Gregario di Pogacar, per Sivakov è facile: «Tu tiri, lui vince»

26.10.2024
4 min
Salva

«Non dirò che sia facile – ha detto Sivakov a Eurosport dopo il Tour – perché è comunque difficile essere all’altezza del compito. Eppure è facile essere compagno di squadra di un leader come Pogacar. Noi facciamo il nostro lavoro e lui vince. E’ un enorme piacere per noi sapere che quando inizia una corsa, spesso finisce con una vittoria, come è successo al Tour de France. Al di là di questo, è sempre un ragazzo normale. Facciamo il nostro lavoro, ci divertiamo, ridiamo molto. Abbiamo un ottimo rapporto, siamo un ottimo gruppo».

La sola vittoria 2024 di Sivakov a L’Aquila, tappa finale del Giro d’Abruzzo, chiuso 2° dietro Lutsenko
La sola vittoria 2024 di Sivakov a L’Aquila, tappa finale del Giro d’Abruzzo, chiuso 2° dietro Lutsenko

L’ambiente giusto

Forse questa volta il russo naturalizzato francese, ma nato in Italia, ha trovato al UAE Team Emirates la sua dimensione definitiva. Alla Ineos Grenadiers dava l’impressione di divertirsi meno, ma non certo di fare meno fatica. Solo che ora, a parità di impegno e magari anche d’ingaggio, si capisce che le vittorie siano un compenso migliore. Sivakov non è un gran chiacchierone. La prima volta ci parlammo a Campo Imperatore, dove aveva appena conquistato il Giro d’Italia U23, lasciandosi dietro Hamilton e Hindley, nello stesso 2007 in cui avrebbe poi conquistato anche il Valle d’Aosta. Sembrava un predestinato e così lasciavano pensare le vittorie al Tour of the Alps e al Polonia del 2019. Poi forse qualche caduta di troppo, le prestazioni sono scese e le richieste della Ineos si sono alzate e Sivakov è rientrato nei ranghi del gregario.

«La differenza rispetto a prima – ha detto prima del Lombardia – è che con la Ineos anche per andarsi a giocare la Parigi-Nizza, c’era qualcosa da dimostrare e questo iniziava a pesarmi. Invece qui alla UAE Emirates, quando non c’è Tadej, anche per noi ci sono le porte aperte».

Al Giro del 2023 Sivakov è venuto come gregario di Thomas, poi secondo a 14″ da Roglic
Al Giro del 2023 Sivakov è venuto come gregario di Thomas, poi secondo a 14″ da Roglic

Le certezze di Pogacar

Un cambio di attitudine che potrebbe aver riacceso anche la fiducia. Quando mai negli ultimi tempi era capitato di vedere Sivakov attaccare come nel finale del Lombardia? Evidentemente aver fatto quell’ottimo Tour accanto a Pogacar ed essere arrivato in forze al fine stagione gli hanno restituito la voglia di provarci.

«Correre accanto a Tadej – ha spiegato – è qualcosa che colpisce, anche se difficilmente puoi farne un modello. Quando decide, lui attacca e si affida all’istinto. Quando l’ho visto in fuga al mondiale, ho capito subito che era uno di quei giorni. Non ha paura di niente, ma non mi aspettavo che avesse un simile livello. Credevo che avremmo vinto il Tour de France, non che riuscisse a conquistare tutte le altre corse. Penso che abbia impressionato tutti, ma non crediate che sia solo azzardo: sa cosa può fare. Spesso sorprende i suoi avversari, come ha fatto a Zurigo. Chi avrebbe mai immaginato che potesse attaccare a 100 chilometri dall’arrivo?».

In fuga con Pogacar a Zurigo, Sivakov ha collaborato prima di crollare: chiuderà 35°
In fuga con Pogacar a Zurigo, Sivakov ha collaborato prima di crollare: chiuderà 35°

Rimpianto Delfinato

Il Tour of Guangxi non è andato come pensava. Forte della condizione mostrata al Lombardia, il russo-francese era volato in Cina per provare a vincere la corsa, ma alla fine ha dovuto accontentarsi del quinto posto, pagando la maggior esplosività di Van Eetvelt sull’arrivo di Nongla che ha deciso la corsa.

«Ho avuto delle opportunità in alcune gare – ha commentato prima di ripartire – ma è meglio essere compagno di squadra di corridori come Pogacar che lottare contro di loro. Alla fine si creano molte opportunità. Possiamo prendere l’esempio di Sepp Kuss, che lo scorso anno ha vinto la Vuelta. Se non fosse stato compagno di squadra di Roglic e Vingegaard, non credo che ci sarebbe riuscito. E’ sempre difficile trovare il proprio posto in una squadra di altissimo livello, ma sono abbastanza soddisfatto della mia stagione. La delusione vera è stata il Delfinato. Mi sono ammalato e non ho fatto la gara che avrei voluto».

Erano i giorni prima del Tour. Quelli che Adam Yates ha messo a frutto duellando con Almeida sulle salite del Giro si Svizzera e che Sivakov ha invece sciupato, ovviamente non per colpa sua, ritirandosi nell’ottava tappa. Non è come alla Ineos, ma anche qui le occasioni vanno colte quando capitano. Perché quando poi torna sulla scena Pogacar, per gli altri ci sono solo luci riflesse.

Autunno sulle montagne russe per Balsamo, ma ora vacanze…

15.10.2024
7 min
Salva

Correre il mondiale tre giorni prima di sposarsi. Correre il Simac Ladies Tour pochi giorni dopo averlo fatto. Nell’autunno di Elisa Balsamo e Davide Plebani c’è stato anche questo, con la coloratissima festa nel mezzo in cui gli sposi hanno proposto agli invitati un dress code non comune. Abbiamo sempre pensato che per fare i corridori serva uno spirito libero. Oppure semplicemente lo stesso tocco di originalità che ha fatto del loro matrimonio una festa variopinta e allegra.

«Abbiamo deciso per il primo ottobre perché sognavamo di fare una cosa all’aperto – dice Elisa con allegria contagiosa – e se avessimo aspettato la fine di ottobre, non sarebbe stato possibile. Alla fine il tempo è stato dalla nostra parte. Siamo riusciti a fare quello che volevamo e sapevo che dopo avrei ancora dovuto correre. Il mondiale invece è stato una chiamata dell’ultimo momento. Sono stata più che contenta di aiutare la squadra, soprattutto perché Sangalli mi aveva detto subito il mio compito sarebbe stato aiutare nei primi 70 chilometri, affinché Elisa Longo Borghini potesse prendere il circuito davanti. E alla fine c’è una grande differenza fra andare a una gara e avere le pressioni di essere il capitano o farlo come è stato a Zurigo. Sapevo di dover dare comunque il massimo, ma senza la pressione del risultato».

Il matrimonio fra Elisa Balsamo e Davide Plebani si è celebrato il 1° ottobre sul Lago d’Iseo (Instagram/@hardyccphotos)
Il matrimonio fra Elisa Balsamo e Davide Plebani si è celebrato il 1° ottobre sul Lago d’Iseo (Instagram/@hardyccphotos)
Come è stato ritrovarsi in gruppo con alcune compagne che erano state al tuo matrimonio?

Abbiamo riso parecchio. Ad esempio con Yaya (Sanguineti, ndr), nelle prime tappe scherzavamo dicendo che stessimo ancora sudando gin tonic. Però alla fine io sono stata contenta di correre perché purtroppo a causa della caduta sono andata in forma alla fine della stagione e il Simac mi ha dato la possibilità di portare a casa qualche risultato. Mi sentivo ancora in crescita e quindi alla fine è valsa la pena di andare a correre.

Se sei ancora in condizione, allora potevi andare ai mondiali su pista, no?

Diciamo che lì è un discorso un po’ diverso e alla fine rimango ferma sulla decisione che ho preso alle Olimpiadi. E’ una ferita ancora aperta, ne ho parlato anche con Marco. Ho bisogno di prendermi un po’ di pausa dalla pista. Questo non vuol dire che non ci andrò più, assolutamente. Comunque mi piace e penso che sia importante anche per la strada. Però ho deciso che questo mondiale lo guarderò da spettatrice.

Cancellate le Olimpiadi, si può dire che dal Romandia in avanti la stagione si è raddrizzata?

Sì. Sono molto contenta della mia primavera, però la caduta ha distrutto tutto. Anche a Burgos mi sentivo bene e poteva essere un buon avvicinamento per le Olimpiadi. Però purtroppo con i se e con i ma ormai non si va da nessuna parte. Tenevo tantissimo ad andare a Parigi e ho fatto l’impossibile esserci, ma purtroppo la condizione era quella che era. Al Romandia sono tornata a vincere ed è stata una grande soddisfazione. All’europeo ho riconosciuto delle belle sensazioni. Forse è la prima volta che finisco una stagione non esausta e potrebbe essere una buona cosa riprendere il prossimo anno da dove mi sono fermata.

Il 6 settembre a Losanna, oltre 5 mesi dall’ultima vittoria, Balsamo torna al successo nel Tour de Romandie. Battuta Kopecky
Il 6 settembre a Losanna, Balsamo torna al successo nel Tour de Romandie. Battuta Kopecky
Dopo la medaglia di bronzo di Davide a Parigi, scrivesti in un messaggio che si era trattata della più grande emozione di sempre legata al ciclismo. Ti va di mettere in fila le emozioni di questa stagione?

Sicuramente il matrimonio sopra ogni cosa di sempre, però non c’entra con la bici. Parlando di sport, vedere Davide vincere il bronzo è stata davvero una delle cose più belle. E’ stato davvero emozionante e in qualche modo mi ha fatto fare pace anche con quel velodromo. La vittoria al Romandia è stata la più bella di quest’anno, per tutto quello che c’è stato dietro. La vittoria al Binda è stata un’altra grande emozione. Il secondo posto alla Roubaix all’inizio è stata una grande delusione. Però poi quando sono tornata a casa, mi sono resa conto che se me l’avessero detto prima, avrei messo la firma. Davvero non immaginavo di poter arrivare lì a giocarmi una gara del genere. E forse questo mi ha aiutato ad aprire gli occhi e capire che ce la posso fare, che può essere nelle mie corde. Quindi quel secondo posto si è trasformato in una sensazione molto positiva.

Quante volte nella tua testa hai rifatto quella volata contro Lotte Kopecky?

All’inizio ci ho pensato un po’ di volte, adesso però basta. Penso che uno dei miei punti di forza sia quello di riuscire abbastanza facilmente a lasciare le cose alle spalle e andare avanti. Ovviamente la riguardi per imparare dagli errori. Però una volta che ho capito che magari avrei potuto aspettare un attimo di più a lanciare la volata, basta. L’ho capito e ci riproveremo l’anno prossimo. Ormai questo è andato.

Secondo te il matrimonio cambierà di tanto la vita, oppure eravate già sposati e non lo sapevate ancora?

Secondo me sarà così. Era già qualche anno che vivevamo insieme, quindi in realtà a livello pratico non cambia nulla. Però penso che sia stata veramente una giornata splendida per noi. Abbiamo fatto una bella festa insieme alle persone a cui vogliamo più bene. Penso che sia stato bello coronare la nostra storia col matrimonio che per noi è una cosa importante, un percorso di vita.

A Zurigo, per dare man forte a Longo Borghini: i mondiali di Balsamo a 3 giorni dalle nozze
A Zurigo, per dare man forte a Longo Borghini: i mondiali di Balsamo a 3 giorni dalle nozze
Le foto e tutti quei colori davano un grande senso di allegria…

Diciamo che abbiamo alimentato la fantasia dei nostri ospiti. Il nostro dress code era “un tocco di pazzia”. Volevamo che ciascuno potesse esprimersi come meglio credesse, non volevamo imporre nulla e lasciare la libertà. In realtà è venuta una cosa bellissima, perché a noi piacciono le cose colorate e sembravamo quasi tutti abbinati. Eravamo talmente colorati, che sembrava quasi fatto apposta.

A proposito di colori, la tua maglia Santini con gli unicorni diventerà la maglia di una nuova squadra giovanile. Come è andata?

Diciamo che quando purtroppo la Valcar ha chiuso, Davide ed io ci siamo guardati e abbiamo detto che sarebbe stato bello fare qualcosa per aiutare le ragazze. Alla fine se io sono arrivata dove sono, è perché ho sempre trovato qualcuno che mi ha aiutato. E soprattutto la Valcar è stata un punto di riferimento importante. Così ne ho parlato con Davide Arzeni e abbiamo cercato di unire le forze. Io ho deciso di sponsorizzare questa squadra appena nata e dare il mio supporto. Quanto alle divise, visto che piacevano, abbiamo deciso di usare quell’idea per la squadra.

L’ultima domanda, restando collegati alla Valcar. Quando sei ripartita al campionato italiano, dicesti di aver pensato anche di mollare. Una tua ex compagna, Marta Cavalli, non è ancora tornata in gruppo, pagando il conto delle troppe cadute. Esiste una ricetta per venirne fuori oppure ognuno la vive a modo suo?

Questa è una domanda molto interessante. Io credo che sia diverso per ciascuno, per cui posso parlare per me. Una cosa è molto importante: le persone che ti circondano. Per me il supporto di Davide, della mia famiglia, delle persone di cui mi fido, anche della squadra, dello staff che lavora sempre con me, è stato fondamentale. Da soli per me non si riesce ad andare oltre dei momenti così difficili. Farsi male è veramente una cosa brutta, avere dolore fisico è proprio brutto. Quindi secondo me da soli non è possibile ed è per questo che io ho sempre creduto nell’importanza del sapermi circondare magari di poche persone, però di grande fiducia. E alla fine in questi due anni si è rivelata la scelta vincente.

Il secondo posto agli europei dietro Wiebes è stato la conferma delle buone sensazioni di Balsamo al Romandia
Il secondo posto agli europei dietro Wiebes è stato la conferma delle buone sensazioni di Balsamo al Romandia
Quando sei lì, diciamo nel buco nero, fa più male più il ricordo del dolore provato o la paura che possa succedere di nuovo?

Devo dire che, tra virgolette, sono stata fortunata. La prima caduta è successa in una dinamica di gara che per fortuna non succede spesso, forse se fosse stata una caduta di gruppo sarebbe stato diverso. Invece quest’anno la mia fortuna più grande è stata che io della caduta a Burgos non mi ricordo nulla.  Quando chiudo gli occhi, mi succede spesso di rivivere la mia caduta alla Ride London. Chiudo gli occhi e, senza che io lo decida, mi trovo quell’immagine e questo può spaventare e bloccarti. Invece della Spagna non mi ricordo niente, non so neanche bene cosa sia successo. Ho riguardato le immagini, però in realtà per me è un buco nero. E questo mi è stato di grandissimo aiuto.

Vuoi dire che la botta in testa a qualcosa è servita?

Esatto (ride, ndr).

E’ tempo di vacanze ora?

Sì, partiamo lunedì prossimo e ci facciamo una bella luna di miele. Stati Uniti Occidentali e Hawaii. Ci rivediamo in Spagna al primo ritiro. Adesso per un po’ si pensa ad altro, come quando ti sposi e hai solo voglia di sparire.

Astolfi, il Lussemburgo e due figli che sanno già volare

12.10.2024
6 min
Salva

Davanti al pullman dell’Italia ai mondiali di Zurigo, durante la prova su strada degli juniores, abbiamo incrociato uno sguardo che non vedevamo da tanto. E abbiamo così scoperto che Claudio Astolfi, professionista dal 2001 al 2005, da circa cinque anni vive in Lussemburgo. A dire il vero per capirlo sarebbe bastato leggere con più attenzione l’elenco dei partenti per accorgersi che uno dei due atleti lussemburghesi al via si chiamava Flavio e portava il suo cognome.

Quando di lui si è accorto Manuel Quinziato, di un anno più giovane, è andato dritto a salutarlo. Poi, avvicinandosi, il bolzanino ha ricordato che il romano fosse un mito nelle categorie giovanili. Astolfi infatti aveva vinto il Giro della Lunigiana, come Pogacar ed Evenepoel, e nello stesso anno era arrivato terzo al mondiale. La carriera purtroppo è durata poco a causa del diabete. Ma la sua storia di italiano con la valigia ci è parsa interessante. E così siamo andati oltre.

Davide Balboni, Claudio Astolfi, terzo mondiali juniores, Novo Mesto 1996
Bronzo ai mondiali juniores del 1996 a Novo Mesto: Claudio Astolfi e il cittì di allora Davide Balboni
Davide Balboni, Claudio Astolfi, terzo mondiali juniores, Novo Mesto 1996
Bronzo ai mondiali juniores del 1996 a Novo Mesto: Claudio Astolfi e il cittì di allora Davide Balboni
Cosa ci fai in Lussemburgo?

Già appena sposato e dopo aver smesso, mi era venuta l’idea di spostarmi. Mia suocera è italiana e viveva in Lussemburgo da anni. Però ugualmente ho provato prima con il mio negozio di biciclette a Lariano. Sono andato avanti per 12-13 anni, però non è mai partito del tutto. E così cinque anni fa ci siamo trasferiti, soprattutto per offrire qualcosa di più ai ragazzi. Flavio e Lorenzo fanno il liceo e parlano tre lingue (in apertura, foto di famiglia con la moglie Chiara, ndr).

Hai fatto come Simone Masciarelli, migrato in Belgio per il figlio Lorenzo e ora tornato in Italia?

No, il ciclismo non c’entra. Mi trovo abbastanza bene, viviamo in un paesino a sei chilometri dalla città. Lavoro in un grande store di bici e ho dovuto imparare il francese. I ragazzi intanto studiano e corrono. Flavio, il grande, fino al secondo anno da allievo era tesserato con una squadra di Aprilia e poteva ugualmente fare i campionati nazionali del Lussemburgo perché bastava la residenza. Poi da junior serviva la nazionalità e così l’anno scorso ha preso la doppia cittadinanza. Ora corre nella squadra juniores della Visma-Lease a Bike.

Come c’è arrivato?

Vivendo in Lussemburgo, da allievo correva spesso in Germania e anche in Belgio. Al primo anno ha vinto 7 corse, al secondo 9. E’ arrivato sesto alla Coppa d’Oro, poi ha vinto il campionato lussemburghese crono e strada. E loro si sono interessati. Lui è contentissimo. Hanno lo stesso equipaggiamento della WorldTour, anche il trolley e gli zainetti. A inizio anno hanno fatto un training camp a Benicasim e sono stati per qualche giorno con la WorldTour e con la squadra delle donne. E il bello è che non gli mettono pressione.

Tu sei stato junior quasi trent’anni fa, che differenze vedi?

E’ cambiato tutto, a partire dal misuratore di potenza che ormai hanno anche da allievi, fino alla nutrizione. Io mi allenavo con mio padre dietro che a un certo punto suonava il clacson e significava che dovevo partire. Eppure alla Visma, sta vivendo il ciclismo con meno stress che in Italia. Non corrono tutte le domeniche da febbraio a ottobre come da noi. Magari fa una corsa a tappe di quattro giorni, poi recupera a casa e studia e si allena. Quest’anno è stato sfortunato. All’Eroica è caduto ed ha avuto qualche problema all’anca. Poi ha preso la mononucleosi e lo stesso ha fatto l’europeo e il mondiale. Ma con la condizione che aveva e il tempaccio, a Zurigo si è fermato prima…

Flavio si sente italiano o lussemburghese?

Italiano. Lo dice sempre che il cuore è italiano, però intanto si trova bene anche nella nazionale di quassù, perché il coordinatore Frank Schleck è in gamba. Dispiace che in Italia non sia stato convocato per fare i test che di solito fanno gli juniores, evidentemente è giusto che faccia la sua strada in Lussemburgo. Ha fatto un cambio di nazionalità, può farne un altro e poi basta. E intanto aspettiamo che arrivi il piccolo, Lorenzo, che è tremendo…

Tremendo?

Quest’anno ha fatto 16 gare e le ha vinte tutte e 16. E’ esordiente di secondo anno, ma una squadra WorldTour belga già ha mandato avanti un osservatore. In Belgio ha vinto tre gare, una con tre minuti sul secondo, che per gli esordienti non è poco. Però ho pregato tutti di lasciarlo in pace. Fino agli allievi, come ho fatto con Flavio, lo seguirò io. Poi negli juniores è giusto che abbia i suoi allenatori.

E tu vai ancora in bici?

Quest’anno m’è ripresa la voglia (ride, ndr). Dato che qui d’estate fa buio più tardi, dopo il lavoro ho cominciato a fare due ore tutti i giorni. E poi mi sono messo a fare delle garette. Quelle coi master le ho vinte tutte. Poi sono passato a quelle con gli elite, i corridori veri. E ho fatto due volte decimo assoluto e una volta nono. Considerato che ho 46 anni, non vado così male.

Pensi mai che la tua carriera sarebbe potuta durare di più?

Purtroppo in quegli anni col problema che avevo non si andava lontano. Non è come ora che addirittura c’è la Novo Nordisk e ci sono gli strumenti che ti permettono di convivere col diabete. Allora si trattava di fermarsi e fare un’iniezione. E dopo i 200 chilometri era davvero impossibile andare avanti.

Lorenzo e Flavio Astolfi, sono stati entrambi campioni nazionali lussemburghesi
Lorenzo e Flavio Astolfi, sono stati entrambi campioni nazionali lussemburghesi
I tuoi figli sanno qualcosa del papà corridore?

Non mi hanno visto, ma si sono documentati. E poi quassù il ciclismo è popolare, qualcuno deve avergli detto che il padre era forte. Hanno visto che ho vinto il Lunigiana e si sono resi conto che tanto scarso non ero. Quinziato poi l’ho incontrato nuovamente all’aeroporto e mi ha detto le stesse cose. E’ bello ritrovarsi ancora in mezzo qualche volta, è bello che qualcuno si ricordi…

Su Finn lo sguardo di Schrot: in un anno passi da gigante

10.10.2024
6 min
Salva

L’anno scorso di questi tempi, a bassa voce come un segreto, iniziò a circolare la notizia che uno junior italiano sarebbe andato all’estero. Fulmini e saette, sembrava di essere in pieno attacco. Un anno dopo quel ragazzo, Lorenzo Mark Finn, è diventato campione del mondo degli juniores. Ha lavorato in modo diverso. Si è interfacciato spesso con il cittì della nazionale. E in Germania ha trovato un ambiente che lo ha fatto crescere.

Il regista di questi suoi progressi si chiama Christian Schrot. Lo conoscemmo qualche tempo fa, quando decidemmo di guardare un po’ meglio dentro alla Auto Eder che arrivava dalla Germania e si portava via le migliori internazionali. E se nel ritiro sul Garda di inizio marzo gli chiedemmo di spiegarci come avrebbe lavorato con Lorenzo, questa volta dopo il mondiale gli abbiamo chiesto se se lo aspettasse (nella foto di apertura, il tecnico tedesco accoglie Finn sull’arrivo di Zurigo).

Contento di questa vittoria?

Sono molto contento soprattutto per lui. E’ stato l’ottimo finale di una stagione fantastica. Un bel risultato anche per la squadra e tutti coloro che vi hanno partecipato.

Pensavi che Finn potesse vincere i mondiali oppure è stata una sorpresa?

Non per me. Vincere è sempre la cosa più difficile, ma sicuramente era il favorito guardando i nostri corridori in gara. Lui e Paul Fietzke. Dipendeva da come si sarebbe svolta la gara, perché tutti sapevano che sarebbe stata dura. Ma era abbastanza difficile perché vincesse uno scalatore in solitaria? Questo non lo sapeva nessuno. Ma con le condizioni difficili che abbiamo avuto, come la pioggia e il freddo, sapevamo dal giorno prima che c’era un’altissima probabilità che Lorenzo potesse salire sul podio o vincere la gara.

Siamo rimasti tutti molto sorpresi dal suo atteggiamento nel finale, l’apparente distacco. Forse non ci credeva ancora?

Il grande favorito era Albert Withen Phillipsen e tutti lo sapevano. Sarebbe stato difficile batterlo, in più c’era anche Paul Seixas che aveva dimostrato di essere in grandissima forma. Quindi sognavamo sicuramente di vincere e abbiamo dato tutto nella preparazione, ma credo che esserci riuscito sia stato travolgente e per un po’ non ci abbia creduto.

I blocchi di lavoro del 2024 hanno dato a Finn maggiore tenuta atletica e visione di corsa (foto Grenke-Auto Eder)
I blocchi di lavoro del 2024 hanno dato a Finn maggiore tenuta atletica e visione di corsa (foto Grenke-Auto Eder)
In cosa lo hai visto crescere durante la stagione?

Credo che con l’allenamento fatto insieme, Lorenzo sia migliorato in diversi aspetti. Prima di tutto, dal punto di vista fisico. Abbiamo potuto fare dei grossi passi avanti nei suoi livelli di resistenza, ma anche nella capacità di essere più potente e anche più esplosivo. Era quello che gli mancava per vincere le grandi gare. Però abbiamo lavorato molto anche sulla tattica e sulla comprensione delle situazioni di gara. Credo che anche questo sia stato una conquista importante di questa stagione.

E’ ben inserito all’interno della squadra?

Ha certamente una dimensione internazionale, perché suo padre viene dal Regno Unito e sua madre dall’Italia. Ha una mentalità aperta e fin dall’inizio si è integrato bene. In squadra si parla inglese e il suo è eccellente, quindi la comunicazione non è mai stata un problema. E’ un corridore aperto e facile da gestire. Una persona intelligente, capace di ragionare, quindi è bello parlare con lui e approfondire i discorsi. E questo è stato molto apprezzato anche dai compagni.

In Italia si è parlato molto del lavoro fatto dal cittì Salvodi: che tipo di rapporto avete avuto con lui?

In generale, abbiamo avuto un ottimo scambio. Lorenzo era nella nostra squadra, tutto il coaching veniva da me, quindi lavoro quotidiano e programmi. Ma è molto importante anche che i corridori siano integrati nelle nazionali, perché alla fine le grandi corse come gli europei e i mondiali sono gestite dalle federazioni. Per questo sono stato a stretto contatto con Salvoldi e ho apprezzato molto il suo lavoro con Lorenzo. Io l’ho tenuto informato sugli allenamenti e sugli step fatti, in modo che lui sapesse cosa aspettarsi nelle gare. E poi per la preparazione finale, la Federazione ha fatto un ritiro e abbiamo parlato anche di cosa aspettarsi e quale fosse il suo livello. Infine abbiamo concordato l’avvicinamento per il campionato del mondo e tutto è andato bene.

Vincendo l’ultima tappa a Stavelot, ad agosto Finn ha conquistato la Aubel-Thimister-Stavelot (foto Fleche Ardennaise)
Vincendo l’ultima tappa a Stavelot, ad agosto Finn ha conquistato la Aubel-Thimister-Stavelot (foto Fleche Ardennaise)
Sei rimasto un po’ sorpreso quando hai visto Lorenzo, uno scalatore, nella squadra degli europei su quel percorso da velocisti?

Non tanto, perché proprio il tecnico della nazionale mi aveva informato in anticipo che lo avrebbe portato. E penso che proprio guardando i grandi corridori come Pogacar, sia molto importante per un corridore giovane non concentrarsi solo sulle salite, se è uno scalatore. E’ utile anche imparare a gestire la bicicletta e a provarla in diverse situazioni. Sapevamo che avrebbe corso in supporto dei compagni, ma anche alla Grenke-Auto Eder a volte non è capitano, ma aiuta gli altri. Credo che anche questo faccia parte dell’apprendimento nelle categorie giovanili, quindi mi è piaciuta molto l’idea di portarlo. E anche Lorenzo voleva andarci, è stato subito un suo desiderio.

Hai capito qualcosa di più su di lui, sul corridore che potrebbe diventare?

Credo che il prossimo passo sia quello di passare al livello under 23 e dimostrare allo stesso modo ciò che è in grado di fare. Nel calendario del prossimo anno si punterà a gare di un giorno più dure, come certe classiche più famose. E poi sicuramente anche le corse a tappe, che gli si addicono molto se ci sono salite. Ai campionati del mondo ha dimostrato anche di essere tra i migliori nella cronometro e questo è molto importante se si vogliono vincere le gare a tappe. Quindi penso che questo sia il prossimo passo. Andare magari al Giro Next Gen oppure al Tour de l’Avenir, il piccolo Tour de France. Queste gare saranno i prossimi passi della sua carriera.

E’ presto per fare previsioni, insomma?

Vedremo dove porterà tutto questo. Credo che abbia le carte in regola per raggiungere un livello top anche nel professionismo, ma senza mettergli pressione. Penso che sia troppo presto per dire dove arriverà, ma ha tutte le capacità per raggiungere grandi obiettivi anche da grande.

I mondiale di Finn è il secondo in tre anni per Schrot: dopo 14 anni alla Bora, il tedesco cambierà squadra
I mondiale di Finn è il secondo in tre anni per Schrot: dopo 14 anni alla Bora, il tedesco cambierà squadra
I tecnici della WorldTour si sono mostrati interessati?

Voglio dire, la Grenke Auto Eder è lo junior team della Red Bull-Bora-Hansgrohe, quindi Lorenzo è molto conosciuto nel team maggiore e rimarrà nella struttura per continuare il suo sviluppo. Credo che questo sia il prossimo passo e non passare troppo presto fra i professionisti. Credo che la categoria under 23 sia molto importante per avere un livello stabile di prestazioni prima di fare il salto nella grande avventura del WorldTour.

Però adesso, Christian, parliamo un po’ di te. E’ vero che lascerai la squadra?

Sì, è così. Per me questo campionato del mondo è stato la fine di una lunga avventura. Sono stato per 14 anni con la stessa squadra, con la Bora-Hansgrohe. Ho creato con il Team Auto Eder, da quest’anno Grenke-Auto Eder, la migliore squadra juniores del mondo. Zurigo è stato il terzo mondiale di fila in cui abbiamo avuto da festeggiare. Abbiamo vinto con Herzog nel 2022, preso l’argento lo scorso anno con Fietzke e l’oro con Finn pochi giorni fa. Ora ho deciso di iniziare un nuovo capitolo, il campionato del mondo a Zurigo è stato la mia ultima gara con il gruppo Bora. Dove andrò adesso non posso dirlo, probabilmente verrà fuori entro un paio di settimane, ma resterò nel ciclismo professionistico. Vi tengo aggiornati. Spero presto di potervi raccontare qualcosa di interessante.

Santini “vestirà” l’UCI anche per i prossimi sette anni

09.10.2024
3 min
Salva

I recenti campionati del mondo di Zurigo resteranno negli occhi e nei cuori degli appassionati di ciclismo per molto tempo, soprattutto grazie alla straordinaria impresa compiuta da Tadej Pogacar. Oltre 100 chilometri di fuga di cui ben 50 in solitaria. A realizzare la maglia che sul podio iridato ha premiato il fuoriclasse sloveno è stata naturalmente Santini Cycling, che dal 1998 è partner tecnico dell’Unione Ciclistica Internazionale. Proprio a Zurigo UCI e Santini hanno ufficializzato il rinnovo del loro accordo di partnership per altri sette anni, dal 2025 al 2031. Un vero record.

In occasione dei mondiali, Santini veste anche i campioni del mondo delle discipline paralimpiche (foto Borserini/FCI)
In occasione dei mondiali, Santini veste anche i campioni del mondo delle discipline paralimpiche (foto Borserini/FCI)

Non solo Pogacar

La maglia iridata di Pogacar non è la sola. Santini è infatti responsabile della fornitura della maglia iridata destinata a vestire i campioni del mondo UCI in tutte le discipline ciclistiche. L’azienda bergamasca fornisce infatti anche le maglie dei leader per le varie classifiche all’interno dell’UCI Women’s WorldTour. La collaborazione con l’Unione Ciclistica Internazionale si estende alla fornitura delle maglie per le classifiche generali nelle Coppe del Mondo UCI e per un’ampia gamma di eventi, tra cui il para-cycling, il mountain bike eliminator, i trials, il ciclismo artistico e il cycle-ball.

Questa la maglia da donna del kit creato per l’edizione dei mondiali di Zurigo
Questa la maglia da donna del kit creato per l’edizione dei mondiali di Zurigo

C’è anche il merchandising

Chi ha avuto la fortuna di assistere dal vivo ai mondiali di Zurigo avrà sicuramente avuto l’opportunità di visitare lo store Santini, presente all’interno dell’area hospitality posizionata a poche decine di metri dalla linea di arrivo della rassegna iridata. All’interno dello store era presente l’intera collezione che Santini ha realizzato per l’UCI: abbigliamento tecnico per il ciclismo, che combina qualità, performance e stile, e abbigliamento casual. Non mancavano gadget e accessori, tutti caratterizzati dalle iconiche strisce arcobaleno che simboleggiano l’eccellenza dei campioni UCI e dei campionati del mondo UCI.

Non mancava naturalmente il kit che Santini ha realizzato esclusivamente per la rassegna iridata di Zurigo e che è andato letteralmente a ruba.

Lo store di Santini presente a Zurigo durante la settimana iridata
Lo store di Santini presente a Zurigo durante la settimana iridata

Parola ai protagonisti

Il Presidente dell’UCI, David Lappartient, ha così commentato il rinnovo della collaborazione fra l’Unione Ciclistica Internazionale e Santini: «Siamo lieti di rinnovare la storica partnership tra la nostra Federazione Internazionale e Santini, e rendiamo omaggio al supporto che questo marchio di fama mondiale ha dato all’UCI e al ciclismo sin dalla fine degli anni ’80. Le maglie prodotte da Santini, dalla maglia iridata alle varie maglie dei leader, sono il sogno di campioni e aspiranti campioni da decenni. Fanno parte della leggenda del nostro sport».

Per finire ecco le parole di Monica Santini, Amministratore Delegato di Santini Cycling: «Siamo orgogliosi di annunciare il rinnovo del nostro accordo con l’Unione Ciclistica Internazionale per i prossimi sette anni. Questa collaborazione storica, iniziata nel 1988, riafferma il nostro impegno a vestire i migliori atleti del mondo in diverse discipline ciclistiche. Questo segna un capitolo importante nella storia della nostra azienda, mentre continuiamo la nostra partnership con la più alta istituzione del ciclismo mondiale, consolidando il nostro ruolo di partner tecnico ufficiale».

Santini

Addesi e il paraciclismo: inizia la caccia dei giovani talenti

07.10.2024
10 min
Salva

Una settimana fa eravamo a Zurigo scrivendo gli ultimi pezzi. Si parlava della meraviglia di Pogacar. Del bilancio azzurro tenuto in piedi da crono, donne e juniores e del passaggio a vuoto dei professionisti. Sembrava un discorso concluso, invece mancavano all’appello le 14 medaglie del paraciclismo. Tre maglie iridate (in apertura quella di Cornegliani), per la precisione, nove argenti e due bronzi.

Quello del paraciclismo è un mondo complesso. Ci sono infinite categorie, strane manovre di classificazione, retaggi, storie ed esigenze particolari. La ricerca tecnologica e della performance progrediscono con passi da gigante. Le altre Nazioni reclutano atleti giovani, provenienti da altre esperienze se non addirittura dal professionismo. Così, viste anche le polemiche delle ultime settimane, siamo tornati a bussare alla porta di Pierpaolo Addesi, referente del settore strada da meno di due anni

Zurigo, ultime medaglie anche per Pasini, Amadeo e Farroni. A sinistra Pierpaolo Addesi, con il presidente Dagnoni e Amadio (foto Borserini/FCI)
Medaglie per Pasini, Amadeo e Farroni. A sinistra Pierpaolo Addesi, con il presidente Dagnoni (foto Borserini/FCI)
Come è andata la trasferta di Zurigo?

Bene, considerando che abbiamo cominciato a lavorare sul serio da un anno. Tutti i talenti che sono arrivati fanno parte di un progetto nato nel 2023 e, anzi, alcuni sono arrivati anche dopo. Marianna Agostini, ad esempio, oppure lo stesso Lorenzo Bernard sono arrivati dopo. L’unico che ha iniziato a gennaio è stato Andreoli, perché con lui ho preso i contatti a dicembre, l’ho incontrato a Milano e gennaio è stato inserito nel gruppo azzurro. Nonostante tutto, penso che ci siamo difesi abbastanza. A Parigi e poi a Zurigo

Si continua a dire che i risultati si coglieranno nel prossimo quadriennio: sei scaramantico oppure non credevi che gli atleti fossero già al livello giusto?

Adesso lo posso dire. Andando a Zurigo, avevo scritto un numero di medaglie volutamente più basso, vale a dire otto come a Parigi, perché ho cercato di tenere i piedi per terra. Sapevo che sarebbero state di più. Avevo una nazionale che mi aveva dato tantissime conferme anche in Coppa del mondo. E se non ci fosse stata l’ingiustizia di Bosredon inserito in H3 (*), lui che di fatto è un H4, a Parigi avremmo raccolto un argento nella crono e forse su strada sarebbe arrivato l’oro. A Zurigo, la stessa cosa. Se non ci fosse stato lui, Martino Pini avrebbe vinto il mondiale. Sono abbastanza sicuro che dal prossimo anno il francese tornerà H4, ma nel frattempo con lui si sono garantiti tre medaglie d’oro alle Paralimpiadi.

Ti ha stupito che Mazzone sia riuscito a vivere un altro mondiale?

Tanto. In concomitanza con la sua crono c’era l’incontro con il Presidente Mattarella e a Parigi, Luca era stato uno dei due portabandiera. Mi ha chiamato anche il CIP chiedendomi se fosse possibile portarlo a Roma, così ne ho parlato con lui. Ci siamo ricordati quanto andasse forte in pianura dietro moto nel ritiro di Campo Felice. Quella di Zurigo era una cronometro dove avrebbe potuto esprimere il suo massimo. Non c’erano curve, non era un percorso tecnico. Era un drittone. E lui, se lo metti in un percorso così, ancora oggi distrugge tutti. Infatti ha stravinto, in 18 chilometri ha staccato di 40 secondi atleti che negli ultimi anni lo hanno sempre battuto. Non era scontato. Luca è forte, è un atleta molto determinato, si è impegnato tantissimo.

Mazzone ha 53 anni ed è ancora vincente. Si parla di ricambio, immagini che sarà lui a decidere quando fermarsi?

Credo che in quelle categorie sia l’atleta a decidere. Dopo aver vinto ancora, non credo sia tornato a casa pensando di smettere. Io non gli dirò mai di farlo. Ma è logico che quando non arriveranno più i risultati e si renderà conto che nella sua categoria sono arrivati giovani più forti, sarà lui a capire il momento. Il quarto posto di Francesca Porcellato a Parigi, visti anche i risultati dei mondiali precedenti, fa capire che ormai eravamo fuori dalla lotta per le medaglie. 

E allora come avviene il reclutamento dei giovani?

Questa sarà la sfida del prossimo anno. Vorrei tanto che in Italia si aprisse un po’ la mentalità. In Francia è appena arrivato nei C4 un ragazzo nuovo, Mattis Lebeau, che ha vinto il mondiale crono ed è arrivato secondo su strada. Se andate a vedere il suo palmares, ai primi di settembre ha fatto il Giro di Guadalupe in mezzo agli elite, una corsa a tappe di otto giorni. Ha 25 anni e durante la stagione ha anche vinto gare su strada. Lui ha un problema alle gambe, probabilmente qualcosa a livello di sviluppo e ha un polpaccio leggermente più piccolo, che è bastato per rientrare nella categoria C4.

Vuoi dire che la ricerca è anche fra atleti che corrono nel gruppo dei normodotati?

Esatto. Devo andare a cercare situazioni come questa nel panorama nazionale. Il problema è che nel momento in cui le trovo, con chi affronto il discorso? Parlo per esperienza. Sono andato dal tecnico di una continental italiana e gli ho fatto il nome di un atleta giovane e forte, nella stessa situazione di Lebeau. Gli ho detto che il ragazzo può fare la sua attività da U23 oppure elite, però per tre volte all’anno potrebbe venire a correre con noi. Ebbene, quando gli dici questo, si offendono. Mi ha risposto che il ragazzo è normale. Come devo fare io?

Mattis Lebeau ha vinto la crono di Zurigo nella categoria C4 del paraciclismo. In preparazione ha corso il Giro di Guadalupe (foto L’Equipe)
Lebeau ha vinto la crono di Zurigo nella categoria C4 del paraciclismo. In preparazione ha corso il Giro di Guadalupe (foto L’Equipe)
E’ un problema culturale, l’handicap in Italia è motivo di disagio. Non tutti sanno che il ciclismo paralimpico sia anche quello su una bici normale e non per forza una handbike.

Esattamente. Servirebbe uno step culturale. Non è una diminuzione, non è qualcosa per cui essere presi in giro, ma una possibilità. Dovrei far capire a questi ragazzi, ma soprattutto ai loro manager, che la categoria C5 nel paralimpico equivale alla categoria elite dei normo. Non è niente di meno. Se andate a vedere gli ordini d’arrivo di tutte le gare che fanno in mezzo agli elite, davanti ci sono anche loro. Penso a Dementiev, che corre regolarmente su strada, ma anche a tanti altri che per tutto l’anno gareggiano in mezzo agli elite.

Qualunque corridore italiano avrebbe paura di essere preso in giro. La diversità a tutti i livelli nel ciclismo è uno sbarramento insormontabile: non sono neanche certo che qualcuno leggerà questo articolo…

Chiedo solo di pensarci. Parliamo di una categoria di professionisti, perché ormai a certi livelli non si va più avanti allenandosi part time. Mettiamo che trovo un atleta forte e ancora giovane, che corre da U23 oppure elite. Se il prossimo anno viene al mondiale in Belgio e mi vince una medaglia d’oro, cosa che è molto probabile, a dicembre riceve il Collare d’Oro. L’anno successivo, un corpo di Polizia lo prende al 100 per cento, perché diventa interessante in chiave olimpica. E lui si è praticamente guadagnato lo stipendio a vita, perché starà lì fino alla pensione. Considerando che una medaglia d’oro alle Olimpiadi frutta 100.000 euro. In più, se corre da U23 oppure elite, farà il corridore fino a quando ne avrà voglia. 

Parigi e Zurigo hanno visto anche un bel rimescolare di equipaggi tandem.

Corentin Ermenault, uno che ai mondiali di Grenchen 2023 era nel quartetto di bronzo dietro l’Italia di Ganna, non ha vestito la maglia francese nel 2024 per fare le Paralimpiadi e vincere delle medaglie. Possibile che non riesco a prendere un atleta forte della pista per puntare a Los Angeles? Dobbiamo mettere davanti un inseguitore fortissimo e in parte ci siamo riusciti con Plebani. Date anche a noi un atleta che nel 2027 escludete dalla maglia azzurra, un inseguitore forte per puntare le Paralimpiadi di Los Angeles nel tandem e la medaglia d’oro ce la giochiamo pure noi.

Dietro un atleta paralimpico ci sono la sua squadra e la famiglia: qui la sorella e i nipoti di Pini a Zurigo (foto Borserini/FCI)
Dietro un atleta paralimpico ci sono la sua squadra e la famiglia: qui la sorella e i nipoti di Pini a Zurigo (foto Borserini/FCI)
La guida forte fa la differenza?

Lorenzo Bernard l’ho incontrato l’anno scorso a marzo. Gli altri hanno detto che l’avevano già testato, lui racconta che fece una prova col tandem e poi fu scaricato. Quando a marzo l’ho testato qui a Francavilla, si è visto subito che c’era un motore molto grande, ma anche che era acerbo. Però una volta che hai uno così e gli metti una guida competitiva a livello mondiale, i risultati arrivano. Prendi un atleta che fa 4’10” nell’inseguimento, lo abbini a Bernard e il tandem non può andare piano. Al primo assalto con Plebani ha preso il bronzo, no? Gli altri hanno fatto questi ragionamenti, che sono replicabili anche su strada.

Dove hai puntato su Totò…

Un ex professionista, anche se nella sua carriera forse non ha sempre fatto il professionista sul serio. Ma se prendo un qualsiasi corridore che abbia dei numeri, il tandem è la somma dei numeri. Watt davanti, watt dietro. Se questa somma è alta, il tandem vince. Poi servono anche la scaltrezza, abilità a guidare e resistenza, ma quelle si affinano col lavoro.

I corridori hanno raccontato che l’ambiente della nazionale è sereno e per questo hanno potuto lavorare bene.

Dico sempre che io non sono il capo di nessuno e non devo diventare l’amico dei corridori, altrimenti qualcuno potrebbe permettersi di dire cose fuori posto. Serve rispetto. Ho un ruolo, che è guidare la nazionale. Non sono l’allenatore, non mi prendo meriti che non ho, a differenza di qualcun altro. I ragazzi vincono perché si sono impegnati e hanno fatto risultati grazie a chi li ha preparati. Alle società che ci sono dietro e alle famiglie. Perché un disabile non fa leva solamente sulla società, c’è anche il lavoro delle mogli, dei figli, di chi li circonda. Io cerco di metterli nelle condizioni di lavorare al meglio, di esprimere il massimo e cerco di farli restare sereni e tranquilli.

Il tuo ruolo in gara?

Sicuramente intervengo a livello tattico. Tutte le volte che abbiamo deciso qualcosa prima, è sempre andata bene. Al contrario, tutte le volte che non hanno fatto quello che avevamo concordato, è andata male. Farroni e a Vitelaru potevano vincere il mondiale, ma hanno fatto cose diverse da quelle concordate.

Che cosa?

A Giorgio avevo detto di superare Clement a destra nella volata, perché il vento tirava da sinistra. Era nella posizione ideale fino ai 200 metri. Poi, partita la volata, anziché rimanere a destra si è spostato sul lato opposto. Ha preso vento, ha allungato e ha perso la volata di poco. A Vitelaru invece avevo ho detto che fino a 150 metri doveva rimanere a ruota, perché lei è molto esplosiva e doveva fare una volata corta. L’olandese è stata più furba e ha fatto la finta di partire a 350 metri. Lei ha abboccato ed è partita. L’altra si è messa a ruota e poi l’ha saltata nel finale. Li ho ripresi entrambi, anche in modo severo.

Severo?

Sono stato anche io atleta e mi dava più fastidio se dopo un pessimo risultato mi dicevano che andava bene lo stesso. Se il tecnico analizza gli errori, magari sul momento ci resti male, però vuol dire che ci tiene. Farroni dopo l’arrivo piangeva. Però il giorno successivo l’ho accompagnato all’aeroporto e mi ha detto grazie. Che era giusto che lo avessi richiamato perché aveva sbagliato. La mia fortuna è essere stato nei loro panni e fare con loro quello che avrei voluto facessero con me. 

Farroni beffato in volata dal canadese Clement, probabilmente per un suo errore in volata (foto Borserini/FCI)
Farroni beffato in volata dal canadese Clement, probabilmente per un suo errore in volata (foto Borserini/FCI)
Qualcuno ha fatto notare che il bilancio di Zurigo è buono, ma che le medaglie sono meno di altri mondiali. Parlano di Cascais nel 2021…

E’ una vecchia disputa. Vincemmo 13 titoli mondiali, ma non ci si sofferma mai sul livello di partecipazione. Quell’anno le nazionali più forti avevano puntato tutti su Tokyo. Lo conferma il fatto che quei 13 ori di Cascais a Tokyo si ridussero all’oro della staffetta, cinque argenti e un bronzo. Oggi quegli atleti hanno smesso quasi tutti e a livello mondiale è venuta avanti una nuova generazione fortissima. Restano davanti soltanto Mazzone e Cornegliani, mentre abbiamo scoperto che dietro non c’era niente.

Nessun giovane?

Ho preso in mano un gruppo di atleti di una certà età, cosa era stato fatto per il ricambio? Se adesso smettessimo di cercare giovani, magari a Los Angeles porteremmo a casa qualcosa. Mirko Testa ce l’ho, Pini ce l’ho, Cortini ce l’ho, ma poi fra 10 anni con chi vinci?

(*) Per capire meglio, le categorie del paraciclismo sono suddivise in C (ciclismo), H (handbike), T (triciclo), Tandem. I numeri accanto sono inversamente proporzionali alla gravità dell’handicap. Si va da 1 che è il caso più grave a 5 che è il più lieve.

Due bronzi mondiali e nel mezzo il riscatto di Paladin

03.10.2024
6 min
Salva

Se foste stati ai piedi del podio del team relay di Zurigo oppure nella mixed zone quando le azzurre sono passate per raccontare la loro prova, avreste notato sicuramente l’espressione malinconica di Soraya Paladin. La trevigiana aveva perso prestissimo le ruote delle compagne e sentiva di non aver dato il suo contributo. Non sentiva il bronzo come una sua conquista. Il risvolto molto bello della serata erano state le parole immediate di Longo Borghini e Realini che si erano affrettate a farle scudo, parlando di una giornata storta e dicendosi sicure che su strada sarebbe stato diverso.

Infatti così è stato. Nella prova del sabato, con il freddo e l’acqua, Paladin ha fatto degnamente il suo lavoro, contribuendo al bronzo di Elisa Longo Borghini, che dopo la corsa ha sottolineato la sua prestazione. Confermando il riscatto rispetto alla crono di tre giorni prima. Ma come ha vissuto Soraya Paladin (foto Borserini in apertura) quei tre giorni e con quale voglia di riscatto? Glielo abbiamo chiesto alla vigilia del mondiale gravel per il quale l’ha convocata il cittì Pontoni.

Sul podio del team relay, tutti gli azzurri festeggiano il bronzo, Paladin è con la testa altrove (foto Maurizio Borserini)
Sul podio del team relay, tutti gli azzurri festeggiano il bronzo, Paladin è con la testa altrove (foto Maurizio Borserini)
Che cosa era successo nel team relay?

Una giornata storta e il fatto che quando abbiamo preso la salita hanno esagerato un po’ con i watt. Ne avevamo parlato la mattina e io gli avevo detto che alla fine è matematica. «Se spingete più di un tot, non vi sono mai stata dietro tutta la stagione, non è che mi sveglio la mattina del mondiale e mi invento la prestazione della vita». Però magari si sono fatte prendere dalla foga e hanno un po’ esagerato in salita, mandandomi in crisi. Poi ne abbiamo parlato. Hanno fatto la salita 30 secondi più forte delle australiane. E parlando anche con loro, più o meno hanno avuto lo stesso problema. Hanno perso presto una ragazza, Ruby Roseman-Gannon, e anche lei si sentiva come me di non aver contribuito più di tanto.

Da quanto sapevi che avresti fatto il team relay?

Ne avevo parlato con Sangalli nel periodo del Tour. Mi aveva detto di andare un po’ con la bici da crono, perché poteva esserci questa possibilità. Poi Marco Velo mi ha chiamato una settimana prima e mi ha dato la sicurezza.

Come ci si sente quando viene a mancare il proprio contributo?

Alla fine, è una medaglia. Quello che mi dispiace di più è che era una medaglia mondiale e non me la sono proprio goduta, perché non l’ho sentita mia. Poi le ragazze in realtà sono state bravissime. Mi hanno detto: «Guarda Soraya, alla fine la squadra non è solo nella gara». Sapevamo che i secondi che avrebbero perso per aspettare me in salita sono quelli che poi avrebbero guadagnato con me nel resto del percorso. E’ ovvio che per me sarebbe stato meglio arrivare più avanti. Però alla fine mi hanno dimostrato di essere contente di avermi e mi hanno consolato subito dopo la gara. Anche se la mia reazione a caldo è stata quella che avete visto voi.

Come sono stati poi i tre giorni che hanno portato alla strada? Avevi voglia di rifarti?

Non i miei giorni migliori, ma erano due gare completamente diverse e sapevo di essermi preparata. Non avrebbe avuto senso mettermi a valutare la mia condizione su quella performance, facendomi condizionare nella gara su strada. Anche in questo caso la squadra mi ha dato supporto e più si avvicinava la gara e più avevo voglia di riscatto.

Quanto si percepiva quest’anno il fatto che avreste corso tutte per una, cioè Longo Borghini?

E’ stato bello, perché ha dimostrato da tutta la stagione di andare forte. Sapevamo che questa volta potevamo arrivare vicini alla maglia iridata o almeno io avevo questa consapevolezza. Quindi non c’è stata troppa pressione, ce la siamo vissute veramente bene. Sono stati giorni belli e secondo me non avrebbe avuto senso avere un’opzione B. Era tutto o niente: qualsiasi alternativa, per come è andata la stagione, non avrebbe dato il risultato che volevamo.

Come andare al Tour tutte per Kasia Niewiadoma e poi vincere oppure la corsa di un giorno è altra cosa?

Un po’ diverso. Alla fine il Tour de France è più logorante, perché devi soffrire per 8 giorni. E ogni giorno sei lì a lottare per i secondi, non è mai finita. Però a fine gara la soddisfazione è stata simile. Ovvio, con Kasia è diverso, perché ci passi tanti ritiri e tante gare. Vivi da vicino l’impegno che ci mette, la sofferenza nelle altre corse, quindi la vivi in modo diverso. Però so quanto anche Elisa ci lavori e si impegni e alla fine sono contenta. Siamo state parecchio affiatate. Per alcune era la prima esperienza, quindi anche loro magari erano un po’ agitate. Comunque il mondiale lo vivi sempre con un occhio diverso, perché hai la maglia della nazionale e la vuoi rappresentare al meglio. Però ce lo siamo vissute bene, ci siamo divertite e allo stesso tempo eravamo focalizzate sull’obiettivo.

Due giorni dopo il tram relay, la squadra azzurra di nuovo sul percorso. Qui Balsamo, Paladin e dietro Magnaldi
Due giorni dopo il tram relay, la squadra azzurra di nuovo sul percorso. Qui Balsamo, Paladin e dietro Magnaldi
Quanto è stata dura la corsa, visto anche il meteo?

A provare il giro una sola volta, ti dava già l’idea di essere impegnativo. Però con quel tempo e col fatto che il mondiale lo corri a tutta e tutte vogliono far bene, è diventato ancora più selettivo. Sapevamo che non avrebbe vinto una outsider e Lotte Kopecky ha stupito in così tante occasioni, che nessuno ha trovato strano che abbia vinto lei. Basta pensare al Blockhaus al Giro d’Italia o alle salite del Romandia.

Invece cosa diciamo della corsa delle olandesi?

Lì si entra in un discorso un po’ strano. Secondo me il loro punto debole è non saper far convivere più leader e si è visto. Sembrava che ci fossero squadre diverse all’interno della squadra. Avevamo messo in preventivo che potessero fare una corsa strana, ma non pensavamo così strana. Ci sarebbe da capire se magari gli manca un direttore tecnico capace di trovare la coesione che manca.

A fine corsa come ti sei sentita, facendo anche il confronto con la crono?

Molto soddisfatta e anche un po’ ripagata per quella delusione. Ero contenta, indipendentemente dal risultato. Abbiamo corso bene, sapevo che Elisa avrebbe fatto una grande gara. Se avessi dovuto finire la stagione con la cronosquadre, sarebbe stato completamente diverso. Magari avrei avuto tanti più punti di domanda, più dubbi. Invece dopo aver corso anche la strada e aver avuto delle buone sensazioni, ho visto che il lavoro in qualche modo ha pagato. E ho trovato le sicurezze per finire bene la stagione e pensare positivamente al prossimo anno.

Nella gara su strada, Paladin ha svolto un ottimo lavoro per Longo Borghini: il riscatto è compiuto
Nella gara su strada, Paladin ha svolto un ottimo lavoro per Longo Borghini: il riscatto è compiuto
La sera si è brindato al bronzo di Elisa?

Purtroppo no. Logisticamente eravamo organizzati in modo che non ci fosse tempo per fare festa. Dovevamo tutte rientrare, quindi abbiamo aspettato Elisa il più possibile, però lei è arrivata tardi e noi eravamo già andate. Io avevo sette ore di viaggio, quindi a una certa siamo dovuti andare, visto che abbiamo viaggiato in auto. Ma un brindisi ci stava e sono sicura che troveremo sicuramente l’occasione quando ci rincontreremo.

Stagione che si chiude con il gravel?

Con i mondiali e gli europei ad Asiago la settimana prossima. Lo sterrato mi piace, è un vecchio amore. Quando Pontoni mi ha chiamato, ho accettato volentieri perché mi diverte. Il mondiale in Belgio e poi Asiago, perché lo sento di casa. E poi su quest’anno, che è cominciato a gennaio in Australia, mettiamo finalmente il punto.

Intuito Tratnik: arriva Pogacar, si rialza e lo lancia verso l’iride

03.10.2024
5 min
Salva

ZURIGO (Svizzera) – «Ho capito che Tadej stava arrivando – dice Tratnik – perché quando con la fuga abbiamo iniziato la salita, avevamo un vantaggio di circa due minuti e mezzo. Poi improvvisamente è sceso a un minuto e mezzo: un minuto in meno in pochissimo tempo. A quel punto la moto passando mi ha detto che avevano attaccato. E poi, qualche minuto dopo, ho visto sulla tabella che il numero 22 aveva 20 secondi di vantaggio sul gruppo: il numero 22 era Tadej. Da lì ho capito che era da solo e in quel momento ho deciso di aspettarlo per cercare di fargli risparmiare un po’ di energia».

Restiamo ancora un po’ sul mondiale. Le parole di Vanthourenhout hanno riportato l’attenzione su Jan Tratnik. Averlo visto nella prima fuga, ha raccontato il tecnico del Belgio, faceva pensare che Pogacar si sarebbe mosso. E sia pure con imprevedibile anticipo, così è stato. A quel punto i belgi si sono ritrovati con l’inseguimento sulle spalle, mentre Tadej davanti scriveva la storia. Ma non era solo, con lui c’era il compagno di nazionale.

Tratnik, 34 anni, era al via del mondiale in supporto per Pogacar o Roglic
Tratnik, 34 anni, era al via del mondiale in supporto per Pogacar o Roglic

Attacco a sorpresa

Tratnik era là, solido e pronto. La sua è stata finora una carriera a metà fra il protagonismo e la generosità. E’ stato capace di vincere un europeo U23 a crono, poi una tappa al Giro e anche l’ultima Omloop Het Nieuwsblad. Ma ha anche scortato capitani come Caruso, Roglic, Kuss e Vingegaard verso grandi risultati. E questa volta si è ritrovato davanti al mondiale con il più giovane connazionale che a suo modo era partito verso un’impresa leggendaria.

«Sono venuto a Zurigo – racconta – solo per aiutare Tadej e Primoz. Non ho mai nemmeno pensato alle mie possibilità personali. Sapevamo che loro due erano i nostri capitani e siamo andati lì solo per aiutarli. Però non mi aspettavo di vederlo arrivare così presto. Quando sono andato in fuga, sapevo che in qualche modo Tadej avrebbe avuto un vantaggio dalla mia presenza, ma pensavo che si sarebbe mosso nel giro successivo. Mi ha davvero sorpreso che abbia attaccato così presto, il piano non era assolutamente questo».

Un giro dopo aver lasciato Pogacar, Tratnik si è fermato e lo ha atteso al traguardo col resto della squadra (foto Vid Ponikvar)
Un giro dopo aver lasciato Pogacar, Tratnik si è fermato e lo ha atteso al traguardo col resto della squadra (foto Vid Ponikvar)

A tutta fino alla cima

Immaginate la scena, oppure riavvolgete il nastro e andate a rivederla. Tratnik è nella fuga in cui viaggia anche Cattaneo. Sembra tutto normale, come può essere normale essere inseguito da un gruppo così pieno di campioni. Eppure di colpo si rialza e smette di collaborare. Gli altri lo guardano e qualcuno capisce.

«Quando i ragazzi della fuga hanno visto che non tiravo più – sorride – hanno capito che forse stava succedendo qualcosa dietro. Quando poi mi sono staccato e mi hanno visto rientrare con Tadej, hanno smesso immediatamente di collaborare. Sapevano esattamente cosa stavamo facendo. Tadej non mi ha chiesto niente. Io invece gli ho detto di stare seduto alla mia ruota e di non fare niente. Ci avrei pensato io fino alla cima della salita, poi però avrebbe dovuto cavarsela da solo. Il mio compito era quello e poi vederlo andare via a tutto gas.

«Le poche cose che ci siamo detti sono state per dirgli di stare calmo, che avrei tirato io. E una volta sulla cima, gli ho augurato il meglio possibile e gli ho detto che speravo che sarebbe diventato campione del mondo. Io invece dopo un altro giro mi sono fermato e ho chiuso lì il mio mondiale».

Tratnik assicura che anche il lavoro di Roglic è stato prezioso per la conquista di Pogacar
Tratnik assicura che anche il lavoro di Roglic è stato prezioso per la conquista di Pogacar

Il lavoro di Roglic

Dal prossimo anno, Tratnik tornerà con l’amico Roglic alla Red Bull-Bora. Eppure in nazionale ogni rivalità sparisce. Soprattutto quando, come quest’anno, tutta la squadra sa di poter portare in patria la maglia iridata, che per ultimo Mohoric era riuscito a conquistare nel 2013 da under 23.

«Con Tadej siamo buoni amici – dice Tratnik – ci alleniamo insieme a Monaco, a volte andiamo a cena insieme. Siamo amici ed è un tipo che mi piace. E’ davvero rilassato e un vero campione. L’atmosfera della nazionale attorno ai nostri leader era davvero buona. Anche Primoz ha fatto un lavoro incredibile. Forse non si è visto, magari la televisione non lo ha inquadrato, ma praticamente ha lanciato lui l’attacco di Tadej. Si è molto impegnato. Abbiamo vinto la maglia e chiaramente Tadej è stato il più forte, ma Primoz lo ha aiutato molto. E’ stato anche lui una parte importante di questa vittoria.

«La sera la squadra era felice. Abbiamo festeggiato davvero bene e non importa in quale team corriamo. Eravamo semplicemente felici che questa nuova maglia fosse in Slovenia e che tutti abbiano lavorato per portarcela. A partire dai corridori, tutti hanno fatto un lavoro incredibile e tutti si sono impegnati. C’era davvero una bella atmosfera anche da parte dello staff e delle persone che ci hanno aiutato. Posso dire che è stato davvero bello». 

Sul pullman, anche per Tratnik la foto ricordo della fantastica avventura iridata di Pogacar (foto Vid Ponikvar)
Sul pullman, anche per Tratnik la foto ricordo della fantastica avventura iridata di Pogacar (foto Vid Ponikvar)

Orgoglio sloveno

Il tempo di tornare a casa e mettere nella valigia i capi con i colori della Visma-Lease a Bike e Jan Tratnik tornerà a lavorare per la sua squadra. Per festeggiare il mondiale, ne siamo certi, ci sarà tutto l’inverno, prima di andare magari nel raduno di Soelden con cui la sua nuova squadra tedesca è solita aprire la stagione.

«Dal prossimo anno – ammette – sarò di nuovo in squadra con Roglic. Penso che Primoz sia una persona adulta e sappia che questa volta Tadej era il più forte ed è anche per questo che lo ha aiutato. Qui non ci sono rancori, alla fine, siamo tutti amici. Forse non è neanche questo. Siamo sloveni, quindi se possiamo aiutarci a vicenda, lo facciamo. Poi però nelle gare normali, gareggiamo l’uno contro l’altro. Quindi nessun rancore o risentimento per aver aiutato un rivale. Avevamo un obiettivo chiaro. Volevamo vincere questa maglia, volevamo farlo e tutto ha funzionato alla perfezione. E io sono davvero felice di averne fatto parte».

Tiberi e le corse di un giorno: ne ragioniamo con Bartoli

02.10.2024
6 min
Salva

La prima presenza al mondiale per Antonio Tiberi ha portato tanta pressione, soprattutto dopo la vittoria al Giro di Lussemburgo, ma anche un’esperienza nuova. Ce lo aveva detto lo stesso corridore della Bahrain Victorious a fine gara.

«Fare corse di un giorno – ha detto alla fine della prova iridata – è sempre una fatica un po’ diversa dal solito. Ci sono degli sforzi che non si fanno abitualmente nelle gare a tappe, poi in un mondiale dove tutto si amplifica è veramente dura. La prima gara di un giorno che ho disputato quest’anno è stata la Liegi. Il mondiale, invece, è stata la seconda».

Al Giro di Lussemburgo Tiberi ha mostrato ottime qualità negli sforzi brevi richiesti dagli strappi
Al Giro di Lussemburgo Tiberi ha mostrato ottime qualità negli sforzi brevi richiesti dagli strappi

Piccoli passi

Tiberi ha poi espresso la voglia di migliorare in questo tipo di competizioni, dichiarando la volontà di inserirne altre nel calendario della prossima stagione. Riflessioni giuste e ambiziose di un ragazzo di 23 anni che solo nel 2024 ha mostrato di poter fare i passi giusti per entrare nella cerchia dei corridori di primo livello. Con lui, quando è entrato a far parte della Bahrain Victorious, lavora Michele Bartoli. Il preparatore toscano è la figura giusta da interpellare per analizzare al meglio il mondiale di Tiberi e parlarne apertamente. 

«A Zurigo – spiega Bartoli – Tiberi ha corso la seconda gara di un giorno della stagione, era logico potesse soffrire in qualche modo. E’ un tipo di sforzo al quale non è abituato ma, come in tutte le cose, se vorrà dedicarsi anche a questi appuntamenti dovremo prepararli con le giuste modalità. A seconda degli obiettivi si devono poi impostare allenamenti diversi».

La Liegi è stata la prima e unica corsa di un giorno disputata da Antonio prima del mondiale
La Liegi è stata la prima e unica corsa di un giorno disputata da Antonio prima del mondiale
Lo stesso Antonio ha detto di essersi accorto che gli manca l’esplosività per affrontare certi percorsi. 

Innanzitutto vorrei dire che di questo mondiale ognuno ha dato la sua interpretazione. Si era partiti con l’affermare che fosse per scalatori, ma se arriva terzo Van Der Poel non mi viene da pensare a un percorso per scalatori. Penso sia stato un mondiale opposto alle sue caratteristiche di base.

Quali sono?

Lui è un atleta da corse a tappe, considerando che nel 2024 ha disputato solo questo genere di appuntamenti è difficile immaginarlo in gare di un giorno. Poi può migliorare. Anzi, sono sicuro che se un domani dovesse correre di nuovo il mondiale, Antonio sarebbe in grado di competere con i più forti. Alla fine è arrivato terzo O’Connor. Però va tutto preso con calma, non dimentichiamoci da dove è partito Tiberi. 

Il ciociaro si è reso conto che anche in un grande Giro serve avere tanta potenza per rispondere agli attacchi dei più forti
Il ciociaro si è reso conto che anche in un grande Giro serve avere tanta potenza per rispondere agli attacchi dei più forti
Ovvero?

Nel 2024 ha dimostrato di poter ricoprire il ruolo di leader per un Grande Giro in una formazione WorldTour. Il suo quinto posto al Giro potrebbe entrare di diritto nelle più belle prestazioni dell’anno, se non ci fosse stato un certo Pogacar. Però arrivare in una squadra come la Bahrain e al primo anno dimostrare di poter fare il capitano, a soli 22 anni, non è poco. 

Come ha detto lo stesso Tiberi le corse di un giorno possono aiutare nel migliorare anche nelle gare a tappe?

Sicuramente. Anche perché gli sforzi anaerobici, come i lavori sui cinque minuti, alla soglia lattacida, VO2 Max e interval training sono entrati in pianta stabile nelle tabelle di lavoro anche dei corridori da corse a tappe. Chiaro che la differenza arriva a seconda del tempo che dedichi a questi allenamenti. Alla fine credo che si vinca con la prestazione. 

Tiberi ha programmato la stagione puntando su due grandi corse a tappe
Tiberi ha programmato la stagione puntando su due grandi corse a tappe
Spiegaci.

Le gare le vince chi riesce ad avere la miglior prestazione massimale, chi è abituato a soffrire. Anche per staccare gli altri in salita sei costretto a fare sforzi molto intensi e se non sei in grado di replicare alla prima risposta ti fanno fuori. I lavori lattacidi, come i cambi di ritmo, sono quel tipo di allenamento che migliora questo genere di prestazioni. Tiberi ha una caratteristica che lo può rendere un grande corridore.

Cioè?

La gestione del proprio sforzo. Riesce a non andare fuori giri mantenendo una prestazione altissima. Per altri corridori amministrarsi vuol dire abbassare tanto l’intensità dello sforzo. Antonio riesce a fare una prestazione massima senza mai subirla.

Al mondiale le premesse c’erano e secondo Bartoli, il suo preparatore, in futuro Tiberi potrà fare bene in questi appuntamenti
Al mondiale le premesse c’erano e secondo Bartoli, il suo preparatore, in futuro Tiberi potrà fare bene in questi appuntamenti
Un po’ come Pogacar, con i dovuti paragoni?

Per me guardare il super campione diventa controproducente. Pogacar può fare tutto, anche sbagliando, e non subire conseguenze. Gli basta un chilometro per recuperare totalmente e poi ripartire. Magari altri corridori un errore lo pagano e devono riposare una notte intera per recuperare pienamente. Tiberi per me è un super atleta e ha delle qualità che per la sua giovane età possono portare a tanto: un gran motore e ascolta bene il proprio fisico. 

Quindi si può pensare a un Tiberi protagonista nelle corse di un giorno?

Tanto dipende dal calendario. Se fa come nel 2024 dove ha corso Giro e Vuelta, è più difficile perché la programmazione ti porta a lavorare in un determinato modo. Se dovesse saltare il Giro potrebbe concentrarsi sulle Ardenne e prepararle al meglio. Oppure, se si sceglie di fare la corsa rosa dopo lo stacco di metà stagione, potrebbe lavorare in ottica San Sebastian e Lombardia. Questo lo deciderà lui insieme alla squadra. 

L’altra monumento corsa in carriera è stato Il Lombardia, nel 2021 con la Trek e nel 2023 con la Bahrain (qui in foto)
L’altra monumento corsa in carriera è stato Il Lombardia, nel 2021 con la Trek e nel 2023 con la Bahrain (qui in foto)
Era comunque la prima esperienza a un mondiale.

Una volta si diceva che per essere competitivi in gare come Fiandre o Liegi servissero due o tre anni. Ora solo perché uno o due corridori fanno bene subito, sembra che non ci debba essere il tempo di adattamento. L’opinione pubblica cambia con l’attualità dei fatti, ma non sempre questa è la regola. Le cose si costruiscono un mattone per volta, Bennati, che di ciclismo ne sa, ha già detto che Tiberi deve vivere certe gare per abituarsi e capirle. 

E poi non va buttato quanto di buono ha fatto, come la vittoria al Lussemburgo.

Quella era una corsa vicina agli sforzi che trovi in una gara di un giorno. Sforzi massimali sui 3 minuti e rilanci in cima allo strappo. Ero il primo a essere fiducioso in vista di Zurigo, poi però le giornate difficili capitano. Comunque va considerata l’emozione di vestire la maglia della nazionale e di correre un mondiale. Rimango della mia idea: se domani dovessero correre ancora Antonio lo metterei nuovamente tra quelli che possono fare bene.