Manuella Crini, scritto con due elle, è la psicologa di cui avete letto qualche giorno fa nell’articolo sulla Iseo-Rime-Carnovali, la squadra continental di Daniele Calosso e Mario Chiesa. La sua presenza nel ritiro del team serviva per lavorare sulle dinamiche di gruppo, cercare di spiegare ai ragazzi cosa succede quando si lotta tutti insieme per lo stesso obiettivo. Quando si gareggia per se stessi e allo stesso modo quando si lavora per un leader. Tutti aspetti che dopo tanti anni di ciclismo si darebbero per scontati, ma che fra ragazzi dai 18 ai 20 anni lo sono un po’ meno. Anche alla luce di quello che ci hanno raccontato in precedenza il cittì azzurro De Candido e Gabriele Balducci, sulle abitudini dei corridori in ritiro, che preferiscono appartarsi con il cellulare che condividere il loro tempo con i compagni. Noi le abbiamo rivolto qualche domanda per capire di più. E per capire se lo splendido spirito che regna fra le ragazze di Salvoldi (in apertura il podio ai mondiali di Doha 2016) dipenda dalla qualità delle ragazze o dal gruppo azzurro di cui fanno parte.
Buongiorno dottoressa, grazie per averci confermato di non aver registrato in modo errato il suo nome. Le elle sono effettivamente due…
Confermo, Manuella con due elle (ride ndr).
Ci racconta a cosa serviva l’incontro con la squadra?
Era un contesto leggero, focalizzato sui ragazzi, durante il quale ho potuto notare che i loro direttori sono persone preparate e sapevano esattamente quali fossero le dinamiche del gruppo. Qualcuno è stato chiamato in causa, non c’è stata troppa spontaneità nel proporre problemi. Ma dato che insegno da un po’ all’Università, ho la capacità di capire se chi ho di fronte è stato colpito da quello che si dice o pensa ad altro. Diciamo che forse la presenza di Cassani potrebbe averli messi un po’ in soggezione, ma d’altra parte non voleva essere una seduta di analisi.
Da qualche tempo ascoltiamo racconti sulla difficoltà nell’imporre l’autorità del tecnico, ad esempio…
Perché le dinamiche di gruppo sono cambiate di parecchio a partire dalla caduta del Muro di Berlino. Anche se sembra una cosa lontana e slegata, quell’evento ha comportato negli individui, ovviamente in modo progressivo, la variazione del potenziale di cosa ciascuno possa diventare. Si veniva da anni bloccati, in cui il figlio era destinato a restare nella sfera professionale o nella classe di appartenenza dei genitori. Dopo il Muro, si è capito che si può essere chiunque si voglia, per cui si è andato affermando l’individualismo, facendo venir meno l’autorità. Degli insegnanti, dei genitori, dei direttori sportivi… E’ venuto meno il cosiddetto “gruppo classe”.
Quindi per avere autorità non serve più alzare la voce?
No, bisogna guadagnarsi il rispetto. Inoltre con il diffondersi dei social, si vive in gruppi diversi, anche virtuali, e ci si sente meno parte del gruppo fisico in cui effettivamente ci si trova. C’è l’incapacità di sentire il gruppo stesso. Il tecnico, il capo, chiunque voglia essere un riferimento deve essere leader puntando sulla parte esperienziale e sulle motivazioni. Perché è vero che sono cambiati gli strumenti, ma non le sensazioni dei ragazzi.
Sensazioni?
L’ansia da prestazione, la parte depressiva legata all’insuccesso, la capacità di elaborare l’idea di non essere protagonista soltanto vincendo, ma supportando un compagno fino alla vittoria. Il fatto che qualcuno possa mostrarsi in modo negativo è un fatto di autostima. Bisogna rispettare tutte le parti del gruppo e delle singole personalità. Ci sono tante sfumature…
Perché a volte, Manuella, si ha la sensazione che la stessa persona sia diversa in base ai contesti in cui si trova?
Perché abbiamo tante identità diverse, rispetto ai contesti in cui viviamo e a volte può mancare coerenza tra le stesse.
L’atleta professionista viene pagato per essere a disposizione del capitano. La capacità di fare gruppo, di sacrificarsi per i compagni si acquisisce maturando?
Si acquisisce lavorando sullo spirito di gruppo, non è una tappa evolutiva. Nel gruppo eterogeneo, saper riconoscere le varie figure viene dalla disponibilità dei singoli di mettersi in gioco e nell’accogliere le differenze. La presenza di leader forti magari rende tutto meno automatico, perché se sono giovani hanno comunque bisogno dei loro spazi. Dipende tutto dal team builder che hai di fronte. Anche nel gruppo degli allenatori può esserci chi è capace di cogliere da solo le peculiarità dei ragazzi, ma lavorando in equipe si ottengono risultati migliori. Banalmente prestando attenzioni a cose di quotidianità spicciola.
Come ad esempio?
La composizione dei tavoli in cui gli atleti mangiano. La composizione delle camere in cui dormono. C’è tutta una serie di strategie in cui si possono mettere in atto quelli che, sembra brutto chiamarli così, potremmo definire dei giochi psicologici per conoscersi e creare il gruppo.
L’agonismo accresce il problema?
Nell’agonismo la parte motivazionale è fondamentale.