Queste sono le parole molto toccanti di Riccardo Piccini, il papà di Silvia, vittima di un'auto alla fine di aprile. Con la sua squadra ha compiuto un viaggio di sei tappe fino a Roma, indossando la maglia e il casco rosa ricevuta da De Marchi, per raccontare la storia di sua figlia e richiamare a una maggior sensibilità sul tema sicurezza. Ascoltate con attenzione le sue parole. Ne riparleremo presto. Promesso!
Nessuno di noi la conosceva personalmente, ma Silvia Piccini è entrata nelle nostre vite e non deve più uscirne. Aveva 17 anni, classe 2003. Il 22 aprile si stava allenando, come faceva ogni giorno. Dopo scuola, tornava da Udine in pullman e intanto mangiava la sua ciotola di riso. Rientrava, si cambiava, usciva in bici e al ritorno studiava. Silvia voleva diventare un medico, la bici era la sua grande passione. Quel giorno però a casa non c’è tornata. La sua colpa è stata trovarsi sulla traiettoria di un’auto con troppa fretta, che l’ha uccisa.
Due giorni prima della partenza per Roma di Riccardo, Alessandro De Marchi si è presentato a casa Piccini portando in dono maglia rosa e cascoDue giorni prima della partenza per Roma di Riccardo, De Marchi ha portato in dono maglia rosa e casco
A Roma con Silvia
Passiamo le nostre giornate cercando racconti di campioni, imprese, dettagli tecnici, approfondimenti, biciclette bellissime, ma questa volta ci fermiamo e vi proponiamo una riflessione più profonda attraverso le parole di Riccardo Piccini, il papà di Silvia.
Lo abbiamo incontrato alle porte di Roma, mentre con gli amici del Picchio Rosso Bike stava concludendo il suo viaggio dal Friuli verso Roma. In bicicletta.
«Vi dico quello che mia moglie ripete sempre a tutti. Silvia non l’ha uccisa la bicicletta, la bicicletta non c’entra niente. Silvia l’ha uccisa un errore umano. Un errore umano, che poteva essere evitato. Non potevo dire a mia figlia di non andare in bicicletta e che la bicicletta è pericolosa. Era la sua passione. Ma dopo quello che è successo, schiere di bambini che sognavano di correre, adesso hanno paura di farlo. E non lo troviamo giusto».
Hanno distribuito questi cuori con il nome di Silvia lungo il percorsoHanno distribuito questi cuori con il nome di Silvia lungo il percorso
Gli occhi di Riccardo
Ci ha messo in contatto De Marchi e Riccardo si è prestato a raccontarci di sua figlia. Mentre parlava, nel suo sguardo abbiamo rivisto il dolore di Giacomo Scarponi, Marco Cavorso e di altri genitori sgomenti. E quando abbiamo avuto paura di avergli chiesto troppo, è stato lui a voler andare avanti.
«Questa morte non deve essere stata invano. Ognuno di noi deve dare il suo esempio, ma le regole vanno imposte dall’alto. Ho pensato tanto in questi giorni e dovunque andassimo, abbiamo raccontato di Silvia. Alessandro lo ringrazio tantissimo. Incontrarlo è stata un’emozione grandissima, ci ha dato una forza incredibile. Oltre che un campione di ciclismo, secondo me è un campione di vita. Una grandissima persona, da stimare, da seguire».
Riccardo con la maglia rosa e il casco di Alessandro De Marchi: inizia l’ultimo tratto verso Roma, il viaggio volge al termineRiccardo con la maglia rosa e il casco di Alessandro De Marchi
In silenzio
Vi lasciamo in silenzio con le sue parole, ma ci prendiamo l’impegno che non finirà qui e per questo vi chiederemo presto di fare qualcosa con noi. Tutti coloro che, nessuno escluso, nel ciclismo vivono e dal ciclismo traggono da vivere hanno l’obbligo di non limitarsi al solito carosello di belle parole. Quelle dopo un po’ si somigliano tutte e allora questo dolore non avrà avuto alcun senso.
«Ieri pomeriggio ho conosciuto Silvia. Leggete bene, non ho sbagliato: ieri ho veramente conosciuto Silvia incontrando la sua famiglia, papà Riccardo, mamma Janira, suo fratello Alejandro e l’ultima arrivata Elisa, l’ho conosciuta perché lei vive ancora con loro, è lì con loro ogni giorno. E la sua famiglia è determinata ad avere giustizia e soprattutto a non farla morire invano…».
Iniziava così due giorni fa il post su Instagram di Alessandro De Marchi. Avevamo pensato tante volte di metterci in contatto con la famiglia di Silvia Piccini – la ragazza di 17 anni uccisa il 24 aprile da un’auto mentre semplicemente si stava allenando – con la rabbia addosso per l’ennesimo incidente cui si fatica a dare una spiegazione, ma proprio Alessandro ci aveva detto che sarebbe stato meglio aspettare. Poi gli hanno detto che il papà della ragazza stava organizzando una pedalata per portare il suo dolore e la sua testimonianza fino a Roma e alla fine ha suonato alla loro porta (nella foto di apertura, scattata da sua moglie Anna, Alessandro è con il giovane Alejandro, suo padre Riccardo e, in braccio a mamma Janira, ci sono Andrea De Marchi e la piccola Elisa).
Silvia Piccini aveva 17 anni, è morta il 24 aprile due giorni dopo l’incidente (foto Instagram)Silvia Piccini aveva 17 anni, è morta il 24 aprile due giorni dopo l’incidente (foto Instagram)
L’ansia addosso
Il Rosso di Buia è tornato in ospedale. Stamattina lo operano alla clavicola e poi resteranno soltanto le costole, che ancora fanno male. Scherzando gli chiediamo se gli abbiano lasciato direttamente le chiavi della stanza, poi però il discorso va ai sentimenti che condividiamo sulla storia di Silvia e dei tanti, come lei, che sono morti per il comportamento criminale di pochi.
«In realtà – racconta Alessandro – ero in contatto con loro già da un po’, da quando durante il Tour of the Alps mi esposi per parlare di Silvia. Fu una telefonata che mi lasciò senza parole. Prima di allora non ci eravamo mai incrociati, giusto per qualche evento di ciclismo. Dopo invece ci siamo tenuti in contatto. Per la maglia rosa e quando mi sono ritirato. Così, visto che suo papà stava partendo, con Anna siamo andati a trovarli. Eravamo parecchio agitati, perché in certi casi non sai mai come porti».
Silvia era ancora lì. Chiunque si sia trovato in situazioni analoghe potrà dirvi la stessa cosa. Solo il tempo renderà il distacco tangibile, ma all’inizio non è così. E’ successo un mese e mezzo fa, ma la mamma di Silvia a un certo punto ha accompagnato Anna, in dolce attesa, a guardare degli abiti che aveva pensato di regalare.
«Ci hanno raccontato gli aneddoti della sua vita – sorride – tante piccole cose. Silvia è nata che sua mamma aveva 17 anni e forse proprio per questo era una ragazza con la testa sulle spalle, di quelle che aiutava in tutto. Andava in bici. Studiava. Le piaceva scrivere. Era legatissima a suo fratello. La stessa determinazione di donare gli organi l’aveva avuta leiquando nessuno pensava che sarebbe finita così. Siamo rimasti sbalorditi… ».
Mamma Janira ha avuto Silvia quando aveva ancora 17 anniMamma Janira ha avuto Silvia quando aveva ancora 17 anni
Una vicenda triste
Alessandro racconta e sia pure a distanza lo immaginiamo fissare un punto, come fa quando segue il filo dei pensieri e li racconta senza perdersi. Come quando raccontò le emozioni della sua maglia rosa, che proprio in queste ore sta completando ben altro Giro d’Italia.
«Non ci hanno dato per un solo secondo la sensazione di una famiglia colpita dal lutto – dice – quelli tristi eravamo noi due. Ci hanno accolti come se ci conoscessimo da sempre. Ci hanno raccontato cose da non scrivere sull’incidente e quello che c’è ora. La vicenda è veramente triste. Abbiamo respirato la loro determinazione nell’andare sino in fondo per avere giustizia, sfruttando l’occasione per aiutare altre famiglie e perché la morte di Silvia non sia stata invano. La bici non c’entra, la bici è ancora centrale nella loro vita. Il papà è un amatore molto soft, cui piace fare chilometri senza classifiche. E il piccolino corre da esordiente.
«Lui era quello più emozionato. Mi ha chiesto un sacco di cose. La velocità nelle volate e mi ha confessato la sua paura di sgomitare nelle fasi di corsa. L’ho guardato, ho pensato a come sono conciato e gli ho detto che forse stava chiedendo alla persona sbagliata. Quando siamo usciti da quella casa, era come se davvero avessimo conosciuto Silvia».
Con Papà Riccardo e il figlio Alejandro, che corre negli esordientiCon Papà Riccardo e il figlio Alejandro, che corre negli esordienti
Dipende da noi
Cosa si può fare, Alessandro, perché questa non sia solo una delle vite rubate? Il silenzio di fondo parla di una stanza di ospedale, ma anche dello sgomento che ti assale quando ti arrovelli in questi pensieri.
«Ho anche io la paura – ammette – che passata l’ondata del dolore, si tornerà a parlare d’altro. Mi sento di dire che vanno bene le iniziative di piazza, bene far rumore, ma poi mi chiedo: che cosa facciamo nel nostro piccolo? Quando siamo in macchina e la persona che guida telefona o scrive messaggi, che cosa gli diciamo? Quando vediamo sui social i nostri amici fare foto o selfie in auto o in bici, che cosa diciamo? Io credo che finché ciascuno di noi non comincia a rendere queste attenzioni quotidiane e senza eccezioni, il vento non cambierà. E allora davvero la morte di Silvia sarà stata invano».
Il ciclismo, più che uno sport è uno stile di vita. Ci insegna la cosa più importante: a non arrenderci mai. Silvia Piccini
«I numeri degli incidenti stradali non si fermano mai e invitano a riflettere sulla sicurezza delle nostre strade, in particolare a tutela dei ciclisti, dei pedoni, e della micro-mobilità in costante crescita». Non è male, soprattutto se a dirlo è un comunicato dell’Automobile Club d’Italia. Anche per quest’anno infatti l’Aci ha partecipato al Giro d’Italia con la sua campagna #rispettiamoci, lanciata nel 2019, per ribadire l’importanza di comportamenti sempre corretti alla guida, soprattutto quando l’automobilista incontra chi pedala o cammina.
I numeri, si diceva. I dati del 2019 sono ancora una volta raccapriccianti. Un decesso su quattro appartiene alla categoria dei cosiddetti utenti vulnerabili, con un forte aumento tra le vittime dei ciclisti (+15,5%) rispetto al 2018, dentro e fuori le aree urbane. I dati in elaborazione del 2020 confermano tale tendenza, nonostante la consistente riduzione della mobilità e dell’incidentalità complessiva. E se è cresciuto il numero delle biciclette circolanti, di pari passo è aumentato drammaticamente il dato sugli incidenti stradali che coinvolgono le bici (+3,3%).
Davide Cassani, commissario tecnico della nazionale
Mauro Bergamasco, ex azzurro del rugby
Iuri chechi, olimpionico di ginnastica artistica
Cristian Salvato, presidente dell’Associazione dei corridori
Davide Cassani, commissario tecnico della nazionale
Mauro Bergamasco, ex azzurro del rugby
Iuri chechi, olimpionico di ginnastica artistica
Cristian Salvato, presidente dell’Associazione dei corridori
Numeri spaventosi
Nel 2019 in Italia si sono verificati 172.183 incidenti con lesioni. Di questi 2.982 mortali con 3.173 morti. I feriti totali registrati sono stati 241.384. I pedoni feriti sono stati 21.430 e di questi 534 sono morti. I ciclisti feriti sono stati 16.371 e di questi 253 sono morti. I morti totali di pedoni e ciclisti sono stati 787, circa il 25% del totale, percentuale che sale al 42% se ci riferiamo ai morti solo nei centri abitati. I pedoni feriti entro l’abitato sono stati 20.449 di cui 407 i morti. I ciclisti feriti entro l’abitato sono stati 14.479 con 150 morti.
Già, ma chi lo spiega a camionisti, automobilisti e personaggi in vista che sui social e sulle strade continuano ad inneggiare alla mattanza? Abbiamo rivolto qualche domanda a Ludovico Fois, Responsabile Relazioni Esterne e Istituzionali di ACI, anche se la sensazione finale è quella della solita disgregazione tra le forze che operano sul fronte della sicurezza e del totale disinteresse da parte della politica.
Come si fa ad arginare quei numeri?
Bisogna insistere sulla cultura del rispetto reciproco, che è parte integrante delle regole della sicurezza stradale. Tutti, a seconda di come decidiamo di muoverci ogni giorno, siamo automobilisti, ciclisti, motociclisti, pedoni, condividiamo le stesse strade e lo facciamo insieme. Dobbiamo ricordarcelo sempre.
L’iniziativa proseguirà al di fuori dello spazio Giro d’Italia?
La campagna #rispettiamoci sta proseguendo da tre anni ed è partita in occasione della prima partecipazione di ACI al Giro d’Italia di ciclismo nel 2019. Siamo consapevoli che occorra una forte presa di coscienza per cambiare gli atteggiamenti e la cultura della guida, quindi un percorso di moral suasion che prosegua nel tempo anche oltre lo straordinario momento del Giro. Ed è quello che faremo.
Presso i punti Aci è prevista cartellonistica in tal senso?
In passato abbiamo stampato e distribuito centinaia di migliaia di folder informativi, di adesivi da apporre sullo specchietto retrovisore per ricordare l’attenzione al possibile giungere di una bici e costantemente il tema è affrontato sui profili social di ACI e su tutti i nostri canali comunicativi. In questo momento, visto che la parte web e media della campagna è tutt’ora in corso, stiamo valutando con che forme proseguire per i prossimi mesi di quest’anno.
Giacomo Nizzolo, campione italiano ed europeo
Maurizio Fondriest, campione del mondo 1988
Gianni Bugno e Mattia Maestri, paziente zero del Covid
Gianni Bugno e Mattia Maestri, paziente zero del Covid
In che modo Aci può intervenire perché questi argomenti vengano introdotti nell’ambito delle scuole guida?
Bisogna partire dai giovani che affrontano i corsi per la patente di guida. Per questo ACI da anni opera per una guida sempre più sicura, partendo dai suoi Centri di Guida Sicura e proseguendo con il costante aggiornamento dei programmi e degli istruttori. Ma non solo nelle Scuole Guida aderenti al nostro network Ready to Go, stiamo lavorando per l’introduzione di uno specifico modulo formativo ad hoc, con appositi programmi di approfondimento e di pratica dedicati ai neo patentati, ben oltre dunque quanto richiesto dall’attuale norma.
La campagna fra un pubblico di ciclisti ovviamente riscuote consensi, si è pensato di esportarla nel mondo dei motori?
Assolutamente sì, ma di fatto già avviene. La scelta del Giro d’Italia è dettata dal voler raggiungere il più vasto pubblico possibile, composto certamente da tantissimi ciclisti ma anche da milioni di semplici appassionati. Entrambi questi soggetti sono anche automobilisti. Ed è anche una scelta simbolica, che vuole evocare vicinanza e assenza di steccati. Siamo tutti insieme, sulla stessa strada. Inoltre questa campagna tocca direttamente il milione di soci ACI, estremamente legati ai motori e le centinaia di migliaia di appassionati che seguendo i diversi profili social di ACI. Mi faccia però dire un’ultima cosa…
Alessandro Ballan, campione del mondo 2008
Francesco Moser, campione del mondo 1977
Matilde Gioli, attrice
Alessandro Ballan, campione del mondo 2008
Matilde Gioli, attrice
Francesco Moser, campione del mondo 1977
Prego.
Siamo di fronte a una straordinaria rivoluzione della mobilità, che grazie alla tecnologia, al web, ci permette di organizzare i nostri spostamenti utilizzando ogni volta il mezzo più idoneo tra l’auto (personale o condivisa), i mezzi pubblici, la bicicletta, uno scooter magari elettrico. In questa nuova mobilità siamo sempre tutti sulla stessa strada, dobbiamo solo imparare a rispettare gli altri e gli altri rispetteranno noi.
Il ciclismo è una famiglia. I professionisti ne sono gli ambasciatori. E' il mondo .PRO dal quale siamo nati e di cui bici.PRO è a sua volta la bandiera
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I numeri parlano chiaro, in barba alle lamentele di chi guida l’auto e vorrebbe toglierli tutti di mezzo. I ciclisti sono l’anello debole della strada e spesso al danno vedono sommarsi la beffa: Zerosbatti è nata per questo. Vendrame aggredito per la strada. Scarponi ucciso a pochi metri da casa. Tommaso Cavorso ucciso da un’auto in sorpasso. Marina Romoli travolta. Pozzovivo schiantato da un’auto. Samuele Manfredi su una sedia a rotelle e Luca Panichi prima di lui. Quanti sono i ciclisti che ogni giorno subiscono la violenza della strada?
Se seguite il ciclismo su Eurosport, questa storia l’avete già sentita, perché Luca Gregorio non manca mai di parlarne e fa bene. Qui ci proponiamo di preparare la tela su cui stendere di qui in avanti una serie di ragionamenti a uso di chi va in bici e nel momento del sinistro, non sa che pesci prendere.
«Perché quando ci finisci in mezzo – dice Federico Balconi, avvocato (nella foto di apertura) – non hai la lucidità di fare quel che serve. Se sai di avere un’assistenza legale, magari sai anche come muoverti. Ma se prima hai da pensare alle tue ferite e alla fisioterapia e il ricorso lo tieni per dopo, magari quando cominci è già tardi. Avete fatto voi il nome di Scarponi. Non conosco il caso, ma quando succede qualcosa di così drammatico, l’avvocato serve subito perché vengano fatti tutti i rilievi e si lavori in modo tempestivo. Dopo è tardi. Dopo oltre al dolore per la perdita, c’è la beffa per risarcimenti risibili».
Questa foto fa male, parla di Michele Scarponi e Marina Romoli e di un destino atroce…Questa foto fa male, parla di Michele Scarponi e Marina Romoli e di un destino atroce…
Una storia personale
Federico va per i 53 e racconta che la sua storia e quella di Zerosbatti, l’associazione da lui fondata, risale al dicembre 2017. La storia nel dettaglio è sul sito. In sintesi, torniamo al 2016. Durante un’uscita in bici, Federico viene contattato da un’agente della Stradale che gli comunica che suo padre è stato investito. Corre al Pronto Soccorso. Trova il padre sfigurato dal dolore. Ma il vero calvario è appena cominciato. E proprio dal rendersi conto della difficoltà nell’ottenere giustizia, nasce l’idea di creare un’associazione che offra assistenza legale e metta il ciclista investito al riparo dai primi esborsi finanziari. Un’assicurazione. Zerosbatti, appunto, nessuna preoccupazione.
Perché di preoccupazione si tratta…
Hai subito l’incidente, poi arrivi alla causa e si apre tutto un altro scenario. Devi disporre di un fondo iniziale per cominciare e poi c’è la causa, che può andare bene o male. E se per qualsiasi motivo va male, non solo non hai un risarcimento, ma devi pagare le spese legali. Noi evitiamo tutto questo. Facciamo l’analisi della pratica e valutiamo la fattibilità. Se sei andato da solo contro un furgone parcheggiato, hai poco da fare. Ma se noi di Zerosbatti siamo convinti di poter procedere, la portiamo sino in fondo.
Cosa fare se si viene investiti: Zerosbatti fa anche formazioneCosa fare se si viene investiti: Zerosbatti fa anche formazione
Come dire che i ciclisti non sono la causa di tutti i mali?
Potranno dare fastidio quando sono in mezzo alla strada, ma la stragrande maggioranza dei sinistri vede la ragione da parte dei ciclisti. Sia che vengano travolti da un’auto, sia che cadano per una buca. La Cassazione ha detto che se anche il ciclista è distratto e non la vede, l’Ente che ne è proprietario ha l’obbligo di pensare alla manutenzione. Ma è necessario che il ciclista sappia quali sono i suoi diritti, per questo con i nostri associati facciamo anche opera di educazione, spiegando quali sono le cose da fare subito dopo un incidente.
Qual è il quadro più tipico in caso di incidente?
Leggendo i verbali, la frase più ricorrente è: «Non l’avevo visto!». Perché la vittima è più spesso un ciclista da solo. Il gruppo magari manda in bestia gli automobilisti, ma rende visibili. In auto ci si distrae, sempre più spesso a causa del cellulare. C’è la rotonda che entri e non sai come ne esci. Poi c’è il caso più ricorrente, del ciclista da solo che viene travolto mentre procede sulla destra per i fatti suoi. E poi c’è il sorpasso dell’auto dal senso opposto, perché le nostre strade sono strette e nessuno aspetta il tempo giusto. Il ciclista è l’anello debole e un bersaglio facile, ma nemmeno mi sento di demonizzare troppo l’automobilista.
Indurain, Cavorso e Fondriest: 1.000 km in Spagna per le vittime della stradaIndurain, Cavorso e Fondriest: 1.000 km in Spagna per le vittime della strada
Perché?
Perché a meno che non sia un criminale, è qualcuno che dopo un incidente grave, ha finito di vivere: basti pensare all’uomo che investì Scarponi. Non è cattiveria, è un malcostume da sradicare. Bisogna fare educazione, nelle scuole e nella società civile. E noi facciamo anche questo.
State avendo buone risposte?
Mi parlavano del possibile arrivo di invidiosi ed haters, ma finora sto respirando soltanto la gratitudine di chi non aspettava altro. Finalmente c’è un soggetto legale che ci mette la faccia. E non si tratta solo di dare assistenza legale, perché tutto quello che c’è prima viene fatto a titolo gratuito. Se vai in un’assicurazione e attivi la tutela legale, l’avvocato comunque devi trovartelo da te.
E’ vero che c’è il suo zampino anche nella possibilità di uscire in bici durante il lockdown?
Lo ammetto, è vero. Ero abbastanza convinto che i vari DPCM non impedissero a chi va in bici di uscire dal Comune, ma non se ne trovava traccia. Così abbiamo pesato di scrivere una FAQ e ho trovato una persona davvero disponibile a Roma. Mi è stato chiesto di scrivere la domanda e la risposta e di inviarla, finché alle 23 della vigilia di Natale, è stata pubblicata. Adesso sparisce ad ogni DPCM successivo, ma tempo due giorni la rimettono fuori. Avrei potuto infischiarmene, andavo comunque in bici e avrei potuto difendermi da qualsiasi ricorso. Ma questa mossa ci ha dato un sacco di visibilità. E alla fine quello che conta è che se ne parli, che si faccia fronte comune. Solo così magari il ciclista diventerà meno invisibile.
Elia Viviani alla pista ci pensa, eccome. Le analisi di Roberto Damiani e Marco Villa le ha già condivise in pieno. Per questo il suo programma di qui ai Giochi di Tokyoritroverà quei lavori in pista che gli permetteranno di ridiventare brillante come dopo Rio 2016. Fra questi, tutti quelli necessari per giocarsi la presenza nel quartetto e poi cercare la conferma nel “suo” omnium.
Le parole di Villa del resto sono state più che esplicite: alle Olimpiadi ci saranno cinque pistard azzurri. Due faranno il madison, uno l’omnium, quattro il quartetto. In quest’ultimo, comanderà il cronometro.
Campionati italiani strada 2018, batte in volata Pozzovivo ed è tricoloreCampionati italiani strada 2018, batte in volata Pozzovivo ed è tricolore
E Viviani al quartetto ci pensa?
Certo che ce l’ho in testa. Ma il livello attuale è troppo alto perché io possa pensare di salire in pista e andare. Dovrò fare parte della preparazione del gruppo azzurro e a quel punto anche io potrò dare il mio contributo.
La concorrenza è nutrita.
C’è un bel gruppo e Marco (Villa, ndr) dovrà fare delle scelte. Ma io non posso pretendere di conquistarmi il posto iniziando a lavorare in pista un mese prima di Tokyo. Dovrò riprendere prima i lavori abbandonati perché dopo Rio ho puntato soltanto sulla strada. Dobbiamo usare bene quei cinque uomini.
Omnium e inseguimento a squadre possono convivere?
Si possono fare bene entrambi, mettendo però in pausa la strada.
Che cosa intendi?
Che già quest’inverno dovrò cominciare a fare la base per le partenze da fermo e tutti i lavori specifici necessari. Se poi nel 2021 farò il Tour, dovrò fermarmi su strada e andare in pista dopo le classiche. Se farò il Giro, avrò tutto il periodo successivo.
Quale delle due soluzioni converrebbe?
Ci sono pro e contro per entrambe. Se faccio il Giro, ho una grande base su cui fare il lavoro specifico. Se faccio il Tour, avendo svolto prima la preparazione specifica, arrivo a Tokyo al top di forma.
Villa dice che il miglior Viviani si vede dopo una grande corsa a tappe e vita ad esempio il tricolore vinto su Pozzovivo e Visconti dopo ave fatto il Giro.
Ha ragione lui. In un calendario normale, con il Giro di maggio, avrei potuto vincere anche il tricolore di Cittadella conquistato invece da Nizzolo.
Villa dice anche che in volata ti manca la punta di velocità della pista.
Ha ragione anche questa volta. Dovrò riprendere l’abitudine a certi sforzi e certi lavori. Con il passare degli anni dovrò incrementare il lavoro in pista per tenere le gambe più giovani. Come Cavendish nel 2016, che aveva ripreso ad andare in pista e tornò a vincere quattro tappe al Tour.
Cosa non ha funzionato al Tour?
Potrei dire che mancava il treno, ma la realtà è che a Parigi mi sono ritrovato nel posto giusto al momento giusto, eppure non ho avuto le gambe per venire fuori. Manca quello spunto di cui parla Villa. La squadra mi è vicina e sarebbe anche sciocco che non lo fosse, avendo un progetto di più anni. Le vittorie servono a tutti, non solo a me.
La Cofidis è d’accordo che tu a un certo punto molli la strada per la pista?
Era stato concordato al momento della firma del contratto, nessun problema.
Prima di vincere la crono di Imola, Ganna ti ha chiamato dieci volte come fa di solito?
Ci siamo sentiti il giorno prima. Gli ho dato il consiglio che funzionò con me a Rio. Gli ho detto: «Hai fatto tutto quello che dovevi, la crono vinta alla Tirreno ti ha confermato che la condizione è arrivata. Concentrati sulla tua prestazione e non pensare agli altri!». Poi gli ho mandato un messaggio il giorno stesso, ma non lo ha letto…
Il ragazzo si è fatto grande?
Un paio di giorni dopo la crono ero al telefono con lui e mi sono reso conto che non stavo parlando con il ragazzino della pista, con cui si facevano sempre battute. Stavo parlando con il campione del mondo. Il ragazzino è cresciuto. Fra un po’ dovremo cominciare a dargli del Lei…
L’occhio di MarinaRomoli non sta mai fermo. Scruta il correre del gruppo ai mondiali di Imola. Si guarda intorno. Fa domande. Una in particolare la attanaglia.
«Perché nessun giornalista ha chiesto a Elisa come mai non abbia seguito Van der Breggen quando ha attaccato? Ha avuto paura di un fuorigiri che avrebbe pagato nel giro successivo? Lei è stata l’unica che in cima, quando un po’ spianava, ha avuto la forza di mettere un rapporto lungo…».
La risposta arriverà a breve tramite il telefono. Elisa Longo Borghini le spiegherà di non aver avuto gambe e di aver visto andar via l’olandese, attaccandosi poi alla Van Vleuten, inspiegabilmente attiva nella scia della compagna.
Marina Romoli, Giulia De Maio e Samuele ManfrediMarina Romoli, la giornalista Giulia De Maio e Samuele Manfredi
Marina Romoli, classe 1988, è stata un’alteta di punta del movimento italiano. Nel 2006 è stata argento ai mondiali juniores, ma il 3 giugno del 2010 la sua vita cambiò drammaticamente. SI stava allenando vicino Airuno con il suo ragazzo Matteo Pelucchi, quando la piccola Chevrolet guidata da una signora ha svoltato verso sinistra, tagliandole la strada. Da allora e dopo traversie mediche di ogni tipo, Marina guarda il mondo da una sedia a rotelle, ma da campionessa qual è sempre stata, si sta laureando in psicologia.
Sei stata azzurra, che sensazione hai tratto vedendole correre?
E’ chiaro da sempre che in ogni gara di campionato, le ragazze sono tutte per una e una per tutte. E’ così da quando c’è Salvoldi. Una ruota che gira e che ha sempre pagato in termini di medaglie. Sacrificio. Unità. Lavoro di gruppo. Se non arriva la vittoria, di certo c’è una medaglia.
Un bronzo che vale quello di Longo Borghini?
Molto, perché c’erano atlete più quotate di lei. Parlo della Deignan, fortissima al Giro d’Italia, o di Niewiadoma. Ma la squadra ha lavorato bene. Van der Breggen è stata stellare. Mentre dietro scattavano, lei non perdeva. E quando sono arrivate in volata, sapevamo che Elisa avrebbe patito. Ma grazie al lavoro delle azzurre sono arrivate in due e per me fra bronzo e argento non c’era grossa differenza.
Lizzie Deignan, vincitrice della Liegi-Bastogne-LiegiLizzie Deignan, vincitrice della Liegi-Bastogne-Liegi
La sensazione è che il bel gruppo sia nato quando hanno smesso alcune senatrici.
C’era una sorta di chiusura, come fra gli uomini. C’era la convinzione che le giovani dovessero solo aspettare. Oggi è cambiato e ad esempio la Guderzo, che in altri tempi avrebbe potuto comportarsi diversamente, non si è mai fatta indietro per aiutare le ragazze.
Di chi è il merito secondo Marina Romoli?
Secondo me di Giorgia Bronzini. Da fuori si immaginavano chissà quali tensioni, ma il merito di Giorgia è stato aver dato a ciascuna il suo spazio in base alla condizione. Fra lei e Marta Bastianelli raramente ci sono state incomprensioni. Giorgia è stata l’atleta più carismatica degli ultimi anni e una come lei adesso manca. Elisa è calma e forte, ma non ha quell’appeal.
A Imola si sono mosse bene anche le giovani.
Ragusa è stata instancabile e anche Cavalli ha tentato il tutto per tutto. Brave davvero.
Come si inserisce in questa orchestra Letizia Paternoster?
Lei deve ancora maturare in certe corse più lunghe e dure. In pista invece è fortissima, tanto che se fossi Salvoldi, con lei mi giocherei il tutto per tutto a Tokyo, perché non le manca proprio nulla. Su strada c’è da fare, ma c’è anche tanto tempo davanti.
Avere un tecnico come Giorgia Bronzini la aiuterà?
Sicuramente sì e so che hanno accanto anche Elisabetta Borgia, una collega psicologa, che la aiuta a gestire l’aspetto mentale.
Longo Borghini si è ribellata alla risposta di Van der Breggen sul fatto che le ragazze olandesi sarebbero più libere di fare sport rispetto ad altre. Quale il Romoli pensiero?
Ma non è una cosa sbagliata, la differenza c’è. In Italia non ci sono tante squadre fra cui scegliere. Elisa corre nella Trek-Segafredo ed ha alle spalle un corpo militare.
Le cose cambiano?
Se non hai questo tipo di legame, che ti assicura uno stipendio dopo e una buona assicurazione, non sei protetta. Il ciclismo da noi sta cambiando moltissimo, ma in Olanda è più strutturato e meno misogino. Le ragazze lassù hanno quasi la stessa visibilità dei maschi. Per cui capisco la risposta di Elisa, ma non tutte in Italia sono messe così bene.