Siamo tutti con Van Aert, un po’ meno con la Visma

04.04.2025
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Davanti a una corsa come la recente Dwars door Vlaanderen, ci sono due piani da far coincidere: il piano della tattica di corsa e il piano degli uomini che hai di fronte. E se l’uomo è un campione che fatica a ritrovarsi, allora il discorso si complica. Che cosa sta succedendo a Van Aert? L’esito della corsa belga sarà l’ennesimo chiodo sulla croce o se ne può dare una diversa lettura? E perché la squadra non ha voluto fargli da ombrello?

Abbiamo riletto i post di ieri, quelli dopo la sconfitta. Non i commenti dei tifosi, ma quelli degli addetti ai lavori che nella difficoltà del belga forse hanno riconosciuto anche un pezzetto della propria storia. Da Demi Vollering in avanti, nessuno di loro ha puntato il dito contro l’uomo, mentre alcuni si sono focalizzati sulla condotta della sua ammiraglia. Il piano della tattica di corsa, appunto, e l’uomo che si ha di fronte.

A Van Aert vogliamo tutti bene e abbiamo tutti la sensazione che qualcosa non vada come deve. Per cui abbiamo ripreso alcune di queste voci e siamo andati più a fondo, cercando di capire se la nostra sensazione di una squadra incapace di gestire il finale di corsa e ancora meno di proteggere il suo leadeer sia condivisa da altri. Oggi Van Aert e la Visma-Lease a Bike incontreranno la stampa alla vigilia del Fiandre, con quale stato d’animo ci arriverà il belga?

Powless davanti a tutti e dietro i tre Visma sconfitti
Powless davanti a tutti e dietro i tre Visma sconfitti

La Visma e Van Aert

Adriano Malori ha scritto un post puntando il dito su squadre sempre più legate ad un approccio scientifico al ciclismo e sempre meno capaci di gestire situazioni che richiedono esperienza.

«Condivido che sia sbagliato fare una crociata contro Van Aert – spiega ora Malori – che purtroppo si trova in un momento psicologicamente molto delicato. Lo testimonia anche il fatto che sia in sovrappeso, lontano parente del Van Aert che al Tour 2022 era stato capace di staccare Pogacar in salita. Viste le cose, non avrei tenuto chiuso il finale dando a lui la responsabilità di finalizzare la corsa. Se anche avesse avuto le gambe migliori, poteva saltargli il cambio o rompere la catena. Se volevano risollevare Van Aert, secondo me l’hanno fatto nel modo più sbagliato.

«Volevi farlo vincere e fargli riprendere un po’ il sorriso in vista del Fiandre? Allora si facevano scattare i compagni in modo… morbido, facendo in modo che Powless ogni volta rientrasse, lasciando poi a Van Aert il compito di dare la botta finale per staccarlo definitivamente. Invece Wout ha dimostrato poca lucidità nel chiedere di tenere la corsa chiusa, ma l’ammiraglia ha dimostrato di non avere gli attributi per dirgli di no. Io ho la sensazione che alla Visma di Van Aert importi poco. Lo hanno sempre usato per fare il gregario in lungo e in largo. L’hanno sfruttato senza considerazione, mentre il suo rivale di sempre, Van Der Poel, si è gestito come un cecchino mirando l’appuntamento, e ci è sempre arrivato più pronto di lui. Mercoledì dovevano tutelarlo mettendosi davanti e dicendo che è stata la squadra a sbagliare la tattica. Vederlo così prostrato nella conferenza stampa a me ha fatto veramente paura».

Il secondo posto in volata è stato un colpo troppo duro per Van Aert
Il secondo posto in volata è stato un colpo troppo duro per Van Aert

Ammiraglia anestetizzata

«Il post che ho fatto ieri – dice invece Angelo Furlan – non è nel mio stile, perché sono sempre per le cose costruttive. Mi ricordo sempre quando ero corridore e le critiche da divano mi piacevano fino a un certo punto. Si capisce che Van Aert stia passando un momento difficile e che la squadra voleva farlo vincere, ma hanno sbagliato. Il fatto di non aver provato a staccare Powless quando mancava tanto all’arrivo non è stato responsabilità dei corridori: il senso del mio post era questo. Non voleva essere un’accusa, ma cosa diciamo agli esordienti e agli allievi?

«Già abbiamo tattiche che vengono stravolte da corridori che partono da lontano perché sono dei fuoriclasse. Cosa imparano i ragazzini da un finale come quello di mercoledì? Questo è il problema. Doveva arrivare un ordine dall’ammiraglia. Ci sono watt predittivi, i kilojoule predittivi, GPS, telecamere, riproduzione predittiva in 3D dell’arrivo e cosa stai facendo sull’ammiraglia quando si decide la corsa, guardi il tablet? Lo so che vuoi far vincere Van Aert, ma prova a giocartela. Gli altri due che avevano lì sono due vincenti, due punte di diamante, invece chi li guidava è parso quasi anestetizzato. Si sono dimenticati che basta fare delle cose semplici, applicare una tattica semplice e avrebbero vinto. Non vorrei essere nel povero Van Aert che ha tutta la solidarietà ed è un corridore per cui io faccio il tifo e ammiro tantissimo. Dopo l’arrivo è stato fin troppo un signore ad assumersi tutte le colpe».

Pedersen si è inchinato alla forza della Visma, ma ora conforta Van Aert
Pedersen si è inchinato alla forza della Visma, ma ora conforta Van Aert

Programma da capire

«C’è un problema Van Aert – dice Bennati – e mi dispiace tantissimo. Ci sta il fatto che la squadra voglia far vincere Wout, come quando il capitano vuole far segnare il goleador, non passa la palla agli altri attaccanti e la squadra avversaria fa goal in contropiede. Mercoledì volevano metterlo nelle condizioni di vincere la corsa, ma se in questo momento Van Aert non riesce a battere Neilson Powless in volata, allora il problema c’è davvero.

«Facciamo un passo indietro – prosegue Bennati – un campione come lui non si può gestire così. Dopo gli incidenti dello scorso anno, non doveva fare la stagione del cross e non credo che alla Visma qualcuno lo abbia costretto. Aveva la grande opportunità di recuperare al 110 per cento e prepararsi per la stagione su strada, riazzerando tutto. Avrebbe dovuto fare un programma classico, passare attraverso Parigi-Nizza o Strade Bianche e Tirreno. Un corridore come lui deve fare quel tipo di calendario, con la Sanremo e la Gand, non andare tre settimane in altura per preparare queste gare, perché obiettivamente non ne ha bisogno.

«Secondo me giocarsi solo la carta della volata è sempre sbagliato, anche se sei nettamente più forte. E se anche non avesse vinto lui perché magari Benoot andava via, dal punto di vista mentale era sempre meglio che vincesse un compagno di squadra, che avere questa grande delusione perdendo con Powless sull’arrivo. Questo episodio va sempre più a complicare la situazione di Van Aert. A meno che non abbia un carattere talmente forte che da questa grande delusione riuscirà a tirare fuori il meglio di sé, vincendo il Fiandre e la Roubaix».

Powless è incredulo, Van Aert è più incredulo di lui
Powless è incredulo, Van Aert è più incredulo di lui

Tifosi di Wout

«Mercoledì in tanti abbiamo criticato la tattica della Visma – scrive Giada Borgato – non certo Van Aert. Il campione non si discute e sono sicura che il mondo del ciclismo era lì a fare il tifo per lui. A fine corsa, da campione qual è, frustrato, deluso e amareggiato, si è dichiarato “colpevole” ai microfoni di mezzo mondo. Sentire quelle parole mi ha fatto male e mi sono chiesta perché gli sia stato permesso di prendersi una responsabilità cosi grande. Credo che in questo momento Wout non debba prendersi responsabilità per il semplice fatto che non ha bisogno di ulteriori pesi sulle spalle.

«In condizioni normali avrebbe vinto con due biciclette su Powless, ma si è visto che non è il solito Van Aert e credo che lui lo sappia. Il campione ha nell’indole di provarci, vuole vincere, ma la squadra conosce i valori dei suoi atleti e in teoria dovrebbe anche sapere come stanno a livello mentale. Allora forse sarebbe servita un po’ di freddezza da parte dei direttori sportivi che avrebbero dovuto dirgli: “No, decidiamo noi. E se sbagliamo, sbagliamo noi, non tu”. L’ammiraglia avrebbe dovuto tutelarlo e prendersi la responsabilità di scegliere cosa fare. Le critiche sono state rivolte per lo più alla squadra e non al corridore. Perché in fondo siamo tutti dalla parte di Wout».

Pogacar, sul pavé i watt/kg contano meno dei watt assoluti

06.03.2025
7 min
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«Diciamo che se la Roubaix fosse su Zwift – sorride Angelo Furlan – la vincerebbe Pogacar. Per fortuna il ciclismo reale è fatto del fascino del mestiere, della tecnica, della conoscenza, delle cose non dette all’interno del gruppo. Ci sono eventi fulminei, nei tratti di pavé e anche sull’asfalto, le incognite sono tante. Per cui lui si può svegliare la mattina e decidere che correrà all’attacco, ma gli servirà essere concentrato dal chilometro zero e per i 259 successivi. Forse proprio il suo impeto potrebbe essere un problema, in una corsa dove bisogna ragionare molto più di quello che si pensa. Pogacar fa sognare le folle perché tante volte non fa calcoli, così come Van Der Poel. Però l’irruenza, data da una forza incredibile, potrebbe essere un problema soprattutto nella prima parte della corsa».

Furlan ha 47 anni e si porta dentro un’esperienza antica, ascoltata dai vecchi direttori quando era un ragazzino, maturata durante la carriera da professionista e poi elaborata e rimasticata in questi anni da preparatore, biomeccanico, teorico e filosofo del ciclismo. Su Pogacar alla Roubaix ha fatto un video social chiedendo il parere dei suoi follower, ma il tema a nostro avviso meritava un approfondimento fatto di dieci domande. Cominciamo, dunque.

Pogacar ha un gran motore, non pesa 50 chili come Piepoli, per cui sul pavé non dovrebbe rimbalzare. Però qualche insidia c’è…

Qualche insidia c’è sicuramente. Ragionavo tra me e me in questi giorni. Fino a 2-3 anni fa sarebbe stato azzardato pensare che un corridore così, da corse a tappe, andasse alla Roubaix per vincerla, soprattutto alla prima esperienza. Nel ciclismo prima di Van der Poel, prima di lui e di tutti i talenti che ci sono in giro, questa sarebbe stata una cosa fuori da qualsiasi schema. Ma non è forse vero che tutto il ciclismo degli ultimi 3-4 anni è fuori da qualsiasi schema?

Perché?

Certi attacchi, la maniera in cui corrono… Fanno il contrario di quello che i direttori sportivi consigliavano fino a 5-6 anni fa, ovvero stare coperti, aspettare, non sprecare energie. Questi sono talmente forti, che fanno il contrario. Per cui se uno ragiona un attimo, non sarebbe così fuori luogo che Tadej fosse uno dei favoriti alla Roubaix. Poi se ragioniamo in termini tecnici, c’è anche un’altra cosa da dire, una riflessione da fare.

Quale?

Si è sempre pensato che per vincere la Roubaix devi avere una sorta di destrezza nel guidare la bici, cosa che a lui non manca. Eppure negli ultimi vent’anni, ci sono stati corridori con una condizione stratosferica che sono arrivati davanti alla Roubaix, anche sul podio, pur non essendo dei draghi nel guidare la bici. Non faccio nomi perché sono amici miei e poi si arrabbiano. Se metti sul piatto della bilancia un corridore con condizione stratosferica e gamba e sull’altro uno con la tecnica, vince quello con condizione e gamba. Tadej ha condizione e gamba, in più è anche bravo a guidare

E’ anche vero che il pavé con le bici di una volta era più scomodo di adesso.

Questo è verissimo. Noi avevamo il telaio in alluminio dedicato alla Roubaix e guai farla col carbonio perché ti distruggevi. Adesso il carbonio è rigido dove serve e assorbe le sconnessioni in maniera longitudinale, per cui scatta quando ti alzi sui pedali e assorbe gli urti sul pavé. Corrono senza guanti, con le ruote ad alto profilo, le leve girate in dentro, la sella tutta avanti, un assetto da gare su pista, i tubeless giganti. Usano quasi delle gravel veloci, le bici di adesso sono una cosa pazzesca. L’evoluzione degli ultimi 3-4 anni è paragonabile a quella dell’ultimo ventennio.

E questo fa così tanta differenza?

Il materiale ha fatto dei passi da gigante, ma i wattaggi alla soglia non sono così diversi. Togli un Van Aert che ha 460 di FTP, almeno per quello che ti fanno sapere, Pogacar con la zona 2 che ha dichiarato (5 watt/kg, ndr) è capace di andare avanti a botte a 450 watt, per esempio nell’Arenberg o anche nel Carrefour dell’Arbre, dopo aver fatto la prima ora 300 watt di media. L’incognita per lui, a mio avviso, non è tanto dal punto di vista prestazionale, ma nella prima parte di gara.

Quella prima del pavé?

Avrà accanto dei corridori di esperienza che probabilmente dovranno aiutarlo, però il primo settore di pavé a Troisvilles arriva dopo una novantina di chilometri. E’ nel tratto non inquadrato, che solitamente vengono fuori dei casini. Tante volte si comincia a guardare la Roubaix che la gara è già quasi decisa. Non è raro che nella prima parte ci siano cadute stupide, perché chi è alle prime armi un po’ dorme e paga l’andare piano e subito dopo molto forte.

Pogacar sfinito dopo il pavé del Tour 2022, alle spalle di Stuyven. Alla Roubaix ci saranno molti più specialisti
Pogacar sfinito dopo il pavé del Tour 2022, alle spalle di Stuyven. Alla Roubaix ci saranno molti più specialisti
Questo per Pogacar è un problema?

Il suo modo di correre, con la spregiudicatezza dovuta al fatto che per lui le leggi della gravità non esistono e forse neanche il CX vista la tanta aria che prende, potrebbe essere una spada di Damocle. L’anno scorso, complice il vento a favore, la Alpecin distrusse la corsa molto prima dell’Arenberg. E se qualcuno la imposta di nuovo così, visto il tanto vento che prenderebbe, Tadej potrebbe avere qualche problema.

Lo vedi come il solito Pogacar all’attacco?

Proprio così, anche se a Roubaix non sempre funziona. Nel senso che non lo puoi fare con quei manzi da Belgio, anche se si corre in Francia, che ci sono lì. Mentre nei Grandi Giri ha affrontato il pavé correndo con i suoi simili a livello di watt per chilo, alla Roubaix conta di più il watt assoluto.

Vent’anni fa nessuno si sarebbe immaginato che un corridore di questa taglia andasse alla Roubaix, pensiamo a Nibali e prima a Bartoli. Perché?

Il ciclismo era più a compartimenti stagni, c’era un atteggiamento conservativo perché la paura di farsi male era tanta. Alla mia prima Roubaix, mi dissero di stare attento perché se mi fossi fatto male, avrei saltato il Giro. Per tanti quelle corse erano il focus della stagione. Iniziavano un mese prima e dopo la Roubaix tiravano una linea. Quel tipo di corridore non c’è più, ma prima era condizionante, nel senso che quelli più leggeri avevano paura di mischiarsi con questi bestioni che si giocavano il tutto per tutto. Correre contro di loro era come vivere in trincea e non avrebbero avuto problemi a piantarti una leva del freno nel costato.

Lo scorso anno la Alpecin sfaldò il gruppo ben prima della Foresta di Arenberg
Lo scorso anno la Alpecin sfaldò il gruppo ben prima della Foresta di Arenberg
E se invece piove?

Se piove, cancelliamo tutte queste riflessioni. Uno a uno, palla al centro. Se piove e viene fuori una Roubaix come quella di Colbrelli, allora forse si livella tutto. Quello che potrebbe fregare Tadej è non conoscere bene il pavé, l’arte di stare in cima alla schiena d’asino. Tante volte chi affronta la Roubaix per la prima volta va a cercare il lato della strada, che quando piove nasconde più insidie. Se piove basta che uno starnutisca e sei già per terra e in più devi spostarti velocemente, sennò gli altri ti salgono sopra. E se per caso inizi ad aver paura di farti male, ti irrigidisci ed è la volta che cadi davvero. Tadej non farà il Giro d’Italia, ma chiaramente non vuole farsi male e la squadra vorrà preservarlo. Secondo me deciderà lui: se si sveglia che vuole fare la Roubaix, non lo tengono certo fermo.

Lui lo ha già fatto capire…

E chissà che ora non stiano cercando di dissuaderlo. Secondo me ha voglia di farla solo perché vuole divertirsi. E il dibattito mediatico che si è creato intorno fa solo bene al nostro sport.

Dopo dieci anni torna il Giro e Vicenza fa le cose in grande

20.02.2025
4 min
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Il prossimo 23 maggio Vicenza tornerà ad ospitare un arrivo di tappa del Giro d’Italia dieci anni dopo l’ultima volta. Nel 2015 a vincere sul traguardo di Monte Berico (lo stesso di quest’anno) fu Philippe Gilbert che nel diluvio staccò di 3″ la maglia rosa Alberto Contador e Diego Ulissi (immagine di apertura). La tappa del 2025 prenderà il via da Rovigo e terminerà nella città del Palladio dopo 180 chilometri, gli ultimi 60 dei quali nello scenario dei Colli Berici, le colline a sud di Vicenza.

Una tappa da passisti veloci o da velocisti resistenti, con l’ultimo chilometro, quello che porta al Santuario di Monte Berico, che tira decisamente all’insù. Comunque andrà quest’anno, la città veneta si sta già preparando ad accogliere la carovana con il comitato di tappa della “Tappa dei Berici”, presieduto da Mario Carraro e di cui fa parte, tra gli altri, anche l’ex professionista Angelo Furlan. Abbiamo parlato con loro per farci raccontare quanto è importante un evento di questa portata per il territorio vicentino.

Vicenza è da sempre un grande territorio di ciclismo, con moltissimi praticanti e sede di tante importanti aziende (@laviadeiberici)
Vicenza è da sempre un grande territorio di ciclismo, con moltissimi praticanti e sede di tante importanti aziende (@laviadeiberici)
Carraro, abbiamo visto che il percorso abbraccia buona parte dei Colli Berici, ci racconta com’è nato?

Abbiamo lavorato assieme a Rcs Sport per massimizzare l’impatto scenografico, di concerto con i Comuni dei Colli Berici, per regalare ai tifosi delle immagini mozzafiato. Il grande successo è stato proporre un circuito che contiene alcune delle salite dei colli più amate tra noi amatori, come l’ascesa della Pila fino ad Arcugnano, che sarà l’ultimo trampolino di lancio prima del finale. Prima del circuito poi si farà la salita che da Barbarano porta a San Giovanni in Monte, il punto più alto dei Berici. Il circuito permetterà al pubblico di arrivare in gran numero, e noi contiamo di avere un’affluenza straordinaria. 

Quindi più del 2015?

Nel 2015, in un giorno di pioggia infrasettimanale, sono state stimate 200mila persone. Quest’anno puntiamo sicuramente più in alto, diciamo il doppio. Anche perché in quei giorni verrà organizzato un village in Campo Marzio con un megaschermo per tutto il fine settimana, che speriamo diventi un punto di riferimento per gli appassionati che arriveranno.

La tappa con arrivo a Vicenza attraversa nel finale i Colli Berici, frequentatissimi da ciclisti di ogni disciplina (@laviadeiberici)
La tappa con arrivo a Vicenza attraversa nel finale i Colli Berici, frequentatissimi da ciclisti di ogni disciplina (@laviadeiberici)
Vicenza è territorio di ciclismo e sono moltissimi i campioni nati in questa provincia: da Pozzato a Battaglin, da Rebellin ad Alessandra Cappellotto e Tatiana Guderzo, per non parlare di Tullio Campagnolo.

E non solo, anche Selle Italia e Royal e Wilier, e altri. Ma è sufficiente venire qui un sabato mattina, anche in inverno basta che ci sia il sole per vedere quanta passione c’è per il ciclismo. Una cosa che ci fa particolarmente piacere è che sta diventando anche uno sport molto femminile, un trend che è particolarmente visibile qui da noi soprattutto nel mondo del gravel, che permette di vivere tutti i benefici di questo sport lontano dai pericoli della strada.

Su queste stesse strade, assieme all’amico Pozzato che lo organizzava, due anni fa Angelo Furlan fece passare il primo mondiale gravel. Essendo stato corridore e continuando a pedalare come se lo fosse ancora, il vicentino è l’uomo giusto per entrare nei primi dettagli tecnici.

Angelo Furlan, da ex corridore e profondo conoscitore di queste strade, dove consigli di piazzarsi per godersi la tappa dal vivo? 

Un punto può essere sulla prima salita di giornata, quella della Scudelletta da Barbarano che porta in cima ai colli, un posto bellissimo anche paesaggisticamente. Poi nel circuito, dove ci saranno gli attacchi, magari a metà della rampa finale.

Monte Berico e i suoi portici: lassù Gilbert vinse la tappa al Giro del 2015
Monte Berico e i suoi portici: lassù Gilbert vinse la tappa al Giro del 2015
A proposito, com’è la rampa che porta all’arrivo?

E’ lunga 1,4 km al 5,7% di media. Quindi sicuramente non da velocisti puri, da corridori veloci che tengono sugli strappi, gente da classiche. Non a caso nel 2015 vinse Gilbert. Attenzione al giovane Busatto, lo conosco bene ed è vicentino, l’ho visto alla Veneto Classic e mi ha fatto una grande impressione. Non lo dico solo per essere di parte, è proprio un commento tecnico.

Il generale in percorso non sembra molto duro, per gli standard attuali

Non durissimo forse, ma che darà sorprese, perché è una tappa che si adatta ai colpi di mano. E’ a metà giro, i corridori inizieranno ad essere stanchi. La prima parte è tutta pianeggiante, a 50 km dall’arrivo invece cambia radicalmente. La prima salita non sarà di passaggio perché è corta e dura, e se qualcuno volesse alzare il ritmo potrebbero restare in pochi. Dalla cima il percorso poi non è lineare, è un saliscendi continuo, un toboga, non c’è più respiro anche dal punto di vista planimetrico. C’è spazio per gli uomini da fuga come per gli attaccanti, come anche perché i big si inventino qualcosa. Insomma gli scenari sono moltissimi, come non poteva che essere in un territorio variegato e ricco come quello dei Colli Berici.

Il biomeccanico esterno ai team: a tu per tu con Angelo Furlan

24.11.2024
5 min
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Ieri abbiamo parlato della visita biomeccanica di Francesco Busatto presso il centro di Angelo Furlan (Angelo Furlan 360 a Crezzo, Vicenza). Si parlava davvero di millimetri, di dettagli… ma sono quelli, oggi più che mai, che fanno la differenza nel ciclismo professionistico.

Il fatto, però, che un atleta WorldTour ricorra ad un biomeccanico esterno ci ha fatto riflettere. E’ curioso capire come una figura esterna possa interagire con team sempre più strutturati. Furlan ha parlato esplicitamente di una triangolazione. Di questo, ma anche di biomeccanica più in generale, abbiamo parlato direttamente con l’ex sprinter di Alessio, Credit Agricole e Lampre.

Furlan al lavora con Busatto, i due si conoscono da anni. Avere i feedback dell’atleta è centrale per Angelo
Furlan al lavora con Busatto, i due si conoscono da anni. Avere i feedback dell’atleta è centrale per Angelo
Angelo, hai corso per molti anni e da tempo lavori come biomeccanico anche con atleti di alto livello come Francesco Busatto. Quando un professionista ti porta le misure della squadra come ti poni con quei dati?

È una questione di equilibrio. Essere stati ciclisti professionisti mi aiuta a immedesimarmi nell’atleta e a capire il contesto in cui opera. Spesso i team hanno equilibri interni delicati, e quando un ciclista si rivolgeva a un tecnico esterno, specialmente in passato, era guardato con sospetto se non otteneva subito risultati. La prima cosa che faccio è accertarmi che il team sia d’accordo con la collaborazione esterna. Poi analizzo il lavoro fatto dal biomeccanico della squadra, senza criticarlo, ma cercando di comprendere il perché di determinate scelte. Ogni tecnico ha il proprio approccio, quindi il mio obiettivo è mediare, rispettare il lavoro altrui e proporre modifiche in modo graduale, triangolando le esigenze del ciclista con i dati a disposizione.

Ti capita mai di entrare in contatto diretto con il team o con i loro tecnici?

Più spesso mi interfaccio con i meccanici per verificare dettagli tecnici, come le misure prese o eventuali regolazioni, perché tante volte una misura varia in base al modo in cui è presa. Con le squadre straniere, c’è generalmente un approccio più aperto: hanno un biomeccanico di riferimento, ma lasciano libertà al corridore di consultare tecnici di fiducia.

Non solo team italiani. Abbiamo visto con i nostri occhi un atleta di un grande team WorldTour nascosto tra i van della carovana pubblicitaria a “smanettare” con la brugola…

Tuttavia, ci sono realtà che impongono il proprio esperto, e questo può creare situazioni particolari. Le squadre vogliono avere tutto sotto controllo. Ma poi il più delle volte va a finire che l’atleta si sistemi come vuole.

Posizionare le tacchette al millimetro è uno dei passaggi più delicati
Posizionare le tacchette al millimetro è uno dei passaggi più delicati
Quanto contano ancora le sensazioni dell’atleta nel tuo lavoro?

Tantissimo. Le sensazioni sono un elemento centrale, soprattutto per un professionista. Il nostro compito è combinare queste con gli studi accademici e la nostra esperienza. Seguire solo i dati, ignorando ciò che l’atleta percepisce, spesso porta a più problemi che soluzioni. Un esempio è quello di Francesco: ci sono stati commenti sulla sua posizione in bici per quel video, come il ginocchio in extrarotazione o il movimento del bacino. Sì, accademicamente ci sarebbero margini di correzione, ma intervenire in modo eccessivo potrebbe causare più danni che benefici. È una questione di equilibrio tra biomeccanica e funzionalità specifica del corridore.

Ricordiamo il caso forse più famoso, almeno in tempi recenti, quello di Peter Sagan…

Esatto, Sagan è un esempio perfetto. Con Peter ci ho anche corso ed era uno dei più “storti” in bici, con movimenti anomali del bacino e delle anche, ma questo non gli ha impedito di essere un campione. Quando hanno provato a raddrizzarlo, ha perso efficienza e non rendeva più. Lo stesso vale per altri atleti. Recentemente ho avuto tra le mani la bici di Pogacar. Chiaramente ho preso le misure, l’ho studiata… per curiosità se non altro. Tadej ha misure che ai miei tempi si sarebbero usate su pista, lui invece ci vince in salita! Questo dimostra che ogni atleta è unico, e il lavoro del biomeccanico è anche capire quando fermarsi e rispettare queste caratteristiche.

Anche per Furlan, Sagan è uno dei casi più emblematici in cui sensazioni e soggettività battono le imposizioni accademiche circa il posizionamento in sella
Anche per Furlan, Sagan è uno dei casi più emblematici in cui sensazioni e soggettività battono le imposizioni accademiche circa il posizionamento in sella
Tornando al video che tanto ha fatto discutere su Instagram, perché ritieni importante fare un test sotto sforzo per valutare la posizione?

Perché la posizione da fermo spesso non rivela i problemi che emergono quando l’atleta è sotto sforzo. Durante questi test analizziamo altezza e arretramento della sella, la distribuzione della spinta e l’omogeneità nei 360° della pedalata. Sotto sforzo il muscolo si accorcia e se un atleta tende ad andare troppo in punta di sella, possiamo adattare la posizione per assecondare questo comportamento senza penalizzare l’efficienza.

Quanto tempo serve per arrivare a una posizione ottimale?

Il primo bike fitting con Francesco durò circa due ore e mezza. Gli aggiustamenti successivi richiedono solitamente un’ora, ma dipende da cosa c’è da fare. Per piccoli interventi, come regolare i pedali o verificare una nuova scarpa, bastano anche 30 minuti. È un processo continuo, specialmente per un professionista che evolve nel tempo.

Spesso il biomeccanico esterno si confronta con i meccanici dei team: sapere come la misura viene presa è fondamentale
Spesso il biomeccanico esterno si confronta con i meccanici dei team: sapere come la misura viene presa è fondamentale
Quando un atleta cambia pedali, come nel caso di Francesco, su cosa si lavora? Non basta riportare le quote esatte?

Si parte misurando tutto con precisione, dalla scarpa agli spessori delle tacchette, usando strumenti come il calibro per verificare gli offset dichiarati dai produttori. Se l’atleta utilizza la stessa scarpa, il lavoro è più semplice. Poi si confrontano i dati precedenti con quelli nuovi per vedere se il cambio influenza angoli e dinamiche di pedalata. Anche piccole variazioni possono influire sull’efficienza, quindi è importante procedere con attenzione e, appunto, massima precisione.

Chiaro, quei microdettagli di cui dicevamo all’inizio…

Sicuramente il dialogo con l’atleta. Non è solo questione di numeri o tecnologie, ma anche di fiducia reciproca. Ogni ciclista è un mondo a sé, e trovare la posizione ideale richiede una comprensione profonda delle sue esigenze, sensazioni e caratteristiche fisiche. Il fatto di essere stato un corridore a mio avviso aiuta molto in tutto ciò. Quando da me viene un pro’ siamo alla pari, lo ascolto, è un dialogo “da tecnico a tecnico”. Quando viene un amatore è perché lui vuole essere sistemato e apprendere, altrimenti esce di testa e continua a cambiare posizione.

A scuola dal mago Angelo, che accende le scintille

29.11.2023
9 min
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Angelo Furlan lo conosciamo tutti per le video lezioni, le preparazioni, la biomeccanica, le acrobazie e il suo darsi da fare a 360 gradi per il mondo del ciclismo. Quel che passa più inosservato è ciò che il vicentino, 13 stagioni da professionista sulle spalle, fa con i bambini e per i bambini, in un disegno complessivo che parla di pedagogia, educazione civica e tutela dell’ambiente. Nel momento in cui appare piuttosto complicato convincere i genitori a mettere i figli sulla bici, farsi raccontare la sua ricetta potrebbe essere di ispirazione anche per altri.

«Diciamo che sono quello che accende le scintille – sorride con il solito spirito da velocista – e poi mi defilo a fin di bene. Non voglio essere onnipresente o tuttologo, per cui faccio una sorta di centro di reclutamento e poi passo la palla alle società. Li prendo. Gli faccio vedere quanto è bella la bici. E poi so che qualcuno va a fare mountain bike, qualcuno bici da strada, qualcuno hip hop, altri si divertono a costruirsi i salti in giardino. So dove vanno, mentre io faccio un passo indietro».

La sua Bike Academy propone corsi settimanali estivi, raccontati come momenti di svago e non certo di scuola. Qualcosa che va oltre il centro estivo, ma porta i ragazzi a immergersi nella natura, a sperimentare la tecnica di base sulla bici, lavorare sull’equilibrio e sulla socializzazione. Il tutto con lo strumento del gioco, l’unico capace di catturare l’attenzione dei bambini.

Non solo bambini: qui Furlan lavora con Busatto prima del Tour de l’Avenir (foto Angelo Furlan 360)
Non solo bambini: qui Furlan lavora con Busatto prima del Tour de l’Avenir (foto Angelo Furlan 360)
Come ti è venuta l’idea?

Mi è venuta a fine carriera, quest’anno festeggio il decimo anno. E’ stata una cosa fisiologica, figlia della mia esperienza. Ho iniziato a correre su strada a 16 anni venendo dalla BMX. Sono sempre stato un ciclista e ho dovuto scegliere la strada, senza mai essermi deciso del tutto, perché mi piacevano tutte le discipline. Così ho pensato che la cosa migliore perché tanto girare avesse un senso, era raccogliere tutte le cose positive che ho vissuto e metterle a disposizione di chi è pronto a partire per lo stesso viaggio.

I bambini?

Proprio loro, unendo al ciclismo la dimensione del gioco. Facciamo anche esercizi di ritmizzazione, insegniamo a cadere, vogliamo fare qualcosa di nuovo e accattivante. Mi sono immaginato l’Angelo bambino e quanto si sarebbe divertito facendo tutte le cose belle che si possono fare con la bici. Così è nata l’idea della Bike Academy, che è un propulsore buono di scintille.

In che modo la pubblicizzate?

Con il passaparola, lasciamo che siano gli altri a trovarci. Chi si trova bene ne parla bene. Solitamente parte un genitore che vuole dare un’esperienza di qualità, poi il bambino si appassiona. Nei corsi che faccio in Federazione, sono 10 anni che dico che questa è l’età più importante in cui essere formati e in cui servono istruttori formati. Vengono dal lunedì al venerdì e ci sono quelle che, in maniera molto triste, vengono chiamate progressioni didattiche, ma quello sono. La prima lezione, ad esempio, serve per imparare a cadere. Poi è tutto un evolversi di esperienze coordinative nascoste sotto il gioco.

Che poi è il vostro slogan…

Esatto: otto ore di ricreazione al giorno. In realtà però fanno scuola di vita, scuola di bici, scuola di coordinazione, vivendo le esperienze che la nostra generazione aveva la fortuna di fare semplicemente giocando all’aria aperta. Proponiamo un insieme di attività che li fanno crescere a livello motorio, ma anche a livello esperienziale. Andiamo nel bosco, gli facciamo vedere il territorio in cui vivono e glielo facciamo conoscere e amare. Gli esercizi hanno tre gradi di difficoltà. Si chiamano Yellow, Green e Gold che vanno in base alle abilità dei ragazzi. Non devono essere campioni, anzi meglio se è la prima volta che si approcciano al mondo della bici.

L’agonismo resta fuori?

Non abbiamo la presunzione di formare atleti, anzi cerco di fermare sul nascere atteggiamenti troppo pressanti dei genitori, che potrebbero far passare ai bambini la voglia di andare in bicicletta. Il lunedì non parlano, non riescono a comunicare. Quando arrivano al venerdì, sono un fiume in piena dal punto di vista delle emozioni, ma anche della comunicazione tra loro, perché li stimoliamo veramente. Fanno almeno tre tipi di bicicletta, ma ogni anno cambiano i moduli. Un anno ci potrebbe essere l’arrampicata, l’anno dopo anche il golf. Cerco di spaziare su più campi motòri possibili, con un senso. C’è sotto una struttura ben definita.

Vista la diversità di livello, è possibile che un bambino faccia più di una settimana?

Non lo consiglio. Mio figlio, che ha 7 anni, sta facendo il corso di BMX, che è spalmato su tre mesi. Bene, quello che lui fa in tre mesi, alla Bike Academy lo farebbe in un giorno. Il nostro corso è spalmato su 8 ore al giorno, due settimane sarebbero un impegno troppo gravoso. La Bike Academy non è un centro estivo. E’ un concentrato di esperienze sensazionali: se fai anche la seconda settimana, cosa mai potrebbe stupirti andando a fare ciclismo in una società giovanile?

Deve essere una settimana indimenticabile da cui spiccare il volo?

Esattamente. Proponiamo esperienze talmente alte, che non ha senso abbassare il livello per durare più giorni. L’anno scorso mi sono buttato dentro un laghetto con la bici, è una sorta di Wonderland, ma in realtà alle spalle di ogni attività ci sono dei docenti formati, anche ridono e scherzano. E’ una settimana molto compressa, ma anche molto ampia dal punto di vista delle emozioni.

E’ fuori luogo immaginare una formula da spalmare su un periodo più lungo?

Andremmo a fare concorrenza alle associazioni sportive, che noi invece vogliamo aiutare facendogli arrivare nuovi bambini. E soprattutto, il sottoscritto non avrebbe tempo di seguirla. Una delle cose cui tengo, almeno finché il fisico mi sosterrà, è che nella Bike Academy di Angelo Furlan deve esserci Angelo Furlan. Non deve portare solo il nome, solo così puoi trasmettere la tua esperienza, chiaramente con un pool di 20 collaboratori. Il rapporto massimo è di un istruttore per 8 bambini, non di più. C’è una sorta di numero chiuso, anche perché l’organizzazione è impegnativa.

Anche logisticamente?

E’ quasi come organizzare un piccolo Tour de France, perché anche noi siamo itineranti. Abbiamo furgoni e rimorchi, ci spostiamo anche in natura e nel giro di un quarto d’ora tiriamo su il Villaggio Bike Academy. Montiamo e smontiamo, per cui sarebbe abbastanza impegnativo da fare per tutto l’anno.

Credi sia un format esportabile nelle scuole?

Nelle scuole mediamente vado spesso e ne faccio una decina ogni anno. Non si tratta di fare pubblicità alla Bike Academy, ma parlo per far capire ai ragazzini quanto sia bello andare in bicicletta. Cerco anche di stimolare gli insegnanti perché portino i ragazzi a fare ciclismo, ma in dieci anni che facciamo queste cose, grossi cambiamenti non li ho visti.

Hai parlato di istruttori formati, cosa intendevi?

Per lavorare con i bambini serve un pool di professionisti. Bisogna far passare il messaggio che chi allena i giovanissimi deve conoscere almeno i rudimenti della psicopedagogia. Deve sapere come lavorare sulla coordinazione oculo manuale, ovviamente non spiegandola ai bambini in termini scientifici, però magari facendoli giocare lanciandogli una pallina. Il tecnico che lavora con i bambini deve essere anche un educatore e un animatore. Altrimenti, se non sei interessante, dopo tre secondi ti scaricano. E forse per questo pochi vogliono o sanno farlo.

Quanto costa fare la Bike Academy?

Anche noi abbiamo bisogno degli sponsor. Ci sono tante belle persone qui in giro, imprenditori che ci sostengono. Amici che vedono il progetto, mettono il nome della loro azienda, ma di base vogliono aiutarci. Solo con le iscrizioni, non potrei fare questa qualità e non potrei pagare gli istruttori. La Bike Academy costa molto di più di un centro estivo, anche se molto meno rispetto al modello americano. Il prezzo è intorno ai 350 euro a settimana, che è molto più dei 30 euro del centro estivo comunale. Quando però vengono, si rendono conto della differenza. Noi gli diamo le biciclette, i completini e i caschi. Alla fine fanno una festa con le premiazioni. E’ dura anche per lo staff lavorare con i ritmi serrati, ma se vuoi lasciare qualcosa di buono, bisogna lavorare con questa qualità.

A ruota del maestro nel percorso della pista. Si provano tutte le bici (foto Angelo Furlan 360)
A ruota del maestro nel percorso della pista. Si provano tutte le bici (foto Angelo Furlan 360)
Sai se qualcuno dei bambini che sono passati da te in questi 10 anni ha continuato nel ciclismo?

Sì, ce ne sono. Fra i primi che hanno iniziato, che avevano 5-6 anni nel 2013, c’è qualcuno è esordiente o anche allievo. Ci sono stati ragazzi venuti da me a fare il bike fitting, che erano partecipato alla Bike Academy. Un grande buco è che a molti di loro piacerebbe fare mountain bike, ma la categoria allievi della mountain bike è inesistente, proprio non ci sono società.

Quali sono le soddisfazioni?

Quando i genitori mi mandano le foto dei figli che si sono fatti la pista di mountain bike in giardino. Oppure quando li portiamo per cinque ore nel bosco, magari a 500 metri dalla strada, ma per loro siamo in un posto sperduto. Quando vengono fuori delle dinamiche di gruppo incredibili. Si dice che il ciclismo sia uno sport individuale, invece loro si aiutano. Non c’è discriminazione, né dal punto di vista sociale né delle abilità. Alcuni bambini che sono dei Brumotti, altri magari hanno appena iniziato e li vedi che si aiutano tra loro in maniera del tutto fisiologica, senza che noi gli diciamo qualcosa. Per cui anche il sentire un po’ di fatica, senza bruciarli ovviamente perché non saremmo coerenti con quello che diciamo, fa venire fuori la parte più bella di loro.

Quando poi fai il passo indietro e li affidi alle società sportive, fai una sorta di passaggio di consegne?

Certo, di fatto i “miei” bambini non li abbandono mai.

Ristori, assistenza e percorso: il mondiale gravel con Furlan

19.09.2022
6 min
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Non si è ancora sopito l’entusiasmo per il campionato italiano gravel che si è concluso ieri ad Argenta, che è già tempo di spostare lo sguardo verso il nuovo obiettivo: il mondiale. Sempre gravel, sempre il primo della storia.

L’appetito vien mangiando si dice. E forse, visti i volti dei corridori ieri all’arrivo, è così anche per loro. Lentamente l’interesse cresce. E, a dispetto di come dice qualcuno, non è solo questione di marketing.

Filippo Pozzato (a destra) e Angelo Furlan che ha disegnato il percorso iridato
Filippo Pozzato (a destra) e Angelo Furlan che ha disegnato il percorso iridato

Agli albori…

Ovviamente c’è ancora molto da mettere a punto. Bisogna capire bene la deriva che deve prendere il gravel. C’è chi dice che i percorsi devono essere filanti e il più possibile con bici sì gravel, ma di filosofia stradistica. E chi invece sostiene che dovrebbero essere più tecnici. Chi dice che bisogna affrontarlo in autonomia totale e chi invece con più assistenza.

A definire il tutto sarà il tempo, ma noi intanto ci rivolgiamo ad Angelo Furlan, braccio di destro di Filippo Pozzato nell’organizzazione del mondiale gravel di Cittadella del prossimo 8-9 ottobre. 

La volta scorsa proprio con Pippo e Furlan eravamo andati alla scoperta del percorso che appunto assegnerà la prima maglia iridata di questa specialità. Stavolta torniamo sì ad analizzare il tracciato, ma con un occhio lungo anche sulla questione dell’assistenza e delle feed zone.

Uno dei primi single track in discesa nella zona dei Colli Berici
Uno dei primi single track in discesa nella zona dei Colli Berici

La creatura di Furlan

Il percorso, tutto sommato veloce, da Vicenza porta a Cittadella, toccando prima i Colli Berici, per un totale di 194 chilometri.

«Questa – racconta Furlan, ex pro’ e anche ex praticante di bmx e mtb – è la mia creatura e lo dico con orgoglio. Alle spalle ci sono state 800 ore di lavoro per tracciarlo. Ma ogni volta era un’emozione. Sono le mie strade, quelle di casa. Quelle che battevo sin da quando ero un corridore.

«In qualche modo, non me ne vogliano i puristi, ma io il gravel lo facevo già 15 anni fa. A metà stagione iniziavo ad annoiarmi e così per trovare stimoli montavo cerchi a basso profilo, copertoni un po’ più larghi e mi buttavo con la bici da strada sugli sterrati.

«Quando Pippo (Pozzato, ndr) mi ha detto di questa opportunità non ci ho pensato due volte e mi sono subito messo a lavoro. E’ il nostro territorio e abbiamo l’opportunità di mostrarlo al mondo».

E il risultato si è visto e si vedrà. Il fatto che a disegnare il percorso sia stato uno stradista che però aveva l’offroad dentro è significativo. Il tasso tecnico, specie nella parte iniziale, 15-20 chilometri, verso i Colli Berici non manca. Nulla d’impossibile chiaramente, ma si parla pur sempre di single track. Di sentieri più stretti. 

«Tra Vicenza, Padova e Cittadella trovare certe strade non è stato facile. Non siamo nel deserto dell’Arizona, è un’area fortemente urbanizzata. Però alla fine abbiamo il 70% del percorso su sterrato. Ma per me è di più questa percentuale, in quanto l’UCI considera i tratti cementati o di stradine rovinate come asfalto. Vi assicuro che si fanno sentire anche quelle, pertanto è oltre l’80-85%».

Per Furlan il fondo della Foresta di Arenberg alla Roubaix (viste anche le alte velocità) è più sconnesso di molti tratti tecnici del mondiale
Per Furlan il fondo della Foresta di Arenberg alla Roubaix è più sconnesso di molti tratti tecnici del mondiale

Corsa dura

Sentieri che tra l’altro arrivando all’inizio potranno subito incidere sull’andamento tattico della corsa e spezzettare il gruppo.

«Chiaro – riprende Furlan – che rispetto al ciclocross o alla mtb ci sono meno curve e parecchi drittoni, ma il gravel è questo, è anche un viaggio. E’ un’altra cosa. Però io sono convinto che uscirà ugualmente una corsa molto dura. Guardate ieri ad Argenta: il quarto ha preso quasi dieci minuti e il settimo un quarto d’ora. Anche per questo il tracciato che inizialmente doveva misurare 220 chilometri è stato accorciato un po’.

«Potranno emergere corridori con diverse caratteristiche metaboliche e questo è un aspetto curioso. Noi in Italia siamo legati alla figura dello scalatore e pensiamo che per fare una corsa dura bisogna mettere salite. In realtà non è solo così.

«Qui conta la resistenza: potrebbe vincere un uomo del Nord, per esempio una Foresta di Areneberg è ben più sconnessa dei tratti sterrati che s’incontreranno al mondiale, oppure un uomo da grandi Giri. Un cronoman che sa tenere alti wattaggi per lungo tempo. Se mi chiedeste su chi punterei tra un biker e uno stradista, risponderei sullo stradista».

Ieri all’italiano gravel Fontana (in foto) e altri sono partiti con le tasche piene per affrontare l’intero tracciato (foto @mario.pierguidi)
Ieri all’italiano gravel Fontana (in foto) e altri sono partiti con le tasche piene per affrontare l’intero tracciato (foto @mario.pierguidi)

Discorso ristori

Prima Furlan ha parlato di viaggio. In effetti il gravel nasce come avventura, come viaggio. Non è un caso che sulle bici ci siano le predisposizioni per l’alloggiamento delle borse. In questo caso è una gara e le borse non servono. Però resta centrale il discorso sull’autonomia. O semi-autonomia che si riscontra negli eventi gravel agonistici. Anche alla Monsterrato, unica prova di qualificazione per l’Italia, erano presenti dei punti di ristoro.

Il tutto legato ad un regolamento che si sta scrivendo (nel vero senso della parola) e che si dovrà definire col tempo a “suon d’esperienza”, se così possiamo dire.

«Il discorso dell’assistenza – dice Furlan – è in via di definizione. E’ una pagina bianca se vogliamo, perché l’UCI sta scrivendo il regolamento in questi giorni. Posso dire che di tanto in tanto (all’italiano era massimo ogni 25 chilometri, ndr) ci saranno delle zone di ristoro e di assistenza (feed zone). Ma di base i corridori dovranno essere autonomi. Pertanto dovranno partire con il necessario per i rifornimenti e il necessario per una prima assistenza tecnica».

«In più noi dell’organizzazione metteremo a disposizione delle moto e ci stiamo mettendo d’accordo con l’UCI per stabilirne il numero e le modalità. In apertura ci sarà invece un quad. Non ci potranno essere moto delle nazionali. Mentre è da definire chi allestirà il “tavolo” del ristoro, se l’organizzazione o la nazionale stessa». 

Ancora da definire nei dettagli, ma al mondiale saranno presenti delle moto assistenza. Qui la Serenissima Gravel dello scorso anno
Ancora da definire nei dettagli, ma al mondiale saranno presenti delle moto assistenza. Qui la Serenissima Gravel dello scorso anno

La sicurezza

Un aspetto che non è affatto secondario in questo mondiale gravel è la sicurezza. Sulla falsariga di quel che accade nel cross country e ancora di più nella downhill, tutto il percorso dovrà essere a vista d’occhio, almeno nei passaggi più tecnici o “pericolosi” come un single track, o il transito vicino ad un fiume.

«In pratica – spiega Furlan – dove finisce il campo visivo di un assistente del percorso, deve iniziare quello dell’assistente successivo. Questo implica un grande dispiegamento di forze, molto più di una gara su strada. In questo modo i ciclisti non sono mai da soli e l’assistente può intervenire in caso di caduta.

«E poi presumo ci sarà da “fermare” tutti gli utenti che nel weekend sono abituali fruitori delle ciclabili e dei lungo fiume per passeggiare. E non sarà così facile!». 

Da Vicenza a Cittadella, Pozzato e i sentieri del mondiale gravel

08.09.2022
8 min
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Una giornata con Pippo Pozzato e Angelo Furlan sul percorso del mondiale grave del prossimo 8-9 ottobre. Da Vicenza a Cittadella.

Il primo mondiale gravel della storia si correrà in Veneto l’8-9 ottobre, organizzato da Pippo Pozzato con la sua PP Sport Events. Le candidature non mancavano, dalla Toscana agli Stati Uniti, ma alla fine l’UCI ha scelto il progetto del vicentino. E il sopralluogo tecnico effettuato lunedì scorso (in bici) lungo i 194 chilometri del tracciato hanno confermato la bontà della scelta.

Appuntamento a Sandrigo, si parte col furgone e si va a prendere Furlan a Vicenza
Appuntamento a Sandrigo, si parte col furgone e si va a prendere Furlan a Vicenza

A Sandrigo per le 8

Questa è la storia di un viaggio alla scoperta del percorso e dei ragionamenti che hanno portato a tracciarlo, fatto ai primi di settembre con Pozzato e Angelo Furlan che, assieme a Marco Menin, si è occupato di tracciare la rotta. Appuntamento alle 8 nell’ufficio di Sandrigo e poi via per tutto il giorno.

«Il mondiale – racconta Pozzato – è un’opportunità importante per alzare l’asticella. Ogni anno stiamo facendo qualcosa in più, perciò insieme a tutta la squadra abbiamo deciso di buttarci in questa avventura. Ho dei ragazzi veramente bravi, la nostra forza sono l’energia e la voglia di fare. Sicuramente sarà difficile, perché comunque il primo è sempre più difficile, non c’è un precedente cui paragonarsi. Abbiamo dovuto prendere ogni cosa con le pinze. Però con il lavoro e l’entusiasmo, con l’energia della gente giovane che lavora con noi, sicuramente riusciremo a portarlo a casa come vogliamo».

Il via da Vicenza

Si parte da Vicenza, dal centro della città, dove l’Assessore allo Sport Matteo Celebron passa per un saluto su una bici del Bike Sharing della città che crede e punta sulla mobilità sostenibile. Due indicazioni per il giorno della gara e si parte. Piazza dei Signori e poi i portici di Monte Berico. Da lassù, in una viuzza sterrata poco dopo il santuario dove Gilbert vinse la tappa al Giro 2015, verrà dato il via ufficiale. I chilometri finali saranno 194.

«In Veneto abbiamo un territorio meraviglioso – racconta Furlan – e fare questo mondiale è motivo d’orgoglio. Ci siamo messi a scoprire posti che non conoscevamo, sebbene fossero dietro casa. Per disegnare il percorso, c’è voluto un mese di ricerca su software (hanno utilizzato Komoot, ndr). Però poi sono servite circa 80 ore pedalate per farlo tutto. Si parte con una cartolina su Vicenza. Poi si si passa da un ambiente urbanizzato e dalle meraviglie dell’Unesco ad altre prettamente bucoliche. E si finisce con le mura di Cittadella, costeggiando Padova».

Lungo il Bacchiglione

Monte Berico è la prima salita nel tratto di trasferimento. Quindi i primi sterrati, la discesa e la seconda salita, in asfalto e lunga circa 2 chilometri, prima di scollinare verso il lago di Fimon e lasciarsi Vicenza alle spalle.

A questo punto le difficoltà altimetriche sono finite, d’ora in avanti il percorso è un continuo dentro e fuori fra settori asfaltati, altri di sterrato e ciclabili. Anche se una delle brutte sorprese è stata che proprio alcune ciclabili sono state asfaltate e mantenere la quota dell’80% di sterrato ha richiesto qualche deviazione in più.

Gli elite correranno da Vicenza a Cittadella (140 km) + 2 giri di un circuito di 27 km: totale 194 km

Fino a Padova si costeggia il Bacchiglione, un po’ sull’argine e un po’ sulla ciclabile. Ed è proprio la stradina sotto e sopra i ponti di Padova a immettere il mondiale in uno dei settori gravel più caratteristici.

«Dal punto di vista del viaggio – dice Furlan – la parte che più piacerà al ciclista è proprio quella centrale. Lasci Vicenza e poi ti involi in questi lunghi tratti all’interno, nei campi che sembrano non finire mai. Ecco quella secondo me è la parte più bella».

Ritorno a Piazzola

La parte pianeggiante finisce a Piazzola sul Brenta, arrivo della Serenissima Gravel, dove il mondiale passerà costeggiando Villa Contarini e prendendo la via del circuito finale che si snoderà attorno Cittadella. L’occasione di qualcosa da bere e l’incontro con un vecchio amico permettono di approfondire il discorso.

«Con il presidente Zaia e la Regione Veneto – dice Pozzato – l’idea è quella di valorizzare il territorio. Abbiamo la fortuna di avere delle cittadine e delle città come Vicenza, Cittadella e Padova che credono molto nel progetto ciclismo. Siamo partiti l’anno scorso con le nostre gare e la cosa che vogliamo fare è piantare la bandierina e mantenerla negli anni, per poi crescere anche in altre parti d’Italia. Sicuramente però noi veneti abbiamo a cuore il nostro territorio, ci teniamo molto e la politica ci aiuta».

Il passaggio da Piazzola, sede di arrivo della Serenissima Gravel
Il passaggio da Piazzola, sede di arrivo della Serenissima Gravel

Il Carrefour de l’Arbre

A Cittadella ci aspetta Diego Galli, l’Assessore allo Sport. Un rapido saluto, la promessa di chiudere in centro con un aperitivo e si parte alla scoperta del circuito. E qui il gravel diventa impegnativo.

«Dal punto di vista tecnico – Furlan annuisce e spiega – per gli elite che faranno la parte finale, sicuramente via Giovo sarà una sorta di Carrefour dell’Arbre di Cittadella. Stradina stretta. Pietre. Fango. La gobba al centro e in fondo la curva a 90 gradi. Questa va a sinistra, alla Roubaix a destra, ma siamo lì. Quella è la parte più bella per chi farà il percorso completo».

Il fondo è dissestato, l’unica soluzione sarà far girare il rapporto e sperare di… galleggiare sulle pietre. Dice Furlan che la scelta di gomme, pressioni e rapporti dipenderà dallo stato delle strade e se avrà piovuto o meno.

L’arrivo a Cittadella

Via Giovo farà la selezione finale, poi il gruppo andrà verso l’arrivo nel centro di Cittadella, nella stessa piazza da cui lo scorso anno partì il Giro del Veneto.

«Tutto quello che ho criticato da corridore – dice Pozzato davanti al prosecco che chiude la giornata – mi sono promesso di metterlo in pratica insieme al mio team, per cogliere le opportunità che magari non vengono quando si mantiene l’approccio tradizionale. Vorrei innovare per quanto possibile questo sport e farlo diventare attrattivo specialmente per i giovani, affinché non scappino verso altri verso altre discipline».

«Io penso – prosegue – che il ciclismo sia lo sport più bello del mondo. La cosa che magari abbiamo sbagliato negli anni è come l’abbiamo comunicato. Noi stiamo cercando di farlo in maniera diversa per portare a casa dei giovani che possono essere i protagonisti dei nostri eventi. Non solamente l’atleta, ma anche lo spettatore deve essere protagonista e sentirsi partecipe dell’evento».

Mancano 30 giorni al primo mondiale gravel della storia. Sabato 8 ottobre correranno le donne, il giorno dopo toccherà agli uomini, suddivisi per fasce di età. Una sorta di maratona, con gli elite davanti e dietro il resto del mondo.

La prima pietra è stata messa, gli atleti si stanno qualificando da tutto il mondo. Siamo davvero curiosi di vedere come andrà a finire. In questo spicchio di veneto fra i Colli Berici e le pendici del Grappa, si sta lavorando davvero a testa bassa.

Da Mallorca la voce di Ferrigato sui giovani spremuti

29.04.2022
6 min
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Andrea Ferrigato ha fatto il professionista dal 1991 al 2005, ha vinto 17 corse (fra cui una tappa al Giro e la Leeds International Classic) ed è anche arrivato secondo nell’edizione 1996 della Coppa del mondo. Oggi fa la guida cicloturistica e proprio per questo acchiapparlo durante la stagione è spesso complicato. Respirando ancora l’aria del ciclismo tramite gli amici che ha nel gruppo, gli viene facile ragionare e fare confronti piuttosto pertinenti. “Ferri” è uno di quelli che parla poco e può così permettersi il lusso di non dire mai cose banali. Così lunedì scorso, commentando su Facebook l’editoriale che parlava della penuria di corridori italiani ai piani alti delle corse, ha scritto una frase su cui abbiamo rimuginato a lungo.

«Iniziamo con il misuratore di watt tra gli allievi – ha scritto – e poi non abbiamo giovani forti, forse perché con l’eccessivo allenamento non vediamo più i talenti ma i super allenati che poi chiaramente spariscono. Ma forse… Forse è così».

Per gli ultimi due anni di carriera, iniziata all’Ariostea, Ferrigato ha corso con l’Acqua & Sapone
Per gli ultimi due anni di carriera, iniziata all’Ariostea, Ferrigato ha corso con l’Acqua & Sapone

Gran fondo a Mallorca

In questi giorni Andrea si trova alle Baleari per la 312 Mallorca, gran fondo che vedrà al via 8.000 cicloturisti e fra loro qualche faccia nota come Alberto Contador, Oscar Freire, Ivan Basso e Jan Ullrich. E dopo aver scherzato sul fatto che non vuole più saperne di fare delle gare a tutta, avendo già corso abbastanza, il discorso torna al punto di partenza.

«Sono qui con Enrico Pengo – dice Ferrigato, riferendosi allo storico meccanico della Lampre e poi del Team Bahrain – e parlavamo di Ulissi. E’ chiaro che è diventato un ottimo corridore, ma la proporzione fra quello che è stato da junior, con due mondiali vinti, e la sua carriera attuale non si è mantenuta. Ne parlavo anche con Angelo Furlan (ex professionista e oggi allenatore, ndr) e si ragionava sul fatto che attorno ai 23 anni si ha il secondo sviluppo. Ma se esageri da giovane, tolti dal mazzo i fenomeni, magari quello sviluppo non ce l’hai e smetti di progredire».

Mondiali U23 del 2009 a Mendrisio: in testa agli azzurri Ulissi e Caruso
Mondiali U23 del 2009 a Mendrisio: in testa agli azzurri Ulissi e Caruso
Il discorso sta in piedi…

Ricordate quel video in cui Tosatto a Livigno chiede a un ragazzino quanti anni abbia, mentre quello fa le ripetute? Appena gli risponde che è un allievo, Matteo gli urla di tornare a casa. Che non si fanno le ripetute in altura da allievo. E poi quando cresci, cosa fai? Devi andare a 4.000 metri? Se si fanno lavori specifici da troppo piccoli, perdi la possibilità di svilupparti ancora a vent’anni

Se si allena un ragazzino al pari di un professionista, lo si porta a livelli altissimi, ma si riduce il suo margine per gli anni successivi?

I procuratori prospettano carriere fino ai 28 anni, ma così perdiamo quelli che magari si sviluppano dopo. Tosatto ha dovuto fare il Carabiniere perché non aveva i punti, oggi avrebbe smesso. Vanno avanti quelli che vengono allenati meglio, a discapito di chi ha i numeri e magari ha bisogno di più tempo per venire fuori o non vuole bruciare le tappe. Si sono infilati in un circolo vizioso e sono costretti ad adeguarsi. Uno junior che fa 6 ore a febbraio è troppo e io so di gente che lo fa. Ma probabilmente il loro allenatore è stato professionista e non capisce di dover calibrare bene gli allenamenti.

Vogliono tutto e subito?

In questo momento, al mondo ci sono cinque ragazzi giovani e fortissimi. Ma non si può pensare di volergli somigliare. I fenomeni sono delle eccezioni, come Saronni che vinse il Giro a 21 anni. Oppure Gimondi e Merckx. Sono pochi e se ne racconta ancora. Poi ci sono tutti gli altri. Invece ho la sensazione che si stia perdendo la voglia o la capacità di far crescere il corridore rispettando i suoi tempi. Anche Tosatto per me è stato un fenomeno, con i 28 grandi Giri portati a termine, sempre pronto a tirare per un compagno.

Tosatto ha portato a termine 28 grandi Giri, ma è passato pro’ a 23 anni dopo aver fatto il carabiniere
Tosatto ha portato a termine 28 grandi Giri, ma è passato pro’ a 23 anni dopo aver fatto il carabiniere
E tu?

Io non sono stato un fenomeno, ma di certo ero molto pronto. Sono passato e ho subito vinto, poi hanno capito che avevo dei mezzi e mi hanno messo in attesa. Ho avuto tanta fortuna e il tempo per adattarmi. Se mi avessero buttato dentro come oggi, non avrei avuto le forze per quella velocità.

Il tempo è un lusso…

Oggi non c’è tempo e neppure la voglia. E non bastano più due anni. Ricordo quanto soffrivo sulle salite al 3 per cento. Ho cominciato a stargli dietro a 25 anni. Avere il tempo per crescere è stato una fortuna, perché io prima non avevo la potenza necessaria. Usavo il cardiofrequenzimetro, un po’ si doveva interpretare. Oggi invece si usano i watt e non si sbaglia. E i corridori più giovani spariscono. Sempre parlando con Pengo, abbiamo visto che ai mondiali di Salisburgo eravamo in 8 veneti. Dalle parti di casa, una volta c’era un campione ogni 15 chilometri, adesso non più e patiamo la sensazione di non avere più nessuno. Nel mondiale in cui Moscon fu squalificato (Bergen 2017, ndr), mettemmo tre juniores nei primi dieci. Dopo sei anni, possibile che nessuno di loro sia ancora venuto fuori?

Perché secondo te?

Forse perché non fanno quel secondo step di sviluppo. In questo modo il grande campione emerge, mentre il corridore medio sparisce. Non è giusto. Ma se quando sono così giovani, li alleni coi watt, ci sta che dopo 4 anni a quel modo, siano stanchi. Io andavo a caso e non sapevo niente. Usavo il cardio ed era già spaziale, ma forse così facendo mi sono risparmiato.

E poi quando  correvi tu, l’Italia aveva qualche squadra di più…

C’è stato un periodo che ne avevamo 12, in modo che se in una non ti trovavi, ne provavi un’altra. Ora mancano. Forse fra tutte le voci dette finora, avere una squadra italiana in cui crescere e in cui mettersi alla prova nel WorldTour sarebbe il modo giusto per riprendere in mano i fili dello spettacolo.

Nella testa di un velocista: 6 minuti nel matrix con Angelo Furlan

04.03.2022
6 min
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Nella testa di un velocista, guida d’eccezione Angelo Furlan, 17 vittorie da professionista (in apertura quella del Delfinato 2009 su Boonen) e oggi coach, biomeccanico e organizzatore di academy per bambini con AngeloFurlan360. Ci aveva incuriosito un suo post su Facebook su cosa significhi essere uno sprinter.

«Essere velocisti – ha scritto il 20 febbraio – ogni anno 365 giorni di sacrifici per 20 secondi di puro orgasmo e poi… riparti da capo. Tanto dura quanto affascinante. Non ho rimpianti, ma l’ultimo km… Sì, quello mi manca da matti; l’adrenalina le endorfine… Rifarei tutto dalla A alla Z. Il ciclismo è la vita amplificata; è scuola di vita accelerata all’ennesima potenza. Niente scuse impari a dover prendere decisioni sotto pressione in un millesimo di secondo, sgomitare, evitare le cadute, ad assumerti le tue responsabilità nelle sconfitte e nelle vittorie… Impari a non trovare scuse. Impari ad impegnarti di più senza trovare alibi».

Per scaricare l’adrenalina, oggi Furlan si dedica alle discese in mountain bike (foto Facebook)
Per scaricare l’adrenalina, oggi Furlan si dedica alle discese in mountain bike (foto Facebook)

Dimensione matrix

Poteva bastare ed è piaciuto di certo ad oltre 700 follower. Si capiva però che ci fosse dell’altro. Per cui abbiamo accettato di fare un giro nella sua testa, scoprendo quello che Angelo definisce il matrix.

«Velocista non smetti mai di esserlo – dice – sono otto anni che ho smesso e applico tutto quello che ho imparato. Ci sono continue analogie tra la vita del corridore e quella del lavoro, dai corsi che organizzo agli altri progetti. Però mi manca l’adrenalina dello sprint. Il frizzantino di quando entri in quel matrix e trovi la pace dei sensi in quella fase che agli altri provoca terrore. Ti annusi con gli altri, riconosci i loro movimenti. Anche nella vità è così. Ti sposti a destra, vai a sinistra, freni e rilanci. Lo scalatore va in bici per il panorama, noi per quell’adrenalina. Credo di poter dire che di base il velocista sia bipolare».

Quel pizzico di follia che affiora nelle foto sui social assieme a Ferrigato per promuovere inziative
Quel pizzico di follia che affiora nelle foto sui social assieme a Ferrigato per promuovere inziative
Spiegati meglio.

Il velocista vive di paradossi. E’ una persona calmissima, nasconde agli altri il mondo che ha dentro. Come nel film “A Beautiful Mind”. Per essere velocista non basta avere gambe grosse e picchi altissimi, peraltro una tipologia di velocista che sta sparendo. Devi avere qualcosa dentro, una sorta di settimo senso. Non so come spiegarlo. Velocista si nasce e non si smette di esserlo. Lo vedo quando sono in macchina e quello davanti sbaglia una curva o mi scopro a immaginare la traiettoria più breve per arrivare prima.

Lo tiene nascosto fino a un certo punto, hai mai osservato gli occhi di un velocista?

No, cosa fanno?

Anche quando è a riposo, non stanno mai fermi. Sono veri scanner. Come si fa a convivere con quest’ansia?

Devi trovare il modo per sfogarla, altrimenti diventa qualcosa di pericoloso. Io ad esempio prendo la mountain bike e faccio le mie belle discese a filo di rocce. Pratico sport che richiedono un’attenzione estrema. Se in qualche modo non liberi la bestia che hai dentro, rischi la tristezza o di andare giù di testa.

Quando c’erano Cipollini e Petacchi – dice Furlan (a destra in maglia Alessio) – il terzo era quello che sopravviveva ai colpi del finale
Con Cipollini e Petacchi – dice Furlan (a destra in maglia Alessio) – il terzo era quello che sopravviveva ai colpi del finale
Un tuo collega un giorno raccontò che in volata sembra di vivere tutto al rallentatore.

Diventa tutto chiaro, hai i sensi così amplificati che riesci a vedere anche quello che succede alle tue spalle. Capisci chi frena, chi si sposta. Io lo chiamo il matrix…

Ce lo racconti?

Entri in un’altra dimensione. Adesso mi prenderanno per matto, ma mi è capitato più volte di vedermi dal di fuori. Raggiungevo lo stesso tipo di introspezione nelle tappe alpine, in cui la scelta era fra morire o staccare l’anima dal corpo. Di solito era la seconda, perciò mi risvegliavo dopo un’ora e mezza che in qualche modo ero rientrato nel tempo massimo ed ero arrivato in hotel. E sì che per noi anche la volata era una fase eterna. Quando c’erano Cipollini e Petacchi con i loro treni, noi altri arrivavamo alla volata già finiti. Il terzo era quello che usciva dall’incontro di boxe fatto di gomitate e scatti per tutti gli ultimi 10 chilometri. Garzelli un giorno venne a dirmi che non si capacitava di come facessimo.

Alla Parigi-Tours del 2010, secondo dietro Freire, terzo Steegmans: sul podio, gradini invertiti
Alla Parigi-Tours del 2010, secondo dietro Freire, terzo Steegmans: sul podio, gradini invertiti
Cosa succede quando guardi una volata in tivù?

Mia moglie dice ai bambini di uscire dalla stanza perché papà ha da guardare la volata. E io mi trasformo.

Potresti avere la bestia dentro perché pensi di non aver dato tutto?

No, in realtà no. Ho fatto 13 anni da professionista e sempre al massimo livello. Ho smesso per restare in famiglia. Non ho nostalgia del preparare la valigia e per questo non ho fatto il diesse, ma sapevo che quella parte non sarebbe più tornata. Smettere è stato un inizio. Sono sempre nel ciclismo e la seconda carriera mi sta dando quasi più soddisfazioni della prima. L’unica cosa che mi brucia è quando Freire mi passò sul filo alla Parigi-Tours del 2010.

Furlan racconta che in salita scindeva l’anima dal corpo per riuscire ad andare avanti
Furlan racconta che in salita scindeva l’anima dal corpo per riuscire ad andare avanti
Ti capita mai di fare volate con gli amici?

Sì, ma devo stare attento, perché mi si chiude la vena e rischio di fare disastri (ride, ndr). Mi sono allenato per una vita con Fabio Baldato, che è un amico al pari di Andrea Ferrigato. E dopo un po’ che pedalavamo, Fabio mi faceva spostare sulla sinistra perché non mi rendevo conto sistematicamente di dargli gomitate e di spingerlo verso il ciglio.

Ci voleva pazienza con te…

Qualcuno ti sceglie per essere velocista. Quando vedi una riga che taglia la strada, chiunque o qualsiasi cosa si frapponga fra te e lei, è un nemico. Non distingui più i colori, vedi solo la riga. Alla Vuelta del 2002 in cui vinsi due tappe, non volevo i compagni davanti, ma dietro, per dirmi cosa accadesse alle mie spalle.

Il contrario del treno…

Ero un velocista da trincea, le volte che ho vinto con il treno non sono state altrettanto belle.

Greipel ricorda ogni volata? Possibile. Qui il tedesco lo batte al Turchia del 2010
Greipel ricorda ogni volata? Possibile. Qui il tedesco lo batte al Turchia del 2010
Petacchi ammise di non essere un velocista, ma un corridore potente che con il treno diventava imbattibile.

Analisi corretta, anche se un po’ di predisposizione deve esserci. Pozzato poteva essere come Petacchi a livello di numeri, ma non faceva le volate perché aveva paura. Lo stesso Cancellara oppure Backstedt.

Di recente Greipel ci ha detto di ricordare tutte le volate che ha vinto.

Ha ragione. Io ho rimosso dalla mente tante salite che ho fatto, ma delle volate ricordo anche gli odori.