gli disse. «L’hanno trovato con l’ematocrito alto…».

Roncucci, suo tecnico alla Giacobazzi, andò a trovarlo a Sansepolcro. Qui con Schiavina e Marco negli anni fra i dilettanti
Roncucci, suo tecnico alla Giacobazzi. Qui con Schiavina e Marco negli anni fra i dilettanti

Sangue e lacrime

Sentì una vampata di calore salirgli fino alla faccia. Poi il fiato che mancava. Reagì come un automa. Scese dal camper. Chiuse la porta. Entrò nell’albergo. Salì le scale. Entrò nella stanza.

Marco era lì che piangeva. Sangue dovunque, dalla mano al braccio, fino alla maglietta. Lo guardò. Quello che aveva fatto fino a quel momento era stato spazzato via. Guardò suo padre e gli sembrò di essere tornato bambino, quando ne faceva una più grossa delle altre e lui arrivava per punirlo. Ma questa volta anche il babbo si mise a piangere. Non aveva mai visto suo figlio in quelle condizioni. Nella stanza c’era Velo che cercava di parlargli. Poi iniziò un viavai che Paolo non ricorda ormai più.

Il silenzio di De Zan

Tonina chiuse il chiosco alle tre e mezza del mattino. Passò da casa per la doccia, si diede una sistemata e chiuse la borsa. Quelli della Fausto Coppi la aspettavano in piazza per raggiungere il Giro d’Italia. Arrivò appena poteva, poi partirono. C’era anche il fratello di Paolo. Sul pullman Tonina si addormentò.

Arrivarono ad Aprica in tarda mattinata e il paese era già in subbuglio per la tappa del Giro d’Italia che sarebbe arrivata nel pomeriggio. Tonina aveva mal di stomaco, così andarono alla ricerca di un bar. Quando lo trovarono, si accorsero che a un tavolo c’era Adriano De Zan che scriveva con la faccia scura. Andarono a salutarlo per tirarlo un po’ su.

«Marco non parte» le disse dopo un saluto laconico, poi scosse la testa, la abbassò nuovamente e si rimise a scrivere.

Tonina si voltò di scatto. Tutto intorno il gelo, facce livide, mani fredde.

«Cosa ha detto?».

Non capì più niente. Paolo era a Campiglio col camper, lui le avrebbe spiegato.

Marco va a casa

Lo chiamò e sentì la voce svuotata di ogni calore. Le disse soltanto che Marco sarebbe tornato a casa con Martinelli e che la squadra aveva deciso di non partire. Con lui sarebbe andato Fontanelli. Anche Tonina sentì il desiderio di andare via e per fortuna anche quelli della Fausto Coppi pensarono la stessa cosa, altrimenti avrebbe dovuto cercarsi un passaggio.

Un gruppo di tifosi la riconobbe. Le dissero che bastava una sua parola e avrebbero fermato il Giro d’Italia. Si sarebbero messi in mezzo alla strada sul Mortirolo. Lei disse di sì. Fu Savini, il primo direttore sportivo e poi coordinatore del fan club, a dire che sarebbe stato uno sbaglio. Era il loro capo, girava con l’ammiraglia gialla e si era tagliato i capelli come Marco. Lo ascoltarono e il Giro passò. Era il 5 giugno del 1999.

Discussioni con Tafi e la Mapei sull’adesione a Io non rischio la Salute e tensione alle stelle
Discussioni con Tafi e la Mapei sull’adesione a Io non rischio la Salute e tensione alle stelle

Il caso Alvisi

Pino Roncucci, direttore di Marco fra i dilettanti. in quel periodo faceva il direttore sportivo alla Rinascita di Ravenna e alla fine di maggio si stava preparando con i suoi ragazzi per il Giro delle Pesche Nettarine, corsa a tappe romagnola per corridori under 23.

Nella sua squadra c’era un ragazzino di belle speranze, che si chiamava Juri Alvisi ed era da poco rientrato dal Giro delle Regioni, corso con la nazionale. Nella corsa che ormai s’annunciava, sarebbe stato lui il capitano della squadra. Era uno che quando andava in fuga non mollava mai. Nulla a che vedere con Marco, ma un bel talento, di cui si erano accorti i tecnici federali che lo avevano inserito tra i convocati per i campionati europei a cronometro.

Il 31 maggio, prima di partire per il Pesche Nettarine, Roncucci lo aveva portato al Lam di Forlì, una struttura sanitaria in cui solitamente portava i suoi corridori a fare le analisi del sangue. L’ematocrito di Alvisi era risultato del 46 per cento, perciò il ragazzo era partito sicuro di svolgere una buona prova.

Due giorni dopo, il 2 giugno che era di martedì, accadde una cosa strana. Gli ispettori federali si presentarono per i controlli del sangue alle otto e mezza del mattino. Alvisi aveva già fatto colazione e lo trovarono con l’ematocrito a 51,8.

Al ragazzo crollò il mondo addosso. Roncucci invece rimase in silenzio. Pensò a quello che aveva sentito una settimana prima al Giro d’Italia dei professionisti e il suo cervello si mise in moto.

29 maggio: da solo sulla Fauniera. Là in alto ora lo ricorda un monumento
29 maggio: da solo sulla Fauniera. Là in alto ora lo ricorda un monumento

Controlli sballati

Stava per accadere qualcosa. Così Roncucci avvertì dell’anomalia Orlando Maini, che in quegli stessi giorni era al Giro d’Italia come direttore sportivo alla Mercatone Uno. Essendo amico di Alvisi, lo teneva in considerazione per un eventuale passaggio al professionismo. Quindi prese il ragazzo, lo caricò in ammiraglia e si diresse a tutta velocità verso lo stesso centro di Forlì in cui lo aveva controllato prima della corsa.

Il risultato fu quello di due giorni prima: 46 per cento. Così Roncucci prese gli esami e li affidò a un avvocato, il quale li mandò alla commissione medica federale, denunciando che le macchinette usate per i controlli in corsa erano tarate male.

Gli risposero che non gli importava e che il ragazzo doveva comunque rimanere fermo.

Alvisi infatti si fece i quindici giorni previsti dal protocollo, poi tornò all’ospedale Sant’Anna di Como, scelto dalla federazione per i suoi test. L’ematocrito risultò ancora intorno al 46 per cento, quindi gli venne restituita la possibilità di correre.

Nonostante una norma federale prevedesse che, in caso di problemi di quel tipo, il corridore avrebbe perso la nazionale per l’intero anno, Alvisi andò al campionato europeo e si piazzò all’undicesimo posto. Poi andò anche al mondiale. Il reclamo di Roncucci era fondato? Perché ad Alvisi non fu negata la nazionale? Quelle macchinette erano davvero tarate male?

L’allarme di Reverberi

Pino però non riusciva a stare tranquillo. Il problema era accaduto ad altre squadre anche al Giro d’Italia. Sembrava quasi che tutti gli apparecchi usati dalla federazione e dall’Uci fossero regolati allo stesso modo e i risultati erano stati bugiardi nel novanta per cento dei casi.

Ne aveva sentito parlare il 25 maggio, quando era andato a trovare Marco alla partenza della tappa che da San Sepolcro avrebbe portato il Giro a Cesenatico. Gli risposero che anche loro se ne erano accorti e che Reverberi in particolare aveva già dato l’allarme.

Bruno Reverberi dirigeva la Navigare ed era anche presidente dell’associazione dei direttori sportivi. Si era accorto che i risultati dei test dei suoi corridori erano tutti abbondantemente sopra la media e aveva cominciato a dire che le macchinette per il controllo erano state tarate male. Ma nessuno tra coloro predisposti ai controlli diede mai risposte. Roncucci aveva ascoltato e poi aveva chiesto dove fosse Marco, preoccupato anche per delle voci sentite in avvio del Giro, secondo cui Pantani alla tappa finale di Milano non ci sarebbe mai arrivato.

«E’ nel camper – gli disse Martinelli – vai pure. Ti vede sempre volentieri».

30 maggio: a Oropa una delle imprese di Marco che sono entrate nella leggenda
30 maggio: a Oropa una delle imprese di Marco che sono entrate nella leggenda

Giro nella bufera

Il Giro d’Italia era iniziato tra mille tensioni. Il Coni era nella bufera da quando si era scoperto che nel laboratorio romano dell’Acquacetosa erano stati nascosti i prelievi degli antidoping del calcio.

Il presidente Pescante si era dimesso e il nuovo arrivato Petrucci aveva buttato sul tappeto la campagna “Io non rischio la salute” cui nessuno sport tuttavia aveva aderito, perché nessuno aveva in animo di prestarsi ad analisi del sangue sulla cui attendibilità c’era più di un dubbio.

Serviva un esempio e la federazione ciclistica diretta da Giancarlo Ceruti si affrettò a dire che il ciclismo sarebbe stato ben lieto di fare da apripista. Nessuno capì il perché di quella accettazione incondizionata e fu immediato pensare che ci fosse qualcosa sotto, fosse anche la voglia del presidente federale di far carriera.

I ciclisti erano già gli unici atleti professionisti in quel momento a sottoporsi spontaneamente ai controlli del sangue. Venivano regolarmente controllati da parte dell’Unione ciclistica internazionale e dalla federazione. Accettare di dare il sangue a un terzo ente sarebbe stato troppo. Ma Ceruti alzò la voce, omettendo di dire che nessun corridore era stato informato di questa campagna e che nessuno aveva pertanto concesso il consenso firmato ad aderirvi. Perciò sembrò strano che al momento dei prelievi del sangue gli ispettori del Coni si presentassero con il modulo di adesione da firmare e riconsegnare.

Non rischio la salute

Il malumore iniziò a serpeggiare e alla fine la scelta di un corridore che parlasse per tutti cadde su Pantani, perché col carisma che aveva magari lo avrebbero ascoltato.

Solo una squadra fino a quel momento aveva accettato ed era la Mapei di Tafi campione italiano e di Tonkov

Quando Pantani si fece portavoce dei dubbi del gruppo, si scatenò un vero putiferio. Marco disse semplicemente che i corridori si rifiutavano si sottoporsi a un altro salasso, ma che avrebbero collaborato se i tre enti preposti avessero trovato un accordo tra loro. Disse soltanto che non potevano essere sottoposti a prelievo ogni giorno per soddisfare le pretese di tre diverse entità, invece si iniziò a dire che Pantani era contrario ai controlli del sangue. E il tono si alzò.

4 giugno 1999: a Madonna di Campiglio l’ultima vittoria in quel maledetto Giro del 1999
4 giugno 1999: a Madonna di Campiglio l’ultima vittoria in quel maledetto Giro del 1999

Giallo a Cesenatico

Quando Roncucci salì sul camper della Mercatone Uno, quel mattino a Sansepolcro, giugno era da venire. Pino suggerì a Marco di stare calmo, di non esporsi troppo, perché anche se avesse avuto l’appoggio di tutti i suoi colleghi, certe leggi non scritte non le avrebbe potute cambiare e contro i poteri forti non avrebbe potuto comunque vincere.

Marco lo guardò con il labbro superiore arricciato. Annuì e poi gli disse di stare tranquillo, perché sapeva quel che stava facendo. Poi aggiunse che gli dispiaceva di non arrivare a Cesenatico in maglia rosa e che la sera sarebbe andato a dormire a casa.

Non poteva ancora sapere che il mattino successivo ci sarebbe stato un controllo a sorpresa e che, per il ritardo con cui si sarebbe presentato davanti agli ispettori, questi avrebbero redatto un verbale e lo avrebbero inoltrato agli organi competenti.

Stava per accadere qualcosa. Marco vinse la tappa di Campiglio provocando malumori in quanti erano stanchi di vederlo vincere sempre e di rimediare sempre lezioni così pesanti.

Fermare Pantani

Sul traguardo trentino, in quel 4 giugno di sole appena velato, Paolo Pantani se ne andava in giro fiero e con il petto in fuori per la fortuna che finalmente arrideva a suo figlio, dopo la gamba spezzata e i due Giri saltati prima per l’investimento del primo maggio e poi per il maledetto gatto del Chiunzi.

Quel giorno sul traguardo, trovandosi per caso accanto a un capannello di uomini con la cravatta, gli capitò di ascoltarne il discorso.

Di sicuro, ricorda, c’era Castellano, il direttore del Giro d’Italia. Un po’ scherzava e un po’ era preoccupato. Parlavano della tappa del giorno dopo, la più dura.

Qualcuno gli disse che forse avrebbe fatto meglio a togliere la salita del Gavia, perché se Pantani avesse attaccato già da lì, considerato che poi avrebbero dovuto scalare anche il Mortirolo, tanti corridori sarebbero finiti fuori tempo massimo e a Milano sarebbero arrivati in dieci. Fu allora che qualcuno disse che, piuttosto che togliere il Gavia, sarebbe convenuto fermare Pantani.

Come Binda?

Paolo ascoltò e non capì. Così come non capì pochi minuti dopo la battuta di Angelo Costa, giornalista del Carlino, che con qualche imbarazzo gli disse che in sala stampa a forza di vederlo vincere i giornalisti non sapevano più cos’altro scrivere su Marco.

«Tu cosa faresti?» gli chiese Costa.

«Scriverei che domani Marco tenterà di fare poker», rispose Paolo con la prima battuta che gli venne in mente.

Marco aveva già vinto tre tappe, era facile prevedere che ci avrebbe provato anche il giorno dopo. Poi si incamminò verso il camper, pensando che fosse tutto molto strano. Cosa voleva dirgli Costa? Cosa aveva fiutato? Ma era soprattutto quella battuta sul Gavia e sul fermare piuttosto Pantani che lo lasciò parecchio perplesso.

Avrebbero parlato con suo figlio per raccomandargli di non attaccare come cinquant’anni prima era successo con il grande Binda?

Preferì non pensarci più e arrivò al piazzale dell’hotel dove aveva parcheggiato il camper.

Lungo le strade del Giro, con il sole o sotto la pioggia, decine di cartelli parlano ancora di lui
Lungo le strade del Giro, con il sole o sotto la pioggia, decine di cartelli parlano ancora di lui

Cannavò e carabinieri

«La sera del 4 giugno – racconta – nell’albergo venne anche Candido Cannavò, il direttore della Gazzetta dello Sport. Restò lì a mangiare nella tavola con Marco, ma io ero in disparte e non so cosa si dissero. Vidi solo che Marco mangiò poco e niente, aveva la faccia scura. Parlavano e discutevano. Avevo il camper a dieci metri dall’albergo e mi ricordo benissimo che già dopo l’arrivo c’era un traffico incredibile di carabinieri. C’erano otto o dieci uomini che giravano attorno a quella zona. Va bene che eravamo a duecento metri da dove il giorno dopo ci sarebbe stato il ritrovo, però… E mi ricordo che anche dopo cena c’era questo via vai di carabinieri, che giravano lì intorno. Che cosa stava succedendo quella sera? Ero sempre nei paraggi, negli alberghi, dentro dove c’erano le sale stampa. Non avevo mai visto tanti carabinieri. Ma mi dissi che erano curiosi anche loro o forse erano lì per proteggere Marco e me ne andai a dormire».

Ceruti e il diavolo

Marco ripartì il giorno dopo da Madonna di Campiglio assieme a Martinelli.

Lo fecero uscire dall’albergo come un criminale, ma trovò la forza per parlare. Pronunciò parole pesanti come il piombo, poi sparì nell’ammiraglia e il Giro d’Italia se ne andò senza di lui, senza che nessuno fosse andato nella sua stanza per mettergli una mano sulla spalla, per capire, sentire come andasse o semplicemente per insultarlo. Se ne andò nell’indifferenza generale, come se le belle parole usate fino al giorno prima non fossero mai state pronunciate né scritte.

Tra i tavoli della sala stampa, quel giorno il presidente federale Ceruti (scomparso a marzo 2020) andò sorridendo dai suoi amici più stretti a dire che avevano fermato il diavolo e che non c’era solo lui con il sangue in difetto, ma tutta la sua squadra. 

Non fu antidoping

Fu un controllo per tutelare la salute di Pantani. Non fu un controllo antidoping. Parlarono di positività, ma nessuno dal suo entourage avrebbe mosso un dito per denunciare l’imperdonabile imprecisione.

Si fermarono a Imola per mettere i punti alla mano ferita e ripeterono gli esami del sangue e quando ebbero la certezza che fossero nella norma e lo dissero ai tanti giornalisti che chiamarono, si sentirono rispondere dall’istituizione che durante il viaggio potevano aver combinato qualcosa.

A Imola invece i medici dissero che sull’ematocrito si poteva anche intervenire, ma che l’emoglobina era la stessa di sempre e l’emoglobina non la modifichi in così breve tempo. Ma nessuno ci prestò ascolto, né lo difese. Tutti si misero a smentire qualunque cosa Marco dicesse.

Il 26 maggio scorso, mamma Tonina ha ricevuto il premio per Marco come atleta più amato del Giro
Il 26 maggio scorso, mamma Tonina ha ricevuto il premio per Marco come atleta più amato del Giro

Fango e distruzione

Arrivò a casa e già c’erano fotografi e telecamere ad attenderlo. Si chiuse dentro. Tonina non ricorda di preciso cosa accadde, perché fu come se un fiume avesse spazzato via la sua vita precedente, portando solo fango e distruzione. Ricorda bene però la visita di Savini.

«Tonina – le disse – è andata bene così, perché altrimenti lo facevano fuori. Dai retta a me, è andata bene così. Mi hanno chiamato con un accento del Sud e mi hanno detto che è andata bene così».

Ricorda Tonina che Savini disse di non poter aggiungere altro, aveva paura che gli facessero saltare l’officina.

«Disse che non lo avrebbero fatto più lavorare – racconta Tonina – e a me sembrò tutto molto strano. Ma in quei giorni cosa c’era di normale? Mi ricordo questo casino di giornalisti… Non potevi mettere il naso fuori che vedevi dei gran flash. Dietro, in mezzo agli alberi, davanti. E’ stata una settimana da incubi. Venivo sotto, accendevo la tivù e ci vedevo i miei cancelli».

L’inizio della fine

«Paolo una volta andò al chiosco a prendere da mangiare e gli si buttarono sul cofano. Chiamò anche i carabinieri, ma gli risposero che purtroppo la strada è di tutti. Il giorno dopo smontò dalla macchina e li invitò ad andarsene. Disse: “Passi lunghi e ben distesi” e il giorno dopo sui giornali uscì che il padre di Pantani si era montato la testa con i soldi del figlio. E Marco intanto era rinchiuso dentro e si tormentava. Ma sai quante manifestazioni ha fatto mio figlio contro la droga? Tutti questi ragazzi con i palloncini contro la droga e lui con loro… Lo diceva anche il suo amico Gianni. Loro a quelle cose lì non ci pensavamo. Poi però lo hanno perso di vista. Lui si è chiuso e la sua manager ha allontanato tutti i suoi vecchi amici. Lo ha isolato, forse per proteggerlo, non lo so. Ma non capisco questa gente che è arrivata dopo da dove sia venuta fuori. Quelli non erano amici di Marco. Da loro non doveva essere protetto?».

Testo tratto da “Era mio figlio” – Tonina Pantani con Enzo Vicennati – Edizioni Mondadori

Con la maglia rosa alla scoperta del dolore

16.05.2021
6 min
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A prescindere dal fatto che oggi perda la maglia rosa oppure la tenga, ci sono state alcune parole di Attila Valter e del suo direttore sportivo Philippe Mauduit sulla soglia del dolore, pronunciate subito dopo la tappa di San Giacomo, che continuavano a risuonarci nella testa.

«Se mi convinco davvero di qualcosa – aveva detto l’ungherese – la mente sposta avanti il limite e a quel punto non c’è niente di impossibile».

Il tecnico francese era entrato più nel dettaglio: «Una cosa che abbiamo notato subito è la capacità di farsi del male quando è in difficoltà o quando ha un obiettivo. Sa andare oltre la soglia del dolore e lo fa razionalmente. Se lui si convince che può farlo, di solito lo fa. E’ grintoso. Se molla la presa, vuol dire che è davvero morto».

La maglia rosa è un bel peso da portare, in corsa si sente…
La maglia rosa è un bel peso da portare, in corsa si sente…

Il riferimento alla soglia del dolore ci ha riportato agli interminabili discorsi sul tema con Marco Pantani, capace di andare oltre quel livello, portando i suoi rivali in una zona sconosciuta di cui spesso avevano paura. Per capire meglio ci siamo rivolti a Elisabetta Borgia, psicologa e mental coach, che collabora con la Trek-Segafredo e svariati altri atleti.

Come si fa a decidere di soffrire?

Ognuno trova il pulsante per tirare fuori il meglio da se stesso. Sono doti diverse, tratti della personalità. Ci si arriva tramite la razionalità estrema, come magari nel caso della maglia rosa, oppure per istinto e mi viene in mente Alaphilippe.

Parliamo del pulsante?

Ciascuno di noi è razionalità, emozione e comportamento. Le percentuali con cui questi tre fattori si mescolano dipendono da persona a persona. Se il nostro approccio con la vita è legato soltanto alla logica e tagliamo totalmente le emozioni, alla lunga avremo dei problemi. Idem per il contrario. Uno dei meccanismi più diffusi è quello della profezia che si autoavvera, la self fulfilling prophecy, per la quale le convinzioni che abbiamo determinano la realtà. Ci convinciamo così tanto che alla fine funziona. Una sorta di effetto placebo.

Nel famoso giorno di Montecampione al Giro del 1998, Pantani portò Tonkov oltre il limite del dolore e il russo ne ebbe paura
A Montecampione nel Giro del 1998, Pantani portò Tonkov oltre il limite del dolore
Una sorta di volere è potere?

Alla base però c’è un allenamento mentale. Gli atleti hanno a disposizione un’infinità di dati sulla propria fisiologia, ma l’aspetto mentale è cruciale. Marc Madiot, per cui corre Attila Valter, lavora molto sui punti di forza. E’ bravo a tirare fuori il meglio dai suoi ragazzi, puntando sull’allenamento e anche sull’aspetto motivazionale. In ogni caso, ciò che accomuna la gestione razionale e quella istintiva, è il senso di responsabilità nei confronti del proprio futuro. La fiducia in se stessi, il credere di poter dare una svolta alla propria vita, contrapposto all’atteggiamento di chi non crede in se stesso.

Come si fa a imporsi la sofferenza e accettare il dolore?

E’ il momento più difficile da gestire. Sei a tutta, quindi sei vulnerabile, fragile. Ognuno di noi ha una soglia della sofferenza, il fatto di saper andare oltre dipende da quanto sei mentalizzato in partenza e da quanto sei efficace nella tua azione. Se sei in forma, ti viene più facile.

Puoi entrare più nel dettaglio?

Quando feci il Master in Psicologia dello Sport, il dottor Vercelli diceva che quando siamo alla frutta, abbiamo ancora un 5% da dare. E faceva l’esempio della madre che vede il figlio in pericolo e per salvarlo compie gesti fuori da ogni schema.

Oggi al via, Attila sa che Bernal, Evenepoel e Ciccone lo attaccheranno: come reagirà?
Attila sa che Bernal, Evenepoel e Ciccone lo attaccheranno: come reagirà?
Quindi è qualcosa che non si può allenare?

Qualcosa si può fare. Dipende dal dialogo interno. Nel momento in cui siamo a tutta e ci spingiamo verso quella porta, qualcosa ci stiamo dicendo. Pensateci. Quando fate uno sforzo molto intenso, non parlate con voi stessi? Di solito ognuno di noi si incita. Oppure visualizza l’immagine dell’arrivo in cima e dell’obiettivo raggiunto. Bisogna imparare a trasformare in termini positivi quello che ci diciamo ed escludere tutto il resto.

Escludere cosa?

La nostra mente ha il limite di processare un’informazione per volta. Se adesso io vedessi qualcosa che mi distrae, automaticamente smetterei di ascoltarti. Staccherei l’attenzione dal primo obiettivo. Se l’atleta vuole rendere al massimo, non deve pensare ad altro. Questa capacità va allenata. Per contro, capita che arrivi da me il professionista che non ce la fa più, che parla di «vomito da fatica». Che non riesce più a reggere perché magari è un po’ depresso ed è entrato in un circolo vizioso.

Le preoccupazioni della vita quotidiana limitano la capacità di soffrire e accettare un altro dolore?

Quando l’atleta porta le sue problematiche, è chiaro che non si parla più solo di sport. Parliamo prima di tutto di uomini e donne. In quei casi, non si possono fare miracoli, ma si lavora per scindere i due aspetti per il breve tempo necessario. E’ un palliativo, perché le due sfere sono integrate. Il massimo che puoi fare è lavorare sulla superficie e sulla concentrazione per portare a casa il risultato.

Ultimo aspetto. Inizialmente hai parlato della quantità di dati che si hanno a disposizione. Esiste un rovescio della medaglia?

Al riguardo ho una visione… equilibrata. Il ciclismo ha avuto un’evoluzione incredibile, sul fronte degli strumenti e per la necessità di limare ogni dettaglio, dalla bici al peso. Il corridore è iperstimolato su più fronti e si rischia che abbia sempre più bisogno di un supporto esterno per sapere cosa fare. Bennati mi raccontava che atleti più giovani non sono capaci di allenarsi se la batteria dell’Srm è scarica. Per me la via di mezzo è quella maestra.

Ieri verso Guardia Sanframondi qualcuno ha visto primi segnali di cedimento nell’ungherese
Ieri verso Guardia Sanframondi qualcuno ha visto primi segnali di cedimento nell’ungherese
Vale a dire?

Non ci si può più allenare come Coppi, ma torniamo alle sensazioni. Ho caricato i dati su Training Peaks, ho mandato i file al coach. Tutti sanno come sto, ma io come mi sento? Le corse si vincono con i watt, ma anche con le azioni creative. Una cosa che mi sembra sempre strana è vederli arrivare stravolti sul traguardo, quasi barcollare, eppure schiacciare il tasto sul computerino. Cosa cambia se non lo fai? E siccome i più giovani copiano i pro’, si rischia di creare un esoscheletro, ma dentro non c’è niente e poi succede che il corridore arrivi al burnout (molto interessante una precedente intervista con Elisabetta Borgia sulle motivazioni che portarono al ritiro Tom Dumoulin, ndr).

Quindi la morale qual è?

Bisogna lavorare sulla formazione dei direttori sportivi nelle categorie giovanili, è l’unico modo.

Attila terrà la maglia rosa? Le sue parole fanno pensare davvero a un atleta capace di motivarsi fino a far avverare la sua profezia. Se mollerà, come dice Mauduit, avrà dato davvero tutto. Sapremo tutto fra poche ore. Speriamo di avervi dato un’altra chiave di lettura per la tappa di Campo Felice. Ma quanto è bello il ciclismo? E quanto c’è ancora da imparare?

Il ciclismo, ma solo… Ciclismo Ignorante!

15.02.2021
6 min
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Una pagina Instagram venuta fuori dal nulla nel 2015, il nome un programma: Ciclismo Ignorante. Te ne accorgi subito se i social ti premiano e l’ascesa di quei post e di quelle battute non poteva passare inosservata. Prima il consenso della gente comune. Poi il gradimento dei corridori e dei campioni come benzina sul fuoco. E in un attimo numeri da capogiro, ma più che i numeri la sobrietà delle posizioni e la puntualità dei post.

“In uno scritto di Marco lessi: vado a correre con la paura di vincere”
“In uno scritto di Marco lessi: vado a correre con la paura di vincere”

La curiosità è sempre stata tanta, ma stavolta abbiamo pensato di farci raccontare tutto e siamo andati alla fonte. Da Piergiorgio, studente di medicina originario di Frosinone. Ciclismo Ignorante è lui e adesso gli chiediamo perché.

Quando nasce l’idea?

Nasce alla Vuelta di Aru, nel 2015. In quella corsa succedevano cose strane. Paulinho tirato giù da un’ammiraglia, Sagan sbattuto per terra dalla moto. Aru si giocava la corsa. E mi venne in mente che poteva servire un posto in cui raccontare quella corsa. Mi ispirai ad alcuni video. Un’intervista a Raimondo Vianello che fingeva di essere un corridore e un video con Adorni che si prestava al gioco. Ne veniva fuori che il ciclismo è uno sport ignorante, verace, senza peli sulla lingua. Inoltre una scelta di questo tipo mi permetteva di avere accesso a una semantica che se mi fossi chiamato in modo più serio, non avrei potuto utilizzare.

Passo indietro, perché il ciclismo?

In Italia si arriva a questo sport per tre motivi. Le storie del nonno, le imprese di Pantani, le imprese di Nibali, a seconda degli anni. Io lo devo a un mix fra le prime due. Pantani è il primo ciclista di cui ho memoria. E poi c’è la passione di mio padre che mi portava con sé ogni volta che una corsa passava dalle parti di Frosinone.

Che cosa significa gestire Ciclismo Ignorante?

Sono sei anni che mi sveglio ogni mattina e penso a cosa fare. Sono partito da Facebook, poi sono passato a Twitter e ora su Instagram, seguendo l’evoluzione dei social. Mi sveglio, vedo quali corse ci sono e che cosa si può raccontare. E’ un fenomeno che si è autoalimentato, il perché va capito. Nei primi due anni, l’Oscar Ignorante lo animavo io, adesso arrivano anche 120 segnalazioni all’anno.

In quanti siete?

Faccio tutto da solo e prende tante energie mentali, dipende anche da quante corse ci sono in un giorno. In ogni caso, se ci sono corse, è più facile, basta raccontare in modo meno banale quello che avviene e che avverrà. La primavera invece è stata dura, perché l’appassionato vuole il ciclismo e invece era tutto fermo. Ciclismo Ignorante è la mia vita di ogni giorno da quasi sei anni. Il materiale si recupera dal web, più alcune chicche che arrivano dagli utenti, nei cui confronti faccio spesso da filtro, per evitare che escano cose poco convenienti. Ogni tanto scrive anche qualcuno secondo cui il ciclismo non è ignorante, ma alla fine è un’etichetta, un nome…

Lo stupore per il ritiro di Dumoulin
Lo stupore per il ritiro di Dumoulin
Ogni giorno da sei anni, riesci anche a studiare?

Sono in dirittura d’arrivo, per fortuna ce la faccio.

Quali sono i gesti ignoranti che ricordi più di altri?

Bella domanda, sono davvero tanti. Quello che ha avuto più risonanza sicuramente è stato il video dei boccettini. Poi l’espisodio di Dumoulin e Pibernik al Giro del 2017. Oppure Sagan che l’anno scorso si è fatto trainare dalla macchina dei tifosi.

Riesci a restare neutrale oppure a volte ti viene voglia di prendere posizione?

E’ un tasto delicato, ma di base provo a restare neutro. Ad esempio nell’ultimo post su Trentin e la sicurezza, ho messo i virgolettati. Ci sono episodi in cui chiedo venia per lo sfogo, perché ci sono casi in cui viene voglia di dire la propria.

Come si scelgono le notizie che finiscono nella tua pagina?

Deve esserci l’effetto WOW, che scatta sia per le dichiarazioni che per le imprese sportive. Contador che attacca a 110 chilometri dall’arrivo è ignorante. Idem l’intervista di Sagan che ti spiazza. Cito spesso Peter perché va contro gli schemi, contro la normalità dei commenti e del modo di correre.

Sagan è il simbolo del ciclismo ignorante, perché non si è limitato a vincere
Sagan è il simbolo del ciclismo ignorante, perché non si è limitato a vincere
Come gestisci i commenti?

Dipende dall’argomento, se è divisio o delicato, perché subentra il ruolo del moderatore. Soprattutto nelle prime ore, almeno, poi non posso controllare se qualcuno va a commentare un post di tre anni fa. Ma confermo che a volte si può andare oltre il recinto della decenza umana.

Cosa significa avere 112 mila follower?

E’ una responsabilità. Se ti guardano in pochi, non hai un ruolo, non incidi Se ti guardano in tanti, quello che dici acquisisce valore. Ad esempio, prima di esprimermi sulla questione dei divieti, ci ho pensato tanto. Sui casi di doping si aspetta o non si dice niente. Valgono le stesse regole della stampa. Prima scrivevo di calcio su un giornale del frusinate, so come si sta alla larga dalle rogne. Conosco le dinamiche del giornalismo sportivo. Non ho mai ricevuto una richiesta di rettifica perché di solito cito le fonti, ma è un rischio che so di correre.

Grosso clamore per l’esclusione dell’Androni dal Giro 2021
Grosso clamore per l’esclusione dell’Androni dal Giro 2021
C’è stato un momento di svolta tra l’essere visto da pochi e la grande diffusione?

All’inizio facevo post oceanici e restavo male quando vedevo che ottenevo più consensi con una vignetta goliardica. In questi 5-6 anni sono cambiati i social, la goliardia è diventata meno importante e insieme Ciclismo Ignorante è cresciuto. Adesso faccio quello che mi piace e ho i numeri per farlo.

Hai mai pensato di farne un mestiere?

No, ad ora no. Si è creato un bel rapporto di collaborazione con Robert Spinazze, per avvicinare più persone al ciclismo. Un rapporto che va avanti da anni. Nel 2019 ho fatto tutto il Giro con lui ed è stato pazzesco.

Quando Sagan insegnava a Van Aert le regole del gruppo
Quando Sagan insegnava a Van Aert le regole del gruppo
Che stagione ti aspetti?

Spero che ci sia una stagione. Tutti hanno imparato dall’esperienza del passato e spero che le cose vadano bene. Ho tanta curiosità sui giovani, su Remco. Sui due del cross. Sui colombiani: su Sosa da cui mi aspetto molto e su Bernal. E poi gli italiani. Ballerini e Ciccone che è tornato alla grande nonostante abbia avuto il Covid, che non era affatto scontato. Ma temo che queste difficoltà avranno ripercussioni sulle categorie giovanili. Alla lunga il movimento pagherà.

Vai alle corse?

Sono innamorato della Strade Bianche, quando posso non manco mai. Piazza del Campo piena di gente, i corridori col fango in faccia. A volte riguardo le foto di un’edizione di qualche anno fa e in quelle immagini vedi il ciclismo. Valverde con una maschera di fango. Capite perché il ciclismo è uno sport ignorante? Quelli troppo sofisticati non funzionano Lo stesso Froome è entrato nei cuori quando è diventato ignorante. E l’ha fatto al Giro d’Italia.

Il mancato compleanno del Chaba

07.02.2021
4 min
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Il 6 febbraio, ieri, El Chaba ne avrebbe compiuti 50. Avrebbe, se solo avesse potuto…

Sei dicembre 2003, una mattina come tante alla clinica San Miguel di Madrid. Anzi, no, perché per José Maria Jimenez i giorni non sono tutti uguali. Non lo sono più, da quando quella maledetta piovra non lo ha avvolto con le sue spire. “El Chaba”, il selvaggio, è ricoverato da tempo per combattere contro la depressione, che non lo lascia un attimo e che due anni prima lo ha portato al ritiro anticipato, in una fredda mattina di febbraio.

Nel 1998 vestì per tre giorni la maglia amarillo della Vuelta
Nel 1998 vestì per tre giorni la maglia amarillo della Vuelta

Si era vestito di tutto punto, guanti, passamontagna, la bici bella lustra in garage. Doveva solo uscire: «Magari mi siedo un attimo sul divano» e quell’attimo fu lungo ore, affrontando una paura mai incontrata prima. Ancora più terribile, perché non ne riusciva a trovare la ragione. Alla fine chiamò il suo ds, Eusebio Unsué: «Perdonami, la mia carriera finisce qui».

Al Giro 1999

Da allora è stato un “entra e esci” dalla clinica. I giorni non sono mai uguali, ci sono quelli “down” nel quale non sembra esserci un futuro e quelli “up” dove José sogna di tornare a inforcare la bici e sfidare quello lì, il romagnolo. Non c’è mai stato un confronto alla pari fra i due: poteva essere nel 1999 al Giro, ma allora lo spagnolo non era al massimo della forma. Provò a contenere la furia di Pantani nella scalata al Gran Sasso, ma l’unico risultato fu di essere il “migliore degli umani”, arrivando a 23” dal Pirata, primo in classifica e Jimenez secondo. Lo spagnolo andò presto in crisi tanto da finire 33° e Pantani, bè, si sa come finì quel Giro…

La rivincita poteva esserci qualche mese dopo alla Vuelta, lì sì che Jimenez era in forma. Sull’Angliru fece impazzire tutti, ma Marco non c’era

Nel 1999, sfrontato e bello, piega Heras e conquista il terribile Angliru
Nel 1999 conquista il terribile Angliru

El Chaba y Marco

El Chaba ci pensa spesso a Pantani. Non proprio un amico, però qualcosa c’è che li accomuna, forse il modo guascone di affrontare le salite che gli altri tanto temono, perché non è certo la fatica che fa paura. Forse la vera sfida fra i due è stata quella del 16 luglio 2000, al Tour. Jimenez è scatenato, se ne va sulla Madeleine anche se manca tanto all’arrivo con un pugno di compagni d’avventura che si perdono via via sulla strada. Per molti chilometri gli altri non guadagnano, finché gli dicono che dietro è infuriata una grande battaglia fra il Pirata e Lance Armstrong che lo aveva irriso per la sua vittoria al Mont Ventoux. Alla fine Pantani se l’è levato di dosso, con rabbia, continuando a spingere.

“Ma io che ti ho fatto?”, pensa Jimenez. Pantani è un tornado che guadagna a ogni pedalata e spazza via tutto e lo spagnolo è sottovento. Lo riprende a 3 chilometri dall’arrivo, prova a resistere ma sono le mosse della disperazione. Arriverà con 40” di distacco. Non è finita, non può finire così…

Pro’ dal 1992 al 2002 sepre in maglia Banesto
Pro’ dal 1992 al 2002 sepre in maglia Banesto

L’ultima fuga

E’ una bella mattinata, alla clinica San Miguel, molti parenti di pazienti lo riconoscono e si avvicinano timidamente per un autografo, per qualche foto. E’ una bella mattinata, José dice di sì a tutti, poi però si blocca. «Scusate, mi è venuto improvvisamente un gran mal di testa, fatemi sedere». Si siede, ma non passa. Chiamano i medici di turno, qualcosa non va. Lo portano subito via. E’ un infarto. Questa volta è una fuga inaspettata e non lo possono riprendere. José se ne va, a soli 32 anni, ma Pantani lo seguirà dappresso, due mesi dopo e quella sfida che tutti volevano vedere è rimasta nella fantasia dei tifosi, senza un vincitore assoluto. Il 6 febbraio José Maria avrebbe compiuto 50 anni: se cercate il suo nome negli albi d’oro dei grandi Giri, non c’è. Eppure è stato un grande proprio perché sapeva colpire l’immaginario collettivo. Non ci riescono tutti.

Se stavo zitta anche io, mio figlio era morto e basta

13.01.2021
6 min
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Le luci accese nella casa di Marco sono un colpo, pur sapendo che da tempo in quella metà abita la nipote Serena, che dello zio ha l’indole indomita e lo sguardo profondo. Semmai la cosa è difficile farla digerire a papà Ferdinando detto Paolo, come si scriveva ai tempi. Dopo una vita a entrare per controllare che tutto fosse a posto, continua a farlo anche ora provocando qualche sussulto nei nuovi occupanti.

Tonina arriva dal piano di sotto, dove c’è più caldo e dove trascorrono la maggior parte del tempo. Ci si saluta come prima del Covid e poi è curiosa di sapere perché bici.PRO e annuisce condividendo e facendo gli scongiuri. Parliamo di lavoro e famiglia, dei cani che abbaiano in continuazione, di Paolo che litiga con Serena per questa sua abitudine a entrare, di Manola che fa le piadine e del vecchio chiosco che resta un luogo del cuore, anche se capita più spesso di vederlo chiuso che in attività. Poi, mentre Paolo fa avanti e indietro, il discorso va su Marco, che domani (oggi per chi legge) avrebbe compiuto 51 anni.

Quanti ne hai tu? Quest’anno sono 52, capo.

Eravate davvero vicini, ricordo. Già, un anno e 18 giorni, per essere precisi.

Su tutte le strade, i tifosi continuano ad aspettarlo e salutarlo
Su tutte le strade, i tifosi continuano ad aspettarlo e salutarlo

Nel vortice

Parla. Si accende. Ragiona in un dedalo intricato di teorie. Racconta di essere in mezzo a mille carte da studiare. Racconta delle Iene. Dell’antimafia. Degli avvocati e dei loro vezzi. Della Ronchi. Dei soldi spariti… La osservi e provi un tuffo al cuore. Le hanno ammazzato il figlio, non smetterà mai di lottare.

Tonina, ti capita mai di vedere Marco?

Lo sento vicino a me. L’altra sera ero sul divano, con il cane che guardava dietro di me e abbaiava. Gli ho chiesto se ci fosse Marco, tanto guardava fisso alle mie spalle dove c’era solo un mobile. E mi sono girata…

Paolo alza gli occhi al cielo, ma si vede che il racconto non lo lascia indifferente.

«Paolo cambia sempre discorso – dice quando lui esce dalla stanza – ma lo vedo che soffre come un cane. Io ho allentato con le visite al cimitero. Prima andavo tutti i giorni, ora una volta alla settimana. Lui continua ad andare due volte al giorno».

Per chi continui a lottare, per te o per Marco?

E’ per Marco. Gli ho fatto una promessa, perché non ci era riuscito lui a dimostrare la verità. Vado avanti, scopro sempre un pezzetto di più. E penso che la gente abbia capito. Se stavo zitta anche io, Marco era morto e basta. Nessuno avrebbe aggiunto altro a Campiglio, invece un po’ di verità e di giustizia è venuta fuori. Ho visto tanto amore, basta andare su Facebook. Incontro tante persone che lo hanno conosciuto e mi regalano un pezzetto della loro vita. Mi scoccia quando lo giudicano per sentito dire e senza averlo conosciuto. Perché tutti quei titoli dopo Campiglio e quando è morto, senza neanche aspettare le indagini?

Questo quadro è appeso nella cucina di casa
Questo quadro è appeso nella cucina di casa: «Non smettere mai di far giocare il bambino che vive in te»

Tutto per i soldi

Deve aver fatto i capelli da poco, il viso è stanco anche vista l’ora della sera, ma gli occhi lampeggiano. Ha la stessa voglia di arrivare di Marco e la rabbia che le deriva di essersi fidata via via di persone che l’hanno raggirata in nome dei soldi. Quanti soldi…

«Non ho mai capito per quale motivo a un certo punto dovettero aprire la società di San Marino – dice – se scavano là, ne trovano di roba. Devono seguire i soldi, perché alla fine è stato tutto uno schifoso fatto di soldi. La gente per i soldi fa cose incredibili. A me non importa niente, non ho mai un soldo e ogni volta li chiedo a Paolo. Ho chiesto a Cipollini se manderebbe le figlie a fare sport professionistico. E lui ha risposto: “Il problema è quando arrivano i soldi e ti si attaccano tutti dietro”. Quando Marco cominciò a guadagnare, mi guardò e mi disse: “Adesso sono diventato anche bello”».

Ti ricordi l’ultima volta che è venuto qui?

Era il 26 gennaio. Io ero di sotto e sentii aprire la porta. Lui entra e fa: «E’ permesso?». Io grido: «Chi e?». Risponde: «Non riconosci più nemmeno tuo figlio?». Vado sopra ed era chinato davanti a quel mobile là, cercando degli esami che aveva fatto a Milano, in cui si vedeva che stava benissimo. Non so a cosa gli servissero.

Credi che abbia avuto una vita felice?

Non lo so, non credo. Il ciclista lo faceva veramente con passione. L’ho sempre visto fare tanti sacrifici, non so dire quanto gli pesassero, ma in bici finché tutto è andato bene, tornava bambino. Però non l’ho visto felice quando si è fatto la casa, questa casa. Mi disse di vendere l’appartamento di via dei Mille e di venire tutti qua. Venimmo, ci siamo ancora, ma quell’appartamento l’ho tenuto – gli dissi – per i sacrifici che ci era costato. La sua vita è stata tutto un travagliare, un andare e venire. Forse un figlio avrebbe cambiato il finale…

Cesenatico ha dedicato al Pirata le due biglie davanti al Grand Hotel
Cesenatico ha dedicato al Pirata le due biglie davanti al Grand Hotel
Oggi Ilario Biondi, l’amico fotografo che ho intervistato proprio su Marco, mi chiedeva se a fine carriera secondo me Marco sarebbe rimasto nel ciclismo.

Non lo so. Quel sistema non gli piaceva, non sopportava che gli dicessero cosa fare. Per cui forse secondo me non sarebbe rimasto, anche se aiutare i giovani a trovare la loro strada gli piaceva molto. Qualche giorno fa Belli mi ha detto: «Tonina, da dilettanti ci siamo divertiti un mondo. Nei professionisti siamo diventati carne da macello».

Come è fatto il dolore per la morte di un figlio?

Non ti passa mai. Giorni fa è morto Michael Antonelli, quel ragazzino di San Marino che aveva corso con Savini. Ci sono andata quando l’hanno portato a Montecatone, all’ospedale di rieducazione. Si poteva entrare solo con la tuta addosso, ero là dentro e piangevo come una matta. «Fallo per la tua mamma – gli dicevo – fallo per il tuo papà». Gli parlavo di Marco, lo so come possono sentirsi i suoi genitori.

Il chiosco è chiuso…

Non ci vado più neanche a vedere come gli vanno le cose. Mi piaceva starci, anche d’inverno quando era un freddo cane. Arrivavi in certe mattine che le piastre non erano ancora calde e si moriva di freddo. Però era bello quando venivano e chiedevano di Marco. Lui la piadina non l’ha mai fatta, forse per qualche foto sui giornali. E’ nella mia testa, penso sempre a lui. Quando incontro qualcuno che me ne parla, me lo vedo al suo fianco che ride. E poi però penso alle ansie di quei mesi. Penso alla foto in cui tiene in braccio il figlio della Ronchi e che sei mesi dopo non c’era già più. Mengozzi a Saturnia mi disse: «Sgridalo, così viene via con me». In quel momento lo abbiamo perso. Ti ho detto cosa ho fatto l’estate scorsa?

Partendo da una foto, uno splendido ritratto di famiglia
Partendo da una foto, uno splendido ritratto di famiglia
Devo preoccuparmi?

Con la scusa di andare a salutare un amico marchigiano che era su con la compagna, siamo andati a Madonna di Campiglio. Ho prenotato all’hotel Touring, ma con il mio cognome. Ero in camera e cercavo di immaginare se fosse quella di Marco, in cui aveva rotto il vetro. Poi è venuto Stefano Bagnolini, che era su con me, e mi ha detto: «Hai capito dove siamo? Io sono alla 26, Marco era alla 27 e tu sei alla 28». Allora ho deciso di parlare con il proprietario.

Dicendo chi sei?

Sì. Lui ha detto che ricordava il casino del 5 giugno, ma anche che quando la sera prima Marco è arrivato dopo aver vinto, litigava con Gimondi e con Giannelli. Continuavano a dirgli che non doveva vincere. E’ questo il sistema che a Marco non piaceva. Continuava a dire: «Perché nessuno rompe le scatole a Cipollini che ha vinto quattro tappe e io devo sentire certe storie?».

Pantani, Martinelli e Veneziano

Pantani e le sue biciclette raccontate da “Venezia”

13.01.2021
5 min
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Quando si parla di Pantani, si pensa alle sue imprese, alla sua vita e alla sua capacità di smuovere le folle, ma qui vorremo parlare del suo rapporto con la bicicletta. Per capire come il Pirata si rapportava con le sue specialissime abbiamo parlato con Luigi Veneziano, il suo meccanico dal 1997 al 2000.

Pantani era uno pignolo

Se c’è una cosa in cui i corridori sono diversi è nel rapporto che hanno con la propria bicicletta. Ci sono campioni che potrebbero fare i meccanici e altri che non sanno nemmeno che pedivelle usano. Ma Pantani dove si collocava in merito a questo discorso?
«Lui era molto pignolo, guardava il millimetro in tutto – inizia a raccontarci Luigi Veneziano – quando ha vinto Giro e Tour aveva il sostegno totale di Bianchi che ci aveva fornito solo per lui 12 o 13 biciclette».

Pantani era un corridore che non si accontentava mai: «Cercava sempre qualcosa di nuovo. Dopo la vittoria del Giro ha voluto cambiare le misure della bicicletta. Ha provato con quelle nuove un prototipo che Bianchi aveva preparato per il Tour, ma alla fine è tornato alla soluzione precedente e ha corso il Tour con le misure con cui aveva vinto il Giro d’Italia».

Luigi Veneziano con Marco Pantani
Luigi Veneziano con Marco Pantani
Luigi Veneziano con Marco Pantani e Alessandro Giannelli
A sinistra Lugi Veneziano con Marco Pantani e Alessandro Giannelli a destra

Ricontrollava sempre

La precisione del Pirata nel settare la bicicletta era notevole.
«Mi chiedeva sempre di quanti millimetri avessi abbassato o alzato la sella. Facevo quello che mi diceva lui, però ogni volta andava a controllare di persona. Soprattutto all’inizio quando arrivò alla Mercatone Uno era un po’ diffidente, poi con il tempo ha imparato a fidarsi».

Si vince anche con i 18

Ci sono delle tappe che sono rimaste nella storia del ciclismo fra queste quella in cui rovesciò il Tour de France a suo favore.
«La mattina della tappa con arrivo a Les Deux Alpes pioveva forte – ci racconta Veneziano – lui correva con dei pneumatici da 18 millimetri di colore giallo. La tensione era alta e io non sapevo se Marco volesse cambiare i tubolari e mettere quelli verdi con un’altra mescola e un po’ più larghi. Allora cominciai a salire sul camper con la scusa di prendere il caffè e feci avanti e indietro due o tre volte. Marco se ne accorse e mi disse di lasciare le gomme gialle. Quel giorno fui io ad aiutarlo a infilare la mantellina presa sul Galibier. La sera in albergo mi disse, hai visto “Venezia” (è così che Marco lo chiamava, ndr) che si vince anche con i tubolari da 18?».

La Bianchi di Pantani della doppietta Giro e Tour
La Bianchi della doppietta Giro e Tour
La Bianchi di Pantani della doppietta Giro e Tour
La Bianchi della doppietta Giro e Tour

Pantani e la leggerezza

Ma la nostra domanda è se Marco abbia avuto una bici che preferiva più di altre.
«Non ha avuto una bicicletta preferita. Durante i grandi Giri partiva con una bici e finiva sempre con quella. Fra le tante ci fu una Bianchi che era stata fatta per le Olimpiadi di Sydney. Era in alluminio con delle tubazioni tedesche e pesava solo 900 grammi. La provò al Giro del Lazio e gli piacque molto, così Bianchi ne fece un’altra uguale per le Olimpiadi».

Il suo cruccio era la leggerezza, cercava sempre materiali nuovi che potessero fargli risparmiare peso: «Avevo un paio di cerchi Mavic leggerissimi che gli piacevano molto. Li montammo con dei mozzi Campagnolo e con dei raggi saldati per avere più rigidità. Due giorni prima arrivò anche un attacco manubrio ITM leggerissimo. Montammo tutto per la tappa del Fauniera, quella vinta da Savoldelli. Marco finì la tappa felicissimo, quell’assetto gli era piaciuto moltissimo. Il problema è che aveva distrutto i cerchi nella discesa del Fauniera e io non ne avevo di nuovi».

I materiali nuovi

Tra i tanti che trepidavano per le scelte tecniche di Pantani c’era anche Martinelli: «A inizio anno le aziende mandavano il materiale nuovo e Beppe mi chiamava per sapere se Pantani lo avesse provato e che scelte avesse fatto. Ma a inizio anno Marco non guardava nemmeno il materiale nuovo e quindi non sapevo cosa dire a Martinelli. Poi all’improvviso quando entrava in clima Giro o Tour, allora iniziava a chiedermi delle misure e dei materiali nuovi».

Luigi Veneziano con Luciano Pezzi
Luigi Veneziano con Luciano Pezzi
Luigi Veneziano con Luciano Pezzi
Luigi Veneziano con Luciano Pezzi

La guerra con Jaja

E poi c’era la guerra con Jalabert.
«Andava a vedere le cose degli altri e spesso capitava che Jalabert gli facesse vedere dei materiali super leggeri. Dopo Marco veniva da me e diceva: “Hai visto cosa ha Jalabert?”. Allora io andavo a vedere e dicevo a Jalabert di non fargli vedere quelle cose, perché noi avevamo meno libertà rispetto a loro nel montaggio della bicicletta e non potevamo usare certi componenti».

Come ci ha spiegato Veneziano, la Mercatone Uno aveva numerosi contratti di fornitura e non si poteva… sgarrare altrimenti erano multe salate.

Quali rapporti?

Ma quali rapporti usava abitualmente Pantani? «Lui usava sempre gli stessi – ci dice – solitamente aveva un pacco pignoni 11-23 con una guarnitura con il 39-53. Una volta ha montato il 24 per affrontare il Mortirolo, ma poi non l’ha mai usato perché quella mattina non partì».

E per quanto riguarda la lunghezza delle pedivelle? «Di solito usava le 172,5 ma ogni tanto mi chiedeva di montare le 170. Non c’era una logica, a volte la mattina si svegliava e mi chiedeva di cambiare le pedivelle, magari per una tappa sola e poi tornava alle 172,5».

Marco Pantani
Marco Pantani in azione con la Bianchi al Giro d’Italia
Marco Pantani
Marco Pantani in azione con la Bianchi al Giro d’Italia

Una sensibilità unica

Luigi ci tiene a sottolineare che Marco era molto sensibile alla guida e non potevi nascondergli nulla: «Una volta gli attacchi manubrio erano in alluminio saldati e per questo magari si allungavano di qualche millimetro. Una mattina avevo montato un attacco nuovo e avevo visto che era più lungo di 2-3 millimetri. Marco prese la bici e dopo 300 metri lo vidi tornare indietro. Si era accorto che l’attacco era più lungo e volle rimontare quello vecchio. Non potevi dirgli una cosa per un’altra, perché se ne accorgeva».