Il lutto, il dolore e la forza del gruppo: parola alla psicologa

24.07.2025
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I cinque giorni del recente Giro Ciclistico della Valle d’Aosta non sono stati semplici, per nessuno. La scomparsa di Samuele Privitera, avvenuta a seguito di una caduta durante la prima tappa, ha messo tutti i presenti davanti alla morte. Un qualcosa di crudo per il quale non si è mai abbastanza pronti, soprattutto quando si è giovani e davanti si hanno tanti sogni e una vita intera da affrontare. Samuele Privitera non ci sarà più in gruppo: pensare e realizzare tutto questo non è un passaggio semplice. Un compagno di squadra, un avversario, un amico, o più semplicemente un membro della famiglia del ciclismo che smette di pedalare accanto agli altri e che lo fa nel modo peggiore possibile. 

Abbiamo chiesto alla dottoressa Manuella Crini, psicologa cui ci siamo spesso rivolti per indagare le profondità della mente, di aiutarci a capire cosa abbia rappresentato per questi giovani ciclisti un momento così duro e quali sentimenti ed emozioni si creino nel lutto. 

Il Giro della Valle d’Aosta è sprofondato nel dolore dopo la notizia della morte di Samuele Privitera
Il Giro della Valle d’Aosta è sprofondato nel dolore dopo la notizia della morte di Samuele Privitera
Come ci si rapporta a una perdita così?

Parliamo di ragazzi con età compresa tra i 18 e i 22 anni che probabilmente non hanno mai toccato con mano la morte, soprattutto di un coetaneo. Il lutto è caratterizzato da una serie di fasi che sono comuni per tutti, alle quali ognuno reagisce in maniera diversa. 

Cerchiamo di rompere il ghiaccio con un esempio concreto: chi scrive era presente in corsa, la prima reazione è stata scrivere un messaggio a Privitera…

E’ normale, fa parte dello sconcerto, che è la prima fase alla quale andiamo incontro. Il cervello ha immagazzinato una serie di immagini che fatichiamo a cancellare, non sarete stati gli unici a mandare un messaggio per sincerarvi delle sue condizioni. A primo impatto si fatica a credere che sia successa una cosa del genere.

Poi cosa arriva?

Disperazione, rabbia e alla fine c’è l’accettazione. Non sono sentimenti che si affrontano tutti insieme, ma uno per volta. Quando si è adulti queste fasi appena elencate arrivano con ordine, mentre in giovane età si possono mischiare. Stiamo parlando di under 23, quindi di per sé ragazzi molto giovani. Tuttavia sono degli atleti, quindi mentalmente hanno una maturità diversa rispetto ai loro coetanei. 

L’organizzazione, nella tarda serata del giorno dell’incidente, ha comunicato che la tappa successiva non si sarebbe disputata.

Una decisione corretta. In quelle ore ogni ragazzo ha potuto sviscerare le proprie emozioni. Chi era arrabbiato, chi sotto shock, altri magari sembravano anestetizzati. Non c’è giusto o sbagliato, solo un pacchettino di dolore che ognuno custodisce come crede. 

Le squadre hanno detto di aver passato quella giornata senza corsa con l’obiettivo di restare tutti insieme…

E’ stato giusto, nel lutto il confronto serve. Restare tutti insieme ha permesso di elaborare l’accaduto. Non è necessario però parlare, anche il silenzio fa assorbire la cosa. Si inizia a fare i conti con la realtà, c’è un vuoto e va accettato. Non tutti ci riescono immediatamente, ogni ragazzo ha una storia di vita diversa dall’altro. 

Poi si è ripartiti con la terza tappa neutralizzata nei primi 40 chilometri, decisione corretta?

Quella di ripartire assolutamente. Per il ciclista il gruppo è una cosa sola, un ente a sé stante. Tenerli insieme ha aiutato a far vivere loro altre emozioni. 

Alla fine di quei 40 chilometri per alcuni momenti i ragazzi sembravano intenzionati e interrompere la gara. 

In quell’ora e mezza fatta a velocità controllata il gruppo ha avuto modo di pensare, ognuno per i fatti suoi. E’ stata la loro marcia funebre, il saluto finale a Samuele. Una parte dei ragazzi in quei chilometri avrà avuto modo di pensare e fare i conti con il dolore. Anche in questo caso entrano in gioco tante emozioni diverse. Come la rabbia, che è positiva perché è un sentimento attivo. 

Può essere che i ragazzi con una personalità più forte abbiano fatto emergere i propri sentimenti, qualsiasi essi fossero?

Sì. I capofila di quel gruppo magari erano gli stessi corridori che sono dei leader in corsa. Altri ragazzi magari si sono messi alle loro spalle e si sono fatti trasportare. Il potere del gruppo è immenso. Spesso l’emozione del vicino ci contagia. Quei 40 chilometri forse sono stati un po’ troppi, per alcuni stare da soli in mezzo al gruppo è un modo per isolarsi, per altri è stato un modo per amplificare i sentimenti negativi

Poi la corsa è ripartita, ma c’è chi ci ha messo un giorno in più per riprendersi.

La cosa importante, nel giorno della ripartenza, era salire in bici e arrivare al traguardo. Era il modo giusto per proseguire. Non si deve mettere il dolore in un cassetto, perché poi non sai mai come reagirai una volta riaperto. Interrompere la gara sarebbe stato come negare il legame con il gruppo, che invece c’è. 

La cerimonia di addio a Privitera è stata fatta a casa sua, in Liguria, sabato, mentre la corsa era ancora in fase di svolgimento. 

Se vuoi ricordare un amico o un parente che non c’è più, basta un posto mentale. Non serve per forza un luogo fisico. Ogni corridore avrà dentro di sé un piccolo o grande spazio riservato a Samuele.

Nuovo cittì, nuova direzione: come la vivono gli atleti?

13.03.2025
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Ricordate quando a scuola cambiava il professore e da un anno all’altro si doveva ricominciare a farci la conoscenza? A volte andava bene, altre meno. Così ci siamo chiesti che cosa accada nel giro della nazionale quando cambiano i commissari tecnici e gli atleti si trovano a interagire con volti nuovi. Certo l’ambiente è piccolo e tutti si conoscono, ma lavorare insieme è un’altra cosa.

Nel team performance della Federazione lavora da anni Elisabetta Borgia, psicologa, che appartiene anche all’identico staff della Lidl-Trek. Oltre a parlare con gli atleti di motivazioni e aspetti che riguardano l’aspetto mentale della prestazione, fra i motivi di attenzione per lei c’è anche questo. Ecco perché approfittando della sua presenza alla Tirreno-Adriatico abbiamo pensato di farle alcune domande in tal senso. Dalle Olimpiadi di Tokyo sono cominciati gli avvicendamenti fra i commissari tecnici. Ad esempio le ragazze sono passate dalla guida e dal metodo di Salvoldi a quelli di Villa. Adesso accanto a Villa c’è Bragato. Quindi Velo ha sostituito Sangalli nella strada delle donne. E Villa ha preso il posto di Bennati nella strada dei pro’.

Elisabetta Borgia è una presenza fissa per gli atleti della nazionale
Elisabetta Borgia è una presenza fissa per gli atleti della nazionale
Che cosa cambia per l’atleta? Che cosa è cambiato per le donne al passaggio da Salvoldi a Villa?

Sicuramente Dino aveva un approccio definito in anticipo nei minimi dettagli a cui le ragazze aderivano. Con Villa siamo passati a dare più responsabilità alle ragazze, che nel frattempo sono cresciute e fanno parte di grandi squadre. Abbiamo lasciato loro la scelta dei giorni in cui fossero tutte presenti, mantenendo la massima disponibilità di Marco per allenamenti e collegiali in base anche agli impegni con i team. Da adesso in avanti, credo che questa idea di responsabilizzazione delle ragazze rimanga, con un’organizzazione con un occhio più a lungo termine.

Su strada le ragazze passano da Sangalli che aveva dato continuità al lavoro di Salvoldi, a Velo. Una fase da gestire?

Lo vedo come un passaggio fisiologico, non vedo degli strappi: ne parlavo in questi giorni proprio con Velo. Sicuramente per la sua personalità, Marco è una persona molto carina nei modi, molto accomodante. Cerca il rapporto personale e quindi credo che il suo approccio funzioni bene, come in realtà funzionava molto bene anche con Sangalli.

Secondo te l’atleta aspetta il tecnico al varco per conoscerlo oppure lo studia per trovare il modo di instaurare una relazione?

Non credo che lo aspetti al varco, quando piuttosto credo voglia capire quali sono i nuovi punti di riferimento e soprattutto le modalità operative. Questo è il momento in cui andiamo a ragionare su atleti e atlete professioniste, sapendo bene che è fondamentale dare un’organizzazione di massima della stagione. E’ necessario mantenere i rapporti. La comunicazione tra il CT e i vari membri del team di appartenenza diventa fondamentale affinché si possano creare dei programmi coerenti. L’obiettivo è che gli atleti vadano forte con la squadra e siano anche pronti per grandi eventi come europei e mondiali.

Marco Velo (qui con Venturelli ai mondiali 2023) passa da tecnico delle crono a responsabile della strada donne
Marco Velo (qui con Venturelli ai mondiali 2023) passa da tecnico delle crono a responsabile della strada donne
Hai parlato con Velo, qual è dunque il tuo ruolo in questa fase?

Il mio rapporto è chiaramente con gli atleti, ma sta diventando anche un ruolo di osservazione delle dinamiche. A volte mi ritrovo a fare da “consulente” per i tecnici. Inizio a diventare la memoria storica, avendo vissuto i vari passaggi ed essendo stata presente nei momenti importanti. Con Velo si ragiona sul tipo di approccio e su come vedere la stagione. Marco fa domande, è molto aperto, quindi in questa fase mi trovo a fare anche da filtro. Essendo super partes, nel senso che lavoro con tutte le discipline, riesco ad avere una visione un po’ più obiettiva, se non altro meno inserita nelle situazioni. Per cui, se richiesto, posso dare anche qualche consiglio su come approcciarsi in base alle diverse personalità degli atleti.

Avviene uno scambio di nozioni fra lo psicologo e i tecnici in base alla tua conoscenze degli atleti?

Premettiamo che ovviamente c’è il segreto professionale e poi oggettivamente con alcuni atleti lavoro in maniera più assidua e più vicina, con altri meno. Però è chiaro che, avendo la fortuna di essere in giro tutto l’anno e di vedere le atlete e gli atleti nelle gare, a prescindere dalla nazionale, ho anche l’opportunità di tenermi aggiornata. E questo certo mi offre un punto di vista privilegiato.

A proposito di assiduità, nella Lidl-Trek lavori con Elisa Balsamo, che ha lasciato la pista non senza amarezza dopo le Olimpiadi. Bragato la considera una del team, si dovrà lavorare per ricucire qualcosa?

La scelta di Elisa di non fare il mondiale pista a fine stagione è stata condivisa. E anche lei, come le altre, ha scelto di focalizzarsi di più sulla strada nell’anno post olimpico. Però sicuramente il suo ruolo è qualcosa di cui si parla con Marco e con Diego. Balsamo è sicuramente un valore aggiunto che dobbiamo riuscire a mantenere, è fuori discussione. Oltre a questo c’è tutta la fase di programmazione e valutazione delle nuove leve, fondamentale da far partire. Atleti che con una preparazione ad hoc, nei prossimi anni possono diventare riferimenti nei quartetti o altre specialità.

Bragato è il cittì della pista donne, ruolo che svolgerà con il supporto di Villa, a sua volta tecnico della strada pro’
Bragato è il cittì della pista donne, ruolo che svolgerà con il supporto di Villa, a sua volta tecnico della strada pro’
Sei parte del team performance della Federazione e dell’identica struttura nella Lidl-Trek. E’ aumentata la consapevolezza del ruolo dello psicologo?

Io mi sento assolutamente considerata in entrambi gli ambiti. Lo conferma il fatto che con la Federazione sono andata per tutta la durata delle Olimpiadi. Quindi mi sento assolutamente coinvolta, chiamata in causa anche per alcune scelte “strategiche”. Sono consapevole del ruolo che ho e mi sento assolutamente valorizzata sia in squadra che in Federazione.

Come descriveresti il tuo ruolo?

Un ruolo speculare. Faccio parte del team performance e il team performance sta lavorando molto bene, anche nella fase dei test in cui si va a individuare il talento. Si cerca di capire come aiutarlo a crescere in maniera omogenea e coerente, senza strappi. Facciamo valutazioni fisiche, ma anche di profilo mentale e emotivo. E quello, come si può ben capire, è il mio pane quotidiano.

L’ansia da prestazione prima del via (e anche in gara)

20.08.2023
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Da Marlen Reusser ferma a gambe incrociate a bordo strada, agli occhi chiusi dei e delle pistard sul parquet prima della loro prova. Dalle notti insonni prima della propria gara, al batticuore nel momento clou dello sforzo. Quanti pensieri, quanti timori, quante paure… per gli atleti. Un insieme di sensazioni che ci hanno fatto parlare di ansia da prestazione.

Elisabetta Borgia è la psicologa dello sport della Federciclismo. A Glasgow ha avuto il suo bel da fare. E’ stata chiamata in causa persino dagli interpreti della Bmx, spesso considerati funamboli, “pazzi” e istrionici più dei colleghi. Con Borgia analizziamo dunque l’ansia da prestazione per gli atleti.

Nel riscaldamento spesso si vivono fasi delicate a livello mentale. Qui Borgia con Venturelli
Nel riscaldamento spesso si vivono fasi delicate a livello mentale. Qui Borgia con Venturelli
Dottoressa Borgia, a Glasgow ti hanno visto correre tra Bmx, strada, pista, Mtb, paralimpici… Quanti pensieri, quanti timori?

Il lavoro con la Federazione prende più discipline, in questo caso erano tutte insieme. Il che visto dall’esterno è tutto molto bello, da casa mi dicevano che era una piccola Olimpiade, ma da dentro non è stato semplicissimo perché c’erano delle sovrapposizioni. Parlare con i ragazzi non è stato facile.

Ti chiamavano in causa per l’imminente gara, qualche paura, qualche timore: tutto ciò lo possiamo chiamare “ansia da prestazione”?

Direi di sì. Quando ci si avvicina ad un grande evento, si è investito tanto in termini di energie e le aspettative sono sempre alte. Spesso questi appuntamenti diventano degli obiettivi per gli atleti di un certo livello e va da sé che è il momento di “quagliare”, di portare a casa qualcosa per cui si è lavorato tanto. E ci può stare che che si attivi un po’ di questa emozione in risposta ad un evento che viene percepito come potenzialmente stressante. Perché di fatto l’ansia è un’emozione.

Scendiamo un attimo nel tecnico/sanitario: che cos’è appunto l’ansia da prestazione?

L’ansia è uno stato di iperattivazione, una reazione emotiva che coinvolge sia l’aspetto cognitivo che l’aspetto fisico (somatico). Le emozioni sono l’emblema del fatto che noi siamo mente e corpo e che entrambi si condizionano vicendevolmente.

Il mondiale è l’evento in cui si deve raccogliere per il tanto lavoro fatto: la pressione sale prevedibilmente
Il mondiale è l’evento in cui si deve raccogliere per il tanto lavoro fatto: la pressione sale prevedibilmente
Tradotto in termini più pratici?

Nel momento in cui parliamo di ansia da prestazione, parliamo di questa iperattivazione legata alla necessità di portare a casa una prestazione di un certo tipo. E’ come se il nostro “motore” facesse troppi giri impedendoci di essere massimamente prestativi. Abbiamo bisogno comunque di un livello di attivazione quando siamo chiamati a dare il massimo . E’ la teoria della “inverted U” (U capovolta), tanto cara alla psicologia dello sport.

Interessante…

Si enfatizza il fatto che ci sia un livello ottimale di attivazione, di tensione (che in termini tecnici si chiama arousal). Questa ci permette di raggiungere la massima prestazione. E’ ciò che nella preistoria faceva sì che l’uomo primitivo fosse pronto a scappare, ad essere reattivo. Ma la “inverted U” dice che se non sei per nulla attivato o se sei troppo attivato, la prestazione ne risente. Pertanto quando parliamo di ansia da prestazione parliamo di quella fetta di questo “grafico” che va oltre la zona ottimale.

E i sintomi fisici?

Magari c’è chi si attiva troppo presto e quindi inizia a pensarci da giorni prima, non dorme la notte, magari ha i battiti cardiaci elevati, la respirazione è più affannosa e toracica e non diaframmatica… e di conseguenza la contrazione muscolare è molto più forte. Questo a sua volta può favorire infortuni o problemi come i crampi.

Sul piano ormonale cambia qualcosa?

Sicuramente aumentano i livelli di cortisolo e di adrenalina.

Lo stop a bordo strada durante la crono per Marlen Reusser è stata un’immagine emblematica dell’ansia da prestazione (immagine da video)
Lo stop a bordo strada durante la crono per Marlen Reusser è stata un’immagine emblematica dell’ansia da prestazione (immagine da video)
Passiamo ad esempi più concreti. Abbiamo Reusser, grande favorita per la crono, ad un certo punto ha accostato e si fermata. Ha detto che è come se avesse perso la concentrazione, non avesse più l’obiettivo di fronte a lei. Quello è un caso di ansia da prestazione? Come lo interpreti?

Inserisco questo caso in una cornice un pochino più ampia e parto dai calendari del ciclismo femminile, che sta crescendo in maniera esponenziale. Le ragazze quasi all’improvviso si ritrovano a dover affrontare delle cose che nel passato non c’erano. Parlo di calendari fitti, aspettative, pressioni, visibilità… Sono atlete grandissime, ma al tempo stesso per certi aspetti anche delle vere e proprie pioniere.

Ci sta dunque quel blackout di Reusser…

Spiace per la donna, per la persona, per l’atleta. In quei frangenti riemerge la parte umana. La tanica di energie era quasi vuota. Queste reazioni nascono da una vulnerabilità che si lega ad una stanchezza psicofisica che evidentemente è cresciuta durante la stagione. Reusser ha fatto le classiche benissimo, ha vinto la Gand, è andata fortissimo al Tour e ha vinto l’ultima crono. Tutto questo crea delle aspettative e in un calendario così fitto non c’è stato un attimo per mollare. E’ stato come se i tempi mentali non seguissero i tempi del calendario. Una continua rincorsa, senza quel momento di calo, di recupero per rimpinguare il serbatoio. E questa è una cosa nuova per le donne. Ma penso anche altro…

Cosa?

Se ha avuto lei, che è un’atleta di spicco, queste problematiche, figuriamoci le seconde linee. Quelle che fanno fatica a finire le gare. In che condizioni mentali si possono trovare in una stagione del genere?

Più ansia per i più giovani, secondo Borgia. Ma anche grazie al suo aiuto questo stato in gara proprio non emerso. Moro (foto di archivio) ne è un esempio
Più ansia per i più giovani, secondo Borgia. Ma anche grazie al suo aiuto questo stato in gara proprio non emerso. Moro (foto di archivio) ne è un esempio
Elisabetta, prima ha parlato di tanica vuota, però pochi giorni dopo Reusser è andata fortissimo nella prova in linea…

Oggi si parla molto di resilienza: ebbene questo è il tipico esempio di resilienza. Credo che dopo una “debacle” – che per me non è una debacle – ma dopo un momento di difficoltà è come se si fosse tolta di dosso tutte le pressioni. Avesse allontanato le aspettative, i pensieri brutti, e avesse chiuso il suo conflitto interiore. Dopo tutto nella crono, dal suo punto di vista qualunque risultato diverso dalla vittoria sarebbe stata una sconfitta. Un pensiero non semplicissimo con cui convivere, tanto più se arrivi all’evento già un po’ “scarica”. Lei era pronta fisicamente per vincere quella crono o comunque prestazionalmente era da podio, la forma fisica c’era e visto come ha chiuso il Tour la settimana prima. Quindi sapeva di stare bene. Nel post crono ha ricevuto feedback positivi, vicinanza da tifosi e squadra e nella gara in linea è partita più leggera. Non aveva niente da perdere.

Facciamo invece un esempio concreto di ansia da prestazione. Magari legato al gruppo degli azzurri e delle azzurre.

Più che ansia da prestazione mi viene in mente un po’ quell’ansia che nasce dalla poca consapevolezza di sé. Penso a “quell’ansietta” tipica dei più giovani che ancora non si conoscono, che non sanno leggere come stanno fino in fondo, che devono capire qual è il percorso migliore per arrivare veramente in forma ad un grande evento. Quindi mi riferisco a quell’ansia che magari ti fa fare fatica a dormire la notte prima, quell’emozione della prima volta ad un grande evento, quei dubbi rispetto alla strategia da usare, dove stare in gruppo, come gestirsi.

Difficoltà fisiologiche di gioventù insomma?

Esatto, aspetti che nella massima categoria, di uomini e donne, non ho riscontrato. Solitamente i più esperti è proprio in queste occasioni che riescono a tirare fuori il massimo.

Evenepoel, Ayuso e l’ansia: parole rilette con la psicologa

31.08.2022
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Chiedete a Ilario Biondi, amico fotografo, lo sguardo che ci scambiammo in una trattoria vicino Cesenatico quando Marco Pantani, 22 anni all’epoca, dichiarò che l’anno dopo ci avrebbe pensato lui a staccare l’imbattibile Indurain. In effetti lo fece. Dovette aspettare il 1994 perché la tendinite lo costrinse a ritirarsi dal primo Giro, ma l’anno dopo mantenne il proposito. Venendo da questa premessa, potrete immaginare lo stupore davanti alle parole di Remco Evenepoel e Juan Ayuso di due giorni fa durante il giorno di riposo della Vuelta.

«Cerco di non guardare gli altri come rivali – ha detto il belga – per evitare che diventino una trappola per la mente. Vado avanti giorno per giorno. Se avrò buone gambe, potrò provare a incidere, ma sono abbastanza sicuro che ci saranno dei momenti duri».

«Non voglio assolutamente pormi degli obiettivi troppo alti – ha detto lo spagnolo – preferisco viverla giorno per giorno. Non voglio crearmi uno scenario troppo elevato. Perché se poi non si realizza, me ne andrei dalla Vuelta con un cattivo sapore in bocca. L’obiettivo di questa corsa è farla bene e capire cosa potrò fare in futuro. Non voglio volare troppo alto, per non avere una delusione».

Abbiamo esplorato le parole di Evenepoel e Ayuso con Manuella Crini, psicologa piemontese
Abbiamo esplorato le parole di Evenepoel e Ayuso con Manuella Crini, psicologa piemontese

Che cosa è cambiato? E perché dichiarazioni simili in bocca a due ragazzini che hanno sempre fatto della sfrontatezza la loro arma vincente? Sono diventati improvvisamente saggi, oppure qualcuno gli ha suggerito di ragionare e parlare così?

Lo abbiamo chiesto a Manuella Crini, psicologa cui abbiamo spesso fatto ricorso per indagare i processi mentali in cui ci siamo imbattuti dalla nascita di bici.PRO, a partire dai disordini alimentari.

Pensa che questo atteggiamento sia casuale o risponda a precise strategie?

E’ molto probabile che sia intervenuto un mental coach, con strategie individuali, ritagliate su misura per impedire a entrambi di volare troppo alto. Qualcosa su cui potrebbero aver lavorato. Non credo ci sia stato un ricambio generazionale così netto da pensare a una saggezza precoce. Se invece sono sistemi da autodidatti, cautele che i due ragazzi adottano spontaneamente, non è detto che funzioneranno.

Nonostante sia giovanissimo, su Ayuso è forte la pressione della stampa
Nonostante sia giovanissimo, su Ayuso è forte la pressione della stampa
Più probabile una stategia?

Penso di sì. Quello che dice Evenepoel sul non voler guardare gli altri come avversari, ad esempio. Parla così perché li vede troppo grandi e ha paura di non reggere il confronto? La società e anche lo sport ormai spingono sempre più in alto, si è chiamati a dare sempre il meglio e l’eventualità di essere sconfitti è dietro l’angolo. Chi effettivamente lavora sul fallimento? Saper perdere fa parte della storia, non si deve averne paura.

Invece Ayuso?

Si alzano sempre le aspettative, anche se è giovanissimo. E se il gap è alto, le aspettative diventano un muro contro cui andiamo a scontrarci, facendoci male. Se invece abbasso le aspettative, dicendo di non volermi porre obiettivi troppo alti, allora non cado. O se cado, non mi faccio male. La fragilità non risulta compromessa e si è trovato un meccanismo di difesa e scaramanzia. Dentro di me spero di vincere, ma non lo dico. Come quando ci convinciamo che indossando sempre lo stesso abito, si passerà anche il prossimo esame. La scaramanzia diventa un oggetto magico.

Mas è il suo rivale più vicino, ma Evenepoel lo tratta da buon amico
Mas è il suo rivale più vicino, ma Evenepoel lo tratta da buon amico
Non è strano che tanta saggezza venga da due ragazzini?

Forse tanta prudenza deriva proprio da questo. Dal fatto che hanno imparato da piccoli a volare più basso. Hanno la consapevolezza di non poter stare per sempre sulla cresta dell’onda, perché l’onda presto o tardi scende. Però la visione di Evenepoel mi fa pensare anche ad altro.

A cosa?

L’idea del volermi concentrare solo su me stesso, di infilarmi in una bolla in cui ci sono solo io, tenendo lontani gli altri e l’ansia che ne deriva. La responsabilità è uno zaino pesante, del resto, e se gli altri pesano sulla mia bolla, rischiano di farla esplodere. Meglio tenerli lontano. Allo stesso modo, il discorso di Ayuso può essere legato all’ansia da prestazione. E in questo caso le eventuali strategie mentali gli sono state ritagliate addosso a livello sartoriale.

Ayuso Getxo
Ayuso non ha paura di esporsi e parlare da vincitore: alla Vuelta però ha cambiato improvvisamente registro
Ayuso Getxo
Ayuso non ha paura di esporsi e parlare da vincitore: alla Vuelta però ha cambiato improvvisamente registro
Anche perché la loro indole è battagliera e sfrontata…

L’età anagrafica nel caso di sportivi spesso non è fedele. Sono ragazzini, ma ogni corsa è scuola, quindi hanno un vissuto superiore a quello dei coetanei. Se sono stati talenti promettenti sin da subito, è possibile che abbiano arredato l’adolescenza per costruire i loro obiettivi. In quel caso vuol dire che hanno dietro un percorso di analisi e di gestione delle emozioni che li rende più adulti.

Quindi potrebbero essere due modi distinti di tenere a bada l’ansia?

Magari sono le soluzioni più pratiche possibili, piuttosto che dedicare un sacco di tempo a elaborare la possibilità di essere sconfitti. E’ un discorso che viene tenuto lontano e su cui invece, soprattutto a livello degli sportivi, si dovrebbe lavorare. Pensate a come sono cambiati i cartoni animati rispetto a un tempo. Non ci sono più il buono e il cattivo, vanno tutti d’accordo.

Evenepoel è un predestinato, seguito da un fan club accesissimo
Evenepoel è un predestinato, seguito da un fan club accesissimo
Ayuso dice anche che si impara più dai momenti duri che dalle vittorie.

Imparare a perdere tocca l’autostima, ma se lavori bene, ti aiuta a gestire l’ansia. Se invece il fallimento mi blocca, abbasso le aspettative. Mi preparo al peggio, così se viene qualcosa di buono, mi sembrerà una vittoria. Ma non sono parole per caso, credo che ci sia dietro un lavoro da mental coach.

L’influenza del mental coach per le tappe nel mirino

23.05.2022
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«Mi consulterò anche con il mio mental coach per capire le tappe che saranno più adatte a me». Parole che ci aveva detto Andrea Vendrame (nella foto di apertura) alla vigilia del Giro d’Italia in quel di Budapest. E di certo non potevano passare inosservate. Parole che abbiamo girato ad Elisabetta Borgia, psicologa dello sport della Federciclismo e della Trek-Segafredo.

A lei abbiamo chiesto un parere su questa affermazione. Per capire davvero come possa, eventualmente, incidere la sua figura professionale. Non è terreno dei diesse fare certe scelte? Un corridore non fa valutazioni in base principalmente alle sue caratteristiche e a quelle del percorso?

Nel caso di Vendrame, Andrea ha ottenuto tre top ten: una nella prima tappa, su un veloce arrivo in salita, e due in volate di gruppo. Eppure lui è un atleta che tiene molto bene anche su percorsi molto duri, come testimonia tra l’altro la sua vittoria a Bagno di Romagna lo scorso anno.

Elisabetta Borgia, mental coach della Fci e della Trek-Segafredo
Elisabetta Borgia, mental coach della Fci e della Trek-Segafredo

Obiettivi chiari

«Lo psicologo fa lo psicologo – spiega la Borgia – e a livello tecnico non dà valutazioni. Quello che può fare è aiutare a capire le caratteristiche preponderanti dell’atleta e agevolarlo in vista delle tappe a lui più favorevoli, ad affrontarle con una padronanza di se stesso diversa dalle altre.

«Sostanzialmente il mental coach gli dice di riuscire ad essere consapevole, perché poi gli aspetti da valutare sono tanti. La squadra ha interesse ad andare in fuga? Il corridore deve lavorare o può avere spazio per se stesso? Una volta individuati questi “parametri” ci si muove di conseguenza».

«Questo tipo di preparazione mentale, tra l’altro, non la fai dall’oggi al domani. Non improvvisi nulla. E’ un percorso che si porta avanti nel tempo e varia anche in base al soggetto con cui lavori. In un Giro d’Italia tu guardi magari ad una tappa. Ne studi l’altimetria e la planimetria. Studi dove puoi attaccare, dove puoi fare la differenza… devi lavorare sul tuo “dialogo interno”, per capire dove sei in quel momento e dove puoi arrivare».

Vendrame ha colto già tre top 10 in questo Giro. Il veneto saprà dare l’acuto anche quest’anno?
Vendrame ha colto già tre top 10 in questo Giro. Il veneto saprà dare l’acuto anche quest’anno?

Memoria sì, memoria no

Ad Elisabetta Borgia chiediamo quanto incide in percentuale una buona preparazione mentale. Ammesso che sia corretto parlarne in questi termini. Spesso, infatti, quando si è ben mentalizzati si riesce a fare più di quel che si può. Un esempio, se vogliamo, la dottoressa ce lo aveva in casa con Juan Pedro Lopez. Lo spagnolo, forse anche per merito della maglia rosa, ha ottenuto risultati che probabilmente non sarebbe riuscito a cogliere.

«Personalmente – continua la Borgia – non amo le percentuali quando si parla di aspetti mentali. Quelle vanno bene per i test fisici, ma non per quelli mentali che non sono quantificabili. E poi okay la testa, ma prima contano le gambe: non dimentichiamolo.

«Certamente serve un mood positivo da parte dell’atleta. Si dice che se si parte bene si può fare la differenza. E questo vale ancora di più in un grande Giro in cui serve un’attivazione mentale lunga e continua. I corridori in una corsa a tappe devono essere bravi a staccare al termine delle frazioni e a riattivarsi al via di quelle successive. E per questo è importante l’approccio individuale, ma serve anche quello della squadra». 

In questo caso le vittorie ad inizio Giro, la conquista di una maglia… aiutano a scaricare la pressione. E di conseguenza a creare un clima più disteso nel team.

«Quando le cose vanno bene, poi vanno sempre meglio. Si ha un senso di padronanza. Ieri sono andato bene; il giorno dopo riparto con una buona “memoria” rispetto al giorno precedente. Ieri sono andato male; il giorno dopo devo essere bravo a partire “senza memoria”, altrimenti ci si influenza negativamente. Devo vivere il presente perché solo lì posso modificare qualcosa. Il passato tanto ormai è andato e non ci puoi fare nulla. 

«Il modo di ragionare è: cosa posso fare per essere efficace?».

Chi rischiava di restare intrappolato nel “senso della tagliola” era Giulio Ciccone, che ieri a Cogne si è riscattato alla grande
Chi rischiava di restare intrappolato nel “senso della tagliola” era Giulio Ciccone, che ieri a Cogne si è riscattato alla grande

Senso della tagliola

Come Vendrame tutti i corridori cercano di raggiungere un obiettivo: che sia la classifica generale, una maglia o una tappa… ma la realtà è che il tempo stringe. Ormai resta una sola settimana e per chi non è riuscito a vincere la pressione aumenta. Si ha insomma il senso di “una tagliola” che sta per scattare.

«Io credo – dice la Borgia – che all’interno di un grande Giro, ma in generale quando si va alla ricerca di una prestazione, il momento più difficile anche dal punto di vista della pressione sia nel mezzo.

«Nel caso di un grande Giro nelle prime tappe hai aspettative sì, ma anche paura che si possa prendere un buco, che s’incappi in una caduta, che insomma si finisca fuori gioco subito. In quelle prime tappe vai a rompere il ghiaccio con la corsa e comunque hai ancora tanta energia dalla tua.

«Nelle ultime tappe “raschi il barile” e a quel punto pensi a dare il 100% di quel che ti è rimasto».

«Il difficile, appunto, sta nel mezzo, quando la stanchezza si fa sentire, manca un bel po’ e hai fatto tanta fatica. Lì devi essere bravo a capire quanta benzina hai in corpo e a focalizzarla su quella o quelle tappe in cui sai che puoi fare bene. Ti serve una strategia di attivazione specifica per quella tappa, devi concentrarti su quella».

«Si entra in modalità “recovery” (recupero, ndr) in cui “lasci” le altre tappe e punti tutto su una. Un corridore di classifica, chiaramente, non può fare così, ma gli altri sì. Devi avere al massimo possibile il tuo senso di autoefficacia».

Colbrelli, è tutto nella testa. E la pressione si può gestire

15.09.2021
5 min
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«Sono davvero contento, non è mai semplice partire, correre e vincere da favorito. Correvamo in casa, non ero nella super condizione, perché un po’ di pressione me la sono messa. Ero in po’ bloccato. La nazionale girava alla grande e volevo ricambiarli».

Con queste parole Sonny Colbrelli ha iniziato il racconto della vittoria di Trento, spiegando che a causa della pressione che si era messo addosso da solo, non avesse delle grandi sensazioni in bici. Il suo coach Artuso ha invece spiegato come i test fossero ottimali. E allora noi prendiamo spunto delle parole del campione europeo per capire che rapporto ci sia fra testa e gambe quando la pressione sale in modo deciso. Per farlo siamo nuovamente con la dottoressa Manuella Crini, psicologa piemontese super titolata, con cui in passato abbiamo sondato più volte le abitudini e i disagi degli atleti.

Le lacrime dopo la vittoria di Trento fanno capire quanto fosse alta in lui la pressione
Le lacrime dopo la vittoria di Trento fanno capire quanto fosse alta in lui la pressione
E’ possibile che correre vicino casa ed essere per la prima volta leader della nazionale possa bloccarti?

Certo che sì, ti viene il peso addosso. E’ ansia. E’ stress, una roba che ormai abbiamo fatto diventare patologica. Sono funzionamenti fisiologici del corpo volti a garantirci la sopravvivenza. L’ansia è strettamente connessa alla paura. La paura è un’emozione regolata dall’amigdala, che scatena tutta una serie di azioni ormonali che provocano tre reazioni comportamentali: fuga, attacco o freezing. Tre modalità che abbiamo per affrontare uno stimolo esterno pericoloso.

Come funzionano?

Sono una preda, arriva il predatore e posso scappare. Quindi ovviamente c’è l’azione del battito cardiaco con il sangue che viene portato nelle parti distali, svuoto gli intestini, mi libero di tutto e scappo. Oppure attacco, se sono bravo nel gestire il predatore. Altrimenti con il freezing mi congelo. Se io mi paralizzo, il predatore magari non mi vede più.

Manuella Crini, piemontese, nostra guida nei complessi meandri dei comportamenti
Manuella Crini, piemontese, nostra guida nei complessi meandri dei comportamenti
E se il predatore ce l’abbiamo dentro?

Il problema di noi esseri umani è che ci facciamo spaventare dai pensieri e non dal predatore, però le reazioni sono le stesse. Quindi quel senso di peso nelle gambe, la condizione che non è ottima, può essere un mix tra il blocco del freezing e l’incertezza. La scelta è fra scappare e combattere. Il pensiero non è valutabile tanto quanto un predatore, ma certo hai un’attivazione del sistema nervoso autonomo. E se porta con sé un senso di pesantezza, allora è avvenuto anche il passaggio nel sistema nervoso autonomo. In questo caso più che paura è stress. E lo stress se ben gestito ti aiuta ad aumentare la performance, come anche la paura. Perché produci comunque adrenalina. Il battito cardiaco accelera e quindi corri più veloce.

La situazione ambientale incide?

E’ il limite, che probabilmente in questo caso è stato superato. Perché sei in un ambiente familiare e quindi devi dimostrare di più. Poi ci sarà sicuramente la sua storia di vita, cioè com’era giudicato nel suo paese quindi l’ansia la prestazione aumenta. E quella ti può paralizzare. E’ stato molto bravo Colbrelli a un certo punto ad elaborarla.

Quando ti assale di solito?

In teoria ti aggredisce nel momento in cui hai la valutazione dello stimolo. In pratica puoi avere l’ansia anticipatoria, cioè inizi a pensare alla situazione e il tuo cervello la raffigura come se la stessi vivendo davvero. E’ come se fosse reale. Il cervello vive solo nel tempo presente, quindi attiva l’ansia e con essa arriva un’immagine mentale che può anche indurti a rinunciare .

Con la ricerca della giusta concentrazione, anche gestire la pressione diventa più agevole
Con la ricerca della giusta concentrazione, anche gestire la pressione diventa più agevole
Il cervello fa tutto da sé?

Alla fine lavoriamo costantemente oscillando tra il passato e il futuro. La memoria non è solo il ricordo di quello che ci è accaduto, ma anche una memoria prospettica, quindi in grado di pianificare. E nella pianificazione, immaginiamo sempre ogni decisione. Appena sappiamo di partecipare alla data gara, nel cervello si attiva già l’immagine del contesto e del luogo. E in automatico le emozioni vengono trascinate dentro, quindi anche la paura.

Un passaggio davvero automatico?

All’inizio magari pensi che sia figo correre vicino casa, però poi nel tempo i pensieri lavorano e quelli non li comandi. Emeronoe in maniera spontanea e magari resta a livello subcosciente. Poi nel momento in cui ti trovi lì, nel contesto reale e con stimoli più forti, dal subconscio viene fuori nel cosciente e a quel punto scattano tutti i meccanismi. Più che di stress, in questo caso è veramente ansia. Ansia intesa come paura, ma non relativa alla prestazione, quanto piuttosto legata al giudizio. E ti sembra di non avere forze.

In realtà il suo preparatore dice che la condizione fisica era ottima.

Allora è stato freezing, quando senti un peso che ti blocca. Il freezing è ricorrente nel mondo animale. Avete presente i due animaletti dell’Era Glaciale che si fingono morti? Quello è freezing. Nell’uomo non è così, a meno che ad esempio non stai subendo un abuso sessuale, allora puoi veramente avere un freezing totale. Altrimenti stai nel range tra la performance normale e il blocco totale. Senti pesantezza alle gambe, la paura ti blocca, ti frena.

Solo la grande convinzione ti permette di resistere agli attacchi dei rivali più forti
Solo la grande convinzione ti permette di resistere agli attacchi dei rivali più forti
Una volta che l’hai sconfitta non torna più?

Si crea uno storico molto forte, cioè ci appoggiamo molto a quello che abbiamo già passato. Se in passato l’abbiamo superato e siamo abbastanza bravi da averne memoria, allora non accade più. Se invece pensiamo che quella volta è stata un’eccezione alla regola, allora la volta successiva vado ancora in ansia.

Fa parte di un processo di crescita, giusto?

Nella nostra storia c’è comunque qualcosa di un vissuto che ti porti dentro. Quando sei sicuro di te dei tuoi mezzi, non vuol dire pensarsi immortali o in grado di fare tutto. E’ avere una buona conoscenza delle proprie capacità e dei propri limiti. Capire come funzioni ti permette di funzionare al meglio. Se sei insicuro su alcune cose, i tuoi limiti vacillano. Quindi non sei molto in grado di gestire tutto. Ripeto, lui è stato molto bravo…

Letizia Paternoster, europei Apeldoorn 2019

Paternoster? Non solo social. Parla la psicologa

28.09.2020
4 min
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Anche se Letizia Paternoster appare sempre sorridente, cosa passa nella testa di un’atleta infortunata che ha l’obiettivo delle Olimpiadi? La trentina si è fermata per un problema ad un ginocchio. Un problema rimediato durante il lockdown, sembra per colpa di esercizi eseguiti con carichi sbagliati. Ne abbiamo parlato con Elisabetta Borgia, psicologa dello sport, consulente della Trek-Segafredo, team della Paternoster.

Un passo indietro…

«Con Letizia, ma anche con le altre ragazze c’è un lavoro che parte dallo scorso inverno. Bisognava fare squadra, ma visto il livello delle atlete non ho scelto la formula tipo “giochi senza frontiere”. Ho preferito un lavoro più profondo sui valori e gli obiettivi di squadra, di conoscenza delle ragazze e dello staff. Un qualcosa che permettesse di conoscersi meglio, di confrontarsi e di aprirsi in maniera autentica. Abbiamo insistito molto sulle emozioni e sulle strategie migliori per gestirle. L’obiettivo era di creare empatia».

«Quando tutte, sedute in cerchio, hanno espresso il loro punto di vista rispetto ai punti di forza e alle aree da migliorare, sono emersi spunti importanti sui quali si è lavorato. Un esempio? Lo stesso stile comunicativo non è adatto a tutte le atlete. Non è detto che se mi inciti alzando la voce per radio mi dai carica, magari mi innervosisci o mi metti ansia. Un qualcosa di banale, ma che può fare la differenza nei momenti clou».

Elisabetta Borgia
Elisabetta Borgia (33 anni) psicologa dello sport
Elisabetta Borgia
Elisabetta Borgia (33 anni) psicologa dello sport, in passato ha corso nel cross e nella Mtb

Quella sana incoscienza

Partnoster adesso sta lavorando a pieno regime per il recupero. E’ anche rientrata in corsa. Il problema al ginocchio era serio, tuttavia con la determinazione che la contraddistingue sembra averlo superato.

«Dalla sua Letizia ha il fatto che è molto giovane. Ha un suo modo di vedere le cose. Probabilmente questa sua gioventù non le ha ancora permesso di capire l’importanza che ha all’interno del gruppo e della nazionale. Quanto investimento ci sia su di lei. Senza contare che le ruotano intorno molte persone a cui lei stessa fa comodo. Da questo punto di vista a mio avviso va tutelata e protetta.

«Questa sua inconsapevolezza per altri aspetti è un punto di forza, è ancora nella fase della carriera di forte crescita, tutto le viene semplice senza pensarci troppo e va bene così. Pensiamo a Van der Poel: arriva e vince. Dà spettacolo in Mtb, attacca su strada… Però, adesso che inizia a capire quanto sia importante fa più fatica».

Più l’immagine o l’atleta?

In tanti accusano Paternoster di esagerare nei social, spesso extraciclistici. Una distrazione per un’atleta di vertice.

«I social sono un problema reale, ma non solo per Letizia. Molte atlete iniziano a stancarsi dei post pubblicati perché devono. Sono vetrine che ad alcune piacciono e ad altre no. In generale obbligano ad esporsi e quindi per certi temperamenti sono una forzatura. A Letizia piacciono.

«Non dimentichiamo però che sui social puoi mostrare quello che vuoi. Tu puoi fare 6 ore di bici, farti un mazzo così e quando torni a casa mettere foto in cui mandi bacetti. Oppure puoi pubblicare delle stories delle salite affrontate in allenamento,o dei cereali che mangi. Hai fatto la stessa cosa ma il messaggio è totalmente diverso. Pertanto i social mi preoccupano fino a un certo punto. L’importante è che rimanga focalizzata e motivata su obiettivi sportivi e non si lasci ingolosire dal successo mediatico che porta lontano dalla massima prestazione».

Letizia Paternoster, mondiali Apeldoorn 2020
Letizia Paternoster ai campionati europei di Apeldoorn 2019
Letizia Paternoster, mondiali Apeldoorn 2020
Letizia Paternoster ai campionati europei di Apeldoorn 2019

Letizia motivata e grintosa

«Alle Olimpiadi ci crede. Letizia è un’agonista vera, ha la giusta cattiveria. E’ capace di far a spallate per entrare prima nel bagno. Ha il piglio dell’atleta. Bisogna però mantenere questo stile di vita anche quando non si è in pista. Le gare non si vincono il giorno della corsa. Detto ciò, lei è un vero fenomeno. Si allena seriamente e su questo ci metto la mano sul fuoco».

L’importanza delle veterane

Nella Trek Segafredo il livello delle ragazze è altissimo. Ci sono cicliste con palmares e personalità importanti. Come è accolto il personaggio, la bellezza e l’atleta Paternoster?

«Per lei quel team è terapeutico. Ci sono ragazze più esperte e titolate di lei. A volte sono proprio loro che la richiamano o che la “prendono in giro” e la riportano alla realtà. Una Longo Borghini o una Deignan che ti riprendono, magari scherzando, sono modelli perfetti per Letizia».