A Ragusa il tempo è sempre bello e, quando fa brutto, di solito dura poco. Damiano Caruso è tornato a casa il giorno dopo il Lombardia. Il sabato si è fermato a Milano con i compagni per una pizza e la domenica ha preso un volo verso casa. Per i suoi gusti, dice ridendo, i 27 gradi degli ultimi giorni sono anche troppi, ma è pur vero che laggiù l’inverno non è mai rigido come in qualsiasi altra parte d’Italia. La stagione non è stata indimenticabile, piena più di imprevisti che di soddisfazioni, e questo fa pensare. Quando è a casa, Damiano si riconnette con le sue origini e il periodo senza bici diventa una fase di bilanci necessari.
«Cerchiamo di vivere come una famiglia normale – dice – dedico più tempo ai bambini che mi chiedono se li porterò io a scuola. Vedono gli altri papà che ci sono sempre, mentre io non posso quasi mai. Durante l’anno, se mi chiedono di fare un giro sullo scooter, magari devo dirgli di no perché sono stanco. Non sempre riusciamo a uscire per un gelato. E allora cerco di recuperare. Li accompagno a fare sport il pomeriggio. E dedico del tempo anche a Ornella, mia moglie: un pranzettino, una cena, quello che si può».
Il Lombardia di Caruso è stato una fuga dal chilometro zero, conclusa con il ritiro per i crampiIl Lombardia di Caruso è stato una fuga dal chilometro zero, conclusa con il ritiro per i crampi
I sacrifici di tutti
Ristabilire il senso di normalità che lo stile di vita del corridore spesso impedisce. Anche perché i sacrifici non sono solo quelli degli atleti, ma investono il resto della famiglia.
«Mia moglie è abituata a stare da sola – ammette – a sbrigarsi le cose. Però i bambini nella loro sincerità, certe volte te lo dicono: “Papà basta, rimani a casa, non partire, rimani con noi”. Insomma, certe volte te ne vai anche con un po’ di male al cuore. Ti dici: “Cavolo, ma ha senso tutto questo?”. Per fortuna poi ricordo che siamo dei privilegiati e quindi vado a fare quello che devo fare, il mio lavoro, con altre motivazioni. In certi casi infatti tutto questo è anche uno stimolo. Nel senso che devi fare tesoro e far fruttare il tempo sottratto alla famiglia. Non sprecarlo bighellonando in giro, dargli un senso facendo bene il tuo lavoro».
Milan e Caruso, il giovane e il più esperto: fino allo scorso anno correvano insiemeMilan e Caruso, il giovane e il più esperto: fino allo scorso anno correvano insieme
Una stagione faticosa
Forse una stagione faticosa come l’ultima rende il distacco più faticoso, anche se a 37 anni sai benissimo cosa ti aspetta. Sai anche e soprattutto che non si può portare indietro il tempo e allora magari vai a cercare le motivazioni in altri angoli della mente.
«In questo momento non è la nostalgia che mi dà fastidio – spiega – quanto piuttosto il fatto che il fisico cominci a non rispondere e a recuperare come prima. Là fuori il livello è altissimo, quindi magari parti da casa sapendo che i tuoi numeri sono buoni, invece arrivi in gara e prendi una batosta. Forse bisogna cominciare a guardare in faccia la realtà. Se poi becchi una stagione come la mia, che è stata abbastanza complicata tra cadute e malanni, allora ti ritrovi tutto il tempo a inseguire. Solo che se inizi a inseguire da inizio stagione, spesso insegui tutto l’anno. A 37 anni, la paghi cara. E’ vero che di testa sei più forte e riesci a superare meglio il momento di difficoltà. Però a un certo punto ti accorgi che non bastano solo l’esperienza e la grinta. Ci vogliono anche le gambe».
Giro d’Italia, si va verso il Mottolino. Zambanini, Caruso e Tiberi nella scia di Pogacar: la Bahrain Victorious c’èGiro d’Italia, si va verso il Mottolino. Zambanini, Caruso e Tiberi nella scia di Pogacar: la Bahrain Victorious c’è
«Posso dire che il Giro – ricorda Caruso – è stato il momento in cui ero più performante. Solo che per stare vicino al tuo capitano che fa classifica, devi essere forte quasi quanto lui. E comunque per raggiungere quel livello devi lavorare quanto lui e anche di più, perché lui magari è toccato dal talento. Quello che è stato dato a me, l’ho sfruttato al 100 per cento, ho raggiunto il massimo che potevo. Potevo forse svegliarmi prima, ma in quegli anni i giovani dovevano crescere con calma. Era un altro ciclismo, non era permesso bruciare le tappe. L’unica cosa che mi auguro per la prossima stagione è di divertirmi e avere un anno liscio, a prescindere dai risultati».
Anche la Vuelta nel 2024 di Caruso, che qui posa per un selfie con il grande meccanico Ronny BaronAnche la Vuelta nel 2024 di Caruso, che qui posa per un selfie con il grande meccanico Ronny Baron
Suona la campana
Non sarà un inverno particolare, insomma. Non ci sono motivazioni da recuperare, quelle ci sono. Come lo chiami uno che cade a Burgos e quattro giorni dopo corre a San Sebastian con dieci punti nel ginocchio?
«La motivazione in più – ammette – sarà tutto quello che farò a partire da ora, dopo i 15 giorni di vacanza che mi attendono. Quando ricomincerò, suonerà la campana dell’ultimo giro e ogni cosa sarà per l’ultima volta. Sto cercando di auto-motivarmi, perché non voglio finire l’anno trascinandomi. Sicuramente mi piacerebbe tornare al Giro d’Italia con il massimo della condizione e divertirmi. Certo, il Lombardia mi ha dato da pensare. E’ vero che l’ho corso debilitato dal virus intestinale, ma è stato incredibile. Poche volte abbiamo affrontato una Monumento con l’atteggiamento di corsa da 150 chilometri. Da quando ho attaccato al chilometro zero a quando mi sono staccato per i crampi, non ho mai mollato una pedalata. Io qualche Lombardia l’ho fatto, però non avevo mai visto una roba così».
Durante la diretta del Lombardiala scena di Pogacar che parla col massaggiatore sulla Colma di Sormano è stata mostrata a tutte le velocità possibili. Si è cercato di capire se lo sloveno avesse bisogno di qualcosa e non della borraccia. Ma soprattutto si è ammirata la sua scioltezza nel parlare, quasi stesse passeggiando. E proprio per questo e perché quel massaggiatore è una nostra vecchia conoscenza, ci è venuto in mente di chiamarlo.
Paco Lluna ha 55 anni e vive a Valencia. Fra le curiosità di questo 2024 accanto a Pogacar, c’è che anche lui a distanza di 26 anni è riuscito nella doppietta Giro-Tour, dato che nel 1998 lavorava nella Mercatone Uno. E siccome di ciclismo ne sa tanto, siamo partiti da quell’episodio e poi siamo andati avanti.
Ecco la sequenza: Pogacar si avvicina e chiede se in alto ci sia un altro rifornimento (immagini RAI)Il massaggiatore spagnolo, cha ha acqua e carboidrati, dice di sì (immagini RAI)E allora Pogacar tira dritto dicendo che prenderà la borraccia in cima (immagini RAI)Ecco la sequenza: Pogacar si avvicina e chiede se in alto ci sia un altro rifornimento (immagini RAI)Il massaggiatore spagnolo, cha ha acqua e carboidrati, dice di sì (immagini RAI)E allora Pogacar tira dritto dicendo che prenderà la borraccia in cima (immagini RAI)
Che cosa vi siete detti in quel momento?
Io ero in quel punto perché abbiamo un piano delle borracce fatto da Gorka, il nutrizionista. Immaginando che Tadej sarebbe partito da lontano e sarebbe passato in fuga, invece di avere solo la borraccia dell’acqua, aveva anche quella di Isocarbo, in modo da poterlo accontentare qualunque cosa volesse. Però io ero a sei chilometri dalla vetta. Quando lui mi vede, io gli chiedo: «Acqua o Iso?». E lui mi risponde: «C’è qualcuno in cima?». E quando gli ho risposto di sì, mi ha detto: «Allora la prendo dopo».
Lucidissimo, insomma…
Quando hai le gambe, fai ugualmente fatica, però sei lucido. Adesso guardano i dati e li analizzano, ma perché devi portare 200 grammi in più con una borraccia sulla bici? Meglio prenderla in cima, quando la salita è finita.
Avevi scelto tu il punto in cui posizionarti?
No, i punti li prepara il direttore sportivo, in base alle strade e alla possibilità di tagliare per andare in altri posti. Si è pensato che in quel punto avrebbero avuto bisogno di acqua per rinfrescarsi. Ma siccome lui stava bene, ha preferito lasciare a me la borraccia. Ha valutato che non gli servisse altro per fare quei 6 chilometri, come al Giro dell’Emilia.
Nei giri da solo sul San Luca, Pogacar non ha mai portato borraccia in salita: beveva in discesa e pianuraNei giri da solo sul San Luca, Pogacar non ha mai portato borraccia in salita: beveva in discesa e pianura
Cosa ha fatto all’Emilia?
Io ero su, non all’arrivo, ma nello strappo subito dopo dove in tutti i giri ha preso la borraccia. In salita non ce l’aveva mai. Beveva in discesa e nel pezzo di pianura e buttava la borraccia prima di ricominciare a salire. Tadej ha fatto tutte le salite del San Luca senza la borraccia, neanche vuota. Si fanno mille storie su watt e numeri, senza pensare che a volte si porta troppo peso per niente.
Questi sono dettagli che cura con Gorka?
Gorka gli dà le direttive. Ma Tadej sa se deve mangiare oppure no. Se gli manca il gel oppure no. Quando diamo le borracce, attacchiamo anche il gel che è previsto dal nutrizionista. Ci sono tanti tipi di gel, non diamo sempre lo stesso. Ma al Lombardia ha pensato che conosceva quei 6 chilometri di salita, perché li aveva fatti qualche giorno prima in allenamento. Quindi poteva arrivare in cima senza niente e prendere sopra quello di cui avesse avuto bisogno.
Il bello è che ha parlato come stiamo parlando adesso noi due…
Forse abbiamo alzato un po’ la voce per il rumore intorno, io di certo ho urlato per farmi capire. Perché c’è rumore delle moto, dell’elicottero, delle macchine. E meno male che era un posto senza tantissima gente, perché se c’è anche la gente, ciao…
Ti è capitato altre volte di trovarlo così lucido in altre corse?
Da neoprofessionista, la prima volta che ha fatto la Vuelta e aveva 19 anni. Nell’ultima tappa che vinse, fece un numero del genere. Mi ricordo che in quei momenti voleva la Coca Cola in corsa e allora quando potevo gli davo la lattina aperta. Lui la prendeva, ne beveva subito un po’ e poi buttava la lattina. Adesso rispetto ad allora è arrivato a un’altra maturità e a un altro livello come atleta. Lì era ancora un bambino e anche quando ha vinto il primo Tour era ancora un bambino. La gente dice che non è normale, ma guardate quello che faceva quando era ancora così piccolo.
Sul San Luca, passando davanti alla curva di Pantani: i due condividono un carisma simileSul San Luca, passando davanti alla curva di Pantani: i due condividono un carisma simile
Tu che hai conosciuto anche l’altro, cosa vedi in comune?
Come atleta magari niente, ma la gente sta diventando pazza di lui come era pazza di Marco. Lo dicevo a Johnny Carera, il suo manager: «Delle volte mi sembra di aver già vissuto tutto questo, sai?». La gente non va a vedere il ciclismo, ma va a vedere Tadej. In quei tempi la gente non andava a vedere il ciclismo, ma andava a vedere Marco. Ho una foto del Giro dell’Emilia che ho tenuto per me. C’è Tadej con dietro i cartelli per Marco. Quella foto lì mi emoziona, come quando ho mandato a Tadej una foto della Tirreno in cui sul Carpegna passava davanti alla statua di Marco. Ma come corridore no. Pogacar è più completo, ma come Marco è benvoluto da tutti.
Spiega meglio per favore.
Lo vedi che si allena a Monaco con tanti corridori diversi, non solo con compagni di squadra, ma anche con altri che se ne sono andati. L’altro giorno Tim Wellens ha pubblicato nel nostro gruppo whatsapp un video in cui Evenepoel gli faceva i complimenti per il mondiale. Anche Marco era benvoluto nel gruppo. Se parli con i corridori di quell’epoca, anche quelli della Mapei gli volevano bene, nonostante tutto quello che noi avevamo contro loro e loro avevano contro noi. Anche Tafi oggi parla benissimo di lui. Hanno un carisma simile, che anche gli avversari riconoscono. In questo forse un po’ si somigliano davvero…
Il Fiandre mette in luce Pogacar ed evidenzia la sua inesperienza. Al contrario, Van der Poel stavolta fa sfoggio di lucidità. E in volata, un capolavoro
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COMO – Mentre nelle strade della provincia di Bergamo e di Como, tra salite e discese si è disegnato il 118° Giro di Lombardia, ai pullman parcheggiati dietro lo stadio Sinigaglia c’era un gran via vai di persone e curiosi. Sul bus della Lidl-Trek Paolo Barbieri ha ripercorso insieme a noi i suoi anni nel ciclismo, nei quali ha curato la comunicazione e i rapporti con la stampa per grandi campioni. Pochi metri più avanti, invece, seduto nel vano dei bagagli del mezzo della Polti-Kometa c’era Paul Double. Occhiali a goccia alla Top Gun, giubbino da aviatore, un largo sorriso e tanta voglia di raccontarsi. Il britannico parla un italiano praticamente perfetto, frutto degli anni trascorsi da noi a gareggiare.
Al bus della Polti Kometa Paul Double ha firmato qualche autografo«Ti faccio la stessa firma che uso per il podio» ha detto simpaticamente il britannicoAl bus della Polti Kometa Paul Double ha firmato qualche autografo«Ti faccio la stessa firma che uso per il podio» ha detto simpaticamente il britannico
E’ arrivato nel lontano 2017 alla Zappi’s Racing Team, con la quale ha gareggiato per due stagioni. Nel 2019 è passato nella bergamasca Colpack-Ballan, poi ancora alla Zappi, che nel frattempo era diventata Holdsworth Zappi Team. Nel biennio 2021 e 2022 invece è arrivata la MGKVis, ultima squadra continental della sua carriera. E’ passato professionista con la Human Powered Health nel 2023, ma alla chiusura della professional americana ha dovuto cercare una nuova sistemazione. Ecco che spunta la Polti-Kometa, ennesima realtà italiana del suo cammino lungo e tortuoso. Un anno alla corte di Basso e Contador e per Paul Double è arrivata la chiamata nel WorldTour, a 28 anni.
«Il 2024 – racconta – è stato un anno bellissimo per me. All’inizio la squadra non mi conosceva bene, ma dal primo training camp mi dicevano che andavo forte e mi sono guadagnato la loro fiducia. La prima parte di stagione è andata bene, sono arrivato terzo nella classifica generale del Presidential Tour of Turkey ad aprile. Non sono ancora riuscito a vincere una gara da professionista, ma in Slovenia ci sono andato tanto vicino. Sono sempre stato accanto ai primi, corridori che da anni sono nel WorldTour, e questo mi ha reso fiero. Penso sia stata la gara più bella per me nel 2024».
Una delle persone più importanti sul suo cammino è stato Flavio Zappi, con il quale ha corso per tre stagioniUna delle persone più importanti sul suo cammino è stato Flavio Zappi, con il quale ha corso per tre stagioni
Facciamo un salto indietro, raccontaci il tuo percorso da corridore.
Non è stato normale (dice con una risata contagiosa, ndr) è stato davvero difficile. Ho iniziato tardi, correvo come amatore in Inghilterra, ma più per divertirmi. Poi ho vinto una gara di club e Flavio Zappi mi ha detto di provarci, di venire in Italia perché aveva visto qualcosa in me.
Com’è stato l’approccio con il nostro Paese e il ciclismo?
All’inizio è difficile, il gruppo è doppio. Nelle prime gare ero sempre in fondo, ma Flavio non ha perso la volontà. Era convinto che in me ci fosse qualcosa, mi ha convinto a restare. Però ogni anno a fine stagione mi trovavo sempre nel mondo delle continental e pensavo che il ciclismo non facesse per me. Ero lì che mi dicevo «Okay, voglio fare professionista però forse non sono adatto».
Nel 2018 la sua prima vittoria con la maglia del team Zappi, a Pinerolo (foto Dario Costantino – Pinerolo)Nel 2018 la sua prima vittoria con la maglia del team Zappi, a Pinerolo (foto Dario Costantino – Pinerolo)
Poi però è arrivata la Human Powered Health.
A 26 anni, è stata una bella iniezione di fiducia. Ero davvero contento di passare professionista con loro, però a fine 2023 dopo un anno la squadra ha chiuso. E ancora mi sono trovato a chiedermi se ne valesse la pena, fare tutti questi sacrifici per non avere certezze. Il destino era contro, ecco.
E invece la Polti-Kometa ti ha dato una grande mano…
Fortunatamente mi hanno preso e dai, è stato, come ho detto, un bell’anno. Adesso provo una sensazione un po’ strana perché mi piace tanto qui, però a 28 anni volevo provare il massimo livello del ciclismo e vediamo che riuscirò a fare. Penso che la Jayco-AlUla sia una bella squadra.
Tanta Italia nel suo cammino, nel 2019 ha vestito i colori del Team ColpackTanta Italia nel suo cammino, nel 2019 ha vestito i colori del Team Colpack
Come ti hanno contattato?
Stavo lavorando con il mio procuratore Gary McQuaid di Altus e abbiamo detto che se fossi dovuto andare in un team WorldTour avrei dovuto farlo con una squadra che potesse andare bene per me. Non voglio andare nel WT solo perché arriva un’offerta. La Jayco ha mostrato interesse nei miei confronti e nel parlare abbiamo trovato diversi punti in comune.
Perché pensi che possa essere giusta per te?
Parlo italiano, è vero, però andare in una squadra in cui la lingua principale è l’inglese mi piace. Non è che lo preferisco, però forse capisco di più. Tornare in un ambiente dove si parla la mia lingua d’origine sarà bello, però lì ci sono tanti italiani quindi è perfetto.
Un biennio alla MGKVis con la quale ha corso parecchio in Italia ed EuropaNel 2023 il passaggio alla Human Powered Health ma a fine stagione la squadra chiuderàUn biennio alla MGKVis con la quale ha corso parecchio in Italia ed EuropaNel 2023 il passaggio alla Human Powered Health ma a fine stagione la squadra chiuderà
Se ti guardi indietro quanto pensi sia stato importante l’insistere di Flavio Zappi?
Per la mia carriera è stato importante, senza di lui non sarei arrivato qui. Mi ha aiutato tanto e ho parlato spesso con lui negli anni in cui ho corso nella sua squadra.
Come hai vissuto il fatto di ripartire ogni anno da zero?
Forse ho avuto un po’ di stupidità, però alla fine eccomi qui. Penso di essere una persona resiliente e adattabile e questo è importante. E poi perché mi piace davvero quello che faccio, questa vita è bella, uno spettacolo. Quando sei in gara c’è sempre tanta emozione, una sensazione che non puoi trovare in altro.
Si fa avanti la Polti-Kometa con la quale vive il suo miglior anno, e dal 2025 sarà WT con la Jayco-AlUla (foto Maurizio Borserini)Si fa avanti la Polti-Kometa e dal 2025 sarà WT con la Jayco-AlUla (foto Maurizio Borserini)
In che modo ti sei appassionato così tanto alla bici?
Probabilmente quando ero piccolo ho usato la bici qualche volta, ma non ricordo. Mio padre era un amatore molto forte, però non mi ha trasmesso questo interesse. Un giorno mi hanno detto di andare a fare una cronometro, in Inghilterra fanno tante gare del genere, sono andato forte. E da qui ho iniziato a usare la bici, ma come hobby. Solo alla Zappi ho pensato che sarei potuto diventare un ciclista professionista.
Con la Jayco hai fatto dei test?
Abbiamo parlato un po’ dei miei numeri, penso sia un mio punto forte. Vero che anche se i tuoi dati sono buoni devi fare i risultati, però quest’anno sono andato bene e mi sono meritato una posizione così. Questo è un forte punto per me. Dal 2017 a ora sono cresciuto anno dopo anno ed è questa la motivazione che mi ha spinto a continuare. Non c’è ancora un limite, ora magari sono ad un punto in cui mi sono posizionato ma penso ci sia ancora spazio per migliorare.
Allora non resta che farti un grande in bocca al lupo per i prossimi due anni.
TORINO – «In ogni angolo della Slovenia si parla soltanto di ciclismo». Sorride sornione Luka Mezgec, prima di sottoporsi alle visite oramai di rito di fine stagione della Jayco-Alula all’Istituto delle Riabilitazioni Riba. Il Lombardia ha consacrato la stagione magica di Tadej Pogacar, faro di una Nazione che si è presa tutti e 3 i Grandi Giri (e non solo!) grazie al poker calato alla Vuelta da Primoz Roglic.
Così abbiamo chiesto a chi era a Zurigo per contribuire al trionfo iridato di svelarci come si vive da dentro questa epoca d’oro delle due ruote per un Paese abituato a celebrare i campioni della neve o del basket. Una panoramica del travolgente momento sloveno, prima che l’uomo di fiducia delle volate per Dylan Groenewegen si rituffi sulle sue prospettive verso la decima stagione con la formazione australiana di cui oramai è una bandiera. Non è sfuggito, fra l’altro, che la sua vittoria nella tappa di Trieste al Giro del 2014 sia stata una fortissima ispirazione per il piccolo Pogacar, che lo ha più volte raccontato.
Abbiamo incontrato Mezgec durante le visite del Team Jayco-AlUla all’Istituto Riba di Torino, all’indomani del LombardiaAbbiamo incontrato Mezgec durante le visite del Team Jayco-AlUla all’Istituto Riba di Torino
Il 2024 ha segnato lo strapotere sloveno nei Grandi Giri e l’anno perfetto di Tadej Pogacar: quali sono le tue impressioni?
E’ difficile fare meglio di così. Fa specie pensare che la Slovenia conti appena 2 milioni di abitanti e 3 squadre continental. In più, a parte poche eccezioni, la maggior parte delle formazioni nel nostro Paese fanno fatica economicamente dal punto di vista degli sponsor. E’ davvero un miracolo quello che sta accadendo. Ora abbiamo 7 corridori nel WorldTour e alle spalle di questi ci sono giovani talenti che stanno emergendo, dagli juniores in su. Ogni anno in Slovenia diciamo che sarà dura ripetere quanto fatto, ma questa stagione è stata qualcosa di pazzesco. Pensando anche alla vittoria di Roglic alla Vuelta, sono certo che molte persone non si rendano conto del periodo che stiamo vivendo. Siamo in un’epoca d’oro e dobbiamo solo goderci questo show, sperando che sia d’ispirazione per i ragazzini che stanno cominciando a pedalare.
Ci racconti il trionfo mondiale?
E’ stato un momento incredibile. Per la prima volta da quando la corro, eravamo al via della prova in linea per vincerla e non “soltanto” per un piazzamento sul podio. A Zurigo per noi contava soltanto l’oro e chiunque sarebbe stato deluso se ci fossimo fermati all’argento. C’erano grandissime aspettative, eppure la squadra era molto rilassata.
Ci spieghi com’è stata possibile quest’atmosfera al netto delle pressioni?
Siamo tutti abituati a vivere in un ambiente molto stressante, per cui non c’erano grosse differenze. Tutti sapevano cosa dovevano fare e l’hanno fatto alla grandissima. Tadej ha leggermente modificato il piano, attaccando prima del previsto, ma a parte quello è andato tutto secondo i piani. Tratnik è stato perfetto. Sapeva esattamente cosa fare quando ha capito che Pogacar era partito alle sue spalle.
Questa la vittoria di Mezgec al Giro del 2014 che ispirò il giovane PogacarQuesta la vittoria di Mezgec al Giro del 2014 che ispirò il giovane Pogacar
Che cosa hai detto a Tadej dopo l’apoteosi iridata?
La domanda che gli ho fatto è stata: «Ma perché hai attaccato a più di 100 chilometri dal traguardo? A che pensavi?». E lui, senza fronzoli, mi ha risposto: «Stavano attaccando in tanti, mi sono guardato attorno e ho visto che tutti stavano soffrendo, mentre io non mi sentivo così male e così ci ho provato». Insomma, la tipica mossa imprevedibile alla Tadej. Ma quando sei così tanto più forte degli altri come lo è lui in questo momento, il ciclismo diventa un giochino divertente.
E del suo assolo al Lombardia, cosa dici?
Quest’anno Tadej ha davvero alzato l’asticella. Sappiamo che ha cambiato allenatore e i risultati si sono visti. Nella prima parte della stagione si è focalizzato sui giri di tre settimane, mettendo nel mirino Giro d’Italia e Tour de France. Una volta vinto quest’ultimo, il suo unico pensiero era diventare campione del mondo. Così è riuscito ad avere un secondo picco di forma sul finale, rinunciando anche ai Giochi di Parigi. E’ imbattibile al momento e anche al Lombardia si è visto che non ha dovuto nemmeno attaccare a tutto gas per fare la differenza.
Sei alla Jayco-Alula da quasi un decennio, ci dai un bilancio di quest’anno?
Penso che il 2024 sia stato sopra la media se si parla di successi come squadra. Abbiamo centrato quasi tutti gli obiettivi che ci eravamo posti a inizio stagione, grazie a una ottima Vuelta con due vittorie di tappa, senza dimenticare il successo al Tour di Dylan (Groenewegen, ndr). Forse ci saremmo aspettati qualcosa di più per quanto riguarda la classifica generale nei Grandi Giri, ma abbiamo visto com’è andato quest’anno con tanti acciacchi e malattie. Ad esempio Simon (Yates, ndr) non si è sentito bene un giorno e la posizione in graduatoria al Tour è peggiorata. Nel complesso, possiamo essere contenti. Il team sta ringiovanendo e questo è molto positivo per il futuro e per noi corridori più esperti si tratta di trasferire le nostre conoscenze e la nostra esperienza ai giovani.
In prova sul percorso di Zurigo con il compagno di club Matthews, Mezgec racconta che la Slovenia puntava solo a vincereAlle Olimpiadi senza Pogacar, che stava lavorando per il mondiale: ecco Mohoric, Novak, Mezgek e TratnikIn prova sul percorso di Zurigo con il compagno di club Matthews, Mezgec racconta che la Slovenia puntava solo a vincereAlle Olimpiadi senza Pogacar, che stava lavorando per il mondiale: ecco Mohoric, Novak, Mezgek e Tratnik
Come vedi De Pretto?
E’ davvero un ottimo corridore. Davide è arrivato in squadra come talento promettente, in virtù di alcuni buoni risultati a livello giovanile. Ha subito mostrato che può dire la sua anche nel WorldTour. Sarà interessante seguire la sua crescita nei prossimi due anni e assistere ai suoi successi.
La vera rivoluzione però avviene con la fine dell’era Yates e l’arrivo di Ben O’Connor: che ne pensi?
Ben si prepara a indossare scarpe molto più grandi delle sue, ma ha già dimostrato di poterlo fare al meglio. Ha fatto una grandissima stagione con i secondi posti nella classifica generale della Vuelta e poi ancora ai Mondiali di Zurigo. Se lavorerà ancora sulle corse di un giorno, può far risultato anche nelle Monumento come ad esempio la Liegi-Bastogne-Liegi. Sarà bello lavorare con un nuovo capitano per la generale dopo tanti anni al servizio dei fratelli Yates. Poi, un australiano in una formazione australiana…
Che cosa ti aspetti dal 2025?
Il mio obiettivo personale è di assistere Dylan nel miglior modo possibile, come ho fatto in passato. So che invecchio, ma penso di avere ancora un paio d’anni al top. Conto di essere lì per aiutarlo a vincere il più possibile. Come squadra abbiamo grandi piani con Ben O’Connor per la classifica generale del Tour o di quel che metterà nel mirino. Poi, vincere una tappa nei tre Grandi Giri: quest’anno ci è mancato solo il Giro d’Italia.
Al Tour la vittoria con Groenewegen è stata uno degli highlight 2024 per la Jayco-AlUlaAl Tour la vittoria con Groenewegen è stata uno degli highlight 2024 per la Jayco-AlUla
Anche perché al Tour ci hai messo lo zampino tu…
Dylan era in forma smagliante ed è stato bellissimo guidarlo al successo. In quello sprint non tutto è stato perfetto, ma non ci siamo fatti prendere dal panico quando ci siamo persi l’un l’altro prima di un punto cruciale come i -2 dall’arrivo. Elmar (Reinders, ndr) è stato fantastico e, con tutta calma, ci ha riportato avanti. Io ho creato un po’ di spazio all’ultima rotonda e Dylan ha preso la ruota giusta. Quando lavori 6 mesi per un momento così, quello che senti è qualcosa di speciale. Provo la stessa sensazione di quando vinco in prima persona.
MIRI (Malesia) – La stagione del ciclocross è iniziata e subito i grandi, ad ogni livello e di ogni Nazione, se le sono date. Tra di loro però quest’anno non vedremo Luca Paletti. La speranza azzurra del ciclocross si dedicherà in modo più specifico alla strada.
Paletti fa parte del progetto giovani della VF Group-Bardiani e chiaramente il focus del team dei Reverberi è l’attività su strada. Okay il cross, ma fino ad un certo punto.
Abbiamo intercettato Paletti in Malesia, durante il Tour de Langkawi. Era in buona condizione e si è messo a disposizione dei compagni, in particolare del velocista, Mattia Pinazzi.
Luca Paletti (classe 2004) quest’anno ha fatto 61 giorni di corsa, 10 in più dell’anno scorso e con più corse a tappeLuca Paletti (classe 2004) quest’anno ha fatto 61 giorni di corsa, 10 in più dell’anno scorso e con più corse a tappe
Alti e bassi
Mentre il monsone imperversava e ci si riparava sotto ad uno stand, Paletti ha raccontato la sua annata, la seconda da professionista.
«E’ stata una stagione ricca di corse – ha detto il classe 2004 – ho fatto più gare dell’anno scorso. La prima parte di stagione è andata come volevo. Ho ottenuto qualche buon piazzamento al Giro d’Italia Next Gen e quindi sono contento. «Dopo è stata una stagione un po’ in calo, ma piena di esperienze. Ho fatto gare e viaggi bellissimi. Ho fatto più competizioni con i professionisti, con i grandi del gruppo».
E qui un po’ Paletti ci sorprende. L’emiliano sostiene che tutte queste differenze tra le gare under 23 e quelle con i pro’ lui non le ha notate.
«Diciamo che anche negli under ormai non si scherza più. E non si scherza anche perché nelle gare che facevamo c’erano tutti i devo team delle WorldTour e sembrava di correre una gara di quel livello. Se proprio dovessi dire una differenza, direi che qui tra i pro’ bisogna limare un po’ di più perché vanno un pelo più forte. Ma alla fine è qualcosa che viene da sé. Sei quasi costretto a farlo. Mentre il caos in gruppo ormai è lo stesso, anche perché tra i professionisti c’è tanta gente giovane e giovanissima».
L’emiliano era una buona speranza per la nazionale di PontoniL’emiliano era una buona speranza per la nazionale di Pontoni
Stop cross
Paletti è un corridore potente. Non è ancora tiratissimo, la gamba non è super definita e non manca qualche brufolo giovanile sul volto. Insomma, si vede che ha ampi margini. In tal senso il tempo è dalla sua – ricordiamo che ha compiuto 20 anni a giugno – ma in questo ciclismo che corre, come ci diceva anche il suo direttore sportivo, Alessandro Donati, occorre cambiare marcia. E occorre cambiarla anche con relativa fretta. Per questo niente cross.
«Quest’anno penso di non fare gare di ciclocross. E’ una decisione presa insieme alla squadra: proviamo a fare un’annata con un inverno di riposo vero. Un riposo che servirà per prepararmi bene per la stagione successiva su strada.
«Ho deciso così non tanto perché ho sentito il peso della stagione del cross l’anno scorso, ma perché voglio concentrami di più sulla strada. E soprattutto voglio impostare per la prima volta una vera preparazione specifica per la strada, con il riposo, la ripresa…».
E questo punto di vista ci può stare. Alla fine anche Donati spiegava come il cross, almeno arrivati a questa età, può darti sì qualcosa in più all’inizio della stagione, ma poi il conto arriva. E arriva perché forse mancano determinate basi. E vale anche il contrario. Per assurdo sarebbe meglio fare qualche gara di cross appena terminata la stagione su strada, sfruttando la buona condizione. Ma poi a che fine?
Paletti quest’anno si è confrontato di più con i pro’, ma per fare il salto di qualità farà solo strada (anche nella preparazione)Paletti quest’anno si è confrontato di più con i pro’, ma per fare il salto di qualità farà solo strada (anche nella preparazione)
Rovescio della medaglia
Se il discorso della preparazione e del recupero tiene, e anche bene, c’è poi il discorso dei fuorigiri che ti dà una disciplina come il cross. Un discorso che nel corso dell’anno tante volte abbiamo chiamato in causa con la nostra ciclocrossista numero uno, Silvia Persico. Mancheranno queste sparate anche a Paletti?
«Io – dice Luca – credo che più che le sgasate, mi mancherà un po’ di abilità in bici. Le sgasate tra gare e allenamenti puoi riprodurle. E per questo credo che se anche non farò gare di ciclocorss qualche allenamento con quella bici lo farò. Magari nel giorno di scarico inforcherò la bici da ciclocross e mi divertirò a guidare e a tenere vive certe sensazioni».
Dopo un periodo di lavoro in Spagna, Van Aert è pronto per la Coppa del mondo di Tabor. Non sa in quali condizioni sarà. Il suo obiettivo sono i mondiali
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Ha iniziato l’anno con un argento mondiale nel ciclocross. Su pista ha conquistato l’oro nell’inseguimento a squadre e nell’omnium. Fino all’apoteosi di Zurigo, con i trionfi a cronometro e nella gara in linea, senza neanche contare tutti i successi intermedi, fra pista e strada, che fanno di Cat Ferguson una vera dominatrice della categoria. Qualcosa di abbastanza simile a quel che era al tempo Remco Evenepoel e infatti la britannica ha “varcato il Rubicone” anche prima del previsto, passando professionista con la Movistar già a inizio agosto. Ma l’appuntamento con le maglie iridate era troppo appetitoso per farselo scappare…
Nel ciclocross la Ferguson aveva colto l’argento ai mondiali, battuta dalla francese GeryNel ciclocross la Ferguson aveva colto l’argento ai mondiali, battuta dalla francese Gery
Un paio di vittorie anche nella massima serie dimostrano che la britannica è già matura per importanti traguardi anche tra le “grandi” e attende con impazienza la nuova stagione. Ma intanto è giusto dare uno sguardo a quanto avvenuto e capire da dove è scaturita questa supremazia. La ciclista di Skipton, finalmente libera da impegni, si è sottoposta volentieri alle domande scaturite da un’annata da ricordare.
Quest’anno hai dominato la categoria juniores: in che cosa sei cresciuta di più rispetto alla scorsa stagione e da che cosa nasce tanta differenza?
Ovviamente sono più vecchia di un anno. Quindi con il tempo, l’età e più allenamento sono migliorata, ma non solo nelle prestazioni, penso di aver fatto un passo avanti in tutte le piccole cose che alla fine ti fanno fare il salto di qualità ed essere una ciclista migliore. Io dico sempre che molto conta dove vivo, la realtà intorno a me, che mi porta ad avere un atteggiamento sempre positivo e costruttivo in allenamento. Vivo nello Yorkshire e qui la cultura del ciclismo è molto profonda, condivisa. Da sempre, quando ci si allena in gruppo, presto diventa una gara. E questo alla lunga paga.
Con le compagne del Shibden Hopetech Apex con cui ha condiviso l’attività juniorCon le compagne del Shibden Hopetech Apex con cui ha condiviso l’attività junior
In quale maniera?
Mi ha permesso e mi ha insegnato a essere molto determinata e a non mollare mai. Uso questi principi in ogni cosa della vita, ma soprattutto nel mio allenamento. E penso che sia questo che mi ha portato a un certo successo.
Hai vinto sia corse d’un giorno che gare a tappe: dove ti trovi meglio?
Io preferisco le corse a tappe, soprattutto quelle che prevedono percorsi difficili, salite dure. Preferisco sempre fare selezione, avendo uno sprint buono ma nulla più, con molte atlete forse anche più dotate di me in questo. Certamente il tracciato di Zurigo era in questo senso l’ideale per me.
Ai mondiali su pista due medaglie d’oro dopo quella europea nella madison (foto X)Ai mondiali su pista due medaglie d’oro dopo quella europea nella madison (foto X)
Quanto è stato importante il passaggio anticipato alla Movistar?
Era maggio quando il contatto si è concretizzato, penso che come team siano davvero disposti a fare tutto il meglio per ogni singolo appartenente alla squadra. E’ una cosa che mi ha colpito moltissimo, guardano sì alle esigenze del team, ma anche e soprattutto a quelle del singolo, mettono tutto a disposizione per farlo rendere al meglio. Capisco che hanno grande fiducia in me, in quel che potrò fare e mi hanno subito fatto fare esperienze fra le grandi. Per me è più una famiglia che una squadra. Tutti vanno così d’accordo e lo staff è incredibile. Ogni corsa la vivono come se stessero pedalando loro…
Al di là delle vittorie mondiali, è sembrato spesso che la categoria ormai fosse troppo limitante per te. Quanto ti è servito correre contro le professioniste pur avendo solo 18 anni?
Non mi aiuta molto. Penso che correre con la mia generazione mi abbia insegnato molto in termini di tattica, ma soprattutto come imparare dai molti errori che anch’io ho fatto. Cose come la mia alimentazione e l’atteggiamento mentale verso le gare, si sviluppano tutte nelle gare junior più brevi. Entrando nelle gare pro’ io spero si tratti solo di estendere il mio protocollo nutrizionale e piccole cose del genere, continuando a migliorare e a crescere.
A Zurigo dominio nella crono con 34″ sulla Chladonova (SVK) e 36″ sulla Wolff (GBR)A Zurigo dominio nella crono con 34″ sulla Chladonova (SVK) e 36″ sulla Wolff (GBR)
Tu però hai già corso e vinto fra le grandi. Tra la vittoria ai mondiali e quella alla successiva corsa belga, la Binche-Chimay-Binche qual è stata più difficile?
Il mondiale, su questo non c’è alcun dubbio soprattutto considerando la posta che c’era in palio…
Continuerai a correre su pista e nel ciclocross?
La strada diventa ora il mio primo obiettivo, ma la pista resta nei miei programmi per tutti i benefici che dà e le prospettive che garantisce. Per il ciclocross vedremo, anche in base alla preparazione per la nuova stagione.
Nella prova in linea vittoria nello sprint ristretto, dopo l’argento dello scorso annoNella prova in linea vittoria nello sprint ristretto, dopo l’argento dello scorso anno
La Movistar ti ha inserito subito nel team principale, hai saltato completamente il devo team. Ti senti pronta per affrontare subito una stagione di WorldTour?
Non si può fare altrimenti. Non è come nel mondo maschile dove c’è una vera categoria U23, un calendario loro riservato, qui anche i devo team fanno attività di vertice. Quindi penso che sia giusto saltare direttamente il fosso e fare attività al massimo livello, anche se nel team sapranno come gestirmi. Io penso di essere pronta, ma continuerò a prenderla molto lentamente e serenamente, non farò le grandi gare in questo primo anno. Mi concentrerò ancora sul mio sviluppo anche se sono in una squadra del WorldTour, la mia priorità sarà migliorare e dare il mio apporto al team.
Quali sono le corse che pensi siano più adatte a te fra le grandi classiche e le corse a tappe?
Io credo che le classiche del Nord siano adatte ai miei mezzi, le esperienze che sto accumulando nelle prove belghe me lo confermano. Ma, ripeto, ci voglio arrivare per gradi, senza bruciare le tappe.
Volata d’autore alla Binche Chimay Binche. La Movistar ha trovato l’erede della Van Vleuten?Volata d’autore alla Binche Chimay Binche. La Movistar ha trovato l’erede della Van Vleuten?
Molti ti indicano protagonista ai prossimi Giochi Olimpici di Los Angeles. Il sogno olimpico che cosa rappresenta per te?
E’ davvero speciale, quasi una motivazione a fare quello che faccio. Le ho guardate sin da quando ero piccola e sognavo di andarci. Quindi è sicuramente un mio grande obiettivo. Al tempo dicevo che volevo competere in qualsiasi sport, ora ho trovato quello giusto…
Per Sciandri l'occasione mancata dell'anno è la tappa del Mottolino con Nairo Quintana. Se avesse spinto di più durante la fuga avrebbe preso il margine sufficiente per contrastare Pogacar?
Una discesa bella e veloce. Caduta di colpo. Valverde vola di sotto. Riparte, ma ha paura e dolore. La Vuelta si chiude qui. Il guerriero va via in lacrime
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COMO – Erano tutti presi a salutare Dario Cataldo all’ultima corsa e nessuno si è soffermato a pensare che il Lombardia è stato l’ultima corsa anche per Paolo Barbieri. Gli addetti stampa arrivano dopo e stanno sempre un passo indietro. Infatti al bus della Lidl-Trek il bergamasco è arrivato per ultimo, proprio mentre stavamo salutando Ciccone fresco del podio dietro Pogacar e Remco.
Il ritiro di un addetto stampa, che oggi si dice press officer, riguarda le persone con cui ha lavorato: quindi la squadra e i giornalisti. Per il mondo fuori sono figure che si vedono raramente. Di fatto vivono accanto al corridore e hanno il compito, quando lavorano bene, di avvicinarlo alle richieste dei media. Un filtro e un interprete, capace di far capire al giornalista che l’atleta ha tempi ed esigenze e all’atleta che il giornalista ha ugualmente tempi ed esigenze. E Barbieri, nei 16 anni di collaborazione, ha sempre fatto la sua parte.
Perché dedicare un articolo a un addetto stampa che cambia lavoro? Perché il suo sguardo ha visto i nostri stessi corridori, ma dall’interno. Un punto di vista privilegiato attraverso cui rileggere alcuni momenti del ciclismo recente. Paolo, classe 1982, aveva 26 anni quando mise per la prima volta il naso in gruppo, al Giro delle Fiandre del 2008. Lo portò Gabriele Sola, che con la sua agenzia gestiva la comunicazione della Liquigas. Un primo assaggio prima di essere catapultato nel Giro d’Italia dello stesso anno. Quello delle tre tappe e la ciclamino di Bennati, di qualche giorno in rosa di Pellizotti e quello con Cataldo, Noé e anche Nibali. Cominciò tutto così, con un passaggio intermedio alla Bardiani quando la Liquigas divenne Cannondale, poi l’approdo nel gruppo Trek. E ora che ha deciso di cambiare lavoro, siamo curiosi di farci raccontare quello che lui ha visto e che a noi è per forza sfuggito.
Barbieri è arrivato alla corte di Luca Guercilena alla Trek-Segafredo e ha vissuto l’avvento di LidlBarbieri è arrivato alla corte di Luca Guercilena alla Trek-Segafredo e ha vissuto l’avvento di Lidl
I corridori
«I corridori sono persone altamente sotto pressione, dall’esterno e dall’interno. Non tanto le squadre, quanto le pressioni che si mettono da soli. I giovani passano con delle aspettative incredibili, è un carico che può schiacciarti. Sono ragazzi diversi rispetto a quelli che incontrai nel 2008, perché la tecnologia ha creato dei rapporti personali molto diversi. Sono ragazzi più preparati sotto tutti i punti di vista, forse troppo per l’età che hanno. In più sono globalizzati e questo secondo me è positivo. La cosa che secondo me non è mai cambiata è che i ciclisti sono consapevoli, forse per la fatica che fanno, della loro umanità. E non è mai cambiato il rapporto col pubblico. Sono un po’ meno accessibili, si sono creati un po’ di barriere, ma non ho mai visto un corridore negare un autografo.
«Se lavori con un campione, hai tanto lavoro in più, però è la parte più eccitante. Ti trasmette adrenalina, anche se non sono tutti uguali. Ci sono campioni che hanno dietro anche un background culturale e personale, con cui lavorare diventa molto più bello. Ciccone ad esempio è quello con cui ho speso più anni, sin dalla Bardiani. Con lui sono riuscito a creare un vero rapporto di amicizia, che è una cosa bella. Quello con il campione è un lavoro di grande mediazione. Non di rado capita di scontrarsi e ingoiare dei bocconi amari. Certe volte con qualcuno devi essere quasi il fratello maggiore…».
Lombardia 2020, si corre d’estate alla ripresa dal Covid. Barbieri è con NibaliLombardia 2020, si corre d’estate alla ripresa dal Covid. Barbieri è con Nibali
L’addetto stampa
«Anche questa è una figura che è cambiata tanto, più che altro per le tecnologie. Quando ho cominciato, il press officer era veramente al servizio della stampa, che era il principale veicolo delle immagini del team e del suo messaggio. Con l’avvento dei social network, tutto è cambiato. Adesso anche noi possiamo e vogliamo comunicare direttamente con i tifosi. Detto questo, io ho sempre ribadito ai miei colleghi più giovani e anche ai manager che le cose devono andare di pari passo.
«Sei tra l’incudine e il martello. Talvolta è un lavoro ingrato nei confronti della stampa. Dall’altra parte sei quello che va “rompere le scatole” al corridore per fare interviste, quando magari non ne hanno voglia. Una parte del nostro mestiere è far capire l’importanza e la bellezza di collaborare con i media. Poi sta alla sensibilità del giornalista tirar fuori qualcosa di più e, in quel caso, anche gli atleti più recalcitranti sono in grado di apprezzare».
Il primo Sagan, nel 2010, fu un’apparizione travolgente nel mondo del ciclismoIl primo Sagan, nel 2010, fu un’apparizione travolgente nel mondo del ciclismo
Peter Sagan
«Sapete cosa faceva scattare Peter? Perdere! Ricordo ancora una Tirreno-Adriatico, cronosquadre. Passano il traguardo col primo tempo. Io sono sulla linea d’arrivo e vedo che la Greenedge ci batte di due secondi. Arrivo lì e i ragazzi chiedono se dobbiamo andare al podio per la vittoria. Non ho neanche il tempo di dire che gli australiani hanno appena fatto meglio, che Peter sbotta. “Ma no! Vieni sempre a darci brutte notizie, ma com’è possibile?”. Lui quando perdeva era così. Tant’è che poi la sera venne a bussarmi in camera e si scusò per aver esagerato. La sua grandezza era anche questa.
«Peter è stato l’esperienza più bella della mia carriera (foto @brakethroughmedia in apertura, ndr). Ero giovane, andavo alle corse un po’ più leggero. Ricordo le esultanze del Tour, vederlo diventare una calamita. Era una rockstar e non aveva bisogno di essere filtrato o che tenessimo a bada i media. Direi che non ho ricordi di grandi problemi, a parte purtroppo l’incidente diplomatico sul podio del Fiandre che adesso sarebbe vissuto in maniera totalmente diversa. Peter è sempre stato una persona abbastanza aperta, in più si era creato un rapporto di fiducia tale che a volte ero anche il suo portavoce. Sapevo di non sbagliare, ma questa è una cosa che puoi fare passandoci molto tempo insieme. Quei primi anni furono il periodo più bello, poi credo che sia diventato un altro Peter».
E’ il 2012, a Parigi Nibali conquista il podio del Tour dietro Wiggins e FroomeE’ il 2012, a Parigi Nibali conquista il podio del Tour dietro Wiggins e Froome
Vincenzo Nibali
«Vincenzo è il corridore con cui ho lavorato alla Liquigas e che poi ho ritrovato dopo alla Trek-Segafredo. Non dico che non sia cambiato, però Vincenzo è così. Vincenzo non ha maschere, non recita. Da giovane era un ragazzo timido e introverso. Adesso è un uomo non più timido, ma comunque introverso. Con lui ci vuole tempo per costruire un rapporto, ma ovviamente averci lavorato prima mi ha facilitato. E’ stato come riannodare un filo dopo gli anni che aveva fatto con Geoffrey Pizzorni all’Astana. E’ un ragazzo cui devi spiegare bene le cose fino a convincerlo. Perché Nibali era focalizzato al 100 per cento sulla performance.
«L’unico rammarico che ho è che non abbia chiuso qua, cosa di cui avevamo anche parlato. Uno dei ricordi più belli che ho di lui è quando fece il podio al Tour de France, con Peter che vinse la maglia verde. Era il 2012 e fu un momento bellissimo, molto toccante. Vederlo sul podio emozionato, anche da italiano fu un momento da pelle d’oca!».
E’ il 2022 quando Elisa Longo Borghini in maglia tricolore conquista la Roubaix Femmes (@jojoharper)E’ il 2022 quando Elisa Longo Borghini in maglia tricolore conquista la Roubaix Femmes (@jojoharper)
Il ciclismo femminile
«E’ stato una bellissima scoperta. All’inizio le ragazze sono più diffidenti, ma credo sia normale. L’uomo è più compagnone, ma hanno lo stesso modo di intendere il ciclismo. Sono due mondi diversi. Pensate solo l’accesso al pullman: con gli uomini è libero, con le donne bisogna avere necessariamente più attenzioni. I livelli di stress sono differenti, a volte gli uomini sono più stressati. Le nostre campionesse, Lizzie Deignan e le due Elise, sono sempre molto sicure di loro stesse. E’ stata una bellissima scoperta dal punto di vista umano. Sono diverse, sono più profonde e la confidenza te la devi conquistare.
«Quando ci sono momenti delicati, devi fare un lavoro di protezione dall’ambiente esterno. Non si tratta di sostenerle, ma fargli capire che sono al sicuro. Sono molto più attente degli uomini rispetto a quello che viene scritto. Leggono di più, si informano, sono sensibili. Per cui è un lavoro molto più di mediazione, sapendo che sono molto attente anche a quello che dici. E alla fine si sono creati dei rapporti intensi».
Al Nord, Barbieri con Balsamo nel 2024: la vittoria di De Panne e il secondo posto della Gand (@twilcha)Al Nord, Barbieri con Balsamo nel 2024: la vittoria di De Panne e il secondo posto della Gand (@twilcha)
I giornalisti
«Negli ultimi due anni ho chiesto espressamente di essere riferimento dell’ufficio stampa. Avere a che fare con i giornalisti è la parte del lavoro che mi piace di più. I social li gestisco, ma preferisco coltivare i rapporti personali. Questo a volte contempla anche lo scontro, ma credo di lasciarmi bene col 90 per cento di voi. Sarà una liberazione, per tanti motivi, non sentirne più una piccola percentuale. Non certo per il lavoro, ma perché alcuni sono arroganti e pensano che il giornalismo sia intoccabile o quasi inappellabile.
«A me piace quando c’è un confronto, accetto anche che mi si dica il contrario. A volte arriviamo a un compromesso. Posso accontentarti su tutto, mentre a volte sono costretto a dire di no perché non si può».
Aver lasciato Milan alla vigilia della sua consacrazione è forse il solo rimpianto di Barbieri (@gettyimages)Aver lasciato Milan alla vigilia della sua consacrazione è forse il solo rimpianto di Barbieri (@gettyimages)
Il ritiro
«Smetto perché mi è arrivata una proposta che non è stata cercata. Ho un contratto, mi trovo bene, mi sento valorizzato. Sono nella squadra dove volevo essere, in una situazione perfetta. A casa ho una bambina che cresce bene, una moglie che mi vuole bene e che sopporta le assenze. Ho la serenità per riflettere e capire che a 42 anni, è meglio fermarsi così che arrivare più avanti e fermarsi perché non ne puoi più. Lo vedo che non tutte le corse sono ancora esaltanti come il primo giorno.
«Mi dispiace solo dover lasciare Johnny Milan nel pieno della sua esplosione. Ma arrivo a questo giorno dopo averlo comunicato alla squadra a luglio. Ho veramente avuto modo di decidere con la massima serenità. Ieri abbiamo fatto un brindisi con lo staff. Non vado via a cuore leggero, so cosa lascio. Ma si sa che per fare le scelte più belle, devi passare anche attraverso un po’ di dolore».
Markel Irizar è il responsabile del Devo Team della Lidl-Trek. Ci spiega perché sia nato, come abbia cambiato le regole del mercato e in che modo lavorino
Mentre a Barcellona Team New Zealand e Ineos Britannia si giocano l’edizione 2024 della Coppa America, Paolo Simion prepara le valigie per il ritorno a casa. La trasferta catalana è stata tanto esaltante nella sua costruzione, nel suo “viaggio” quanto deludente nel suo epilogo sfortunato, con la netta sensazione che il risultato non rispecchi il valore della barca e dei suoi uomini. La sconfitta con i britannici guidati dal 4 volte campione olimpico Ben Ainslie fa male, ma col passare dei giorni emergono sempre più i lati positivi di quella che è stata a tutti gli effetti un’avventura, soprattutto per uno che veniva dal mondo del ciclismo.
Il veneto, 32 anni, ha corso fra i professionisti dal 2014 al 2021 (foto ufficio stampa Luna Rossa)Il veneto, 32 anni, ha corso fra i professionisti dal 2014 al 2021 (foto ufficio stampa Luna Rossa)
Ora è il momento di guardare avanti e Simion si trova davanti una pagina vuota tutta da scrivere: «Ci sono tante possibilità davanti a me. Ho iniziato a correre da giovanissimo e sono sempre andato avanti alla giornata, ma mi sono sempre inventato qualcosa, quindi il futuro non mi fa paura. Mi piacerebbe restare in questo mondo, questo è sicuro. Vedremo che cosa verrà stabilito per la prossima edizione, quando e dove si disputerà, che regole verranno imposte e quindi se i cyclor avranno ancora posto in barca, ma ci vorrà qualche mese. Non mi dispiacerebbe neanche tornare a lavorare con Rcs Sport come regolatore, il ciclismo d’altronde è e sarà sempre il mio mondo».
Ora che passano i giorni dalla grande sbornia di emozioni della Louis Vuitton Cup, che cosa ti resta?
E’ un caleidoscopio di sensazioni. E’ chiaro che in tutti noi c’è la delusione per come sono andate le cose perché siamo convinti che qualche piccolo episodio abbia fatto girare l’esito della sfida a nostro sfavore. Tutto il percorso compiuto però è stato fantastico. Mi sono ritrovato a fare parte di un gruppo unito ed enorme, avevi davvero la sensazione che in barca fossimo tutti e 130 componenti la spedizione a navigare. Poi c’è l’esperienza lavorativa: io avevo sempre corso in bici, mi sono ritrovato a imparare tantissime cose, gli impieghi più diversi, dall’elettronica all’idraulica alla logistica. Sono un’altra persona rispetto a quando ho iniziato.
Tra le possibilità future anche un ritorno sulla moto RCS come regolatoreTra le possibilità future anche un ritorno sulla moto RCS come regolatore
Un ciclista come te che cosa ha ritrovato del suo background in questo mondo?
Più di quanto si pensi. Innanzitutto lo stakanovismo: è veramente un lavoro nel quale metti tutto te stesso, devi avere metodo e costanza, essere sempre pronto altrimenti rischi il flop. E’ un mondo altamente specializzato, ma a ben guardare anche il ciclismo lo sta diventando sempre di più e questo comporta che ci si chiude. Ma eventi come questo servono anche per aprirsi a nuovi spazi, farsi conoscere.
E che sapore hanno vittoria e sconfitta, lo stesso di quello che hai assaporato sulle strade?
Bella domanda. Qui ci sono differenze sostanziali. Questo evento si vive una volta ogni 2 o 4 anni, lavori mesi, anni e poi ti giochi tutto in pochissimo tempo. E’ un po’ il principio delle Olimpiadi ed è questo che attribuisce tanto fascino a questa competizione. Il feeling è completamente diverso da una qualsiasi corsa ciclistica, salvo forse proprio quella olimpica. Poi c’è anche qualche aspetto strano, unico. Ad esempio l’importanza del vento: si può regatare solo entro un certo range di velocità del vento. Ti trovi così a stare fermo lì alla partenza anche mezz’ora abbondante e devi essere bravo a non pensare, a non stressarti troppo nell’attesa, ma essere pronto quando scatta il momento buono.
Luna Rossa è arrivata fino alla finale di Louis Vuitton Cup, perdendo 7-4 contro Ineos Britannia (foto ufficio stampa Luna Rossa)La particolare posizione dei cyclor, quattro in tutto: due su ognuno dei due lati (foto ufficio stampa Luna Rossa)La sfida italiana è già stata lanciata per la prossima edizione, probabile per il 2026 (foto ufficio stampa Luna Rossa)Luna Rossa è arrivata fino alla finale di Louis Vuitton Cup, perdendo 7-4 contro Ineos Britannia (foto ufficio stampa Luna Rossa)La particolare posizione dei cyclor, quattro in tutto: due su ognuno dei due lati (foto ufficio stampa Luna Rossa)La sfida italiana è già stata lanciata per la prossima edizione, probabile per il 2026 (foto ufficio stampa Luna Rossa)
Avete dovuto gestire una pressione enorme, quando c’è l’America Cup tutti diventano esperti di vela…
E’ vero, sentivamo che c’era un’attesa incredibile, ma in barca eravamo tutti sportivi. Oltre a me c’erano velisti, canottieri, rugbysti. Tutta gente che ha affrontato mondiali, Olimpiadi e grandi avvenimenti. Sapevamo come sdrammatizzare, l’importante era fare quel che si è abituati, saper gestire ogni frangente.
Come gestisci la delusione?
Il dispiacere c’è, inutile negarlo, anche se le vittorie delle ragazze e anche nella competizione giovanile hanno dimostrato che il gruppo era davvero valido e di primissimo livello. Perché abbiamo perso? Al di là delle contingenze, abbiamo avuto un avversario forte, abbiamo pagato la legge dello sport come sempre avviene. Ma se guardiamo a com’è andata la Louis Vuitton Cup resta una prestazione enorme, la capacità di risalire sempre dopo ogni colpo. Lo sport insegna che dopo ogni avversità ti rimbocchi le maniche e risali ed è quello che abbiamo sempre fatto.
Per Simion il futuro su Luna Rossa dipende dalle nuove regole che verranno stabilite dai vincitoriPer Simion il futuro su Luna Rossa dipende dalle nuove regole che verranno stabilite dai vincitori
A te però perdere da Ineos deve aver dato una sensazione diversa, dopo tante corse vissute contro quel marchio anche nel ciclismo…
In questo senso i parallelismi ci sono. Ineos investe sempre sul progresso tecnologico, lo ha fatto per anni anche nel ciclismo, era naturale che una sua creatura velica andasse veloce, utilizzando anche i migliori specialisti in ogni campo, da Ainslie in poi. Sono stati bravi a progredire piano piano, a lavorare, magari hanno anche scoperto qualche alchimia tecnologica che ha cambiato i valori in campo. Noi comunque ora dobbiamo voltar pagina e pensare alla prossima sfida, per prenderci la rivincita perché sappiamo che possiamo farlo.
Ad alti livelli Mirco Maestri ci sa stare. Ci può stare. Lo ha dimostrato, una volta per tutte, durante il campionato europeo, quando per la prima volta da professionista ha indossato la maglia azzurra. Il corridore della Polti-Kometa è stato decisivo su strada e protagonista nella crono del team relay, dove addirittura ha vinto l’oro.
Una gran bella stagione insomma per Maestri. Un buon Giro d’Italia, degli incoraggianti piazzamenti in estate e appunto il super europeo in Belgio. «Ma ora – dice lui – sono un po’ stanco. Sto bene, tanto è vero che ho chiesto di fare ancora una gara, il Giro del Veneto, ma da giovedì sera sarò in vacanza».
Tra l’europeo e la fuga al Giro con Alaphilippe la popolarità di Maestri è cresciuta anche all’estero: eccolo al Tour du LimousinTra l’europeo e la fuga al Giro con Alaphilippe la popolarità di Maestri è cresciuta anche all’estero: eccolo al Tour du Limousin
Mirco, partiamo proprio da quanto detto: una bella stagione, giusto?
Sì bella, ma io sono anche autocritico… e c’è sempre da migliorare. E’ stata una stagione lunga, impegnativa, ma che ha dato i suoi risultati. E la convocazione in azzurro.
Insistiamo su quest’ultima: te l’aspettavi?
Al Giro d’Italia qualche battuta Bennati me la fece. Ma sai, sull’entusiasmo e qualche buona prestazione del momento è una cosa, col passare del tempo invece le cose cambiano. E io infatti non mi ero illuso. A luglio, prima di andare in ritiro a Livigno, Stefano Zanatta, mi fa: «Mirco, prendila con le pinze, ma sei nella rosa della nazionale per l’europeo». Sin lì si parlava solo della strada. Dopo tre giorni, Zanatta mi conferma che ero nella rosa ristretta. Mi dice di dimostrare di essere forte, qualcosa che avrei saputo fare. A quel punto il mio mood era al 200 per cento sulla nazionale. Era tutto vero!
Possiamo immaginare…
Davvero non ho lasciato nulla al caso. Realizzavo il sogno di indossare la maglia azzurra. Io credo sia il massimo per un atleta professionista, di ogni sport, rappresentare la propria nazione. Sin lì l’avevo vista come una cosa inarrivabile. Tanto più che io sono in una professional e non sempre ho la possibilità di stare con i migliori corridori, nelle migliori gare. Il calendario di una professional è diverso da quello di una WorldTour. Però ho sfruttato bene la continuità che mi aveva dato il Giro e la mia costanza di rendimento.
L’emiliano (casco bianco) tra i giganti senza nessun timore. In azzurro si è fatto più che valereL’emiliano (casco bianco) tra i giganti senza nessun timore. In azzurro si è fatto più che valere
Però, nonostante il non essere in un team WorldTour, a livelli alti hai dimostrato che Mirco Maestri ci sa stare. Molto bene su strada, addirittura benissimo a crono.
A crono ero un bel po’ preoccupato, non tanto fisicamente o per i miei numeri, ma perché è noto che le squadre WorldTour curano in modo ben diverso questa disciplina: materiali, body, posizioni… In più io un Team Relay non l’avevo mai fatto e all’inizio non si parlava di questa gara per me. Me lo hanno detto due settimane prima. L’Italia voleva vincere: avevo una pressione non indifferente. L’ultima cronosquadre che avevo fatto ero ancora con la Bardiani e la facemmo per andare all’arrivo. In tre, invece, è ancora tutto più tecnico.
Tu hai un altro anno di contratto con la Polti-Kometa e va benissimo, ma appunto quei calendari sono diversi e a quei livelli ti ci misuri meno…
Per me questa esperienza è motivo di orgoglio. Noi delle professional dobbiamo prendere i ritagli di quel che resta. Dobbiamo anticipare e sperare nella “corsa nella corsa”. Come poi è andata quel giorno con Alaphilippe. Poi è chiaro che devi stare bene. Io in quella tappa ho fatto una delle mie migliori prestazioni assolute, ma ripeto… abbiamo anticipato.
Alaphilippe e Maestri in fuga al Giro. Partirono quando mancavano 124 km al traguardo. Due corridori che piacciono al pubblicoAlaphilippe e Maestri in fuga al Giro. Partirono quando mancavano 124 km al traguardo. Due corridori che piacciono al pubblico
Chiaro…
Mentre all’europeo ho corso come in una WorldTour e mi ci sono trovato bene, anche se mai avevo gareggiato così in precedenza e cioè controllando la corsa, avendo il capitano dietro da proteggere. Ed è quello che potrei fare in una squadra grande. Io sono più abituato ad attaccare liberamente. Mi ha fatto piacere quel che mi ha detto Trentin: «Non c’è bisogno che dica niente. Lavori bene». E’ anche vero che ho 33 anni e 10 anni di professionismo: ce ne vuole per crescere e non imparare nulla!
E invece quanta consapevolezza ti ha dato questa esperienza? Il prossimo anno parti con le spalle più grosse?
Ammetto che qualcosa è cambiato dal giorno della fuga al Giro con Alaphilippe. Ora in gruppo mi conoscono un po’ di più, anche gli stranieri. Sono più preso in considerazione perché ho dimostrato di avere motore. E forse è proprio quel giorno che ha influito sulla mia convocazione in azzurro. Anche Bennati forse ha ragionato così. Ho visto che preparandomi al 100 per cento qualche soddisfazione personale posso togliermela. Non dico vincere, che per me resta difficile, ma qualche piazzamento in più sì. Anche al Poitou-Charentes, per esempio, se non fosse stata per una fuga nell’ultima tappa avrei fatto secondo nella generale (ha finito sesto, ndr) dopo il secondo posto nella crono.
Dopo l’esperienza all’europeo, Mirco ha gareggiato a crono con il casco della nazionale: stesso brand ma modello leggermente diverso da quello del team
Una bella motivazione…
Io la vivo serenamente. Ma a fine stagionecancelloquel che ho fatto. Ogni anno cerco di ripartire come se fosse il primo anno da professionista. E’ un modo per mantenere vivi gli stimoli, per ripartire con tanti “dubbi” e tanta grinta. Dopo oltre dieci anni la passione per me è sempre la stessa. Voglio dare il massimo per me e per la squadra. Vi dico questa…
Vai…
Ivan Basso mi ha voluto in questa squadra e ci sono andato nonostante avessi pronto un contratto di due anni con la Bardiani. Lui me ne offriva uno. Ma ho rischiato. Ho sentito la fiducia sua e quella di Zanatta, due che hanno colto i grandi successi della Liquigas. Per me la Bardiani era la squadra di casa: ho pianto due giorni dopo che l’avevo lasciata. Ivan è stato il primo a chiamarmi dopo la crono dell’Europeo. Gli ho detto che se ero lì, era grazie a lui. A lui e a Zanatta, che mi fanno sentire importante, mi danno fiducia e responsabilità. A volte anche piccole parole solo per aver portato il velocista all’ultimo chilometro fanno bene. Piccole cose che spesso si danno per scontate, ma fanno bene. A livello psicologico danno una marcia in più.