Un mese in Grecia, così Anastopoulos ha rimesso in forma Cav

14.05.2024
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Mark Cavendish è tornato a ruggire. Lo ha fatto al Giro di Ungheria, spazzando via la sua primavera complicata. Anche se tutto sommato la stagione era iniziata benino, con dei buoni allenamenti in quota in Colombia e una vittoria sempre nella corsa sudamericana.

Poi ecco marzo ed e con esso i problemi, che si sono ufficialmente materializzati alla Tirreno-Adriatico. Tirreno finita con zero sprint disputati e un ritiro anticipato, per il corridore dell’Astana Qazaqstan. Hanno provato a fargli fare la Milano-Torino qualche giorno dopo, ma ancora nulla di buono. Calendario rivisto: tra Grecia, Turchia, ancora Grecia e Ungheria.

Mark Cavendish con Vasilis Anastopoulos sulle alture attorno Atene (foto Instagram)
Mark Cavendish con Vasilis Anastopoulos sulle alture attorno Atene (foto Instagram)

Un mese in Grecia

Al Giro d’Italia le imprese magiare di Mark non sono passate inosservate, così come non è passato inosservato il suo training camp in Grecia. Il suo storico coach, Vasilis Anastopoulos, se lo è portato a casa. E chi conosceva il tecnico greco sapeva che lì avrebbe messo l’ex iridato a regime.

«Ho deciso – spiega coach Antastopoulos – di portarlo in Grecia perché così era previsto dall’inizio della stagione. Mark si è venuto ad Atene all’inizio di aprile per allenarsi insieme a me. È la terza volta che viene in Grecia per un camp. Gli piace molto, quindi abbiamo deciso di ripetere questa sessione anche quest’anno». 

«In più il fatto che in Grecia il ciclismo non sia così popolare, fa sì che quasi nessuno riconosca Cav, ed è una cosa che Mark stesso gradisce. Lui ama allenarsi senza ricevere troppa attenzione e restare concentrato».

A Valle Castellana, alla Tirreno, Cav scortato da Morkov, è fuori tempo massimo
A Valle Castellana, alla Tirreno, Cav scortato da Morkov, è fuori tempo massimo

La forma arriva

Antastopoulos conosce Cavendish come pochi altri. Sa i suoi punti forza e le sue debolezze. Probabilmente la sua presenza costante fa bene al corridore inglese. Da una parte lo esalta, dall’altra gli dà la tranquillità necessaria, la sicurezza che sta lavorando bene. E infatti i risultati si sono visti, anzi, rivisti in Ungheria.

«L’inizio della stagione – va avanti Vasilis – è stato molto positivo con il ritiro in Colombia e la vittoria di tappa lì, ma poco prima della Tirreno Cav si è ammalato. Ha preso un raffreddore molto forte che è durato circa due settimane e mezzo. Quindi insieme allo staff medico della squadra abbiamo preso la decisione di annullare la sua partecipazione alle gare primaverili in Belgio e di lasciargli invece del tempo per recuperare bene».

«E infatti anche per questo non sono stupito che abbia vinto in Ungheria. Tutto sommato era vicino a vincere anche la tappa finale in Turchia, che si è tenuta due settimane prima. Quel giorno ebbe un problema meccanico».

A Kazincbarcika, Cavendish (classe 1985) ha colto la sua vittoria numero 164
A Kazincbarcika, Cavendish (classe 1985) ha colto la sua vittoria numero 164

Volume e intensità

In Grecia quindi Cavendish ha trovato le condizioni migliori per allenarsi. Clima buono, percorsi giusti e appunto un coach che lo ha seguito passo, passo… ogni giorno. La gara ungherese era un passaggio importantissimo per l’ormai mitica 35ª vittoria del Tour de France.

In Ungheria Cav è persino andato in fuga nella tappa finale: pensate che motivazione…

«Qui in Grecia – dice Antastopoulos – possiamo combinare alcune lunghe pedalate di resistenza con un po’ di lavoro a ritmo elevato senza problemi. Abbiamo trascorso quasi un mese ad allenarci in qui. Il piano includeva un po’ di tutto. Abbiamo iniziato con alcune pedalate lunghe e facili per concludere con un po’ di lavoro ad alta intensità e sprint da dietro moto».

Non solo ha vinto: in Ungheria Cav è anche andato in fuga. Un ulteriore ottimo allenamento
Non solo ha vinto: in Ungheria Cav è anche andato in fuga. Un ulteriore ottimo allenamento

Verso il Tour

«Come sono i suoi valori? Abbiamo ancora del lavoro da fare – specifica Anastopoulos – ma per il momento il suo livello è abbastanza buono».

Infine abbiamo chiesto al tecnico greco se c’è mai stata l’idea di portare Cavendish al Giro d’Italia. Si poteva pensare che senza più troppe gare nelle gambe, la corsa rosa potesse essere un buon viatico per lui. Ma si sa, di questi tempi, correre senza essere al top è controproducente.

«No, l’idea di portarlo al Giro d’Italia non è mai stata presa in considerazione. Siamo rimasti fedeli al nostro piano. Dai prossimi giorni faremo un ritiro in quota a Sierra Nevada, poi ci sarà il Tour de Suisse e quindi ecco il Tour de France».

Mani sulle leve in discesa, tendenza rischiosa ma inevitabile?

13.05.2024
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Si parla molto di cadute, attribbuendole al fatto che queste siano principalmente legate a bici e materiali sempre più rigidi e veloci. Che oggi si vada veloci è cosa vera. E’ l’evoluzione. Una bici attuale, anzi un pacchetto bici + atleta attuale, a parità di sforzo e numeri antropometrici è certamente più veloce che in passato.

Ma siamo però sicuri che la colpa di queste cadute sia da scaricare integralmente su bici, ruote, freni a disco..? O ci sarà anche dell’altro? I corridori hanno delle responsabilità?

Ne parliamo con Paolo Savoldelli, uno che in bici ci sapeva andare. Le sue discese sono antologia del ciclismo. Paolo, la sua tecnica se l’era costruita da bambino e l’aveva affinata nel corso degli anni, tra le categorie giovanili e il professionismo.

Savoldelli in discesa, terreno sul quale ha spesso attaccato… pur restando in sicurezza
Savoldelli in discesa, terreno sul quale ha spesso attaccato… pur restando in sicurezza

Questione di posizioni

A Savoldelli gettiamo sul piatto una nostra annotazione basata su osservazioni reali: i corridori tengono (quasi) sempre le mani sulle leve in discesa. E anche quando in gruppo nei finali di corsa si lima a 60 all’ora. In quest’ultima circostanza la visibilità cala parecchio e se la buca di turno, con le mani sulle leve, ti fa perdere la presa finisci a terra.

Emblema assoluto di questo tipo di caduta è Jens Voigt al Tour 2009 scendendo dal Piccolo San Bernardo: mani sulle leve, velocità elevata, avvallamento, caduta (rovinosa ed inevitabile) in avanti.

Prima di parlare direttamente delle mani, Savoldelli parte però dalle posizioni in bici. Anche perché, come vedremo, le due cose sono legate.

«La posizione – spiega il Falco Bergamasco – è cambiata completamente rispetto a quando correvo io, ma anche Moser o Bugno… Oggi sono tutti più corti e avanzati. Uno dei primi a proporre queste posizioni moderne fu Alberto Contador. Sicuramente oggi hanno visto che biomeccanicamente rendono di più, vanno alla ricerca dei watt, ma certamente questa posizione molto avanzata non è ideale per guidare bene la bici».

Adam Yates la sua posizione è il simbolo di quanto oggi gli atleti siano avanzati in sella
Adam Yates la sua posizione è il simbolo di quanto oggi gli atleti siano avanzati in sella

Quei telai su misura

Il baricentro è tutto più avanzato, e questo lo sosteneva anche il meccanico della Ineos Grenadiers, Matteo Cornacchione, mentre 20 anni fa si era ben più spostati dietro. Tra le altre cose Cornacchione diceva che Pidcock era meno spostato in avanti di altri. Tenete a mente questa frase e pensate a come va in discesa l’inglese…

«Certamente – prosegue Savoldelli – i materiali incidono, i telai e le ruote soprattutto sono più rigide. Oggi i telai stessi sono standard, mentre noi avevamo quelli su misura e questo era un valore aggiunto. Ma va considerato anche il fatto che oggi ci sono più dossi, più rotonde, più spartitraffico. Non si cade solo in discesa. E c’è più stress in gruppo e si commettono più errori. Insomma, per me le cadute sono da imputare ad un insieme di fattori».

Paolo Savoldelli fa un’analisi a 360° che è difficile non condividere, resta però aperta la questione delle mani sulle leve. E’ un dato oggettivo che se si mettono sulla curva della piega manubrio, proprio in casi di dossi, buche… il palmo della mano ha un’opposizione, un punto di tenuta (il manubrio stesso). Mentre se le si mette sulle leve questo punto viene a mancare.

E’ appurato che mettere le mani sulle leve e abbassare il busto è più aerodinamico che stare in presa bassa. Ma limando a centro gruppo la sicurezza ne risente
E’ appurato che mettere le mani sulle leve e abbassare il busto è più aerodinamico che stare in presa bassa. Ma limando a centro gruppo la sicurezza ne risente

Mani sulle leve

Se si osserva bene, nella famosa caduta dei Paesi Baschi che ha messo fuori gioco Evenepoel, Vingegaard e tanti altri, i primi atleti avevano tutti le mani sulle leve. Magari con le mani sotto qualcuno si poteva salvare. Tra l’altro ad innescare la caduta di massa è stato proprio Remco che con un avvallamento (una radice ci hanno riferito) ha perso il contatto col terreno e aveva le mani sopra.

«In teoria – dice Savoldelli – stando così corti e in avanti, mettendo le mani sotto dovrebbero allungarsi, ma poi la realtà è che si ritroverebbero ancora più schiacciati. Immagino sia per questo che cerchino costantemente la presa sulle leve».

«Poi è anche vero che alcuni atleti, come Evenepoel, magari difettino delle basi in quanto non hanno corso da giovani, ma guidare bene a certi livelli è anche una dote».

Quanti ragazzi, specie giovani, scendono con le mani sulle leve…
Quanti ragazzi, specie giovani, scendono con le mani sulle leve…

Compromesso necessario

Presa sulle leve e posizioni avanzate vanno di pari passo, ma è vero che comunque molti non guidino bene.

«Io – dice Savoldelli – ho notato per esempio che spesso i corridori si alzano sulla sella prima dell’ingresso in curva: è sbagliato. E’ una cosa che non si deve fare. In quel momento alleggerisci il peso, il controllo sulla bici. Ma io credo che questo dipenda dal fatto che appunto finiscano troppo in avanti e cercano di ritirarsi indietro. E per lo stesso motivo vanno a cercare le leve e non la curva della piega manubrio».

«Noi eravamo più distesi, con meno dislivello tra sella e manubrio e la presa bassa ci veniva più naturale».

Con le mani in presa alta il controllo è meno rapido e il baricentro si alza. E qui stando a quel che ci ha detto Savoldelli, dobbiamo spezzare una lancia in favore dei corridori: mettendo le mani sulle leve è vero che un po’ si alza questo baricentro, ma è anche vero che lo si riequilibra, in quanto si cade un po’ meno sull’anteriore.

Insomma, tenere le mani sulla piega è certamente più sicuro, ma con queste posizioni non è neanche così facile. 

Juniores azzurri a cronometro, per Salvoldi è un problema

13.05.2024
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Due impegni di Nations Cup ravvicinati nel tempo, due corse a tappe molto diverse fra loro. Prima una delle classiche del settore, la Course de la Paix su cinque tappe compresa una cronometro i cui esiti sono stati focali per lo stato di salute del movimento. Poi il GP F.W.R. Baron in Italia, due sole frazioni di cui una, la prima, che era una cronosquadre. Dino Salvoldi ha accolto l’esito senza nascondersi, anche perché la partecipazione a livello qualitativo è stata diversa, con la prima che metteva davvero di fronte il meglio della categoria.

La gara in Repubblica Ceca è è stata vinta dal campione del mondo della categoria e il distacco che Albert Withen Philipsen ha imposto agli avversari non deve trarre in inganno perché il danese ha davvero dominato la gara, imponendo la sua legge. Per trovare il primo italiano bisogna scendere al 15° posto con Enea Sambinello.

Il podio finale con Philipsen primo davanti all’olandese Remijn a 25″ e al ceko Sumpik a 26″ (foto organizzatori)
Il podio finale con Philipsen primo davanti all’olandese Remijn a 25″ e al ceko Sumpik a 26″ (foto organizzatori)

«Ci mancava quello che consideravamo la punta per questa corsa, Lorenzo Finn – afferma Salvoldi – ma avevamo programmato l’appuntamento consapevoli di avere comunque una squadra forte e in grado di dire la sua sia per la classifica che per le singole tappe. L’andamento finale ci ha dato risposte non al pari delle aspettative e fatto uscire ridimensionati. Qualche imprevisto c’è stato, ma non è stato condizionante, il nostro livello era quello visto in gara».

Quello che ha dato da pensare è stato soprattutto l’esito della cronometro, di 8,8 chilometri con il miglior azzurro, Andrea Donati, solo 23° a 42” da Philipsen…

Dobbiamo guardare dentro i risultati, prendere atto dei numeri. Io l’ho fatto e ho voluto parlarne con i direttori sportivi dei ragazzi chiamati in nazionale per capire, perché su un percorso breve e non velocissimo la differenza è stata enorme. Un comportamento generale che impone domande, perché la cronometro è proprio legata a numeri, non a situazioni tattiche che impongono letture diverse.

Per gli azzurri una trasferta senza grandi squilli, un segnale d’allarme per Salvoldi
Per gli azzurri una trasferta senza grandi squilli, un segnale d’allarme per Salvoldi
Che impressione ne avete tratto?

Non posso negare che in seno alla squadra c’è stato un forte contraccolpo. Erano tutti molto demoralizzati, io però vedo anche che solo due settimane prima, all’Eroica Juniores, anche questa di Nations Cup, i responsi erano ben diversi, due azzurri nella Top 10 e la squadra per buona parte era la stessa, non è possibile che siano diventati brocchi d’un colpo. E’ anche vero però che i risultati vanno analizzati perché ormai la categoria è l’anticamera del professionismo e se questi ragazzi hanno ambizioni di passare professionisti, devono anche dare gli input necessari perché dall’alto possano notarli e prenderli. Noi dobbiamo capire che cosa non è andato e prendere le adeguate contromisure.

La debacle a cronometro è frutto solo della prestazione fisica o c’è anche una differenza di materiali?

Su questo non ho dubbi: quando sei in nazionale le bici sono di primissimo livello, tutte specifiche. Dobbiamo guardare ad altro. Non è un caso ad esempio se nei primi 11 della prova contro il tempo ci fossero 3 danesi e 3 norvegesi. Paesi dove non ci sono grandi montagne ma c’è grande attenzione verso il ciclismo e la preparazione dei più giovani, che quindi acquisiscono caratteristiche specifiche per le prove in piano. Io sono convinto che bisogna guardare l’insieme, anche gli aspetti socioculturali, ambientali, economici. Per fare un esempio, se l’Austria è una potenza nello sci e non negli sport acquatici ci sono ragioni che vanno al di là del singolo caso. Così è nel ciclismo.

Ciò come influisce nello specifico?

In quei Paesi scandinavi, come detto, non ci sono salite e il bel tempo latita – risponde Salvoldi – questo si traduce in una predisposizione per quella disciplina, con allenamenti spesso sotto l’acqua e una programmazione legata a quello sforzo. C’è un sistema di allenamento diverso: noi facciamo ripetute in salita a buone potenze, ma in pianura l’allenamento comporta un impegno ben differente. Bisogna raggiungere potenze diverse. Siamo sempre in grado di farlo? E’ su questo che dobbiamo ragionare, noi nello specifico abbiamo fra i pro’ un fuoriclasse, qualche buon specialista, ma poco altro rispetto alla forza generale e alla tradizione del nostro movimento.

Secondo te in Italia sottovalutiamo il problema?

Diciamo che è tempo di prenderlo di petto, il che significa lavorare sulla preparazione dei ragazzi. Al di là delle caratteristiche individuali, dobbiamo renderci conto che questo esercizio è fondamentale per un professionista, le prestazioni contro il tempo sono uno degli elementi che i dirigenti considerano nel mettere sotto contratto questo o quell’atleta, quindi questo esercizio lo devi saper fare. Se a cronometro perdi tanto, perdi la gara, se gareggi in una corsa a tappe e quindi devi mettere da parte molte delle tue ambizioni di carriera. Il modello di riferimento è utile, ma il suo traino non basta.

L’iridato Philipsen ha mostrato enormi progressi nella sua condotta in gruppo, ma resta atipico
L’iridato Philipsen ha mostrato enormi progressi nella sua condotta in gruppo, ma resta atipico
La prestazione di Philipsen ti ha sorpreso, relativamente alle sue difficoltà, espresse da lui stesso, nel correre su strada, soprattutto in gruppo?

No, perché so che siamo di fronte a un fenomeno. Io guardo la crono dello scorso anno alla Corsa della Pace e vedo che il danese ha migliorato di mezzo minuto il tempo del vincitore del 2023 che non era un signor nessuno, ma Nordhagen. Per me è già cresciuto a dismisura anche come condotta di gara, quando si mette a tirare fa la differenza.

C’è stato qualcosa che salvi della trasferta?

Nella penultima tappa almeno Bessega ha messo il naso davanti – ricorda Salvoldi – andando in fuga ed era una frazione difficile, 133 chilometri con 2.700 metri di dislivello. Solo che a un certo punto Philipsen ha deciso che bisognava andarlo a prendere, si sono trovati davanti in 10 e poi in discesa il gruppo si è ricomposto. Alla fine sono arrivati in 46 tutti insieme, su una tappa simile…

La volata della terza tappa, vinta dal danese Louw Larsen. Bessega aveva provato il colpo
La volata della terza tappa, vinta dal danese Louw Larsen. Bessega aveva provato il colpo
E ora, Salvoldi?

Ora dobbiamo reagire come si deve sempre fare quando i risultati non vengono. Già i responsi della due giorni italiana sono stati più positivi. Noi continueremo a lavorare, saremo alla prova francese di Morbihan, salteremo quella svizzera e chiuderemo la nostra Nations Cup in Germania. Io lavorerò sempre con un gruppo di uomini sul quale abbiamo iniziato a puntare da inizio stagione continuando però a ruotarli, d’altronde noi dobbiamo presentare i nostri elenchi di convocati con molto anticipo, può quindi capitare che chi si mette in evidenza nel calendario italiano non trovi spazio ora. Ma per le gare titolate farò un ragionamento più collettivo.

EDITORIALE / Quanto pesa la maglia rosa?

13.05.2024
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NAPOLI – Primo giorno di riposo. Mentre i corridori ricaricano le batterie di un Giro che finora non ha fatto mancare fatica ed emozioni, noi facciamo un passo indietro e torniamo al giorno di Fossano. Riprendiamo un tema che si potrebbe a buon diritto ritenere superato e che invece continua ad agitare i nostri lettori con numeri sbalorditivi. Quel giorno riportammo su Facebook e su Instagram una considerazione di Paolo Bettini a proposito della condotta di Pogacar, già in maglia rosa, che seguendo l’attacco di Honoré, cercò di anticipare i velocisti.

Ebbene, sia nelle prime ore e ancora adesso, quel tema e quel post continuano a smuovere opinioni. Per chi ne mastica, i 3.205 “Mi piace”, le 149 condivisioni e 1.395 (per ora) commenti su Facebook sono il segno di un argomento che ancora interessa e divide. Su Instagram, dove raramente si avviano grandi discussioni, i numeri parlano di 1.198 “Mi piace” e 66 commenti. Dati ancora in evoluzione, se volete in modo sorprendente.

Bettini ha mosso un appunto più che logico alla maglia rosa, ma forse il ciclismo è ormai lontano da certe logiche
Bettini ha mosso un appunto logico alla maglia rosa, ma forse il ciclismo è ormai lontano da certe logiche

Le parole di Bettini

Bettini, per chi non lo sapesse, è stato campione olimpico, ha vinto due mondiali, due Liegi, due Lombardia e la Sanremo. Una carriera da 62 vittorie, cui si aggiungono quattro anni da tecnico della nazionale. E’ un personaggio credibile, competente e che merita rispetto. Davanti a lui però si è schierato con prepotenza il popolo dei sostenitori di Pogacar, il cui tono è diventato presto incandescente. Che cosa aveva detto Paolo?

«A mio parere sono azioni che non deve fare – disse dopo Fossano – a me non è piaciuto. Non per il gesto atletico, chapeau, lo sappiamo che è un fenomeno, ma attenzione perché il Giro è lungo. In una tappa come questa, doveva lasciar giocare gli avversari, starsene dietro e non esporsi perché le azioni come queste poi ti rendono antipatico. Già sei forte e già vinci tutto, vuoi anche una tappa per velocisti facendo un’azione come questa? Attenzione, perché se arriva il giorno che lo trovano in difficoltà e inizia a girare il gruppo, gliele fanno suonare alla grande e a volte è più difficile gestire una tappa veloce che non una tappa di montagna (…) Non sto parlando di fair play, qui si sta parlando di gara».

Finita la prima settimana di Giro: finora la UAE Emirates ha corso da padrona in difesa della maglia rosa e spesso all’attacco
Finita la prima settimana di Giro: finora la UAE Emirates ha corso da padrona in difesa della maglia rosa e spesso all’attacco

Lo stile del leader

Il discorso di Bettini non è di stampo mafioso, come ha tuonato qualcuno, ma richiama un codice non scritto del gruppo che evidentemente non è più così attuale. In qualche modo stamattina lo ha sottolineato anche Bugno, sia pure con toni diversi. Se Pogacar in maglia rosa fa incetta di tutto quello che c’è in palio, si è chiesto Gianni, come farà ad avere buoni rapporti in gruppo?

Il fatto che dopo Bettini abbia parlato anche Bugno, rende palese che il ricambio generazionale esploso nel 2020 coinvolge i tifosi e probabilmente anche le ammiraglie e le reazioni del gruppo.

Non si sono mai visti campioni come Indurain, Contador, Nibali, Bernal, Froome, Pantani, Dumoulin, Roglic, Vingegaard, Quintana e persino Armstrong, che quanto a ingordigia non scherzava, mettersi a sprintare per i traguardi volanti. Si è sempre pensato che se un leader fa così, vuol dire che non si sente tranquillo dei risultati che potrà ottenere. Negli ultimi due Tour, Pogacar ha corso in questo stesso modo, ma alla fine ha pagato nel testa a testa con Vingegaard. Qui al Giro finora non ha lasciato nulla a nessuno e questo, applicando i canoni della tradizione e in assenza di un avversario davvero temibile, suona insolito.

Dieci anni fa quel che ha detto Bettini sarebbe stato di un’ovvietà disarmante, in un ciclismo che aveva nella durezza e nel galateo non scritto i suoi punti chiave. Il leader più forte ha sempre diviso la torta con il resto del gruppo. E se pure alla fine, oltre alla rosa vinceva la maglia della montagna e quella a punti, lo faceva con i risultati delle tappe decisive. Nel mezzo, c’erano 10-12 giorni in cui il palco era anche per gli altri, per la gioia dei loro sponsor.

Giro 1998: Pantani non aveva ancora la maglia rosa, ma a Selva lasciò la vittoria a Guerini
Giro 1998: Pantani non aveva ancora la maglia rosa, ma a Selva lasciò la vittoria a Guerini

Il diritto di Pogacar

D’altra parte ha ragione Roberto Damiani, quando ne difende la libertà di vincere come e quando gli pare. Ravvisando anche l’incapacità di fare pace con le proprie aspirazioni di chi reclama sempre tutto e il contrario di tutto.

«Pogacar è un campione – dice – uno che quando sente il profumo di vittoria va a cercarla, bello che sia così. Abbiamo martellato per anni quei campioni calcolatori che facevano solo il Giro o solo il Tour e adesso ce la prendiamo con questo che vince le classiche e poi viene a vincere il Giro? Chapeau a lui. Sinceramente non lo conosco, probabilmente gli ho detto tre volte ciao, però tanto di cappello».

Fossano, terza tappa: Pogacar attacca e stana Thomas. Inizia tutto così
Fossano, terza tappa: Pogacar attacca e stana Thomas. Inizia tutto così

Il ciclismo che cambia

Interpellato nei giorni successivi per commentare le reazioni alle sue parole, Bettini ha aggiunto di aver ricevuto messaggi e audio da parte di alcuni direttori sportivi dall’ammiraglia, seccati dell’andazzo di questo Giro e disposti a fare lo sgambetto alla maglia rosa qualora se ne presentasse l’occasione.

Nei giorni scorsi avete letto di un Pogacar nervoso, qualcuno ha anche ironizzato. Fra le ammiraglie si sussurra e si cerca di capire, fra giornalisti si fa lo stesso. Si dice che ciò sarebbe dovuto al fatto che lo sloveno non si stia divertendo a dominare in lungo e in largo, ma che questo gli venga imposto dalla squadra. Sono voci: lasciano il tempo che trovano, ma potrebbero spiegare i sorrisi più rari e la minore disponibilità della maglia rosa con i tifosi e con la stampa. Non deve essere facile essere guardato con fastidio e portare avanti una posizione che si condivide a stento. Al contrario, quanto sarebbe fastidioso doversi giustificare e quasi scusarsi per l’esercizio del proprio diritto di vincere?

Ciò detto, sulle ammiraglie ci sono davvero tecnici con il “pelo” per attuare le tattiche minacciate? Il ciclismo non è più fatto così, valuteremo successivamente se aggiungere l’avverbio purtroppo o fortunatamente. Siamo di fronte a uno sport che si decifra attraverso numeri e formule ripetibili. Che ha fatto della scienza e sempre meno della tattica il suo punto di partenza. Però il mal di pancia è sempre lo stesso e ricorda quello che si respirava nell’ambiente al Giro del 1999, quando si pensò che Pantani stesse esagerando. Anche Marco si trovò in mezzo alle rimostranze dei colleghi e alla posizione forte contro di lui di alcuni team. Anche in quel caso fu la squadra a spingerlo?

Il genio napoletano! Pogacar ha radunato attorno a sé un popolo di tifosi accesissimi
Il genio napoletano! Pogacar ha radunato attorno a sé un popolo di tifosi accesissimi

Se fosse tricolore…

Peccato che sia fallito il piano del Giro di portare alla partenza anche Evenepoel. La presenza di un rivale molto forte avrebbe reso meno evidente il gap fra la maglia rosa e il resto del gruppo. Di certo, infilandosi in queste dinamiche e non avendo ancora affrontato le giornate davvero difficili del Giro, la corsa sembra tutto fuorché noiosa.

Tadej è di un altro pianeta. La tirata data ieri nell’ultimo chilometro dalla maglia rosa dimostra che ha forze traboccanti e forse anche per il miglior Vingegaard quest’anno sarebbe duro tenerlo a bada. E allo stesso modo in cui siamo certi di questo, un’altra consapevolezza si fa largo mentre si ragiona su questo Giro e il fatto che rischi di perdere interesse: se Pogacar fosse italiano, lamentele ce ne sarebbero certamente di meno.

Il rientro in corsa di Ballerini: ce ne parla il fisioterapista

13.05.2024
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Davide Ballerini è tornato a correre e di quanto questo gli fosse mancato ne abbiamo già parlato. La prima corsa in maglia Astana Qazaqstan è stata il Giro di Turchia, dopo il quale è arrivata la convocazione al Giro d’Italia. Una ripresa che gli è costata tanta fatica e delle rinunce importanti, come la partecipazione alle Classiche del Nord. La sofferenza nel riprendere in mano la bici e riallacciare il filo della sua carriera è stata tanta. Una grande mano gliel’ha data Martino Donati, fisioterapista responsabile del Centro Rehability Lugano

«Davide è arrivato da noi – racconta Martino Donati – l’11 gennaio per un problema al ginocchio sinistro, ma con un dolore difficile da classificare. Aveva un danno alla cartilagine che portava scompenso alla pedalata che a sua volta causava l’infiammazione ai tendini sottorotuleo e sovrarotuleo, i quali agivano per proteggere la parte danneggiata. Il danno era causato da tre traumi consecutivi: il primo avvenuto a marzo 2023 in occasione del Fiandre, il secondo ad aprile alla Roubaix e il terzo a fine luglio. Quello più importante è l’ultimo, avvenuto al Giro del Belgio che ha portato al trauma rotuleo e ad una conseguente perdita di potenza e fluidità nella pedalata».

Davide Ballerini e Vincenzo Nibali: al centro Martino Donati fisioterapista che ha lavorato con entrambi
Davide Ballerini e Vincenzo Nibali: al centro Martino Donati fisioterapista che ha lavorato con entrambi

Riposo

Ballerini stesso ci aveva raccontato che il trauma rotuleo fosse stato in qualche modo sottovalutato ed aveva continuato a pedalarci sopra. 

«Continuando l’attività – spiega il fisioterapista – il dolore non si è mai riassorbito. Davide aveva giorni in cui soffriva parecchio e altri in cui poteva allenarsi tranquillamente. Questo era dovuto al fatto che se la cartilagine viene lasciata a riposo, il dolore diminuisce. Il problema è che nel gesto della pedalata la rotula sfrega contro il femore e se si ha un’infiammazione alla rotula continuare ad allenarsi non aiuta».

Quindi in primo luogo cosa avete fatto?

La prima visita l’abbiamo fatta su richiesta del dottor Magni, medico dell’Astana che ha chiesto un nostro parere. Con lui abbiamo già collaborato ai tempi di Nibali e Pozzovivo. Ballerini è arrivato l’11 gennaio e abbiamo fatto subito un quadro anamnestico per capire la storia medico-clinica. Questa operazione l’hanno fatta il dottor Jeanclaude Sedran, massimo esperto per l’articolazione femoro-rotulea e il dottor Magni. Hanno effettuato una risonanza con contrasto che ha evidenziato un danno cartilagineo non riparato. 

Cosa si è fatto poi?

La guarigione, non ancora totalmente avvenuta, è stata portata avanti in tre fasi che hanno occupato altrettanti mesi di lavoro. 

La prima parte di lavoro è stata effettuata in palestra con lavori a secco
La prima parte di lavoro è stata effettuata in palestra con lavori a secco
In cosa consisteva la prima parte?

E’ quella che si chiama infiammatoria o fase acuta, dove il dolore è forte e insistente. Per prima cosa abbiamo subito tolto la bici e si è lavorato per ridurre l’edema osseo. Cosa che abbiamo fatto attraverso la magnetoterapia, camera iperbarica e terapia di rinforzo. Si è fatta anche un’infiltrazione con liquido PRP e Acido Ialuronico. Per accelerare la riparazione del danno alla rotula abbiamo sottratto del sangue e usato la parte corpuscolare, ricca di cellule staminali, per far ripartire il processo di infiammazione. Una tecnica che ha permesso un recupero molto più rapido. 

Poi è stato il momento della seconda fase?

Sì, quella subacuta dove il dolore è lieve e c’è stato un processo di riparazione tissutale. E’ iniziata così la fase di recupero della massa muscolare persa, sia sui rulli che in palestra. Per prima cosa abbiamo fatto una visita biomeccanica e corretto la posizione in bici dando un assetto neutro all’atleta. Il rinforzo vero e proprio è partito dalla palestra, con dei lavori a secco con stacchi, affondi e squat. Da un test effettuato era emerso che Ballerini aveva un deficit del 23 per cento sulla gamba sinistra. Dai dati si vedeva come la gamba destra compensasse in fase di spinta e frenata. 

Ballerini ha sempre curato la forza per recuperare il deficit del 23 per cento tra la gamba sinistra e quella destra
Ballerini curato tanto la forza per recuperare il deficit del 23 per cento tra gamba sinistra e destra
Avete usato tecniche particolari?

Per accelerare il recupero è stata utilizzata la tecnica BFR (Blood Flow Restriction). In poche parole si tratta di una fascia che nel caso di Ballerini è stata applicata nella zona dell’anca. Funziona come un laccio emostatico, la gamba lavora senza ossigeno e si può così caricare sul muscolo senza stressare l’articolazione. E’ come lavorare con un bilanciere da 200 chili ma senza nessun peso addosso. 

Sui rulli che cosa si è fatto?

Questa fase è stata curata dal suo preparatore Vasilis Anastopoulos. Le sessioni di allenamento erano brevi, di quaranta minuti massimo, e tutte in Z2. Il lavoro da fare era di mantenimento. 

La rimessa in sella ha comportato innanzitutto una seduto biomeccanica per riequilibrare l’asetto
La rimessa in sella ha comportato innanzitutto una seduto biomeccanica per riequilibrare l’asetto
Terza e ultima fase?

La riatletizzazione, avvenuta nell’ultimo mese. Ballerini è tornato in bici e si è messo a fare blocchi di lavoro di tre giorni in maniera progressiva. Siamo partiti con un’ora e mezza di allenamento due giorni consecutivi per poi riposare nel terzo. Se il corridore non lamentava dolori si aumentava di 30 minuti, così ogni blocco fino ad arrivare a cinque ore di pedalata. Anche in questo caso solo fondo, niente lavori specifici. Il giorno di riposo però non era fermo, ma caricava tanto in palestra. 

Venivano fatti altri controlli?

Solo per monitorare vari dolori da assestamento come ai glutei, schiena o gamba destra. Infine abbiamo sistemato nuovamente la posizione in bici e il 29 marzo Davide è partito per il Teide con la squadra. 

Il miglior piazzamento di tappa in questo Giro, fino ad ora, è il sesto posto ad Andora
Il miglior piazzamento di tappa in questo Giro, fino ad ora, è il sesto posto ad Andora
Lavoro finito per voi?

No. A distanza, mentre era in ritiro, il nostro preparatore Tommaso Doro che lo ha seguito in tutte le fasi, gli indicava comunque dei lavori di forza in palestra. Sessioni meno intense, ma volte a rinforzare sempre la gamba sinistra, anche perché il recupero era avvenuto, ma non ancora in maniera totale.

In che senso?

Che Ballerini è arrivato ad avere un deficit tra gamba sinistra e destra del 6 per cento. Ancora compensa con l’altra gamba nella fase di spinta, ma è normale. Ora con il ritorno in corsa avrà modo di recuperare definitivamente.

Ballerini ci ha detto che ancora deve tenere sotto controllo la gamba infortunata.

Sì, a fine Giro andremo avanti con il lavoro per recuperare al massimo e lo porteremo, compatibilmente con le gare, fino a fine stagione. La cosa importante sarà lavorare bene fin dal prossimo inverno per ripianare completamente tutto. Fino a fine stagione migliorerà, poi ci sarà una ricostruzione da fare che partirà dal prossimo inverno.

Pogacar fa il suo, ma il gruppo non ride: parola di Bugno

13.05.2024
4 min
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NAPOLI – Gianni Bugno sta partecipando al Giro-E con Valsir, assieme ad Astarloa e Colbrelli. Ieri sera è tornato a casa approfittando del riposo, ma domani sarà ancora in gruppo. Il monzese, che nel 1990 prese la maglia rosa il primo giorno a Bari e la ripose nel cassetto solo dopo averla vestita ininterrottamente fino a Milano, ha l’attitudine a volare basso: l’ha sempre avuta. Ma se bisogna mettere sul piatto il suo fascino di campione e l’essere stato ispirazione per atleti, tifosi e giornalisti (incluso chi scrive), si può dire senza troppi dubbi che Gianni sia stato uno dei giganti assoluti del ciclismo mondiale. Il Giro tutto in rosa. Due volte il podio del Tour, come pure l’Alpe d’Huez. Due volte campione del mondo. Primo alla Sanremo, quindi al Fiandre e primo pure a San Sebastian. La Coppa del mondo. Due volte tricolore. Si potrebbe andare avanti a lungo, ma forse è meglio ricordare che ottenne questi risultati negli anni in cui Indurain dettava legge, circondato da Chiappucci, Mottet, Fignon, Leblanc, Lemond, Hampsten e Delgado. Ogni epoca ha i suoi protagonisti, allora erano davvero tanti.

Si dice che Pogacar fosse contrariato per non aver vinto a Torino poiché non sarebbe riuscito a eguagliarne il primato di vestire la rosa dall’inizio. E’ chiaro che a meno di eventi clamorosi, il risultato finale sia al sicuro, ma la sua gestione quotidiana suggerisce spunti che abbiamo affrontato con Gianni prima che partisse.

«Sono storie diverse – dice subito – una questione diversa. Quando presi la maglia rosa, volevo tenerla il più possibile perché non sapevo quali fossero i miei limiti. Lui i suoi li conosce, sapeva di poter prendere la maglia in ogni momento, anche l’ultima settimana. Invece l’hanno presa subito quindi adesso la terranno. Sono una delle squadre più forti, lui è un corridore immenso, non c’è neanche da discutere cosa può fare. Ha dimostrato che è ampiamente superiore».

Gianni Bugno ha 60 anni. E’ stato pro’ dal 1985 al 1998
Gianni Bugno ha 60 anni. E’ stato pro’ dal 1985 al 1998

Cedere la maglia: sì o no?

Fin qui dunque nessuna nota stonata. Quando Bugno vinse il Giro, la Chateau d’Ax non fu asfissiante: Gianni vinse tre tappe e altre ne regalò. Imperdonabile agli occhi dei tifosi fu quella lasciata a Mottet sul Pordoi (foto di apertura). Eppure così facendo e lasciando spazi ai fuggitivi di giornata, trovò lungo il Giro gli aiuti necessari per non sfinire.

«E questo – dice Bugno – potrebbe essere il difetto di quello che hanno fatto sin qui. Potevano anche aspettare a prendere la maglia per non stancare la squadra, potevano avere l’aiuto di qualche altra che l’avesse presa al posto loro. Per qualsiasi squadra avere quel simbolo e tenerlo il più possibile è veramente tanto. Pogacar l’ha presa subito, quindi ha tolto ad altri la possibilità di fare lo stesso. Ha tirato via la possibilità che qualcun altro prenda e tenga la maglia dei GPM. E non è messo male neanche nella classifica a punti, penso che non abbia rivali. Mi chiedevano sempre quando l’avrei mollata, tutti pensavano che la potessimo mollare da un momento all’altro per non saltare. Anche io non sapevo se avrei tenuto. Lui sa che non salta. Pogacar è un campione che ha dimostrato tantissimo e ancora lo sta facendo. Purtroppo gli altri sono di un livello inferiore…».

L’inseguimento della UAE Emirates sabato a Prati di Tivo è parso un dispendio forse eccessivo di energie
L’inseguimento della UAE Emirates sabato a Prati di Tivo è parso un dispendio forse eccessivo di energie

Il gruppo si diverte?

Gli facciamo presente lo scambio di opinioni sui social fra chi pensa che Pogacar stia esagerando e chi invece lo sostiene costi quel che costi. La condotta di Fossano ha sollevato qualche dubbio, l’inseguimento della fuga a Prati di Tivo per poi vincere in volata è parso insolito. In gruppo si dice che Tadej farebbe anche a meno di certe dimostrazioni di forza, ma che dalla squadra gli dicano di correre così.

«A Prati di Tivo – dice Bugno – poteva lasciare andare Tiberi, a prenderlo avrebbero pensato semmai gli altri. E a quel punto, se altri corridori avessero chiuso il buco, lui avrebbe potuto vincere in volata. Invece hanno corso diversamente, è il loro modo di fare, non puoi contestarlo. Possono farlo e lo fanno. Non esiste un modo giusto e uno sbagliato di tenere la maglia rosa, ma se la lasci a un’altra squadra, ne hai una in più che ti aiuta a tenere la corsa e loro potrebbero risparmiarsi. L’obiettivo di Pogacar non è solo il Giro, c’è anche il Tour ed è tanta roba da qua a fine luglio. Risparmiare un po’ di forza non farebbe male. Però hanno deciso così e meritano rispetto. Lo ammiro perché è un grande campione, diverte e tutto quello che si può dire. Non so quanto diverta gli altri corridori in corsa…».

Un Alaphilippe all’antica e la corsa esplode. Poi Kooij infila Milan

12.05.2024
6 min
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NAPOLI – Una giostra sfrenata, questo è stato il finale della tappa. Pogacar passa tirando su col naso, la gamba asciutta e lo sguardo che scruta sopra le teste davanti a lui. Se non avesse dato l’ultima tirata in favore dei velocisti, forse Narvaez sarebbe arrivato primo. In qualche modo lo sloveno s’è preso la rivincita dopo la tappa di Torino, quando l’ecuadoriano vinse e gli impedì di vestire la prima rosa. Ma queste forse sono deviazioni da giornalisti: certamente non sarà stato per questo, quanto piuttosto per lanciare Molano. Ha vinto Kooij, che ha bruciato Milan e appunto il colombiano del UAE Team Emirates. Simone Consonni è piegato sulla bici contro la transenna e fa giusto in tempo a riprendere fiato quando gli si avvicina Stuyven. Il bergamasco quasi si scusa, il belga gli risponde che va bene e che l’importante era che fosse nel posto giusto.

«La mia vita è un inseguimento – dice Simone con una punta di ironia – avevamo fatto tutto giusto, se Narvaez è arrivato così avanti è perché eravamo tutti al gancio».

In trepidante attesa

Al centro della strada, Julian Alaphilippe si guarda intorno. Forse a Napoli non c’è mai stato in vita sua e ora guarda il mare e in fondo fino a Castel dell’Ovo. La vista è incantata, il sudore sulla fronte brilla al sole del pomeriggio inoltrato. Il francese è vivo. Anche oggi ha attaccato e ha visto avvicinarsi il Golfo, il Vesuvio e gli ultimi chilometri dalla sua posizione di attaccante.

«Se vince oggi – mormorava il massaggiatore Yankee Germano quando il francese era ancora in testa alla corsa – si sblocca e nel resto del Giro farà uno show al giorno. Ma sarebbe importante soprattutto per il suo spirito».

Quasi 200 chilometri di fuga per Maestri e Pietrobon, un grande spot per il primo Giro del Team Polti-Kometa
Quasi 200 chilometri di fuga per Maestri e Pietrobon, un grande spot per il primo Giro del Team Polti-Kometa

Julian è vivo

Il francese è fermo, il mondo gli gira intorno. Due mondiali, sei tappe al Tour e tre volte la Freccia Vallone, ma dalla caduta della Liegi del 2022 nulla è stato più come prima. A giugno sarà passato un anno dalla sua ultima vittoria: la tappa di La Chaise-Dieu al Delfinato, era il 5 giugno. Eppure l’aria del Giro gli fa bene. Il secondo posto (beffardo) di Rapolano lo ha riproposto nella veste di attaccante sulle strade bianche. La fuga di ieri verso Prati di Tivo è un interrogativo che attende riposte. Gli attacchi di oggi verso Napoli sono stati forse troppi e privi di logica, ma confermano che Alaphilippe c’è.

«Sono vivo – sorride in inglese – sono felice di essere qui e mi godo la gara. Forse oggi era meglio aspettare l’ultima salita, ma ero in una buona posizione. Il percorso era molto nervoso e quando ho visto quello strappo più ripido, ho provato. La prima volta Costiou ha collaborato. Quando sono tornati sotto, inizialmente abbiamo avuto la voglia di mollare. Lui si è rialzato, io ho provato a rilanciare».

La fuga di ieri

Il clima in squadra sembra essersi rasserenato. La scena di Lefevere che gli passa le borracce mentre è in fuga fa capire che forse l’ostacolo di certe tensioni è stato rimosso. Pare che addirittura ora si tratti per un rinnovo del contratto, dopo che nei mesi scorsi certe cifre gli sono state rinfacciate senza grande eleganza. Ma adesso tutto questo non conta. Julian si sta riconnettendo con Alaphilippe e già ci si chiede dove potrà provarci ancora.

«Sono super felice delle mie gambe – ammette – mi manca ancora un po’ per la vittoria. Ma voglio anche godermi la gara e in questo momento sono felice di come mi sento. Spero di poter continuare a provare a vincere fino alla fine. L’attacco di ieri forse l’ho pagato oggi, ho sentito le gambe un po’ più pesanti, ma penso che tutti siano super felici che domani ci sarà un giorno di riposo. C’è stato un ritmo strano per tutto il giorno, quindi per le gambe non è stato facile, ma alla fine sia ieri sia oggi per me erano dei bei percorsi. Mi piace questo tipo di salite, anche se quando ho attaccato ero un po’ troppo lontano da Napoli. Ho capito che anche scollinando la salita davanti, la strada verso Napoli sarebbe stata troppo lunga. Quindi forse era meglio aspettare l’ultimo strappo».

Alaphilippe è rimasto all’attacco dal Monte di Procida fino all’ultimo strappo, ripreso poi da Narvaez
Alaphilippe è rimasto all’attacco dal Monte di Procida fino all’ultimo strappo, ripreso poi da Narvaez

Missile Narvaez

Si accorgono di lui anche altri e arrivano con un microfono di Sporza, perché la squadra è belga e i giornalisti fiamminghi sono curiosi di sapere. Alaphilippe adesso però ha voglia di tornare al pullman.

«Ho provato – ripete – ma purtroppo nella prima fuga c’era un corridore della Alpecin che ci impediva di trovare una buona intesa. Anche questo è normale, voglio dire, lavorava per Kaden Groves. E’ stato un peccato, ma alla fine ho attaccato da troppo lontano, quindi nessun rimpianto. Quando ho visto Narvaez che mi passava come un missile, ho capito l’errore di essere partito troppo lontano, ma oramai la frittata era fatta…».

Poi si allontana. La fila dei bus inizia pochi metri più avanti, Julian si avvia in cerca del suo. Le gambe rispondono, finalmente si può provare a fare la corsa. In questo Giro di grossi calibri che si contendono ogni traguardo, recuperare un attaccante come lui porterà del pepe nei piatti di ogni giorno. Torniamo verso la sala stampa in tempo per sentire Milan ammettere di aver sbagliato qualcosa nella traiettoria dello sprint, ma riconoscere di non aver avuto le gambe che sperava. Il riposo arriva tempestivo e desiderato. Le medie record e le giornate senza risparmiarsi un solo colpo hanno già scavato solchi profondi nelle gambe e sui loro volti.

Tiberi e il defaticamento sulla bici da crono. Perché?

12.05.2024
4 min
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NAPOLI – La sua Merida da crono lo attende. I meccanici l’hanno ben preparata al bus. Manca solo lui, il proprietario, Antonio Tiberi. In casa Bahrain-Victorious si è optato per il defaticamento sui rulli appunto con la bici da crono.

Al termine della tappa, dopo qualche minuto sul bus, Tiberi scende. Mette una maglia asciutta e leggermente più pesante (all’ombra l’aria è frizzantina e tira anche vento). Monta in sella, sposta la catena dal 58 al 44 e si spiana sulla sua bici da tempo.

Questa tipologia di defaticamento è una pratica non del tutto nuova, ma certamente curiosa. Avevamo visto anche Pogacar utilizzarla dopo la prima tappa e non solo. Ma il corridore laziale ha deciso di continuare, nonostante non ci sia nessuna crono a breve. A spiegarci qualcosa di più è proprio uno dei coach della Bahrain, Andrea Fusaz.

Tiberi e Fusaz durante il defaticamento. Sono stimolati diversamente soprattutto la parte della schiena, i glutei e il bicipite femorale (catena posteriore)
Tiberi e Fusaz durante il defaticamento. Sono stimolati diversamente soprattutto la parte della schiena, i glutei e il bicipite femorale (catena posteriore)
Andrea, dunque, il defaticamento sulla bici da crono, perché?

Per l’abitudine alla posizione e per reclutare meglio tutti i muscoli che si richiamano quando si fa un gesto particolarmente tecnico come quello della crono che, per quanto simile, a sua volta è molto  diverso dalla posizione che si ha su strada. E’ molto importante riuscire a dare alla muscolatura questo stimolo e a farlo ogni giorno durante il defaticamento. 

Doppia valenza quindi?

Abitudine alla posizione e “pulizia” della muscolatura e dell’organismo, dalle scorie della fatica appena fatta. 

Sulla bici da crono immaginiamo siano coinvolte altre catene cinetiche muscolari, muscoli che in teoria sono più freschi…

Più o meno è così. Se lasciamo i muscoli fermi dopo una competizione, dopo uno sforzo lungo, il muscolo stesso tende a rimanere intasato da queste scorie. Riuscire a mobilizzare più muscoli, oltre a quelli più stanchi, fa circolare più sangue nell’organismo. Far circolare più sangue vuol dire ripulire più velocemente e meglio l’organismo stesso dalle scorie.

Tiberi nella frazione contro il tempo di Perugia. Il classe 2001 ha sempre investito molto nella crono, tanto da laurearsi campione del mondo juniores nel 2019
Tiberi nella frazione contro il tempo di Perugia. Il classe 2001 ha sempre investito molto nella crono, tanto da laurearsi campione del mondo juniores nel 2019
Per un cronoman come Tiberi forse questo tipo di defaticamento è anche un “tarlino” di testa?

Sicuramente. La stimolazione non è solo muscolare, è anche mentale e psicologica. Riuscire a comunque mantenere l’abitudine del gesto gli torna utile anche mentalmente. Lo fa stare più tranquillo quando poi dovrà fare la crono in gara.

Oggi tutto è protocollato: quanto dura questo defaticamento?

Si tende a fare dai 10 ai 15 minuti ad un’intensità piuttosto blanda. Nelle tappe in cui magari si fa molta fatica nel finale si può aumentare un pelo l’intensità, al fine di aumentare, come dicevamo, lo smaltimento di queste scorie. Smaltimento che ad un’intensità un po’ più alta avviene in modo migliore e capillare.

Definiamo queste intensità

Direi Z1 e se c’è bisogno Z2 alta, quella che in gergo è chiamata “fat max” (la zona in cui si consumano più grassi, ndr). E’ quella con cui si smaltisce più acido lattico.

C’è una cadenza ottimale?

Direi sulle 90 rpm, ma non andiamo a stressare i ragazzi ulteriormente. Eseguono il defaticamento come gli viene, optando per una pedalata che gli è confortevole. Solitamente vediamo che oscillano tra le 90 e le 95 rpm, perché comunque vengono dalla corsa che gli fa girare le gambe velocemente.

Tiberi è abituato a stare in questa posizione. Per lui c’è anche un allungamento per la schiena. Chi non è cronoman invece starebbe meno a proprio agio
Tiberi è abituato a stare in questa posizione. Per lui c’è anche un allungamento per la schiena. Chi non è cronoman invece starebbe meno a proprio agio
Mentre faceva il defaticamento, Antonio ha chiesto un chinotto: è importante bere durante questi minuti?

Si comincia la fase di integrazione proprio in questi minuti. Una fase in cui l’assorbimento degli zuccheri è ancora molto elevato. Immagazzinare subito zuccheri è importante in vista del giorno successivo. Reintegrano subito le scorte.

Antonio esegue il defaticamento sulla bici da crono da tutto il Giro d’Italia?

Tendenzialmente sì. E più ci si avvicina alle crono e più lo si fa. Ma ci confrontiamo giornalmente con i ragazzi (in effetti anche Caruso doveva farlo ma poi ha preferito di no, ndr).

Andrea, se come hai detto, più muscoli diversi vengono coinvolti e meglio si recupera, vuol dire che vedremo Tiberi sulla bici da crono anche dopo la prova contro il tempo di Desenzano?

Può starci. Ma prima abbiamo anche detto che fare un certo defaticamento è anche uno stimolo mentale, pertanto potrebbe essere più concentrato sulla strada. A livello tecnico in teoria sarebbe meglio farlo sulla bici da strada, perché si è un po’ più rilassati muscolarmente, come posizione. Ma se i ragazzi sono abituati a stare nella posizione da crono, va benissimo lo stesso.

Massignan, quando le sconfitte valgono più delle vittorie

12.05.2024
5 min
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Probabilmente, se un giorno avessero chiesto a Imerio Massignan quando avesse voluto lasciare questo mondo, avrebbe detto “in coincidenza del Giro d’Italia”. Il destino lo avrebbe accontentato, perché il vicentino è scomparso a 87 anni proprio il giorno della partenza della corsa rosa. Quella corsa che gli era entrata nel sangue e che gli aveva sempre lasciato quel velo di amaro in bocca. Già, perché la storia di Massignan, che pure è ricca di risultati importanti (di quelli che oggi pagheremmo per avere con simile frequenza da un corridore nostrano) è contrassegnata più dalle sconfitte.

Per capirne la ragione basta ripercorrere la sua carriera che pure inizia in maniera squillante. Massignan è uno scalatore puro, di quelli che appena la strada si rizza sotto le ruote non riesce a star fermo. Il giorno che vince la Bologna-Raticosa, classica per dilettanti nel 1959, Tullio Campagnolo si avvicina a Eberardo Pavesi, grande corridore dell’anteguerra considerato il più esperto dei direttori sportivi: «Non farti sfuggire quel ragazzo, ti darà soddisfazioni». Pavesi non se lo fa dire due volte, lo mette sotto contratto e lo fa esordire subito. Non in una corsa qualunque, perché lo getta subito nella mischia del Giro d’Italia.

Massignan era nato il 2 gennaio 1937 ad Altavilla Vicentina. In carriera ha corso da pro’ per 11 anni con 2 vittorie
Massignan era nato il 2 gennaio 1937 ad Altavilla Vicentina. In carriera ha corso da pro’ per 11 anni con 2 vittorie

Le salite, il suo pane

Pensate una cosa del genere ai giorni nostri, quando ogni anno di carriera di un giovane viene misurato col bilancino. A quei tempi non si andava tanto per il sottile… Massignan però non si spaventa: in fin dei conti, al Giro di salite ce ne sono e quelle sono il suo pane. Il ragazzo veneto se la cava più che bene, anzi benissimo, tanto da finire quinto in classifica.

Le sue capacità di scalatore colpiscono la fantasia, ma c’è un episodio che lo eleva nell’olimpo del ciclismo. Quell’anno il Giro d’Italia affronta per la prima volta il Passo Gavia, inserito nella Trento-Bormio di 229 chilometri. Il veneto scalpita e già sul Tonale se ne va in solitaria. Mancano 80 chilometri, gli avversari non gli danno molto credito. «Quella montagna non l’avevo mai vista – racconterà in seguito – mi sono ritrovato a pedalare su una vera mulattiera, tra sassi, ghiaia, con un muro di neve alto sei metri da una parte e uno strapiombo dall’altra».

Il veneto è stato un grande scalatore: primo nella classifica dei GPM al Tour 1960 e 1961, è stato 4° ai Mondiali 1960
Il veneto è stato un grande scalatore: primo nella classifica dei GPM al Tour 1960 e 1961, è stato 4° ai Mondiali 1960

L’angelo del Gavia

Massignan non si spaventa, anzi spinge sempre più sui pedali. Dietro i grossi calibri si muovono, a cominciare da Charly Gaul, il lussemburghese, un altro che vive per tappe come questa. Il problema è che non guadagna: davanti quel diavolo non ha la minima intenzione di mollare anche se nelle gambe i chilometri di fuga si moltiplicano.

Il vicentino scollina con oltre 2 minuti di vantaggio. A chi pensa che sembra fatta dobbiamo però ricordare che Massignan è ricordato più per le sconfitte, per la sfortuna che l’ha contraddistinto. Infatti in discesa quei sassolini malefici gli presentano il conto. Fora per due volte, mentre rimette a posto la ruota vede Gaul sfrecciare. Eppure è capace ancora di riacciuffarlo, è pronto a giocarsi la tappa testa a testa, ma se il proverbio dice “non c’è 2 senza 3” c’è una ragione. Massignan fora a 300 metri dal traguardo e Gaul ha via libera. Quel rimpianto non lo lascerà mai, anzi il nomignolo “angelo del Gavia” che lo accompagnerà fino ai giorni nostri non ha fatto altro che rinfocolarlo: «Sul passo – ricorda un giorno – vendono ancora una cartolina con scritto “Passaggio di Massignan” e ogni volta è un tuffo al cuore».

Fino agli ultimi anni Massignan non ha mai mancato gli appuntamenti nel suo mondo (foto Sirotti)
Fino agli ultimi anni Massignan non ha mai mancato gli appuntamenti nel suo mondo (foto Sirotti)

Riciclatosi gregario prezioso

Massignan che di nome fa Imerio è davvero uno scalatore come ce ne sono pochi. Se ne accorgono anche oltralpe, dove realizza un’importante doppietta portandosi a casa la maglia a pois del Tour sia nel 1960 che nel 1961. Sempre nel ’61, dopo essere stato 4° al Giro ottiene lo stesso risultato alla Grande Boucle dove conquista di forza la tappa di Superbagneres, resa davvero terribile dalla nevicata intensa. Uno dei suoi dolori è che la stessa cosa non gli è mai riuscita al Giro, neanche nell’edizione del 1962 conclusa al secondo posto dietro Balmamion, molto meno capace in salita ma che fa della costanza la sua forza.

L’anno dopo fa capolino un problema, all’inizio sembra superabile, invece ha un peso decisivo sulla sua carriera: la nefrite. Salta metà stagione e tutto il 1964, quando torna a gareggiare si capisce che non è più il Massignan di prima. Il veneto ha però il buonsenso di riciclarsi e diventa un ottimo luogotenente, seguendo una trafila che nel corso degli anni altri faranno, un nome per tutti Rafal Majka. Diventa un gregario prezioso e questo gli consente di portare avanti la sua carriera (con conseguenti stipendi) fino al 1971.

Al Museo dei campionissimi di Novi Ligure, davanti alla foto a lui dedicata
Al Museo dei campionissimi di Novi Ligure, davanti alla foto a lui dedicata

Ahi, quello spagnolo…

Chiude con tanti sogni che gli tocca riporre in un cassetto. Come ad esempio vincere sulla sua montagna preferita, quella di casa, quella che porta al Santuario di Monte Berico. Un’occasione al Giro ci sarebbe, all’edizione del 1967, che finisce con una volata per scalatori: «La volevo tanto, ma Francisco Gabica me gà fregà» raccontava con suo tipico idioma vicentino per nulla intaccato, neanche negli ultimi anni da piemontese della sua residenza nell’Alessandrino, non lontano da quella Novi Ligure di Fausto Coppi che era stato la sua ispirazione.