Corno alle Scale

Ritorno a Corno alle Scale: la salita e il duello Cunego-Simoni

10.12.2025
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Il Giro d’Italia torna a Corno alle Scale e, come spesso accade, è l’occasione non solo per rivedere l’arrivo, in questo caso la salita, da un punto di vista tecnico, ma anche per riaprire l’album dei ricordi. E l’album dei ricordi ci riporta immediatamente al primo scontro tutto “made in Saeco” fra Damiano Cunego, poi vincitore di quel Giro d’Italia (era il 2004), e Gilberto Simoni, che quella tappa la vinse.

E il tutto lo rivediamo con Claudio Corti, che all’epoca era il team manager di quella Saeco dalle maglie rosso fiamma, piena zeppa di campioni. Una Saeco che proprio quel giorno a Corno alle Scale visse forse il momento più bello di quell’edizione della corsa rosa, come vedremo.

Corno alle Scale
Claudio Corti (classe 1955) era il general manager della Saeco che dominava in salita, ma anche in volata con Cipollini
Corno alle Scale
Claudio Corti (classe 1955) era il general manager della Saeco che dominava in salita, ma anche in volata con Cipollini
Claudio, partiamo dalla salita: che scalata è Corno alle Scale?

Non è una salita impossibile e arriva dopo una tappa abbastanza veloce, però resta impegnativa nel finale, soprattutto dopo il paese di Gaggio Montano e ancora di più dopo l’ultimo borgo (Madonna dell’Acero, ndr). Comunque si arriva oltre i 1.400 metri, è una località sciistica, e si parte dal basso. E’ una montagna vera. Per noi quel giorno fu una festa.

Perché?

Perché Gaggio Montano è il paese della Saeco. E’ lì che ci sono parte degli stabilimenti, almeno una persona per famiglia ci lavora e quindi vedere i nostri due ragazzi vincere fu una grande festa, una gioia per tutti. La tappa la volle proprio il nostro patron Sergio Zappella. Simoni era maglia rosa uscente… Cunego aveva vinto il giorno prima a Pontremoli, dunque l’entusiasmo era alle stelle.

Ma in quella tappa cosa successe? Primo Simoni, secondo Cunego: furono i primi screzi tra i due?

No, quel giorno forse no. Ripeto: c’era un clima bellissimo. Noi correvamo in casa. Cunego aveva vinto il giorno prima e Simoni conquistò tappa e maglia. Semmai, col senno di poi, ci fu un primo “segnalino” della condizione di Simoni. Gilberto infatti scattò e prese un certo vantaggio, ma non fece il vuoto. Anzi, nel finale Cunego gli rosicchiò del terreno. Era Gilberto ad essere calato o Cunego ad andare forte? Ma sul momento non demmo troppa importanza a questo dettaglio, con tutta l’euforia che c’era.

Quando cambiarono le cose?

Chiaramente nella tappa di Falzes. Ma anche quel giorno bisogna raccontare bene come andarono le cose. Sul Furcia ci si marcava con Yaroslav Popovych, ma l’ucraino non partiva, i due si guardavano. Scattò Cunego e Simoni fu addirittura contento di quell’attacco. Lui stava a ruota, faceva lavorare Popovych e andava bene così. Semmai forse si aspettava di perdere un minuto in meno a fine tappa. O anche che nelle ultime tappe Cunego calasse un po’.

Cosa che si aspettavano tutti: era un giovane al primo grande Giro…

Invece Damiano fu bravissimo e fortissimo per tutto il Giro.

Corno alle Scale
L’arrivo di Simoni a Corno alle Scale. Il trentino vinse con 15″ su Cunego e andò a prendersi la maglia rosa
Corno alle Scale
L’arrivo di Simoni a Corno alle Scale. Il trentino vinse con 15″ su Cunego e andò a prendersi la maglia rosa
Il problema dunque quando avvenne, se a Corno alle Scale e a Falzes erano ancora uniti?

Dopo la tappa di Bormio 2000. Gilberto attaccò da sotto, ma di nuovo, come a Corno alle Scale, non guadagnò molto. Nel finale, se ben ricordo ai due chilometri, lo riacciuffarono. Fu Gontchar che spingeva forte. Cunego andò poi a vincere la volata e quindi la tappa, rafforzando la sua maglia rosa. Lì Simoni si rese conto che non avrebbe vinto il Giro e chiaramente era arrabbiato per aver perso la tappa.

Per di più da un compagno di squadra…

Simoni dopo l’arrivo andò via da solo. Era arrabbiato. Per fortuna quella sera in hotel c’era il patron Zappella. Parlammo io, lui, i ragazzi… e tutto sommato la cosa rientrò. Poi chiaramente ognuno in cuor suo aveva il proprio stato d’animo. Il giorno dopo c’era ancora una tappa tosta.

Quella della Presolana…

Ormai si era deciso: bisognava correre in difesa e portare la maglia a casa. Alla fine noi in Saeco eravamo messi bene. E invece succede che attacca presto Garzelli e Simoni gli piomba sopra. I due scappano. Magari era ferito nell’orgoglio, era il campione uscente. Per fortuna per noi si mise a tirare la squadra di Gontchar.

Corno alle Scale
Cunego, Simoni e nel mezzo patron Zappella, sul podio finale di quel Giro 2004
Corno alle Scale
Cunego, Simoni e nel mezzo patron Zappella, sul podio finale di quel Giro 2004
Perché per fortuna?

Perché così facendo non ci ha posto nell’antipatica situazione di dover scegliere su chi puntare. Lasciare andare Simoni o chiudere su di lui per salvare Cunego? Non sono belle scelte. Poi non ci siamo ritrovati davvero in quella situazione anche perché il vantaggio di Cunego era ampio. Però ci terrei a dire che, tolti alcuni momenti più tesi, per noi della Saeco quello fu un bel Giro. A rivederli quei tempi! Avevamo vinto tanto, avevamo la maglia rosa dell’anno prima e quella di quell’edizione. Fu un Giro piacevole, ecco…

Oggi, Claudio, come si gestirebbe una situazione simile? Come si gestirebbero due capitani, uno dei quali così giovane? Pensiamo, per esempio, ad Almeida e Del Toro…

Quella che si verificò nel nostro caso in quel Giro è stata una particolarità. Quando si era mai visto un ragazzo giovanissimo andare così forte, crescere in quel modo e soprattutto vincere il Giro? Poi mettiamoci anche che forse l’altro non era nella super forma dell’anno prima. E c’è anche un altro elemento: quello non fu un Giro d’Italia con grandissimi nomi… Insomma, è difficile dire cosa accadrebbe oggi. Ma anche se un Del Toro o un Almeida dovessero trovarsi a contendersi la leadership, sarebbe più un’occasione dettata dal momento che una superiorità netta dell’uno sull’altro.

Stefano Casagranda 2025, battuta di caccia al cervo, foto sulla bara

Pomeriggio a Borgo: lacrime, sorrisi e il ricordo di Stefano

07.10.2025
8 min
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BORGO VALSUGANA – Passi lenti e abbracci forti. Per un’ora la navata centrale è un lento avvicinarsi al suo ultimo sguardo. Sulla bara di legno chiaro c’è la foto di una battuta di caccia, l’altra grande passione di Stefano. L’espressione è serena, appagata, vivace. La prima fila a sinistra è per la famiglia. Ci sono Andrea, Niccolò, Caterina, poi la mamma, suo papà e il fratello, che gli somiglia come una goccia d’acqua. E’ curioso accorgersi che le persone cerchino il conforto da chi ha subito la perdita, come se il dolore che provano non fosse sufficiente e dovessero sobbarcarsi anche quello degli altri. Amici che sono arrivati da ogni angolo del mondo, persino da New York. La serenità della famiglia lascia intuire il cammino degli ultimi anni, anche se pronti non si è mai davvero. L’abbraccio di Caterina toglie il respiro: questa donna ha mostrato per quattro anni la fierezza della leonessa e la solidità del porfido trentino.

Caterina Giurato, Stefano Casagranda, bridisi con birra
Caterina e Stefano hanno creato una splendida famiglia con due figli: Niccolò e Andrea
Caterina Giurato, Stefano Casagranda, bridisi con birra
Caterina e Stefano hanno creato una splendida famiglia con due figli: Niccolò e Andrea

L’esempio di Stefano

Poi a un certo punto il prete inizia a parlare e la liturgia della messa porta via il pensiero e cattura l’attenzione. Tutto si ferma. E’ il funerale di Stefano Casagranda: marito, padre, atleta, dirigente, cacciatore, ma soprattutto amico. E anche l’idea di scrivere qualcosa è una lotta con se stessi. In un angolo, un cronista armato di taccuino e telefono per fare foto, annota tutto e scatta. Il coro propone le note struggenti di Marco Frisina: «Eccomi, eccomi, Signore io vengo. Eccomi, eccomi, si compia in me la tua volontà». La gola si strozza, lasciamo scorrere le lacrime.

«Quando un ciclista si prepara per la gara – dice il sacerdote – sa dove incontrerà le salite impegnative e le discese più difficili. Sa dove può risparmiarsi e dove potrà attaccare. Ma nella corsa della vita non abbiamo una mappa, né l’altimetria. Non sappiamo quando arriva il momento della discesa paurosa, della salita dura o invece il tratto in pianura dove si può andare più veloci. Dobbiamo essere pronti all’imprevisto, bisogna prepararsi anche al cambiamento, alle sorprese. Tanti hanno avuto da Stefano l’esempio di come si affrontano i momenti bui, anche le difficoltà grosse. E’ sempre stato consapevole della sua malattia e tanti di noi sanno affrontare la vita perché hanno visto delle persone veramente care che ci hanno dato uno stile, un esempio. Andrea, Niccolò, ci sarà un momento in cui il papà vi mancherà tanto, ma non vi mancherà mai il suo esempio e allora la vita non sarà più un’incognita totale».

Stefano Casagranda nel suo negozio con i ragazzi del Veloce Club Borgo
Il Velo Club Borgo è sempre stato la seconda casa di Stefano Casagranda
Stefano Casagranda nel suo negozio con i ragazzi del Veloce Club Borgo
Il Velo Club Borgo è sempre stato la seconda casa di Stefano Casagranda

Un momento di pace, speranza e amicizia

Simoni è seduto accanto a sua moglie Arianna, tre o quattro file alle spalle di Caterina e dei suoi figli. Hanno viaggiato spesso insieme, l’ultima volta per cinque giorni alla Vuelta, con il pretesto di salutare Pellizzari che la stava correndo. E oggi Giulio, compagno della figlia Andrea, è seduto una fila avanti a loro, sulla sinistra. Divide la panca con la ragazza di Niccolò, nata a Roma da madre giapponese e padre trentino. Respiriamo il senso di un’immensa famiglia.

«Mi sono accorto che la mattina faceva fatica a mettersi in moto – ha raccontato Simoni incontrato prima della funzione – poi però era capace di stare su fino alle dieci di sera, senza battere ciglio. Sapevo che se si fosse fermato per più di due giorni nel letto, non ne sarebbe uscito. E così è stato, quando ha cominciato a salirgli la febbre».

Alla fine della messa, anche lui sale i tre gradini che dividono i banchi dall’altare, ma quello che vuole dire gli si strozza in gola.

«Non sono pronto per questo – dice e inizia a piangere – era davvero un grande ragazzo. Noi amici abbiamo perso il conto dei raduni che abbiamo fatto, pensando ogni volta che fosse l’ultimo. Stefano era un duro. Il padre mi ha rubato il concetto – dice rivolgendosi al sacerdote – ma lo ripeto. Stefano ci ha insegnato che questo momento non deve essere solo tristezza e pianto, ma anche pace, speranza e amicizia. Ha ricevuto tanto da Borgo, ma tanto ha restituito come atleta e come dirigente».

Che paura alla Strade Bianche

Stava male da quattro anni. Ce lo disse Caterina con gli occhi gonfi al Giro del 2021, al via della tappa da Rovereto a Stradella: l’avevano scoperto da poco. Quello stesso anno, assieme a Simoni e sua moglie, i due sarebbero venuti a pedalare per solidarietà nelle zone del terremoto. Cinque anni prima, per il debutto di quell’evento conosciuto come #NoiConVoi2016, il VC Borgo aveva donato quasi 1.000 euro provenienti dalla lotteria della Coppa d’Oro.

«Crediamo che insegnare ciclismo – ci aveva detto Stefano in quell’occasione – significhi non solo far praticare uno sport a dei ragazzi, ma aiutarli a crescere insegnando loro dei sani principi. Con questa donazione vogliamo che anche ragazzi lontani da noi abbiano la possibilità di percorrere strade sicure in bicicletta e, se possibile, ci piacerebbe finanziare qualche ciclabile o ciclodromo».

Era così forte, che anche il dannato male per batterlo ha dovuto faticare. Tanto che a un certo punto abbiamo iniziato a pensare che si sarebbe stancato di provarci e Stefano ce l’avrebbe fatta. Quante volte era già morto? L’ultima nel giorno della Strade Bianche, mentre sua figlia Andrea era impegnata in gara ed era all’oscuro di tutto. Come fai a sostenere lo sforzo del ciclismo, se la testa è piena di tanta sofferenza? Sembrava finita lì, invece i medici erano riusciti a dargli del tempo in più. E un paio di giorni dopo, per burla e per mangiarsi la vita, lui quel tempo se l’era preso andando in giro per il paese su una bici da passeggio.

Il giorno più bello della sua vita

Passano i genitori di Sara Piffer, passa tutto il ciclismo possibile. C’è Bertolini, che ha portato sua figlia. Miozzo e Donadello, suoi direttori sportivi. Dario Broccardo, riferimento del ciclismo trentino. Daniel Oss, assieme a Marangoni e la compagna Lisa. Andrea Ferrigato, l’amico per la pelle. Tutti i ragazzi e le ragazze del Veloce Club Borgo. E mentre li vediamo passare, torna alla memoria la cena di maggio, nella sera in cui Pellizzari mise il naso alla finestra nella tappa di San Valentino

Ci eravamo ritrovati allo stesso tavolo per una cena di selvaggina e affettati, con la sua famiglia, poi Stefano Cattai, Cristian Salvato e Stefano Masi. Racconti di caccia, qualche buona bottiglia e l’ammissione a bassa voce di sentirsi un po’ stanco. Era smagrito, con le medicazioni sotto la camicia che copriva tutto per non farci pensare ad altro che all’intensità dei momenti. Ma era ugualmente un leader, con i modi del condottiero e lo sguardo buono del gregario.

Una settimana prima di andarsene, ha radunato tutti gli amici per una festa che questa volta ha avuto il sapore del saluto. Hanno mangiato e di più hanno bevuto. E quando tutto è finito, Stefano ha spiegato a Caterina come in vita sua avesse conosciuto la felicità soprattutto i tre momenti. Quando si sono sposati e poi quando sono nati i due figli. «Ma questo – ha detto – è davvero il giorno più bello della mia vita».

Giro del Trentino 1998, Stefano Casagranda, Merano
E’ il 1998, Casagranda centra al Giro del Trentino (tappa di Merano) una delle sue cinque vittorie
Giro del Trentino 1998, Stefano Casagranda, Merano
E’ il 1998, Casagranda centra al Giro del Trentino (tappa di Merano) una delle sue cinque vittorie

L’abbraccio di Niccolò, le parole di Caterina

«L’amministrazione comunale di Borgo – dice la sindaca Ferrai – porterà avanti le idee di Stefano per sostenere lo sport come mezzo di costruzione di relazioni sane. Seguiranno tanti giorni in cui sentiremo la sua mancanza, ma ci saranno tanti giorni di gratitudine. Stefano era un uomo di un’intelligenza luminosa. Ci troveremo a sorridere pensandolo ancora insieme a noi».

Stefano Casagranda ci lascia la dignità e la capacità di vivere ogni giorno al massimo. Ci lascia la serietà dei momenti seri e la leggerezza di quelli leggeri. Ci lascia l’ironia e l’amore. La capacità di guardare in faccia l’avversario e sfidarlo, pur sapendo che alla fine ne sarebbe stato sconfitto.

Raccontano che per andarsene abbia aspettato che tornasse suo figlio Niccolò. Già dal mattino si era capito che non mancasse molto. La febbre era salita e anche l’idea di fare un viaggio a Roma con Ferrigato per andare a mangiare bene, era naufragata. Quando Niccolò è arrivato, lo ha abbracciato e poi gli ha detto: «Papà, stiamo tutti bene, vai pure». E Stefano Casagranda, 52 anni compiuti il 2 ottobre, ha chiuso gli occhi e alla fine si è lasciato andare.

«Io avrei voluto dire qualcosa in chiesa a braccio – dice Caterina mentre il sagrato della chiesa si riempie di gente – perché non avevo preparato niente di scritto. Ma visto tutte le persone che mi hanno salutato, ho fatto fatica a girarmi e a guardare tutti. Però ho un messaggio che mi ha lasciato per i suoi atleti e anche per quelli delle altre società. Mi ha raccomandato di dirvi che domenica nessuno deve restare a casa, nessuna commemorazione, nessun minuto di silenzio. Spingete più forte che potete sui pedali».

Yates come Simoni: storie del Tour 2003, guardando Jonas e Tadej

20.07.2025
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Una somma di cose alla fine ci ha portato a rispolverare una storia del 2003, quando Gilberto Simoni vinse il Giro d’Italia e poi si presentò baldanzoso al Tour de France, vincendo una tappa. Quando qualche giorno fa Simon Yates ha vinto a Le Mont Dore, subito la mente è andata al trentino. Non sono tanti quelli (tolto Pogacar e pochi altri) che hanno vinto il Giro e poi anche una tappa al Tour. Loro due per giunta hanno quel modo simile di andare in salita. Rapportone, bassa cadenza e ritmo che li stronca. E quando ci siamo accorti che la cronoscalata di venerdì è partita da Loudenvielle, abbiamo pensato che non potesse essere solo una coincidenza: proprio lì infatti Gilberto conquistò l’unica tappa al Tour della sua carriera.

In breve. Già vittorioso al Giro del 2001 quando correva con la Lampre, nel 2003 Simoni corre in maglia Saeco e si gioca il Giro con Garzelli e Popovych. Nel gruppo c’è anche l’ultimo Pantani. Gilberto è arrivato al Giro dopo aver vinto il Trentino e il Giro dell’Appennino. Arriva secondo sul Terminillo, battuto da Garzelli. Prende la maglia rosa a Faenza, dove si piazza terzo. Poi vince sullo Zoncolan e all’Alpe di Pampeago. E dopo il secondo posto di Chianale, vince ancora a Cascata del Toce, nella tappa degli ultimi scatti di Pantani. Esce dal Giro il primo giugno in grandissima condizione. Il Tour quell’anno parte il 5 luglio con un prologo a Parigi. Propone una crono di 47 chilometri il dodicesimo giorno a Cap Decouverte e l’indomani affronta i Pirenei.

Simon Yates, vincitore del Giro con l’impresa del Finestre, conquista la tappa di Le Mont-Dore
Simon Yates, vincitore del Giro con l’impresa del Finestre, conquista la tappa di Le Mont-Dore
Andasti al Tour, ma al centro dei pensieri c’era il Giro?

Sì, io ho sempre avuto in testa il Giro. Insomma, non c’era tanto spazio per andare al Tour con le programmazioni di allora. Era difficile prepararsi per due appuntamenti. Però devo dire che negli anni in cui sono andato, mi sono anche impegnato. E quell’anno, dopo aver fatto il Giro d’Italia, ero convinto di fare bene e mi ero preparato a puntino.

Ma non tutto andò come speravi, giusto?

Nella prima settimana stavo veramente benissimo, poi sono andato fuori giri nella crono. Il giorno dopo ci fu una tappaccia, veramente intensa e dura. E da lì in poi non sono più riuscito a recuperare. Ho fatto un fuori giri che non ci voleva, altrimenti non avrei vinto perché non me lo sognavo neanche, però credo che sarei riuscito a entrare nei primi cinque.

Ricordi cosa facesti in quel mese fra Giro e Tour?

Non corsi, ma andai con Miozzo (il suo tecnico, ndr) ad allenarmi sull’altopiano di Asiago. Anche allora si andava in altura, ma non era la mia preparazione preferita. Salimmo ad Asiago perché stavo veramente bene e se non avessi sbagliato quella crono, sarebbe finita diversamente. Le tappe contro il tempo in quel periodo erano lunghe e determinanti. Diedi anche l’anima per non prendere un minuto in più e invece la pagai cara.

Garzelli ha conquistato la maglia rosa sul Terminillo e la perderà a Faenza per mano di Simoni: intervista con Alessandra De Stefano
Garzelli ha conquistato la maglia rosa sul Terminillo e la perderà a Faenza per mano di Simoni: intervista con Alessandra De Stefano
Eri uscito bene dal Giro?

Quando vinci non ti sembra neanche di aver fatto fatica. Ero tranquillo, per quello non andai a cercare l’altura. Cercai solo il fresco, dovevo recuperare. Mi ricordo che le prime tappe furono veramente nervose. Mi è successo di tutto. Sono caduto a 70 all’ora in volata, ma non mi son fatto niente. La prima settimana al Tour de France è sempre un disastro, più emotivamente che fisicamente. Insomma, quello che ha finito col pagare Remco. Serve una squadra forte perché in corsa si creano delle gerarchie e per stare davanti bisogna lavorare di spalle, gridare e tener duro.

Ti sembra che il modo di correre sia cambiato?

Ricordo che Indurain lasciava fare. Quando andava via la fuga, non si interessava troppo, mentre adesso è difficile vedere una situazione del genere. Tutte le squadre sono in corsa per cercare un risultato, quindi devono far vedere che sono lì per lavorare e non per fare vacanza. Mi ricordo che per una settimana era sempre così: un’ora a 50 di media, si formavano gruppi da tutte le parti e poi li trovavi fermi in mezzo alla strada e si andava verso la volata, ma spesso qualcuno arrivava. Non mi spiego come qualche giorno fa ci fosse una fuga di 50 corridori e non siano arrivati.

Che cosa ti ricordi di quella vittoria a Loudenville? 

Per la delusione che avevo addosso, è stata una roba enorme. Ero deluso perché a Parigi avevo fatto veramente un prologo eccezionale, arrivai ventunesimo. Si girava intorno alla Tour Eiffel: arrivai e mi sentii orgoglioso di me, veramente all’altezza della sfida. Persi 13 secondi, sentii di essere nel vivo della corsa. Invece andammo sulle Alpi e provai una delusione dopo l’altra. Riconoscevo anche persone venute per me dall’Italia, ma non c’era modo di rialzarsi. Saltai il giorno dopo Morzine. Nella tappa dell’Alpe d’Huez cercai di tener duro.

Che cosa successe?

Feci la salita dietro al gruppo, a 20 metri. Rientrai in discesa e pensai che forse la bambola mi fosse passata, invece ancora prima che iniziasse l’ultima salita, ero già saltato. Ero confuso e quindi decisi di riposarmi e disinteressarmi della gara. Nel giorno di riposo finii su L’Equipe, perché mi fotografarono al mare con Bertagnolli a prendere il sole. E piano piano iniziai a crescere. Bertagnolli invece si ritirò e Martinelli venne a dirmi che se non me la fossi sentita di continuare, sarei potuto ritornare a casa. Invece gli risposi che ero arrivato alle tappe che volevo e sarei rimasto. Non volevo rinunciare all’occasione di provarci. E infatti il giorno dopo andai in fuga.

Come andò?

Ho avuto solo un pensiero, uno solo, non ne avevo altri: volevo vincere. Non mi lasciai influenzare dal tempo, dall’acqua, né dal caldo, né dalle salite. Volevo solo vincere e alla fine ci riuscii in volata, cosa che per me non era scontata. Era una tappa dura, con sei salite tutte combattute. Mi ritrovai con corridori veloci come Dufaux e Virenque. Sapevo di non essere il più veloce, ma presto anche loro si accorsero che ero io l’uomo da battere e provarono a farmi fuori. Andai all’ammiraglia e mi attaccarono. Però sono stato freddo, sono rientrato e poi ho iniziato a guidare le danze. La volata sarebbe stata una roulette russa, ma con un po’ di fortuna, riuscii a vincere la tappa.

Hai visto il Tour di Armstrong, ora c’è Pogacar: con quale spirito si va alle corse se i rivali sono tanto più forti?

Devi affrontare la realtà. Non mi sono mai illuso, però ho sempre messo in conto di dire: vediamo dove arrivo. Non sono mai partito battuto, insomma. La consapevolezza di non poterli battere arriva strada facendo, perché almeno all’inizio devi partire sapendo che puoi giocartela, no? Non sono mai partito per partecipare, io ero fatto così. Detto questo, si vede che Vingegaard corre su Pogacar, che non gliene frega niente di nessun altro. Ho visto tanti corridore fare così, potrei farvi una lista infinita. Quelli che battezzano un rivale perché sanno che va forte e aspettano che salti per rubargli il posto. Io non sono mai stato così, non ho mai fatto la corsa per aspettare che mi arrivasse qualcosa dal cielo. Insomma non era nel mio carattere.

Si arriva in casa: Simoni vince da solo a Pampeago, intorno a lui l’entusiasmo trentino
Si arriva in casa: Simoni vince da solo a Pampeago, intorno a lui l’entusiasmo trentino
Cosa ti pare di Pogacar?

Non aspetta, non è attendista. A volte sembra che non segua alcuna indicazione. Credo che a volte voglia fare le cose in grande e poi si penta per aver fatto qualcosa di troppo. Secondo me, visto il risultato, a Hautacam ha pensato che gli sarebbe bastato attaccare negli ultimi tre chilometri, anziché dai piedi della salita.

Ha il gusto di stupire?

Attacca spesso da lontano, anche se basterebbe meno. Mi piace l’imprevedibilità, come Van der Poel. Quando puntano una tappa, diventano imprevedibili, ma sono tenaci e ne fanno di tutti i colori. Insomma, la scommessa più grande è capire se vinceranno oppure no. Per il resto diciamo che Tadej è abbastanza infallibile, l’altro gli gira attorno da un po’. Ha già vinto per due volte il Tour, ma continuerà a correre allo stesso modo.

Da Basso a Simoni. Anche Gilberto lancia suo figlio nella mischia

01.02.2025
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Se Santiago Basso da una parte inizia il suo impegno in un team prestigioso come la squadra development della Bahrain Victorious, l’amico-rivale Enrico Simoni non è da meno e si appresta ad affrontare la sua prima stagione nelle file della MBH Bank Ballan CSB, con cui suo padre Gilberto collabora dallo scorso anno. Per il trentino, cresciuto nell’Unione Sportiva Montecorona, è un gran salto, entrando a far parte di un team continental che svolge una gran quantità di attività all’estero.

Enrico Simoni con papà Gilberto e mamma Arianna. La scelta del team è stata tutta sua
Enrico Simoni con papà Gilberto e mamma Arianna. La scelta del team è stata tutta sua

Un salto che riempie d’orgoglio papà Gilberto e fa un certo effetto rivedere i cognomi Basso e Simoni sfidarsi sulle strade a un po’ di lustri di distanza da quanto Ivan e lo stesso Gibi facevano, infiammando le folle per uno di quei dualismi sui quali il ciclismo italiano ha vissuto e dei quali si sente sinceramente la mancanza. Gilberto, orgoglioso dei passi che suoi figlio sta facendo, ammette che una certa responsabilità in questo ce l’ha…

«E’ stato coinvolto da noi – racconta il trentino – facendo parte di una famiglia nella quale la bici ha sempre avuto un peso non indifferente. A parte il mio lavoro, tutti siamo sempre andati in bici, abbiamo respirato questa passione ed era facile farsi coinvolgere. Io ho sempre voluto che i miei figli facessero sport, poi il discorso della carriera è un’altra cosa».

Per il diciottenne Enrico Simoni il passaggio alla MBH è un grande salto, per affrontare i professionisti
Per il diciottenne Enrico Simoni il passaggio alla MBH è un grande salto, per affrontare i professionisti
Ti rivedi un po’ in lui, nelle sue sensazioni affrontando questo mondo?

Difficile dirlo, perché il ciclismo nel frattempo è diventato tutt’altro. Io mi rivedo in tutti i ragazzi che affrontano quello che ho affrontato io, ma mi accorgo che le differenze sono enormi, oggi allievi e juniores non sono certo quelli dei miei tempi, devi impegnarti molto più di quanto facevo io. E vedendo quel che ha fatto e fa Enrico, la differenza è evidente.

Ma tecnicamente quanto ha preso da te?

Un po’ mi assomiglia, intanto non ha paura di far fatica, ama la salita, non è certo un velocista. Ma è ancora un corridore grezzo, che approda adesso nel ciclismo che conta e che va plasmato. Intanto vedo che non teme l’allenamento, che in salita è portato alla resistenza e quindi ben strutturato per quelle lunghe. Anche da junior ha vinto in salita, al Bottecchia ha fatto pian piano il vuoto.

Enrico è uno scalatore come il padre, ma con un fisico diverso, più slanciato
Enrico è uno scalatore come il padre, ma con un fisico diverso, più slanciato
Fisicamente?

E’ già 10 centimetri più alto di me, ma il suo fisico è asciutto, tipico da scalatore.

Il suo 2024 come lo hai visto?

Nella prima parte dell’anno non bene, non trovava mai la condizione per problemi fisici, poi finalmente è arrivata la pace e con essa i risultati, con ottimi piazzamenti oltre alla vittoria di Piancavallo. Anche quelli hanno influito, catalizzandogli addosso i fari dell’attenzione. Ed è stato un bene, passare senza risultati poteva dargli qualche contraccolpo psicologico.

Simoni al centro sul podio di Piancavallo, fra Cobalchini (2°) e Manfe (3°)
Simoni al centro sul podio di Piancavallo, fra Cobalchini (2°) e Manfe (3°)
Approvi la sua scelta come team?

Sì, è ideale per il suo percorso. Lo aiuterà a crescere mentalmente, a prendere più consapevolezza dei suoi mezzi. Sono anche contento che sia in un team italiano: spesso vengono un po’ bistrattate le nostre squadre, ma bisogna anche pensare che sono l’humus della nostra attività, a finire in un team straniero è sempre una minoranza.

Il suo cammino è diverso dal tuo?

Profondamente. Io alla sua età subivo meno condizionamenti, anche perché vedo che i ragazzi hanno addosso un peso che noi non avevamo, i social, il fatto di essere sempre sotto l’occhio della comunità. Servono le persone giuste intorno per farli crescere e non parlo solamente a livello ciclistico. Io mi sono costruito, ma non ero così pressato alla sua età, chi ha 18 anni oggi fa già la vita de corridore con un margine di errore davvero minimo.

La vittoria al Trofeo Bottecchia di Piancavallo è stata la sua perla del 2024
La vittoria al Trofeo Bottecchia di Piancavallo è stata la sua perla del 2024
Non t’incuriosisce il fatto che con Santiago Basso si ripropone quella rivalità di famiglia?

Effettivamente è strano, ma ci sono anche altri, so che tutti loro fanno gruppo, confrontano spesso le loro esperienze. I nostri figli portano addosso un nome pesante, che accresce l’attenzione su di loro, ma non c’è mai un destino uguale all’altro, non faranno mai quello che abbiamo fatto io e Ivan perché siamo in un’altra epoca. E non lo dico come qualità di risultati, potranno anche fare meglio. Noi come genitori possiamo solo aiutarli a trovare la loro identità.

Il cognome lo ha mai sentito come un fastidio?

Diciamo che un po’ ne risente, il sentire sempre “figlio di Gilberto” non gli fa piacere, proprio perché vuole trovare una sua strada indipendentemente da me. Ora che la sua carriera prende inizio, spero che possa aiutarlo ad affrancarsi da questa situazione.

Basso e Simoni nella celebre tappe del Mortirolo al Giro 2006, che fece esplodere la rivalità
Basso e Simoni nella celebre tappe del Mortirolo al Giro 2006, che fece esplodere la rivalità
I rapporti con lui come sono, vi confrontate su temi ciclistici?

Sì, lui ascolta, ammetto anche che in certi casi mi sono un po’ imposto, come sul fatto di non prendere quello che appare in Rete come oro colato. Mi sono sempre raccomandato di gestire le emozioni e affrontare le responsabilità dell’appartenenza a un team. Ma anche di continuare a vivere il ciclismo come un piacere, perché è ciò che lo rende speciale.

Papà Basso e Santiago alla Bahrain. Una scelta autonoma

30.01.2025
5 min
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Ora Santiago Basso inizia a farsi grande e arrivano le responsabilità. Il giovane rampollo dal cognome ciclisticamente nobile approda al devo team della Bahrain e questa è l’occasione migliore per scrollarsi di dosso tutte le perplessità che, giocoforza, circondano sempre chi è figlio di qualcuno che ha scritto pagine di storia di quello sport, come Ivan ha fatto.

Oggi papà, impegnato com’è nella crescita della Polti-VisitMalta, lascia fare, ma segue sempre con interesse costante le gesta del figlio. Da lontano.

Per Santiago Basso è iniziato già il lavoro con il devo team della Bahrain
Per Santiago Basso è iniziato già il lavoro con il devo team della Bahrain

«Sia io che mia moglie Micaela abbiamo lasciato fare a lui – spiega – doveva fare le sue scelte perché ora è maggiorenne ed è entrato in quell’età che, ciclisticamente parlando, ti definisce. Ha un suo procuratore, ha valutato le possibilità e ha scelto, noi abbiamo fatto un passo indietro. Soprattutto io, in questo caso non più ex corridore e ora manager di un team di livello, ma solamente papà».

Non sei però un papà qualsiasi, ma hai una sensibilità specifica particolare. Come lo hai visto nell’approccio con il ciclismo di vertice?

E’ molto maturato, in un anno dai due volti, difficile nella prima parte dove noi abbiamo cercato di ascoltarlo e supportarlo. Molto meglio nella seconda, dove sono anche arrivati i risultati tanto che per costanza di prestazioni è stato forse il migliore della categoria. Sugli juniores il mio pensiero è noto…

Il piccolo Basso nel team di papà Ivan, era il 2023. Lo scorso anno ha corso con la Bustese Olonia
Il piccolo Basso nel team di papà Ivan, era il 2023. Lo scorso anno ha corso con la Bustese Olonia
Spiegaci meglio, ti va?

Non è certo più la categoria di quando correvo io, ora ci si gioca tanto già a quell’età, ma non bisogna guardare solo i risultati. Io – e qui parlo da manager – non valuto solo quelli, ma l’evoluzione intera dell’uomo prima ancora che del corridore perché dovrà essere parte di un insieme, quello della squadra. Spero che per Santiago ci siano le stesse valutazioni. Tutti guardano le vittorie da junior, ma ricordiamoci che vincere nella categoria è completamente diverso che vincere da pro’…

Lo trovi quindi cresciuto non solo ciclisticamente…

Infatti, per me ha fatto un salto di qualità. Sono contento di come ha affrontato questa delicata fase, contemplando anche la scuola, la difficoltà di doversi allenare dopo le ore di studio. Infatti è stato d’estate, con la mente più libera che si sono visti i miglioramenti. E’ salito il suo livello, soprattutto in salita e nelle corse a tappe e questo me lo dicono i numeri. In totale Santiago ha fatto 18 mila chilometri, seguendo una preparazione basata sull’età e la crescita, ha dato in corsa quel che poteva nel momento, ma si vede che ci sono margini.

La volata del GP dell’Arno, con il lombardo battuto da Elia Andreaus, oggi suo compagno (foto Rodella)
La volata del GP dell’Arno, con il lombardo battuto da Elia Andreaus, oggi suo compagno (foto Rodella)
Ti sei fatto anche un’idea più precisa di che corridore è e di che cosa in lui c’è dell’Ivan Basso che conosciamo?

Un po’ mi assomiglia, forte in salita e con una buona capacità di spunto veloce. Quel che mi impressiona di più è la sua condotta nelle prove a tappe, che ritengo anche il suo aspetto più promettente: mostra di avere grandi capacità di recupero. Alla Vuelta al Besaja, ad esempio, è andato migliorando giorno dopo giorno fino a chiudere quinto assoluto, in una prova dove c’era gente che correva nei devo team. Ha poi fatto molte corse di livello, sfiorando la vittoria come all’Arno e al Sestriere, finendo bene anche al Piccolo Lombardia.

Un elemento che nell’ambiente ciclistico circola è il paragone fra lui ed Enrico Simoni, d’altronde tu e Gilberto avete scritto pagine indelebili sulle strade italiane. Loro sono molto amici, pensi che risentano del passato riguardante voi?

Difficile dirlo. E’ vero che il peso dei nostri cognomi c’è, ma sta a me e Gibo non farglielo sentire troppo. Loro si stanno costruendo la loro identità, la loro personalità. So che sono in contatto e mi fa piacere. D’altronde c’è un bel legame tra tutta quella generazione, so che hanno anche fatto un gruppo su WhatsApp, si sentono spesso. E’ importante, perché poi capiterà che si ritroveranno in fuga, in gruppo, avere già un legame conta.

Santiago fra papà Ivan e Lello Ferrara. Oltre alla Bahrain altri team internazionali si erano fatti avanti (photors.it)
Santiago fra papà Ivan e Lello Ferrara. Oltre alla Bahrain altri team internazionali si erano fatti avanti (photors.it)
Hai approvato la scelta della Bahrain?

E’ uno dei team di maggior livello, con una struttura collaudata. Io sono contento, ma il mio parere conta relativamente. Quel che è importante è che è una decisione sua, autonoma. Ha interagito lui con i dirigenti del team, io vedo la sua crescita anche in questo. Relativamente al team, non dimentichiamo che è nato sulle basi del CTF, che è un serbatoio storico del ciclismo italiano, dal quale anche io ho preso corridori come Bais e Pierobon. Lo avevano cercato anche altri devo team, ma la loro proposta lo ha convinto.

Enrico Simoni, uno scalatore diverso da papà Gilberto

18.09.2024
6 min
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Negli ultimi tre weekend di gare ha sempre pedalato nei piani altissimi degli ordini d’arrivo e quando vede la strada salire si scatena come faceva il padre. Enrico Simoni non è solo il figlio di Gilberto, ma uno scalatore fisicamente diverso da lui, che sta finendo la stagione con una serie incredibile di piazzamenti.

La vittoria in solitaria a Piancavallo del 7 settembre si piazza nel bel mezzo dei secondi posti ottenuti prima alla Sandrigo-Monte Corno (replicando lo stesso risultato di papà “Gibo” 35 anni fa) e poi alla Orsago-Col Alt. L’ottimo stato di forma dello juniores dell’Us Montecorona è arrivato un po’ in ritardo sulla tabella di marcia per snervanti problemi fisici, però baby Simoni vuole recuperare il tempo perso. E ad occhio si direbbe che ci stia riuscendo, anche grazie ai consigli di Simoni senior.

Enrico Simoni, classe 2006, è uno scalatore alto 1,78 metri per 57 chilogrammi. Si trova a suo agio su salite superiori ai trenta minuti
Enrico Simoni, classe 2006, è uno scalatore alto 1,78 metri per 57 chilogrammi. Si trova a suo agio su salite superiori ai trenta minuti

Enrico visto da Gibo

La salita è un affare di famiglia in casa Simoni. Gilberto ci ha costruito una carriera e le due vittorie al Giro d’Italia, Enrico sta cercando di fare il suo percorso al meglio, superando anche la “montagna” del cognome importante.

«Non possiamo fare paragoni tra lui e me – puntualizza Gibo – perché apparteniamo ad un ciclismo molto diverso. Così come è differente la nostra fisionomia (Enrico è alto 1,78 metri per 57 chilogrammi, Gilberto era 1,70 per 59 chili, ndr). La sua vera forza è che non ha paura di fare fatica e in questo mi somiglia molto. Non so quali siano i suoi margini di miglioramento perché a volte faccio fatica a vederli in quegli juniores che vanno forte veramente. Potrebbe dipendere da quanta voglia abbia di continuare a fare questo sport come si deve. L’importante è che capisca che il ciclismo non è la vita, ma una esperienza, come ripeto sempre.

«Adesso vedo Enrico sereno – prosegue – perché prima avvertiva la tensione dell’essere mio figlio. Sentiva il peso di dover fare risultato a tutti i costi. I parenti e gli amici, pur dicendolo con simpatia, lo caricavano di responsabilità e inconsciamente lui si creava delle aspettative. Sono riuscito a calmarlo e dirgli di non pensarci. Lui sa che io lo sostengo in ogni cosa e so che si sta impegnando tanto. Le difficoltà sono altre».

Il primo podio di Enrico arriva il 4 maggio, ma i problemi posturali continuano ad affliggerlo
Il primo podio di Enrico arriva il 4 maggio, ma i problemi posturali continuano ad affliggerlo

Juniores e problemi annosi

La schiettezza è sempre stata una dote preziosa di Gilberto Simoni e gli basta un assist sul futuro di suo figlio per analizzare i problemi della attuale categoria.

«E’ vero che faccio parte della MBH Bank Colpack Ballan – dice – e che qualcuno potrebbe pensare che potrei farlo passare lì, ma è presto. Deve ancora maturare e pensare a finire bene la stagione. Non mi pongo limiti, magari potrebbe arrivare anche un team straniero. Diciamo che vorrei che non ci fossero troppe persone di mezzo nel suo trasferimento, come quello degli altri in generale.

«Negli juniores – conclude Gilberto Simoni – è tutto una pazzia, come in tutte le altre discipline di quella età. Lo sport è socialmente degradato. Ormai non è fatto più per far crescere i ragazzi, quanto invece per finalizzare l’interesse di certi tecnici o dirigenti. Lo vedo nei kart, nello sci, nel calcio. E il Coni è il primo organo che lo concede. Avete notato che si è abbassata l’età media dei ragazzi che smettono di fare sport? E’ perché si arrendono prima alle pressioni spropositate della ricerca di risultati. Spero che cambi in fretta questa tendenza».

Simoni (tra Cobalchini e Manfè) ha vinto in salita a Piancavallo sfruttando allunghi e cambi di ritmo, le sue doti meno forti
Simoni (tra Cobalchini e Manfè) ha vinto in salita a Piancavallo sfruttando allunghi e cambi di ritmo, le sue doti meno forti
Da un Simoni ad un altro. Enrico che tipo di corridore sei?

Sono scalatore che sfrutta la sua leggerezza, anche se non la cerco apposta. Mi trovo bene su salite lunghe e non è un caso che i risultati migliori siano arrivati su quelle che duravano 30/40 minuti o addirittura un’ora. Sto migliorando sugli scatti e sui cambi di ritmo. La vittoria di Piancavallo infatti me la sono costruita in questa maniera, giocando al meglio su queste caratteristiche che mi appartengono meno. Ho vinto anche gestendo un po’ la troppa foga di vincere. Anche perché finora non era stata una stagione semplice.

Per quale motivo?

Ho trascorso un inverno travagliato con dolori alla schiena e problemi posturali. Fino a maggio è stato un calvario, era frustrante vedere tutti che andavano in bici e facevano risultato. Mi piace spingermi al limite, ma non ero più disposto a questo tipo di sofferenza. Poi ho risolto questa noia proprio grazie al vostro articolo su Kevin Colleoni.

Cioè?

Sono risalito allo stesso studio di osteopati, che mi ha rimesso letteralmente in sesto curandomi una rotazione del bacino ed un gonfiore addominale. Mi manca solo di sistemare il problema della masticazione che farò nel prossimo inverno.

E così ti sei sbloccato definitivamente.

Esattamente. Da luglio in avanti ho avuto la svolta. Mi sono ritrovato con più energia da spendere e non ho più dovuto pensare ad altro. Sono arrivati tanti bei risultati, ma soprattutto una continuità di prestazioni e rendimento. Ora voglio solo concludere il 2024 in questo modo. Sabato ad esempio c’è una cronoscalata organizzata proprio dalla nostra società e vorrei fare molto bene visto che corriamo a Palù sulle strade di casa. Punto però anche ad una gara ondulata che ci sarà a Firenze la settimana prossima ed è aperta a tanti tipi di corridori. All’anno prossimo prossimo ci penserò più avanti.

Risolte le noie fisiche alla schiena, Simoni ha ritrovato il giusto colpo di pedale da luglio in avanti
Risolte le noie fisiche alla schiena, Simoni ha ritrovato il giusto colpo di pedale da luglio in avanti
A parte tuo padre, c’è un atleta a cui fai riferimento?

E’ vero, mi sono sempre ispirato a lui, ma ho cercato di imparare a correre guardando i suoi vecchi video e discutendone con lui. Nel presente invece mi piacciono molto Enric Mas e Joao Almeida. Lo spagnolo per una questione prevalentemente fisica dato che sono molto simile a lui. Il portoghese invece per il modo di correre visto che anche lui affronta le salite con grande regolarità. Per il resto devo ancora capire chi sono e dove posso arrivare.

Simoni e Zoltan: punti d’unione tra Italia e Ungheria

04.03.2024
4 min
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BERGAMO – L’avventura della MBH Bank-Colpack-Ballan è iniziata con le prime gare della stagione. I ragazzi di Bevilacqua si sono fatti vedere e messi in mostra, il progetto che lancerà la professional dal 2025 è appena avviato. Tra le figure entrate in squadra ci saranno anche quelle di Gilberto Simoni e Bebtó Zoltan, i due sono stati il ponte che ha unito il nuovo sponsor ungherese con la continental bergamasca.

Simoni e Zoltan al centro della foto insieme ai ragazzi della MBH Bank-Colpack-Ballan
Simoni e Zoltan al centro della foto insieme ai ragazzi della MBH Bank-Colpack-Ballan

Unione di intenti

Tra Italia e Ungheria si è così creata quella che si può definire un’unione di intenti. La voglia di MBH Bank di sponsorizzare e far crescere il ciclismo era molta, ma serviva uscire dall’Ungheria e appoggiarsi ad una struttura solida e organizzata. La scelta è ricaduta, quasi automaticamente sulla Colpack Ballan.

«Io e Simoni – dice Zoltan – siamo amici da molto tempo. Ho questo rapporto molto stretto anche con i membri della MBH Bank. Loro già sponsorizzano un team di ciclismo in Ungheria, solo che lì non ci sono staff come quelli italiani e squadre con questa organizzazione. Parlavamo di come migliorare il ciclismo nel nostro Paese, ma è difficile, mancano tante cose. Non ci sono squadre, staff, corse, corridori… Ci è venuto in mente di uscire dal Paese, così abbiamo guardato alla Colpack. Ho parlato con Antonio (Bevilacqua, ndr) e ci siamo trovati fin da subito. Il modo di programmare, la decisione che hanno, la struttura. A quel punto serviva solo il tempo per decidere le cose e farle bene. Abbiamo cinque anni per fare un grande processo di crescita».

Simoni alla partenza della Coppa San Geo 2024, la prima gara alla guida della formazione ungherese
Simoni alla Coppa San Geo 2024, la prima gara alla guida della formazione ungherese

La passione comune

La parola che più si è sentita, nelle volte in cui abbiamo avuto modo di parlare con i diretti interessati al progetto, è stata “passione”. Questo è il sentimento che deve guidare la nuova partnership, perché serve avere il coraggio di investire, ma prima di tutto lo sport è davvero tanta passione

«Sono rimasto coinvolto – dice Simoni – perché lo sponsor ungherese (MBH Bank, ndr) cercava un team italiano. L’amicizia che mi unisce con “Zoli” (Zoltan, ndr) già legata al ciclismo e alla passione a 360 gradi per la bici è stata il canale di comunicazione migliore. Mi hanno incanalato in questa unione tra Ungheria e Italia, perché la MBH Bank viene nel nostro Paese per esportare la nostra tradizione. Il ciclismo in Ungheria è piccolo ma bello, appassionato, puro e ora vuole crescere.

«Il motivo per cui si è coinvolta la Colpack – continua – è la storia, perché 30 anni di sponsorizzazione insieme a Colleoni vogliono dire passione. Credo che l’unico modo per continuare ad avere sponsor solidi è riuscire a trasmettere il bello di questo sport. I risultati non devono arrivare solamente dai ragazzi, ma passano anche dal vedere le proprie aziende avere dei risultati economici e di immagine. E’ sempre passione, ma con interesse, che è quello che muove il professionismo e il mondo dell’economia».

La MBH Bank diventerà un team professional dal 2025 (foto NB Srl)
La MBH Bank diventerà un team professional dal 2025 (foto NB Srl)

I giovani

La voglia di crescere si è vista fin da subito, i ragazzi sono stati coinvolti e resi partecipi. Non sono mancati già i primi innesti dall’Ungheria, come il campione nazionale under 23 in carica. Ma, il progetto parte anche da più lontano, la durata di cinque anni impone una profondità di pensiero maggiore. 

«Io voglio occuparmi dei giovani – spiega Simoni – in Italia li abbiamo, mentre in Ungheria sono da scoprire. Loro vogliono far crescere il ciclismo giovanile e sarebbe bello trovare qualche ragazzo valido. L’Ungheria vuole imparare il modello italiano e perché no, anche migliorarlo. Cosa che fa bene anche a noi, di riflesso

«Ci saranno dei ragazzi ungheresi – conclude il discorso – juniores e allievi, che verranno a fare delle corse in Italia. Già si sta allargando il progetto, la voglia è quella di fare un salto in su, tra le professional, senza abbandonare i ragazzi. Farli crescere in casa, sì, ma penso che ci sia bisogno della competizione, quindi cercheremo anche dei ragazzi da fuori. La spinta per migliorare deve riguardare tutti quanti».

Simoni, anno 2000: l’unico italiano ad aver domato l’Angliru

17.08.2023
6 min
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Ci sono lingue di asfalto in alcuni angoli del mondo in grado di emozionare migliaia appassionati ogni volta che vengono scalate. Una di queste è l’Angliru. Gilberto Simoni vinse in maglia Lampre nel 2000, quando aveva 29 anni e in bacheca ancora nessun Giro d’Italia. Su quella salita ha lottato con la gravità, rischiando di mettere il piede a terra su pendenze che mettono paura a qualsiasi generazione di ciclisti. 12,4 chilometri con una pendenza media del 9,8% con punte al 24%

Il 13 settembre 2023 è uno di quei giorni da segnare sul calendario. Perché la Vuelta in occasione della 17ª tappa arriverà sull’Alto de Angliru. Una punta di sadismo accompagnerà ogni appassionato alla visione di quella frazione che porterà allo stremo ogni atleta partito quel giorno. Facciamo un balzo indietro di 23 anni per salire in sella con Simoni su quelle pendenze e capire come si affronta e cosa si prova su una delle salite più temute al mondo. 

L’Angliru vanta una pendenza media del 13,6% sul tratto più duro
L’Angliru vanta una pendenza media del 13,6% sul tratto più duro
Cosa ricordi di quella giornata, emozioni e sensazioni?

Non avevo mai vinto tappe alla Vuelta. Quella dell’Angliru si può dire che mi abbia aiutato a cambiare marcia perché l’anno dopo sono riuscito a vincere il Giro d’Italia. Insomma, ho iniziato a credere ancora di più in me stesso. Quel giorno lì sono riuscito ad anticipare un po’ la corsa perché sapevo che era impossibile battere quelli della Kelme-Costa Blanca, con tutto quello che c’era di dubbioso in quegli anni. Infilatomi nella fuga, gestii bene la gara. Non avevo altre chance, così andai via solo dalla fuga.

Che tipo di salita è? 

E’ una salita che ti porta allo stremo e deve essere interpretata in modo corretto. In salite così, non si deve guardare l’avversario. Devi pensare a te stesso e trovare il tuo ritmo su quelle pendenze assurde. Se sbagli una cambiata, rischi di mettere il piede a terra. E’ un’ascesa che non perdona, quando la imbocchi hai subito il cuore in gola. 

Che rapporti montavi?

Non c’erano le compatte. Non avevo la tripla. Avevo un Campagnolo dieci velocità con il 39 davanti e dietro mi ero fatto mettere il 28 e il 29 togliendo i rapporti più duri. Questo perché sapevo che si vinceva con la scelta di quei rapporti. Mi ricordo che quelli della Kelme montavano invece una tripla. 

Nel 1999 l’Angliru fu affrontato per la prima volta, vinse Jimenez in maglia Banesto
Nel 1999 l’Angliru fu affrontato per la prima volta, vinse Jimenez in maglia Banesto
Cosa ricordi di quella salita?

C’è un rettilineo di un chilometro dove non ci sono tornati e ricordo che veramente mi scoppiavano le gambe. Stavo andando su a cinque all’ora e pensai: “Se arrivo ai quattro mi fermo”. Bastava una cambiata sbagliata e finivi per mettere il piede a terra. Con il rischio di non riuscire neanche più a ripartire. 

Per tentare di venirti a prendere Roberto Heras, che vinse quella Vuelta, fece il record della salita. Ad oggi nessuno è riuscito ancora a scendere sotto quei 41’55”.

Quelli della Kelme erano in una condizione impossibile da affrontare. Se si guardano i filmati sembrava una crono a squadre. Se si prendesse come riferimento il pezzo più duro, forse da metà in su magari si potrebbe battere. Gli scalatori di oggi sono veramente forti. Ma il tratto completo per me ha un tempo inarrivabile. 

Nonostante ciò imboccasti la salita con poco meno di sei minuti e riuscisti a conservarne due all’arrivo…

Ero in fuga da tutto il giorno. Arrivai alla salita non così riposato perché tirai parecchio anche prima. 

Vuelta 2017, Contador sull’Angliru vince la sua ultima corsa (foto Getty Images)
Vuelta 2017, Contador sull’Angliru vince la sua ultima corsa (foto Getty Images)
Da scalatore hai anche vissuto un’evoluzione tecnologica in quegli anni. Lì c’era anche una cadenza di pedalata molto più bassa.

Sì, i rapporti ti ci costringevano. Per me e i meccanici montare una tripla sarebbe stata una blasfemia, un colpo all’orgoglio. A distanza di qualche anno mi ricordo che feci lo Zoncolan sia con il 39 che con il 36. Sono due cose diverse, la pedalata, la reazione dei muscoli. Ma al limite ci si arriva in ogni caso. 

E la tua Fondriest di quell’anno che bici era? Con una bici attuale sarebbe cambiato qualcosa?

Era leggerissima, con il meccanico Pengo facemmo un lavoro incredibile. Un telaio tutto mio per le gare in salita. Bici corta e una posizione più avanzata. La grande differenza con oggi è il materiale, la mia era in alluminio. Inguidabile in discesa ,ma in salita non credo che avrei trovato così tante differenze con quelle attuali. Geometrie differenti non avrebbero inciso come invece i rapporti che hanno ora. Io pesavo 60 chili quindi l’alluminio con me riusciva a funzionare molto bene. Il peso della mia Fondriest non lo ricordo di preciso ma era al limite del regolamento. 

Come si respira su una salita così?

Sei sempre a tutta. Anche se a parte quel tratto di un chilometro, ci sono i tornanti che permettono di rilanciare e “riposarti”. Ma è un’apnea continua…

Simoni Pordoi 2001
Gilberto Simoni l’anno successivo vinse il Giro d’Italia sempre in maglia Lampre
Simoni Pordoi 2001
Gilberto Simoni l’anno successivo vinse il Giro d’Italia sempre in maglia Lampre
La tappa dell’Angliru come si colloca all’interno di una Vuelta?

Fa paura. Fa male. E’ una salita su cui non si fanno distacchi enormi. Questo perché tutti vanno su sfidando la pendenza senza far scorrere più di tanto la bici. E’ difficile fare attacchi e non fare fuori giri. E’ vero che se si becca la giornata storta ci si può fare male, ma con i rapporti che utilizzano oggi uno in qualche modo si salva. Se uno in crisi si trovasse ad affrontarla con i rapporti che utilizzavamo noi nel 2000 allora sì che sprofonderebbe in classifica.

Chi vedresti come favorito su una salita così? 

Direi che bene o male, tutti gli scalatori, sono favoriti. Corridori come Vingegaard o Roglic possono puntarci, ma anche Evenepoel non lo vedo così sfavorito, abbiamo visto la sua potenza. Sarà una bella sfida, difficile fare un pronostico.

Hugh Carthy è l’ultimo vincitore dell’Angliru, affrontato nel 2020
Hugh Carthy è l’ultimo vincitore dell’Angliru, affrontato nel 2020
Se dovessi dare un consiglio a un corridore che vuole vincere sull’Angliru, cosa gli diresti?

Se vogliono vincere devono fare come ho fatto io nel 2000. Evitare lo scontro diretto con i corridori di classifica e anticipare da lontano, arrivando con un distacco prezioso ai piedi della salita. C’è poco da consigliare, devi spingere quello che hai, quello che ti senti.

Se dovessi fare una classifica della salite più dure, l’Angliru dove la metteresti?

Una delle top. Anche se devo dire che quella che mi ha impressionato di più forse è Punta Veleno. E’ terribile. Però non riesco a fare una classifica. Diciamo che i numeri delle pendenze la fanno da sè. Poi si va sull’esperienza personale. Perché ci sono salite dure come Mortirolo e Zoncolan che puoi affrontare in situazioni differenti e dire che sono più o meno dure. E’ una cosa molto personale il giudizio. Lo stesso Angliru mi ricordo che nel 2003 l’ho rifatto con Casagrande ed ero in lotta per la classifica e mi fece molto più male rispetto al 2000. 

Giro 2003, rileggiamo il romanzo con Garzelli

30.04.2023
6 min
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Rivivere a distanza di vent’anni quel che successe al Giro d’Italia del 2003 ha un che di romantico. E’ come un bel romanzo che si dipana capitolo dopo capitolo fino a svelare solamente alla fine il suo epilogo, incerto fino alla conclusione. Fu una bella edizione, quella, con protagonisti di primissimo piano e il fatto che fossero pressoché tutti italiani dà al tutto un pizzico di malinconia.

Uno di quei protagonisti al Giro c’è ancora, ma in altra veste. Stefano Garzelli, colonna della Rai, viene da giorni intensi, dopo aver fatto la spola fra il Belgio per seguire le classiche e le ricognizioni per le varie tappe della corsa rosa. Ripensare a quell’esperienza così lontana nel tempo, pietra miliare della sua giovinezza prima ancora che della sua carriera, riaccende antiche emozioni e lo allontana dalle frenesie quotidiane.

«E’ vero, ripensandoci è come un romanzo – afferma il varesino – ed è normale che viva i ricordi con un po’ di nostalgia perché fu un’edizione piena di significati, molti anche acquisiti dopo, ripensandoci perché fu l’ultima edizione con al via Marco Pantani».

Pantani e Garzelli sulle dure rampe dello Zoncolan. La gente è in visibilio…
Pantani e Garzelli sulle dure rampe dello Zoncolan. La gente è in visibilio…
Di primo acchito qual è l’immagine che ti viene subito in mente?

Se chiudo gli occhi è come se mi vedessi da fuori, mentre salgo sulle rampe dello Zoncolan insieme a Marco. Era la prima volta che si affrontava la dura salita friulana, erano rampe molto dure. Io e Marco affiancati, quelle due “teste smerigliate” sotto il cielo, uno di fianco all’altro, con la gente che ci incitava. Poi quella tappa la vinse Simoni, ma il primo ricordo che mi viene è proprio legato a quest’immagine. La più bella, la più indelebile nella memoria.

Che Giro fu?

Davvero molto bello e lo dico senza averlo vinto. Sulle prime ci rimani male, è logico che sia così, ma a distanza di tanto tempo credo sia stata una bella pagina di sport, tre settimane molto intense che disegnarono un’edizione rimasta nella storia, godibile dalla prima all’ultima tappa proprio come un romanzo, la definizione è esatta.

Prima tappa a Lecce, Petacchi batte Cipollini. Alla fine vincerà 6 tappe, 2 invece per l’iridato
Prima tappa a Lecce, Petacchi batte Cipollini. Alla fine vincerà 6 tappe, 2 invece per l’iridato
Anche tu hai subito citato Marco. Quella fu la sua ultima edizione prima della tragedia di Cesenatico. Che Pantani era quello contro cui ti confrontavi?

E’ stato probabilmente l’ultimo momento di spicco della sua carriera. Partì che non era ancora al massimo, ma trovò la condizione strada facendo e a tratti sembrava tornato quello di un tempo. Diede vita a prestazioni di alto livello, ma non aveva ancora la costanza di prima. In certi momenti però, quando scattava sui pedali era un’emozione vederlo anche per chi come me era in lotta con lui.

Non eravate più in squadra insieme…

No, eravamo avversari, ma questo non influiva sul nostro rapporto. Parlavamo tutti i giorni, in corsa e fuori, ci si incrociava al mattino prima del via. Si vedeva che finalmente era tranquillo e voleva essere competitivo. Aveva ancora la voglia di faticare per tornare il campione che era.

Pantani affranto dopo la caduta di Sampeyre. Eppure quello fu un Giro positivo per il Pirata, alla fine 14°
Pantani affranto dopo la caduta di Sampeyre. Eppure quello fu un Giro positivo per il Pirata, alla fine 14°
La prima settimana fu dedicata prevalentemente alle volate…

Sì, ma ci fu spazio anche per i capitani che puntavano alla classifica. Io mi aggiudicai la terza frazione, quella di Terme Luigiane dove si arrivò con un gruppo ampio, ma non era uno sprint per velocisti. Anticipai la volata e vinsi su Casagrande e Petacchi che conservò la maglia rosa. Io salii al secondo posto a 17” e cominciai a fare un pensierino al simbolo del primato.

Quattro giorni dopo un’altra vittoria, al Terminillo.

Di ben altra pasta, quella fu una giornata durissima, con distacchi enormi. A 5 chilometri dal traguardo eravamo rimasti in 4: io, Simoni, Noè e Tonkov. Si vedeva però che io e Simoni eravamo superiori, lui dava strattonate forti ma io tenevo. Mi affiancavo a lui e lo guardavo, per fargli capire che non mi faceva male. Poi in volata la spuntai e mi presi la maglia, gli altri presero belle botte (Casagrande oltre 2 minuti e mezzo, Pantani un altro in aggiunta, ndr).

L’acuto del Terminillo, il secondo al Giro 2003 valse a Garzelli la conquista della maglia rosa
L’acuto del Terminillo, il secondo al Giro 2003 valse a Garzelli la conquista della maglia rosa
Che cosa successe dopo?

A Faenza, Simoni si prese la maglia per soli 2” nella tappa vinta dal norvegese Arvesen. Sullo Zoncolan il campione trentino era rimasto staccato dopo la mia azione con Pantani, ma si riprese e conquistò altri 34”, ampliando poi il vantaggio nella frazione dell’Alpe di Pampeago, vinta ancora da lui, e nella cronometro di Bolzano. Era però ancora tutto da giocare, fino alla tappa di Chianale.

Quella della grande caduta…

Già, uno dei momenti più duri della mia carriera. Discesa, Simoni è davanti. La giornata è terribile: pioggia, grandine, asfalto che dire scivoloso è poco. Fa talmente freddo che la sensibilità alle mani è quasi nulla. Ma devo recuperare, quindi affronto la discesa del Sampeyre a tutta. Solo che prendo una curva a sinistra troppo forte, le ruote non tengono e volo via. Attaccato a me c’è Pantani e anche lui fa un bel ruzzolone. Siamo messi male, ci rialziamo dopo tempo e finiamo a 7 minuti. Il Giro in pratica finisce lì.

La terribile discesa del Sampeyre, con ghiaccio sulla strada. In 34 finirono fuori tempo massimo
La terribile discesa del Sampeyre, con ghiaccio sulla strada. In 34 finirono fuori tempo massimo
Rimpianti?

A dir la verità no, dovevo provarci. Le cadute fanno parte del ciclismo, anche quelle ne diventano la storia. Mi arrabbiai, tanto. Ma ora riguardo a quei momenti con uno stato d’animo diverso, per certi versi anche romantico.

Ci sono punti in comune tra quel Giro e quello che sta per partire?

Fare paragoni fra gare distanziate di vent’anni è troppo difficile. Il ciclismo è cambiato molto più di quanto dica il tempo, sono due epoche completamente diverse. Potrei dire che anche quel Giro nasceva sotto il marchio della sfida a due fra Simoni e me come effettivamente fu e come dovrebbe essere il prossimo incentrato sul confronto Evenepoel-Roglic. Ma le differenze sono enormi.

Simoni con Garzelli, i due favoriti della vigilia onorarono il pronostico finendo ai primi due posti
Simoni con Garzelli, i due favoriti della vigilia onorarono il pronostico finendo ai primi due posti
Tu hai lavorato alle ricognizioni delle tappe. Da quel punto di vista, come disegno generale, trovi affinità?

Il Giro è diverso ogni anno. Ci sono edizioni più dure ed edizioni meno, anni con salite storiche e anni con nuove ascese. Quest’anno ad esempio tornano le Tre Cime di Lavaredo e il Bondone che non è stato affrontato molto spesso. Quell’anno ci fu il Terminillo e stavolta si sale a Campo Imperatore. Ogni anno si cambia, ogni anno lo spettacolo si rinnova.

E l’atmosfera vissuta è diversa da quella di allora?

Quando la vivi da corridore ha un sapore diverso, sei parte di un grande show. Ora con il lavoro che faccio non riesco a godermi tanto quel che succede intorno, ho troppi pensieri a cui far fronte, ma non nascondo che quando sono all’arrivo, vedo la gente, la carovana che arriva qualcosa alla gola mi prende. E quando guardo la luce negli occhi di chi vince e di chi indossa la maglia rosa, mi accorgo che quella luce è la stessa di allora e di sempre.