Il Lussemburgo di Tiberi e il precedente di Pasqualon

27.09.2024
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La vittoria di Antonio Tiberi al Giro del Lussemburgo ha fatto scalpore. Pur non essendo una prova WorldTour, la gara ha sempre avuto un parterre di grande rilievo essendo considerata una delle prove a tappe più prestigiose della fase finale della stagione. L’ultimo italiano che era riuscito a portarla a casa era stato Andrea Pasqualon nel 2018 e la cosa colpisce, vista la differenza tecnica fra i due, che tra l’altro sono anche diventati dal 2023 compagni di squadra.

Pasqualon non è certo specialista delle corse a tappe, c’è da credere quindi che le due edizioni della prova lussemburghese, a 6 anni di distanza l’una dall’altra, siano state diverse: «Effettivamente quando ho vinto io – ricorda il veneto – non c’era la cronometro e per Antonio è stata importante. Allora si correva un prologo di un paio di chilometri. Io costruii la mia vittoria grazie agli abbuoni, vincendo due tappe e finendo terzo nelle altre due. Era una corsa diversa, si disputava a inizio giugno prima del Tour, ma non era piatta, questo è sicuro, i percorsi erano abbastanza simili a quelli che ho visto, con continui saliscendi e occasioni di fuga».

Pasqualon sul podio del Giro del Lussemburgo 2018, sua unica vittoria in una classifica a tappe (foto Waldbillig)
Pasqualon sul podio del Giro del Lussemburgo 2018, sua unica vittoria in una classifica a tappe (foto Waldbillig)
Che similitudini vedi fra la vittoria tua e quella di Tiberi?

Poche perché abbiamo caratteristiche diverse. Per certi versi mi rivedo più in Van der Poel che ha perso la maglia l’ultimo giorno. Io la conquistai il terzo e l’ho gestita come stava facendo l’olandese, che non ha avuto però la squadra a supportarlo nell’ultima frazione. Ricordo che nell’ultima tappa molte squadre provarono ad attaccarmi e i miei compagni della Wanty-Groupe Gobert lavorarono tantissimo per tenere la corsa, ma nella parte finale dovetti muovermi io da solo, a chiudere sull’ultimo strappo. VDP si è trovato solo troppo presto, non poteva chiudere su tutti e a un certo punto ha dovuto rischiare lasciando spazio. Antonio è stato bravo ad approfittarne.

La sua vittoria ti ha sorpreso?

No, è un corridore adattissimo per quel tipo di corse. Soprattutto per un giro con poca pianura e dove si pedala sempre al limite, con strappi continui e dove l’evoluzione della corsa porta a far sgranare il gruppo. Tiberi è il classico passista veloce a suo agio su tracciati come quelli. Ma la sua è stata soprattutto una vittoria di testa.

Tiberi sul podio, la faccia delusa di VDP dice tutto sull’andamento dell’ultima tappa…
Tiberi sul podio, la faccia delusa di VDP dice tutto sull’andamento dell’ultima tappa…
Che cosa intendi dire?

Antonio ha avuto la genialità di attaccare, di non accontentarsi del piazzamento e provare a ribaltare la situazione leggendo la corsa e le difficoltà a cui sarebbe andato incontro VDP senza compagni intorno. Ha scelto il momento giusto, è andato fortissimo e gli è andata bene. Ha vinto perché ha saputo rischiare.

Effettivamente non accade spesso per un corridore italiano trovarsi nel vivo della corsa e giocarsi le sue carte, soprattutto per uno giovane e appartenente a un team del WorldTour. Perché?

Questo è un tema delicato. Teniamo innanzitutto conto che corriamo in un ciclismo con 4-5 fenomeni che sono abituati a intervenire, ad attaccare già a metà corsa. Questo anticipa i tempi, diventa difficile sorprenderli e si prova a farlo nelle fasi iniziali. Per questo si cerca la fuga dall’inizio, sperando che la corsa si metta in modo che permetta il loro arrivo. Ma questo significa anche altro.

Decisiva per il veneto fu la vittoria nella terza tappa, guadagnando secondi preziosi con gli abbuoni
Decisiva per il veneto fu la vittoria nella terza tappa, guadagnando secondi preziosi con gli abbuoni
Ossia?

Se fossi oggi uomo da classifica mi metterei le mani nei capelli… Questo è il peggior periodo, per emergere devi avere numeri mostruosi. Guardate che cosa fa la Uae: non ha solo Pogacar, ma tutti gli appartenenti potrebbero essere capitani in altri team, è difficile andarci contro. Bisogna saper leggere le corse, cogliere ogni occasione e noi siamo abbastanza bravi nel farlo. Tiberi lo ha fatto, non si è accontentato del piazzamento di cui non avrebbe parlato nessuno, invece la sua vittoria ha avuto un risalto enorme ed è questo di cui il ciclismo italiano ha bisogno.

Veniamo a te, come va ora dopo la rinuncia al campionato europeo per il quale eri stato convocato?

A me la maglia azzurra non porta molta fortuna… Anche lo scorso anno fui costretto a rinunciare a correre il mondiale per la fatica accumulata nel sostenere Mohoric al Giro di Polonia. Quest’anno sono caduto in allenamento e le ferite riportate mi hanno costretto a due settimane di stop. Ora sono già al lavoro da una settimana e punto alle classiche di fine stagione, dall’Emilia all’Agostoni al Gran Piemonte, per essere competitivo e d’aiuto a Tiberi, Zambanini, Bilbao.

Tiberi ha costruito la sua vittoria sul 2° posto a cronometro, poi il giorno dopo ha chiuso 4°
Tiberi ha costruito la sua vittoria sul 2° posto a cronometro, poi il giorno dopo ha chiuso 4°
Come ti trovi in questa nuova dimensione di aiutante?

Mi piace molto il gregariato per come lo intendo io, ossia essere d’aiuto nelle fasi salienti della corsa, supportare i capitani nell’approccio ai momenti topici come anche pilotare Bauhaus nelle volate. Vedo che il team crede in me e io voglio aiutare a ottenere più risultati possibile, che sento anche miei, quelli di Tiberi al Giro come anche il 6° e 7° posto di Mohoric e Zambanini in Polonia. Dove c’è da sgomitare e prendere aria, io ci sono, i ragazzi mi ringraziano per quel che faccio e questo mi gratifica. Alla mia età ormai un piazzamento non darebbe nulla di più, questa dimensione mi si confà meglio per finire la carriera con dignità.

Salvoldi corona il suo triennio con la maglia iridata

27.09.2024
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ZURIGO (Svizzera) – Siamo sempre stati abituati a vedere Dino Salvoldi come un uomo dal carattere duro, come il suo sguardo. Alto, con un piglio o fermo e deciso, tanto da incutere timore e richiamare rispetto. Invece quando lo vediamo arrivare in mixed zone per le interviste post mondiale l’emozione e la commozione hanno preso il sopravvento. Lorenzo Finn ha appena vinto la prova iridata su strada tra gli juniores con una bellissima azione dal lontano. Ha viaggiato per tutti gli ultimi 20 chilometri da solo, si è girato spesso a parlare con l’ammiraglia nella quale era seduto il cittì. A due chilometri dalla fine quella vettura ha affiancato il giovane scalatore azzurro e solo Dio sa cosa si sono detti

«Non ce n’era per nessuno oggi – dice con fare orgoglioso Salvoldi – Lorenzo (Finn, ndr) è andato fortissimo. Ha attaccato fin da subito, diciamo molto prima di quanto avevamo ipotizzato in partenza. Evidentemente era la sua giornata, soprattutto in salita. Non ha avuto rivali».

Dino Salvoldi insieme ai cinque azzurri che hanno corso a Zurigo
Dino Salvoldi insieme a quattro dei cinque azzurri che hanno corso a Zurigo

Un lungo cammino

I passaggi che hanno portato alla vittoria di Lorenzo Finn sono iniziati in primavera, quando Salvoldi ha iniziato a costruire un gruppo sul quale lavorare in vista degli eventi della stagione (i due sono insieme nella foto di apertura di Federciclismo / Maurizio Borserini). 

«Come nazionale – prosegue – abbiamo condiviso un bel percorso di avvicinamento al mondiale. Proprio con voi avevo chiesto di aspettare oggi prima di fare un bilancio di questi tre anni di gestione del gruppo juniores. Oggi abbiamo raggiunto e conquistato un titolo che nella categoria mancava da 17 anni. Il risultato di Finn secondo me deve essere interpretato come un bello spot per il nostro ciclismo giovanile. Prima di quello di oggi, nel corso dei tre anni, sono arrivati anche tanti risultati in altri campi, come la pista. Tutto questo è la dimostrazione che applicandosi, con metodo, non siamo poi così distanti dagli altri. I ragazzi che hanno voglia di emergere e hanno fame agonistica ce li abbiamo anche noi. Certo dobbiamo fare questo step tutti insieme».

Salvoldi arrivava dalla rassegna iridata juniores su pista, molto fruttuosa anche quella
Salvoldi arrivava dalla rassegna iridata juniores su pista, molto fruttuosa anche quella
Finn è uno di loro, quando ti sei reso conto che era davvero la giornata giusta?

Un po’ prima, quando ha attaccato nel giro precedente all’ultimo passaggio sotto lo striscione d’arrivo. Era rimasto in un gruppo di 15 corridori con tante squadre formate da coppie. Finn è un ragazzo meticoloso, quindi probabilmente aveva già ragionato decidendo di anticipare. Ha pensato che poi gli sarebbero andati sotto i più forti, tenendo quella distanza di controllo. 

Poi sono rientrati e davanti erano in sei. 

In quel momento l’attenzione si è spostata su Philipsen, che era il campione del mondo in carica. Credo però che fosse nervoso, si è mosso spesso e in alcuni momenti male. Finn ne aveva di più, la sua azione da lontano lo ha dimostrato. Poi era proprio tranquillo nel fare le cose, non ha mosso passi azzardati, fondamentalmente ha attaccato due volte e gli sono bastate per vincere.

Una parte importante del lavoro di Salvoldi sono i ritiri, dove i ragazzi costruiscono il gruppo e il feeling
Una parte importante del lavoro di Salvoldi sono i ritiri, dove i ragazzi costruiscono il gruppo e il feeling
Quando lo hai affiancato a due chilometri dall’arrivo che gli hai detto?

Chiedete a lui, non me lo ricordo, ero in trance agonistica. 

Invece quando ai 400 metri siete entrati nella corsia delle ammiraglie, perdendolo di vista, cosa hai pensato?

C’è sempre un po’ di apprensione per il disguido che può succedere all’improvviso. Però c’è stato un flashback su tutto, anche il mio percorso professionale. Chiaramente questa emozione mi mancava, a me e ai miei uomini, tutti. Ho ripensato a tutto quello che c’è stato prima, proprio in modo super rapido, e dici questa ci mancava, doveva arrivare e ce l’abbiamo fatta.

Il campionato del mondo su strada è il successo che mancava nella carriera da cittì di Salvoldi
Il campionato del mondo su strada è il successo che mancava nella carriera da cittì di Salvoldi
In questi tre anni hai trovato tanti ragazzi, costruendo un cammino con loro. 

Vero che oggi ha vinto Finn, ma è il coronamento di un percorso, che è iniziato cercando un dialogo con chi c’era da prima di noi. Abbiamo cercato di imparare, di informarci e di proporre anche un metodo che chiaramente ha bisogno di tempo per essere attuato. Perché i miracoli nello sport di alto livello non esistono. O almeno, io ci credo poco. Quindi oggi si chiude un triennio con uno dei più bei successi che si possono ottenere, e ripeto: credo che sia un bene per tutto il nostro movimento e di questo sono particolarmente contento. 

Cham, parlano gli sloveni. E Pogacar sfida Evenepoel

27.09.2024
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CHAM (Svizzera) – Si capisce che la Slovenia abbia la certezza di essere diventata una grande nazione del ciclismo quando viene annunciato che la conferenza stampa di Pogacar e Roglic si svolgerà inizialmente in sloveno. I primi 15 minuti per loro e i quindici successivi per noi che invece ricorriamo all’inglese.

Prima dell’inizio, il microfono viene ceduto ad Hans-Peter Strebel, un medico che con due colleghi ha messo a punto una terapia modificatrice della sclerosi multipla recidivante, della quale hanno beneficiato circa 600.000 pazienti in tutto il mondo. E’ lui il proprietario di OYM, l’hotel per sportivi in cui alloggia la Slovenia, pieno di impianti sportivi e la cucina con 8 chef e nutrizionisti che cucinano per gli atleti.

Hans-Peter Strebel è il proprietario dell’hotel OYM, ma anche un medico di fama
Hans-Peter Strebel è il proprietario dell’hotel OYM, ma anche un medico di fama

La Slovenia cresce

Poi dopo il meritato applauso e la sua richiesta almeno di menzionarlo, inizia il flusso delle domande in sloveno. Pur registrando le risposte da decifrare con qualche provvidenziale traduttore, non si può far altro che guardarsi intorno e scrutare le espressioni sul volto dei due campioni che domenica in corsa dovranno aiutarsi oppure evitare di pestarsi i piedi.

«Il flusso dei giornalisti è per noi – dice il cittì Uros Murn – ogni anno devo dire che la nostra nazionale cresce. Ogni anno siamo più bravi ad attirare sempre più attenzione e penso che questo sia un ottimo segnale per gli sloveni e il ciclismo sloveno. Siamo tutti consapevoli che sarà necessario fare qualcosa nella corsa su strada e credo che da un lato questa sia una grande sfida per loro. Dall’altro credo che abbiano bisogno di un po’ di incoraggiamento prima della corsa forse più importante della loro carriera».

Pogacar ha già raccontato più volte che la fatica di Glasgow 2023 fu per lui impressionante
Pogacar ha già raccontato più volte che la fatica di Glasgow 2023 fu per lui impressionante

Mondiale e classiche

Si comincia con Pogacar. La stanza è un anfiteatro, i corridori sono in basso sulle poltroncine. Ricordiamo tutti quando Tadej, dopo il terzo posto nel mondiale di Glasgow 2023, disse di esserne uscito distrutto. La corsa più dura della sua vita.

«Il mondiale è una gara molto diversa – dice – è una gara di un giorno con la nazionale, cosa che non facciamo quasi mai. L’anno scorso è stata una delle gare più dure che abbia mai fatto, perché non era percorso adatto a me. Era troppo esplosivo nelle ultime 3 ore di gara, quindi dopo l’arrivo ero davvero esausto. Quest’anno però il percorso è molto meglio e così vedremo cosa ci riserva la gara.

«E’ diverso da una classica. Corriamo tutto l’anno con la squadra. In teoria potresti paragonare i monumenti ai campionati del mondo, ma quelli lì corri con la squadra dove i compagni potrebbero essere migliori rispetto a quelli della nazionale. Si tratta di dinamiche diverse. Anche il fatto che non hai le radio in gara e che si corra in circuito fa la differenza rispetto a una gara che si svolge da una città all’altra».

Pogacar è parso sicuro di sé, soprattutto nel ridimensionare le chance degli avversari
Pogacar è parso sicuro di sé, soprattutto nel ridimensionare le chance degli avversari

Un grande obiettivo

Roglic seduto accanto ascolta e deve aver capito che la maggior parte delle domande sarà per il giovane compagno di nazionale, che già una volta gli ha tolto il Tour e adesso gli porta via la luce. Sapranno convivere? E mentre facciamo questa riflessione, la domanda per Pogacar riguarda la maglia iridata.

«La maglia iridata è qualcosa di veramente speciale nel ciclismo – ammette – la maglia più unica. Tutti la vogliono, credo. Puoi indossarla tutto l’anno e ti definisce come il miglior ciclista del mondo. Quindi ovviamente è un grande obiettivo per me da un paio d’anni. Mi impegnerò. E se non sarà quest’anno, ci riproverò nei prossimi».

A Roglic parrebbe affidato un ruolo da comprimario, ma è davvero così remissivo?
A Roglic parrebbe affidato un ruolo da comprimario, ma è davvero così remissivo?

Il precedente di Imola

La memoria va a quando Pogacar e Roglic si ritrovarono in nazionale a Imola 2020, appena dopo lo… scippo della maglia gialla da parte di Pogacar. Già allora ci si chiedeva come avrebbero convissuto, ora la curiosità esplode. Lavorerete insieme? Roglic ride e prova a sviare, poi risponde.

«Se si tratta di tattiche e cose del genere – dice – io non sono io il tipo giusto, chiedete al nostro tecnico. Penso a tutti gli scenari che possono accadere e a come reagiremo. Mi sono detto spesso che Tadej sta vincendo tutte le gare di un giorno, quindi è uno dei migliori. Io ne faccio solo un paio all’anno, forse neanche quelle, quindi è una bella sfida».

«Abbiamo una squadra davvero forte – si inserisce Pogacar – grandi nomi e grande squadra. Direi una delle migliori al mondo di sempre. Abbiamo due carte molto forti, forse anche tre, da giocare nel finale. Quindi penso che siamo avvantaggiati in questo, ma dobbiamo comunque stare attenti e correre in modo intelligente».

Pogacar e Roglic in gara a Imola 2020, poche settimane dopo il Tour soffiato da Tadej a Roglic
Pogacar e Roglic in gara a Imola 2020, poche settimane dopo il Tour soffiato da Tadej a Roglic

A proposito di Van der Poel

Di nuovo per Pogacar, che ha ascoltato con attenzione le parole del primo mentore. Parla un collega olandese e gli chiede se a suo avviso Van der Poel potrà difendere la maglia iridata.

«Mathieu è in buona forma – dice – e l’anno scorso ha conquistato la maglia iridata molto bene e altrettanto bene l’ha vestita. Ha ottenuto vittorie davvero incredibili, ma domenica è un’altra gara in cui dovrà difendere il titolo. E’ un po’ più dura per lui, c’è un po’ più di salita. Ho sentito da qualche parte che ha perso un chilo e mezzo, forse è stato bravo a prepararsi solo per questa corsa. Vedremo come andrà, non possiamo escluderlo. Lo teniamo sicuramente a mente per il finale, può essere pericoloso se si sveglia in una buona giornata.

«Ci sono molte salite – prosegue – nessuna davvero lunga. Ma anche dopo la salita, non c’è una discesa dritta, quindi non c’è molto tempo per recuperare. Immagino tanti scenari diversi e fra questi mi viene da dire che c’è tanto spazio per attacchi a lungo raggio o per rendere la gara più dura. E’ davvero difficile dire quale salita farà la differenza, ma penso che la differenza sarà nei chilometri finali».

Hirschi lascia la UAE Emirates: un eventuale successo porterebbe la maglia iridata alla Tudor Pro Cycling
Hirschi lascia la UAE Emirates: un eventuale successo porterebbe la maglia iridata alla Tudor Pro Cycling

A proposito di Hirschi

I discorsi vanno avanti. Gli chiedono come se la caverebbe in un finale allo sprint e lui risponde che non immagina un grande gruppo. E in ogni caso aggiunge che lo sprint dopo 270 chilometri è qualcosa di completamente diverso rispetto ad altre situazioni. Piuttosto, fra i rivali da tenere d’occhio, Tadej ha già inserito da tempo Marc Hirschi, che alla fine dell’anno lascerà la AUE Emirates, per approdare alla Tudor Pro Cycling. Poi l’attenzione approda ai piedi di Roglic, cercando di capire come si senta.

«Ora mi sento bene – risponde – vedere come mi sentirò dopo i 250 chilometri è sicuramente un’altra questione. Alla fine in questa settimana ho fatto quello che potevo, per cercare di prepararmi bene».

Pogacar applica l’adesivo della sua fondazione sulla nuova Colnago appena presentata
Pogacar attacca l’adesivo della sua fondazione sulla nuova Colnago appena presentata

Forchettata a Evenepoel

La chiusura, prima che Pogacar si trattenga per raccontare la bicicletta con cui correrà il mondiale, lo porta a parlare di Remco Evenepoel. A ben pensarci, è la prima volta che i due si sfidano nella corsa di un giorno, dopo la caduta di Pogacar alla Liegi di due anni fa e quella di Remco ai Paesi Baschi del 2024.

«Remco sembra super bravo nella crono – spiega Pogacar – ha gestito bene anche la pressione dopo il salto della catena sulla linea di partenza. Da quello che ho letto, non aveva il misuratore di potenza, quindi immagino che si sia preparato davvero bene, soprattutto per la cronometro. E’ la disciplina in cui brilla di più ma penso che domenica sarà un gioco diverso».

Nella pioggia di Zurigo risplende l’arcobaleno di Finn

26.09.2024
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ZURIGO (Svizzera) – Gli ultimi mille metri di Lorenzo Mark Finn sono un tuffo al cuore. Lui se la prende con calma, gli avversari sono andati, naufragati sotto la pioggia e i colpi di pedale del ligure silenzioso e determinato. Le mani vanno al casco, poi si gira e cerca l’ammiraglia dove c’è Dino Salvoldi, il cittì che ha guidato la nazionale juniores al titolo iridato. Dietro Finn il vuoto. Il secondo, l’inglese Sebastian Grindley, arriva con più di due minuti di ritardo, il gruppetto che si gioca l’ultimo gradino del podio è oltre i tre minuti. E’ stato il più forte Lorenzo Finn, ha gestito la corsa in maniera perfetta, dimostrando una maturità incredibile per chi non è abituato a vederlo in azione. 

Uno a uno

La maglia azzurra, anzi la giacca primaverile visto il freddo e la pioggia presi oggi dai ragazzi, si staglia sul fondale del palco sul quale avvengono le premiazioni. L’inno di Mameli suona, appena l’ultima nota smette di vibrare nell’aria di Zurigo il boato dello staff sotto al podio arriva fino nella mixed zone. Finn ha un sorriso appena accennnato sul suo volto giovane, chi lo ha visto spesso sa che non si lascia andare a grandi emozioni. Queste, invece, le abbiamo provate noi, quando lo abbiamo visto scollarsi di ruota tutti gli avversari. L’ultimo a resistergli è stato lo spagnolo Hector Alvarez, ma un’accelerazione di Finn è bastata per lasciarselo alle spalle. 

Arriva nella zona mista, passo lento, accompagnato da Christian Schrot, il suo team manager alla Grenke Auto Eder, e da tutto lo staff azzurro. Arriva davanti a noi e quella maglia splende, così come la medaglia che gli pende dal collo

«Non so come descrivere la sensazione di indossare questa maglia – dice Finn – però tra qualche ora magari lo realizzerò. Devo dire che ho avuto delle sensazioni veramente buone tutto il giorno». 

Tutto misurato

Prima della partenza, al bus Vittoria che ospita gli azzurri in questa rassegna iridata, Finn ha chiesto di cambiare la pressione degli pneumatici. 4,3 bar al posteriore e 4 all’anteriore, vista l’acqua caduta e l’asfalto viscido meglio fare qualche accorgimento. Scende le scalette per ultimo, si guarda intorno, va alla bici e con cura monta il ciclocomputer. Tante azioni mirate, precise e calme. Prima di partire parla ancora con Salvoldi, si scambiano le ultime battute. Monta in bici e si dirige alla partenza. La gara esplode subito, i danesi sono indemoniati e fanno un ritmo pauroso. Una caduta lascia il gruppo decimato, si arriva sul circuito finale con una media, nella prima ora, di 46 chilometri orari. 

Scatti e controscatti, allunghi, Philipsen è inferocito e si muove in tutte le direzioni. Ad un certo punto però è Finn a partire tutto solo, ma di chilometri all’arrivo ne mancano tanti.

«Il piano iniziale – spiega – non era andare da solo a 70 dall’arrivo però è successo. Eravamo tutti in fila indiana dopo la discesa e io ero davanti, quindi era un buon momento per attaccare, però sì, nessuno mi ha seguito. Ho pensato che un attacco avrebbe potuto fare male, di sicuro avrebbero fatto una bella fatica per rientrare. Anche una volta davanti mi sono gestito, non sono andato mai fuorigiri. Poi sono rientrati Philipsen e gli altri. In quel momento ho realizzato che mi sarei potuto giocare una medaglia. Ho contato quelli rimasti, erano quelli che mi sarei aspettato di trovare a quel punto. Tutti tranne Seixas

Mezz’ora da solo

L’ultimo passaggio sul traguardo avviene ai 27 chilometri dall’arrivo, con quattro corridori al comando: Philipsen, Alvarez, Grindley e il nostro Finn. Un veloce slalom nelle curve di Zurigo e si punta alla salita di Witikon. Nel risciacquo che porta a quei 1.400 metri Philipsen scivola e davanti rimangono in due: Alvarez e Finn. Lo spagnolo resiste pochi metri e poi diventa una lunga cavalcata fino all’arrivo: 20 chilometri. 

«Philipsen – spiega il neo campione del mondo juniores – è caduto nel tratto in discesa. Ero davanti io e lui in una curva è scivolato, probabilmente ha pinzato troppo con il freno anteriore. Spero stia bene. Ho guardato negli occhi Alvarez, ho parlato con lui ma avevo già visto sulle salite precedenti che non riusciva a stare al mio passo. Ho dato un’accelerazione e si è staccato subito. Quei 20 chilometri da solo sono volati e mi sono divertito, nonostante la tanta pioggia». 

Mille metri, mille pensieri

Quando Lorenzo Finn ha visto il triangolo rosso si è rialzato, ha messo le braccia sulla parte alta del manubrio e si è goduto ogni centimetro. Cosa passa nella testa di un ragazzo di 18 anni quando realizza di essere a soli mille metri dalla maglia iridata?  

«E’ stato un chilometro un po’ surreale devo dire – conclude Finn – però sì me lo sono goduto. Mi sono tornati in mente tutti i sacrifici fatti durante la stagione e i momenti difficili. Quando mi sono rotto la clavicola ad aprile, il secondo posto al Giro della Lunigiana di qualche settimana fa… Ora sono pronto per il futuro, non posso dire cosa farò. Ci sarà il tempo di farlo».

Presentata a Zurigo la nuova BMC Teammachine R: un capolavoro

26.09.2024
9 min
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ZURIGO (Svizzera) – Il truck del Tudor Pro Cycling Team è il riparo perfetto dalla pioggia. Siamo qui per la presentazione della nuova BMC Teammachine R Mpc. La sigla identifica la tecnologia Mpc, acronimo di Masterpiece. Sugli sgabelli per presentarla, il padrone di casa Fabian Cancellara, ma anche Stefan Christ, responsabile del reparto Ricerca e Sviluppo. E’ una sorta di talk, in cui si gira intorno alla bicicletta e alla filosofia che l’ha creata.

Quattro punti chiave

«Penso che in sostanza – dice Stefan – siano quattro le cose che rendono MPC molto speciale. La prima è la precisione del layup e questa è davvero la chiave. Essere precisi al 100 per cento con ogni patch in fibra di carbonio che inserisci. Questo ci consente di dare a ogni porzione di fibra una funzione in modo che possa davvero sopportare il carico. E questo è il motivo principale per cui il telaio può essere effettivamente più leggero.

Stefam Christ è responsabile della ricerca e lo sviluppo di BMC
Stefam Christ è responsabile della ricerca e lo sviluppo di BMC

«La seconda cosa, che in qualche modo dimentichiamo sempre ma è ancora molto speciale, è che con la tecnologia Mpc abbiamo degli strumenti che ci consentono di produrre l’intero telaio in un unico pezzo. Non ci sono incollaggi, non c’è nessuna congiunzione sul telaio. E questo, ancora una volta, ci consente di risparmiare peso.

«La terza cosa è che possiamo saltare tutti i passaggi di finitura – prosegue Stefan – che si tratti di levigatura o verniciatura. Quello che vedete qui è il prodotto, come esce dallo stampo. Quindi non c’è bisogno di alcun trucco, perché non dobbiamo truccare nulla. E naturalmente, non dover applicare la finitura fa anche risparmiare peso.

«Infine la quarta cosa è che questo telaio viene prodotto in un posto abbastanza vicino alla Svizzera e per questo torniamo al nome Masterpiece. Per realizzare un telaio del genere, servono persone con un know-how e un set di competenze molto specifici, persino la loro manualità. In ogni fase di lavoro ci sforziamo di raggiungere la perfezione e questo non sarebbe possibile in un contesto di produzione di massa. Il telaio è realizzato in un posto dove la mentalità è molto vicina alla nostra. Intendo dire: persone che conoscono la Svizzera e ciò per cui la Svizzera è famosa».

Zero vernice

La bici è nera e priva di verniciatura e fa bella mostra di sé. Siamo riusciti a guardarla da vicino e fotografarla in attesa che arrivasse Cancellara, che ha avuto il privilegio di svilupparla con i tecnici di BMC. Solo che poi ha dovuto restituire tutti i campioni e nel dirlo ride disperato. Si capisce che Fabian e la sua squadra siano diventati partner privilegiati dello sviluppo dei nuovi prodotti.

«Viviamo insieme – dice Fabian – collaboriamo e non perdiamo tempo in stupidaggini. Andiamo davvero avanti e osiamo quando siamo in corsa. Penso che sul fronte della performance ci impegniamo e ci sosteniamo a vicenda. Nella famiglia BMC ci sono brave persone, che ci sostengono e che si sfidano a vicenda e poi trovano la strada giusta per permetterci di vincere le gare di ciclismo. BMC è sinonimo di performance e penso che Masterpiece sia il punto in cui prestazioni, ingegneria e produzione si fondono nel migliore dei modi. Utilizzano un metodo di produzione davvero unico, che permette di aumentare le prestazioni a livelli davvero estremi.

Prima della presentazione, Cancellara ha osservato a lungo la bici
Prima della presentazione, Cancellara ha osservato a lungo la bici

«Ovviamente quando l’ho provata, ho sentito delle differenze, anche ora che ho un po’ più di chili addosso. Ma credo che alla fine la sensibilità sia ancora lì e credo di averla ancora. Per questo, quando mi chiamano e mi chiedono se avrei voglia di provare una bici, rispondo sempre di sì. Perché mi piace e mi entusiasma. Naturalmente dare dei feedback è una responsabilità».

Quattro giorni di lavoro

Stefan riprende la parola. Le domande si susseguono e questa volta la curiosità di chi conduce l’incontro verte sulle tecniche di produzione che fanno di questa bicicletta, realizzata in collaborazione con Red Bull Advanced Technologies, qualcosa di raro. Sarà prodotta in poche centinaia all’anno, perché ogni cosa che la riguardi richiede tempi più lunghi.

«Nel complesso – dice – abbiamo visto l’opportunità di creare qualcosa di eccezionale. Siamo stati in grado di eliminare i vincoli che si hanno nella normale produzione del carbonio. Il fatto di non guardare alla produzione di massa, ma di concentrarsi sulla perfezione, ha rappresentato un grande passo e un nuovo punto di partenza. Siamo stati in grado di fare cose molto diverse perché sapevamo che non ne avremmo fatte molte, ma ognuna di esse doveva essere perfetta. 

«Per darvi un’idea, produrre un telaio così comporta circa due giorni di lavoro di un solo operaio. In questi due giorni, uno intero viene dedicato solo a mettere le fibre al posto giusto. Nella produzione tradizionale, questo avviene in circa quattro o sei ore e viene fatto da più mani diverse. Quindi il lavoro viene suddiviso tra diversi operatori. Inoltre nella produzione standard, si dedica molto tempo per realizzare la finitura e rendere il telaio un prodotto gradevole. Naturalmente qui è un po’ diverso».

Rigidità, peso, comfort, aerodinamica

E allora Christ va avanti a dire che in BMC dedicano più tempo all’accuratezza e alla precisione della stratificazione del carbonio, risparmiando così molto tempo nella finitura. E poi si passa agli obiettivi di questa realizzazione, che deve conciliare più esigenze in una sola bici.

«La sfida – spiega Stefan Christ – è quella di realizzare una bicicletta che abbia un alto punteggio in tutti tipi di prestazione. Intendo rigidità, peso, comfort e aerodinamica. Quattro aspetti che in qualche modo sono in lotta tra loro perché non è facile combinarle. Credo che tutti sappiamo quanto sia facile realizzare una bicicletta superleggera, scendendo a compromessi altrove. Idem se si vuole realizzare una bicicletta molto aerodinamica, ma con un peso di 7,5 chili. Noi abbiamo cercato di ottenere un punteggio altissimo in tutte le prestazioni. Ci sono voluti molti dati di simulazione per combinare leggerezza e aerodinamica. Penso che sia questo il punto in cui abbiamo fatto il più grande passo avanti.

«La rigidità invece è qualcosa che nel ciclismo professionistico tutti vogliono per il trasferimento di potenza e per la precisione di guida. Essa è sempre stata parte integrante della ricetta delle nostre bici da corsa, su questo non scendiamo mai a compromessi. La vera sfida è stata l’ottimizzazione fra leggerezza e aerodinamica, che abbiamo raggiunto grazie a molte simulazioni. Quindi direi che Teammachine R si distingue davvero dalla massa ed è eccellente su ogni terreno». 

La presentazione si è svolta sul truck del Tudor Pro Cycling Team
La presentazione si è svolta sul truck del Tudor Pro Cycling Team

Il limite è nel peso

Cancellara racconta le sue sensazioni sui vari prototipi provati. Dice che non si stupirebbe se i suoi corridori un giorno dovessero chiedergliela e viene da immaginare che per un Alaphilippe o lo stesso Hirschi una bici del genere potrebbe essere lo zuccherino che stimola l’ambizione. La bici arriva facilmente a 6,8 chili e lo svizzero sottolinea che i limiti di peso e la bontà delle bici già in loro possesso fa sì che i corridori debbano solo preoccuparsi di andare forte. L’incontro volge al termine, quella bici è bellissima e ci resta addosso solo la voglia di provarla. E’ disponibile presso i rivenditori proprio da settembre e il prezzo del kit telaio è di 8.999 euro. Fuori continua a piovere. La gara degli juniores nel frattempo è entrata nel vivo.

Il mondiale di Silo: orgoglio, forza e tanto carattere

26.09.2024
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ZURIGO (Svizzera) – La gara di Giada Silo termina dopo il traguardo, nonostante i crampi che le hanno bloccato entrambe le gambe a 100 metri dalla linea d’arrivo e l’hanno fatta cadere rovinosamente. E’ testarda la ragazzina della Breganze Millenium, al primo anno nella categoria juniores e protagonista di una corsa da prima della classe. Dopo qualche minuto si rialza, parla con lo staff a bordo strada e lentamente riparte. Alla fine l’ordine di arrivo recita un 58° posto a 7 minuti e 25 secondi dalla vincitrice Cat Ferguson. Ma la prestazione di Giada Silo non si racchiude nei numeri, bensì nella forza e nella volontà di dare quel qualcosa in più.

Il podio di Zurigo: oro per Cat Ferguson, argento e bronzo a Paula Ostiz e Viktória Chladonová
Il podio di Zurigo: oro per Cat Ferguson, argento e bronzo a Paula Ostiz e Viktória Chladonová

Il dispiacere del cittì

Il podio iridato si delinea a una ventina di chilometri dal traguardo, a pochi metri dallo scollinamento della salita di Witikon, sul circuito finale. Giada Silo era in coda a Cat Ferguson, Paula Ostiz e Viktória Chladonová. Uno sforzo enorme, iniziato quando la corsa era ancora lontana dal prendere una forma. Le inglesi hanno iniziato a modellare il gruppo a loro piacimento, con attacchi e contrattacchi. L’azzurra ha seguito, sempre, in ogni istante. Paolo Sangalli ne aveva parlato proprio con Giada al bus durante il riscaldamento. 

«Le ragazze – racconta dopo l’arrivo – hanno fatto quello che ci eravamo detti prima di partire, la gara è uscita esattamente come avevamo programmato. Noi c’eravamo, Giada Silo è primo anno, ha fatto una gara eccezionale, le sono mancati quei 30 secondi sulla salita. Però ci sta per una ragazza alle prime esperienze, quindi sono davvero contento. Quello che più mi spiace è il mancato piazzamento, avrebbe fatto come minimo sesta. Era lì e si stava giocando tutto il volata, lo avrebbe meritato. Ma la cosa importante è che non si sia fatta male».

Un soffio

Racchiudere questa corsa nei numeri sarebbe un peccato e una mancanza di rispetto per la fatica e l’impegno messo dalle ragazze di Sangalli. Tutte hanno fatto la loro parte, si sono prese carico dell’andamento della gara facendosi trovare nel posto giusto al momento giusto. 

«Non solo Silo meritava il piazzamento – continua – ma tutta la squadra. Hanno corso davvero bene, sono state dei colossi. La Ferguson la conosciamo, ha già vinto con le elite, sono state brave a non aver timore. Dico che se lo sarebbero meritate tutte perché l’impegno è stato impareggiabile, ma le corse sono così. E’ successa una cosa che a memoria non ricordo, quindi prendiamo davvero il positivo perché hanno fatto una gran gara, muovendosi da squadra. L’obiettivo è quello di correre come le grandi, come le nostre elite e loro l’hanno fatto. Queste ragazze sono qua chiaramente per cercare il risultato massimo, ma anche per crescere. Il ciclismo non finisce nella categoria juniores ma inizia. E’ un’esperienza che servirà quando passeranno prima under e poi elite».

L’orgoglio della Silo

Giada Silo scende dal pullman azzurro ancora con le lacrime che le rigano il viso e le riempiono gli occhi. Non è facile digerire una delusione del genere, ma appena si siede per parlare con noi ritrova il respiro e la forza di raccontare quanto fatto. I complimenti si sprecano, d’altronde la prestazione ha davvero lasciato un piacevole ricordo. 

«Partiamo dal bello – ci dice – per me è stata una bellissima esperienza. Non pensavo di prendere le ruote di una ragazza più forte (il riferimento è a Cat Ferguson, ndr) e sono abbastanza sorpresa su me stessa. Però purtroppo è successo quello che è successo ed è andata così. Negli ultimi due chilometri c’eravamo io e la francese Gery che continuavamo a controllarci per la quinta posizione. Appena è partita mi sono alzata sui pedali, ma in quel momento mi sono venuti dei crampi a tutte le gambe che si sono bloccate. E’ per quello che sono caduta».

La delusione e le lacrime continuano anche al bus
La delusione e le lacrime continuano anche al bus

La conferma

Quello che esce poi è l’orgoglio e la consapevolezza di avere le qualità giuste per indirizzare la crescita verso grandi obiettivi. Oggi si è persa una corsa, per quanto dolorosa, ma come detto dal cittì Sangalli il cammino inizia ora. Quei trenta secondi mancanti sono il punto da cui partire.

«La gara era sulla Ferguson – conclude Silo – all’inizio sono riuscita a starle dietro. Verso l’ultima salita, quella più lunga, ho cominciato ad accusare dei crampi e non sono riuscita a tenere il suo ritmo fino in cima. In quei pochi metri ho capito che la Ferguson comunque non è un passo oltre, ma tre in più di me. Devo farne strada per arrivare ai suoi livelli, però sono soddisfatta, ho capito che il mio nome c’è e posso fare bene».

Giada Silo sale sul van della nazionale, direzione casa. In valigia metterà la delusione e il rammarico, ma sappiamo che li lascerà in fondo, sopra c’è spazio per l’orgoglio e la voglia di rifarsi.

Wilier Supersonica SLR, entriamo nel cuore del progetto

26.09.2024
5 min
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MISANO – La collaborazione con i tecnici FDJ-Groupama ha portato Wilier ad un piano superiore in termini di sviluppo e di applicazione dell’aerodinamica. La Supersonica SLR è il risultato. Stefan Kung l’ha usata per vincere la crono finale della Vuelta, poi per centrare il secondo posto ai campionati europei (tra Affini e Cattaneo) e l’ottavo domenica scorsa nella crono di Zurigo.

Grazie al responsabile del progetto, Claudio Salomoni, entriamo nel dettaglio di questa bici che nasce per le prove contro il tempo. Non una bici ibrida tra crono e triathlon, uno strumento specifico per i cronoman.

Cosa differenzia una bici da crono da tutte le altre?

La Supersonica SLR nasce per corridori come Kung, solo per fare un esempio, atleti che sono cronoman prima di tutto e hanno bisogno di uno strumento specifico. Il reggisella integrato, non estraibile può essere un dettaglio, una sorta di spartiacque tra le bici da crono vere e proprie e quelle nate anche per il triathlon. Zero compromessi.

Prestazione su tutto?

Sì. Siamo andati alla ricerca di una resa tecnica in senso assoluto e avevamo necessità di migliorare i prodotti esistenti. La collaborazione con il team francese ci ha spinto ad un livello superiore di ricerca e non mi riferisco solo alla galleria del vento.

Qui all’ultima rassegna europea di Hasselt, chiusa con la medaglia d’argento dietro Affini
Qui all’ultima rassegna europea di Hasselt, chiusa con la medaglia d’argento dietro Affini
Come siete partiti con il progetto Wilier Supersonica?

Siamo partiti dalla taglia large, quella di Kung. L’atleta svizzero doveva essere il primo. Forte cronoman, molto tecnico per i feedback e svizzero. I mondiali si sono corsi in Svizzera, non è un dettaglio. Ovviamente la bici è stata usata anche alle Olimpiadi.

Però, tempi stretti per mettere insieme i vari tasselli!

Strettissimi. Per un prodotto del genere ci vogliono circa 12/15 mesi, a volte 18: noi l’abbiamo fatto in 5. Una corsa estenuante contro il tempo. Non ricordo quante volte siamo stati in galleria del vento, anche durante le ferie. Però, che grande soddisfazione e che stimoli…

Cosa è cambiato rispetto al passato?

Tutto. A partire dai modelli di analisi usati, fino ad arrivare alla bici così come la vediamo. Ogni tubo ha uno specifico sviluppo Naca, ogni curvatura e ogni sezione. Questa Wilier non è frutto di un disegno fatto a matita, ma è il risultato di un’insieme di algoritmi combinati tra loro, poi tradotti in una bicicletta.

Le nuove regole UCI hanno influito sul progetto?

Chiaramente sì. Ne sono un esempio la forcella molto larga e fine, il manubrio e anche la borraccia integrata, che è asimmetrica, disegnata sulla bici. Tutto ha contribuito a miglioramenti rispetto alla Wilier Turbine.

I profili alari del posteriore
I profili alari del posteriore
Colpisce anche la dimensione della scatola centrale. A cosa è dovuta?

Deve contrastare le torsioni e buona parte di esse convergono in quel punto. Se poi consideriamo quanti watt sviluppano oggi atleti come Kung… Abbiamo una sezione centrale rigidissima, che anche in fatto di impatto visivo è quasi mezza bici.

Avete usato le stampe 3D?

Sì. La prima Supersonica è stata di fatto un pezzo di plastica, mi piace definirla come tale, ma questo pezzo di plastica ci ha permesso di approcciare la galleria del vento, di presentare ufficialmente il progetto a FDJ-Groupama, ottenendo fin da subito dei risultati eccellenti. Anche i francesi sono rimasti a bocca aperta.

Borraccia asimmetrica e specifica per la Supersonica SLR
Borraccia asimmetrica e specifica per la Supersonica SLR
C’è stato un punto critico che ti lasciava qualche perplessità?

I primi prototipi in resina vibravano leggermente in fase di angolazione laterale accentuata. Ormai la galleria del vento prevede test completi considerando tutte le direzioni, non solo le prove frontali. In realtà queste vibrazioni erano riferite alla sola resina. Una volta posizionata la bici definitiva in carbonio, tutto più che perfetto, abbiamo avuto ragione.

Avete usato il binomio bici/corridore?

A partire dal secondo step in galleria del vento. I tecnici francesi hanno stampato in 3D due manichini con le caratteristiche fisiche di Kung, che ovviamente era impegnato nelle gare e negli allenamenti. Un manichino statico e uno con le gambe mobili. Siamo oltre la F1.

In caso di monocorona sono garantiti i 70 denti (anche oltre)
In caso di monocorona sono garantiti i 70 denti (anche oltre)
Supersonica è un monoblocco?

Il telaio è un monoblocco, ma devi considerare i tre pezzi principali. Telaio, forcella e manubrio. E’ tutto carbonio al quale si aggiungono alcune parti stampate in 3D, come ad esempio borraccia e portaborraccia fatti in collaborazione con Elite. C’è anche lo zampino di Miche per le ruote, nuove anche queste, dove abbiamo approfondito degli studi sui tubeless.

Con o senza deragliatore?

La gabbietta del deragliatore, disponibile in due versioni, si può rimuovere. In caso di una monocorona si può montare anche un piatto da 70 denti, ma anche oltre.

Viste in azienda da Wilier, le protesi personalizzate di Kung
Viste in azienda da Wilier, le protesi personalizzate di Kung
E’ possibile quantificare il costo di una bici del genere?

In termini industriali una bici del genere non dovrebbe neppure esistere, non solo per Wilier, per chiunque affronta questa categoria di prodotti. Anche se per regolamento deve essere inserita nel catalogo e prodotta. E’ un’immagine per chi la produce, è tecnologia, è know-how e dà un bagaglio di conoscenze che vengono riportate a cascata su tutte le altre categorie di bici. Una bici come Wilier Supersonica SLR non è una bici creata con l’intento di vendere migliaia di pezzi.

Una bici che Wilier è in grado di fare!

Esattamente, è come un biglietto da visita. Oggi la Supersonica è la bici più veloce.

L’anno di Del Toro: dall’Australia a Zurigo nel segno di Pogacar

26.09.2024
5 min
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ZURIGO (Svizzera) – Quando dalla televisione della sala stampa abbiamo visto Isaac Del Toro spingere sui pedali della sua bici da cronometro ci siamo incuriositi. L’azione del messicano sembrava estremamente efficace, ma era solamente un’illusione data dai continui movimenti imposti al telaio. Anche al netto della pioggia che potrebbe averlo rallentato, lo sforzo di Del Toro ha partorito un dodicesimo posto nella prova contro il tempo dedicata agli under 23. Non si è espresso al meglio, ma una volta arrivato nella zona mista sorrideva sornione. Gli occhi per la prova su strada di categoria sono puntati su di lui: il giovane del UAE Team Emirates in grado di vincere alla sua prima corsa nel WorldTour

«Devo dire – spiega – che alla fine è stata una buona prova. Con la pioggia non si poteva fare molto di più. In discesa ho provato un po’ a spingere, ma non ho dato il massimo, così come in salita. Ho potuto spingere a fondo solamente in pianura e sono felice di come hanno risposto le mie gambe. In particolare nel finale. Credo che sia stato uno sforzo buono in vista della gara in linea».

Durante la cronometro Del Toro ha avuto buona sensazioni nei momenti in cui ha spinto
Durante la cronometro Del Toro ha avuto buona sensazioni nei momenti in cui ha spinto

Sfida in casa

A 21 anni ancora da compiere, il messicano ha già messo in fila una vittoria ai massimi livelli, la classifica generale della Vuelta Asturias e la prima grande corsa a tappe: La Vuelta. Del Toro, ogni volta che sale in bici, morde l’asfalto e non si guarda tanto intorno. Alla corsa iridata di domani sarà il favorito, anche se dalla squadra emiratina escono altri nomi interessanti, come quello di Antonio Morgado e Jan Christen

«Non ho avuto un avvicinamento particolare per questo mondiale – continua – ho riposato dopo la Vuelta. Tre settimane come quelle mi hanno dato tanto a livello di condizione, quindi sono pronto. Quel che sento un po’ di più è la responsabilità di correre con la maglia della nazionale, è un onore ma sono tranquillo. Sono convinto di poter far bene nella prova in linea, devo solo riposare e dormire al meglio in questi giorni».

«Ci sono tanti ragazzi – riprende Del Toro – che possono puntare al risultato massimo. Sarà importante essere sempre presenti e nel vivo della gara. Alla fine vincerà chi rimarrà più attento. Sia Jan, Christen, che Morgado sono andati molto forte oggi. Essere vicino a loro mi rasserena. Tutti vogliono vincere, anche io. Qualche volta si riesce e altre no, vedremo».

Dopo la Vuelta le gambe del messicano rispondono bene agli stimoli
Dopo la Vuelta le gambe del messicano rispondono bene agli stimoli
Com’è andato questo primo anno nel WorldTour?

Bene, ho cominciato in maniera positiva e anche nel finale di stagione sono andato forte. Alla fine il risultato nel ciclismo non sempre può essere la vittoria. Sono contento però, sto migliorando tanto e qualche volta si vede che sto davvero bene. Questo mi mette una grande tranquillità. 

Hai già vinto però, è un bel segnale. 

Le prime vittorie sono sempre un buon segnale (dice con un sorriso, ma senza sbottonarsi, ndr).

Morgado nella giornata di ieri ha provato il percorso ad alti ritmi
Morgado nella giornata di ieri ha provato il percorso ad alti ritmi
Dove pensi di poter migliorare ancora?

Direi che posso migliorare un po’ in tutto, sono un atleta che ha molto da sviluppare e tanto ancora da fare. Posso dirmi contento della mia crescita, penso continuerà in questa direzione. L’anno prossimo sarà quello chiave per me. Voglio prenderlo con calma e farlo nel miglior modo possibile. Ho la fortuna di imparare da grandi persone e atleti di alto livello.

In comparazione all’anno scorso ti senti un altro corridore?

No. Sono lo stesso, ma a un livello superiore. Durante il 2024 credo di essere migliorato tanto, forse non si è visto perché sono partito subito bene. Ma per me, per lo staff e per la performance, sono abbastanza tranquillo perché sto crescendo e apprendendo. 

Anche i nostri azzurri hanno pedalato sul tracciato di Zurigo, la caccia all’iride è aperta
Anche i nostri azzurri hanno pedalato sul tracciato di Zurigo, la caccia all’iride è aperta
Come va con la squadra?

Mi hanno sempre lasciato tanta libertà di provare, ovviamente non è sempre il giorno migliore, però sono sereno. Non mi sento sotto pressione, mi diverto e faccio le cose quando mi sento di farle

Per il tipo di corridore che sei stare accanto a Pogacar cosa vuol dire?

E’ stato uno dei migliori corridori della stagione, se non il migliore, e una grande persona. Ho imparato tanto da lui, mi ha spiegato molte cose. Io semplicemente voglio essere lì, giocare un po’, divertirmi e scherzare insieme. Poi se posso lo affianco in salita e sono contento. Pogacar e io siamo amici, con l’obiettivo, quando siamo in bici, di rendere la gara più difficile possibile

Del Toro ha detto di aver imparato tanto da Pogacar, ma i suoi consigli sono segreti
Del Toro ha detto di aver imparato tanto da Pogacar, ma i suoi consigli sono segreti
Qual è una cosa che ti viene in mente che hai imparato da lui?

Top secret.

Per vincere?

Sì. 

Ridendo se ne va, chissà se il fenomeno sloveno gli ha spiegato come provare a vincere un mondiale. Così da avere due campioni del mondo in squadra nel 2025: uno per categoria.

La prima della Paternoster con lo spirito guerriero

26.09.2024
5 min
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Neanche il tempo di scendere dall’aereo dopo svariate ore di volo dal Canada, che Letizia Paternoster è già disponibile per raccontare la sua vittoria al Tour de Gatineau di domenica. Si capisce anche da questo, oltre che dalla sua voce squillante a dispetto del viaggio e del jet lag, quanto questo successo rappresenti per lei. Una vittoria attesa da 5 anni, dalla conquista del titolo europeo U23 nel 2019, una vittoria che ha davvero il sapore di qualcosa che chiude una parentesi difficile, segnata da tanti brutti momenti ma anche da quella resilienza che è diventata ormai un suo marchio di fabbrica.

Il podio della corsa canadese con la Paternoster fra la cubana Meijas e la canadese Van Dam
Il podio della corsa canadese con la Paternoster fra la cubana Meijas e la canadese Van Dam

«Io ero sicura che prima o poi il successo sarebbe arrivato – esordisce la trentina di Cles – ma questa vittoria mi ha dato un forte senso di liberazione, soprattutto perché tante volte in questa stagione ci ero andata vicinissima. Ad esempio nella prima tappa del Tour of Britain pensavo proprio di avercela fatta. Prima di partire per il Canada sentivo che la condizione era quella giusta, ero conscia di essermi allenata bene».

Com’è stato il dopo Parigi?

Non è stato facile soprattutto mentalmente, riuscire a ricaricarmi dopo un’Olimpiade non andata come speravo. Devo dire grazie al team, che non mi ha forzato la mano per tornare in forma. Questo mi ha aiutato nella crescita, notavo in allenamento che toccavo valori mai raggiunti in stagione.

Il fotofinish della prima tappa al Tour of Britain che ha premiato l’iridata Kopecky per millimetri
Il fotofinish della prima tappa al Tour of Britain che ha premiato l’iridata Kopecky per millimetri
Già prima di Parigi, relativamente alla stagione su strada, ti eri detta molto soddisfatta, un giudizio rinfrancato dopo la vittoria d’oltreAtlantico?

Sicuramente, perché è stata sempre in crescendo, fino a raggiungere vette che non avevo mai toccato ma con la consapevolezza che c’è ancora spazio per migliorare. Ora con la forza che mi ha dato il successo canadese, voglio proseguire su questa scia al Simac Tour in Olanda e fare bene nel confronto con le migliori. Poi in base anche alle disposizioni di Villa penserò ai mondiali su pista, ma mi ci concentrerò dopo l’Olanda.

In primavera Pinotti che coadiuva la tua preparazione aveva sottolineato la necessità di lavorare molto di più rispetto a prima. E’ questa la chiave del tuo cambiamento?

Io devo dire grazie un po’ a tutti i preparatori che mi seguono, quelli del team, perché curano ogni minimo aspetto dell’allenamento. Quando entrai nella Liv Jayco AlUla due anni fa partivo praticamente da zero, avevo perso completamente tre anni di carriera per i vari problemi fisici. Serviva davvero tanta fiducia per credere in me. Nel 2023 sono stata costante, ma allora già entrare in una top 10 voleva dire tanto. Avevo fatto parte del percorso. Venendo al discorso specifico, il mio lavoro è cambiato, è aumentato ma quel che conta è che il mio corpo si è abituato e si abitua a carichi di lavoro sempre maggiori, recepisce e restituisce. Recupero meglio e con frequenze più alte e so che posso fare ancora molto di più, in allenamento e conseguentemente anche in gara.

Il lavoro della Liv Jayco AlUla è stato fondamentale per controllare la corsa
Il lavoro della Liv Jayco AlUla è stato fondamentale per controllare la corsa
Com’era la corsa canadese?

Molto nervosa, a me ha ricordato un po’ il circuito del Liberazione romano. Le compagne sono state bravissime a tenere la corsa chiusa per arrivare alla volata e hanno costruito un treno fantastico per pilotarmi. L’orgoglio di alzare le braccia al cielo, di mostrare questa maglia che tanto mi ha dato ma che non avevo ancora potuto ripagare con una vittoria è stato un momento che non dimenticherò.

Torniamo un po’ indietro nel tempo, anche sull’onda di questo spirito positivo e parliamo di Parigi…

Ho imparato, con tutto quello che mi è successo, che da qualsiasi esperienza bisogna trarre gli aspetti positivi e lasciar andare il resto. Non è stata un’Olimpiade felice, ma ragionandoci sopra ho capito i miei errori e le mie mancanze per diventare più forte di prima. Anch’io faccio fatica a capire che cosa non ha funzionato, sicuramente il Covid contratto durante il periodo in altura non ha aiutato, ma ci ho messo del mio gestendo male alcune cose. Non ho affrontato Parigi con la mente lucida e serena, per questo dico che la mente fa tanto nel nostro mestiere.

Tutta la delusione sul volto della trentina dopo l’omnium olimpico, chiuso al 13° posto
Tutta la delusione sul volto della trentina dopo l’omnium olimpico, chiuso al 13° posto
Ti riferisci solo all’andamento dell’omnium dell’ultimo giorno o a tutta la spedizione?

E’ un discorso generale, che riguarda tutta la mia Olimpiade. Io volevo ben altro e sapevo che avevo tutte le possibilità di conquistarlo.

La pista continuerà a par parte del tuo percorso?

Certamente, ci mancherebbe… Io non mollo, anche in questa stagione si è visto che sono al livello delle migliori, ad esempio alla Nations Cup in Canada mi ha battuto solo la Valente che poi è andata a prendersi l’oro olimpico dominando la gara. Io so il valore che ho e lo sa anche Villa. Ho tanti obiettivi da cogliere nei prossimi anni e voglio raggiungerli con lo spirito guerriero che sta emergendo sempre di più in me. Il risultato di Parigi è che ora ho ancora più fame di successi…