La Mercatone Uno vent’anni dopo, in ricordo di Pantani e Cenni

12.11.2023
8 min
Salva

IMOLA – Una biglia rossa, la figura di un ciclista. A poche centinaia di metri dall’uscita dell’autostrada di Imola, procedendo verso sud, se si rivolge lo sguardo a destra si vede l’ex torre della Mercatone Uno con ai piedi l’iconica biglia di Marco Pantani. Un simbolo, che riporta alla memoria una miriade di ricordi legati al Pirata. Un luogo che ieri, vent’anni dopo, si è popolato da chi ha condiviso risate, successi, pianti con il campione romagnolo. Ex corridori della Mercatone Uno, direttori sportivi, massaggiatori, meccanici…

Il tutto organizzato dal suo ex compagno Fabiano Fontanelli e da Micaela Cenni, figlia di Romano che da sempre ha creduto nel ciclismo, prima con la Germanvox e poi con Marco. Un museo intitolato ai due volti della squadra romagnola, che ha saputo scrivere pagine di storia dello sport, attraverso imprese epiche che rimarranno indelebili per sempre. Uno spicchio di tutto quello che è stato, si è preso un piano di quella torre, quasi a voler scortare la memoria di Marco e Romano dietro quella biglia adagiata sul prato verde che vede passare gli anni e gli sguardi di tutte le generazioni. 

Voglia di ricordare

Arriviamo sotto la torre, la biglia è alle nostre spalle. Il piazzale che ci circonda meriterebbe di essere ricoperto da un red carpet per la quantità di persone che hanno contribuito a rendere grande questo sport. Giuseppe Martinelli, Orlando Maini, Roberto Conti, Davide Cassani, Michele Coppolillo, Dmitri Konychev, Marcello Siboni e si potrebbe continuare per almeno dieci righe, basti vedere la foto in apertura. 

Tutto questo è nato dalla volontà di due persone. «Fabiano Fontanelli ha organizzato tutto – dice Micaela Cenni – ha voluto che tutti fossero qui per salutare Marco e il mio papà a 20 anni dalla chiusura di quel progetto che oggi rimane un riferimento per quello che è riuscito a raccogliere. Tutto quello che avevamo è stato venduto. Ho ricomposto la collezione di maglie della Mercatone Uno, in parte con alcune cose che avevamo, in parte le ho riacquistate. Voglio che questa città abbia un luogo dove ricordare il mio papà e Marco».

Tutti per uno

Una vera e propria rimpatriata, come quelle che si fanno dopo tanti anni con gli ex compagni di classe. Qui sono passati vent’anni e una differenza c’è, la maggior parte di loro ha fatto parte della vittoria di un Giro d’Italia o di un Tour de France. Se socchiudiamo gli occhi, con un po’ di immaginazione, ci sembra di vederli ancora con quell’iconica maglia gialla e la scritta Mercatone Uno sul petto, sulla schiena, sulla pelle, nel cuore… 

Saliamo le scale, arriviamo nella sala conferenze dell’attuale Center Tower. Cassani prende la parola e, come solo Davide sa fare, con il suo tono profondo e carismatico inizia a ricordare cosa sono stati per lui quei sette anni (dal 1997 al 2003, ndr).

«Non ci vediamo da anni – dice – è bellissimo ritrovarvi tutti qui e la cosa straordinaria è essere dietro la biglia di Marco, non c’è luogo migliore. Siamo qui perché Romano Cenni credette nel ciclismo in più momenti, con la Germanvox all’inizio, poi arrivò la Mercatone Uno con Bartoli, Cipollini e Casagrande. Poi terminò l’attività nel 1995 con l’arrivo della Saeco. Ma cosa succede? La Mercatone Uno ritorna nel ’97 grazie a due persone, Cenni e Luciano Pezzi. Sono loro due che uniscono le loro forze e scommettono su questo corridore romagnolo, Marco Pantani».

Ognuno il suo

La sala si è immersa in un religioso silenzio. Da qui parte un valzer di aneddoti e ricordi che rimbalzano da una sedia all’altra, ognuno ha un ricordo da condividere di Marco e di quegli anni. Si potrebbe scrivere un libro con quello che si è detto, storie che si conoscono già, ma che riportano alla mente un periodo dove il corridore più forte al mondo si chiamava Marco Pantani e vestiva la maglia della Mercatone Uno. Cassani dopo il suo intervento dice: «Qui tutti hanno un ricordo di Marco, chi vuole lo condivida». 

Martinelli incalzato da Davide lo raggiunge: «Io qui ho imparato a fare il diesse e le dinamiche di una squadra di alto livello grazie ai consigli di Luciano Pezzi e di Franco Cornacchia. Su Marco potrei parlare per ore, mi ricordo che non ero sicuro che volesse partire per il Tour dopo il Giro d’Italia vinto nel ’98. Lo andai a prendere a Cesenatico e finché non arrivammo alla partenza in Irlanda non ci credetti veramente.

«Si era allenato come una bestia – salta su Roberto Conti – mi ricordo che ci fermammo ad una fontana a Rimini e Marco chiese a me e a Siboni: «Ragazzi se vado al Tour secondo voi quanto faccio?». Noi rispondemmo: «Potresti arrivare sul podio, magari terzo». Inutile dire che si arrabbio parecchio con noi e ci disse che sarebbe andato solo per vincere».

Le voci si susseguono, ognuno ha qualcosa da raccontare. Maini e la mantellina sul Galibier, Conti sulla Marmolada, Coppolillo e le sue sfide da dilettante, Borra e la ripresa dall’infortunio del ’95. Agostini da compagno di scuola, il meccanico “Falco“ e le sue regolazione sulla Bianchi del Pirata. Racconti ed emozioni di chi quegli anni li ha vissuti in prima persona.

La biglia

“Il mio Pantani, i miei Campioni”, questo è il titolo del memoriale inaugurato oggi, nonché titolo del libro di Romano Cenni a cura di Beppe Conti. Appena ci affacciamo vediamo un’ampolla, con all’interno centinaia di biglie di Marco Pantani come quella fuori. Un ricordo semplice, ma dal significato senza limiti.  

Un intero piano dedicato alla memoria di Cenni e Pantani, maglie appese che ripercorrono gli inizi e le imprese. Le bici che si sono arrampicate sulle salite più importanti d’Europa. Prime pagine di giornale con i titoli che ancora oggi se letti fanno venire i brividi. Un viaggio tra i ricordi di due delle persone che hanno reso speciale una squadra e un periodo del ciclismo in tutto il mondo. Un viaggio per tutti.

Così da ieri, chi percorre l’A14 in direzione Ancona e si trova la mastodontica biglia rossa di Marco Pantani sulla destra, può rallentare ed entrare per vivere quei ricordi e portarsi a casa la sua di biglia per custodirla gelosamente, sapendo che è molto di più di un giocattolo per bambini.

Traversoni il pescatore e il ciclismo del Pirata

15.04.2022
4 min
Salva

Eravamo tutti così concentrati sulla crono di Eurodisney del giorno dopo, da non aver dato la giusta importanza alla tappa vinta da Mario Traversoni a Dijon.

Pantani stava per conquistare il podio al Tour del 1997, dopo il ritiro dal Giro causato dal gatto nero del Chiunzi, così le attenzioni per quel suo compagno estroso e riccioluto si ridussero purtroppo al minimo. Vinse la tappa su Simon e un gruppetto di nove, poi anche lui piombò nella concentrazione per il piccolo capitano che aveva da difendere più di 6 minuti da Olano, che gliene mangiò quasi cinque e poi si rassegnò al quarto posto finale.

L’anno dopo Traversoni accompagnò nuovamente Pantani al Tour, ma questa volta fino alla vittoria (nella foto di apertura è il primo da sinistra), ottenendo per sé il settimo posto sul traguardo di Parigi.

Traversoni ha compiuto 50 anni due giorni fa. E’ stato pro’ dal 1994 al 2002
Traversoni ha compiuto 50 anni due giorni fa. E’ stato pro’ dal 1994 al 2002

I primi 50 anni

Due giorni fa Mario ha compiuto 50 anni ed è stato come svegliarsi da un senso di eterna giovinezza, come quando della cosa ti avvisa un social e tu resti lì a rimuginarci sopra.

«Il problema – ride però lui – è che io non me li sento. L’età anagrafica è quella, però mi sento 10 anni in meno. Quel Mario non c’è più, il ciclismo è una porta chiusa. Ne sono uscito. Collaboravo con RCS, ma non sono stato confermato, probabilmente per una battuta di troppo in difesa dei corridori che a qualcuno non è piaciuta. Continuo a vederli trattati come ultima ruota del carro e non mi piace. Seguo qualche gara. Più il ciclocross, a dire il vero, perché l’unico corridore in questo momento che mi entusiasma è Van der Poel, poi per il resto vedo un ciclismo molto calcolato. Tolti appunto Mathieu e Pogacar, che hanno un modo meno monotono di interpretare le corse».

Traversoni lavora in un’azienda che produce materiali tecnici e a sua volta fa gare di pesca
Traversoni lavora in un’azienda che produce materiali tecnici e a sua volta fa gare di pesca
Qual è il ciclismo che ti piace?

Vabbè, inutile dirlo. Quello di Marco, che inventava la corsa giorno dopo giorno. Non c’era mai niente di scontato e poi forse anche in gruppo c’erano ancora i veri ruoli. Se tu facevi il tuo mestiere e sapevi farlo bene, potevi avere un contratto garantito. In questo ciclismo moderno, tolti i pochi che stanno in una nicchia, gli altri sono quasi tutti a rischio di contratto anno dopo anno. C’è un ricambio troppo grande.

Sei ancora un grande pescatore?

Ho sempre pescato, ma dopo aver smesso, mi ci sono buttato a capofitto. L’anno scorso non sono andato al mondiale per un solo punto, quest’anno sono ancora nel club azzurro, quindi mi gioco ancora la convocazione. Praticamente faccio solo quello come agonista. Non vado per passatempo, tutto quello che faccio è sempre in previsione di una gara o comunque di un appuntamento importante. La pesca non ha niente a che vedere col ciclismo, però mi ha dato un lavoro.

Anche Pantani amava pescare…

Marco era un personaggio incredibile, nel senso che quello che voleva fare, dove voleva arrivare, lui ci arrivava. Andava a caccia e sparava meglio di te. Andava a pescare e prendeva più di te. Cosa vuoi dirgli a una persona cui veniva proprio tutto facile? L’impegno ce l’ha sempre messo in tutte le cose che faceva, perché lui voleva sempre essere il numero uno. Però non lo faceva mai pesare agli altri. Quando hai un fuoriclasse così in squadra, bisogna per forza fare tutto per lui.

Traversoni ha corso con la Mercatone Uno nel 1997 e 1998. E’ passato professionista con la Carrera
Traversoni ha corso con la Mercatone Uno nel 1997 e 1998. E’ passato professionista con la Carrera
C’è ancora in te la… follia del velocista?

L’essere velocista ti resta sempre, perché è una cosa che hai dentro. Già c’è il discorso che non mi sento cinquant’anni. Mi sono risposato e adesso ho una bimba di 5 mesi e quindi faccio sempre una vita a tutta. Sono sempre accelerato, ma in bici non vado più dal giorno che ho smesso. Solo una volta l’ho ripresa in mano, alla Santini, perché dovevo fare un servizio fotografico per del vestiario nuovo.

Come andò?

Erano sei anni che non andavo in bicicletta. Ho puntato l’ultima salita coi primi, però ho avuto i crampi fino ai capelli e mi son fermato. Ho dormito credo per due giorni di fila. La bici ce l’ho ancora, ma se devo andare dal panettiere che sta a 800 metri da casa, vado a piedi o prendo la macchina.

Cosa ti pare del ciclismo di oggi?

Sono ancora in contatto con qualche ex compagno. Ogni tanto mi chiamano per qualche festa o faccio presenza in qualche gara, ma se posso evito. Non mi interessa più, perché l’ho vissuto da ciclista e poi anche dal di fuori e quello che ho visto non mi è piaciuto. Abbiamo cambiato la generazione dei corridori, adesso abbiamo tutta gente giovane che vince. Il ciclismo si è modernizzato e io non riesco a capire perché poi ci sono ancora quei vecchi bacucchi ai vertici, che comandano ancora loro. Certi direttori, certi preparatori. Non ha neanche senso parlare di ricambio generazionale, se a guidare la macchina ci sono ancora questi qua…

Il Falco e il Pirata: l’officina dei ricordi di Dino Falconi

13.01.2022
6 min
Salva

Il tono della voce diventa flebile e lo sguardo si abbassa. Ogni ricordo che il Falco ci racconta sul Pirata assume un’atmosfera propria e assordante. Dino Falconi è stato il meccanico della Mercatone Uno dagli inizi, fino all’ultima stagione di Marco Pantani. Ancora oggi all’età di 85 anni si reca nella propria officina per riparare le bici di clienti fidati e per aprire le porte agli appassionati che bussano. Tra questi ci siamo anche noi.

Dino ci apre nel suo fantastico laboratorio situato nel centro del piccolo paesino di Barbiano, in provincia di Ravenna. Terra romagnola proprio come quella di Marco e di altri atleti conterranei con cui ha condiviso successi e sconfitte come: Vito Ortelli, Aldo Ronconi, Marino Amadori, Fabiano Fontanelli, Roberto Conti, Davide Cassani e molti altri sparsi qua e là tra salite, piadine e cappelletti. 

L’officina dei ricordi

Non appena entrati, vediamo Dino seduto al centro. Circondato da una costellazione di foto che formano una sorta di memoria impressa sulle pareti. La mascherina sul volto ci ricorda che nel tempo si può viaggiare solo con l’immaginazione. Il Falco inizia ad indicarci alcune immagini e a raccontarci i primi aneddoti.

Parte dalla foto insieme ad Aldo Moser, nella sua prima esperienza come meccanico sul campo. Era il 1971, la squadra era la GBC di Enzo Moser al Giro di Spagna.

«Alle corse -racconta Dino – ci sono andato per andare in ferie. Battista Babini mi chiese di andare in Spagna per aiutare. Da quel momento le ferie si sono prolungate per 35 anni». 

Dino e Marco

I racconti si susseguono e pian piano ripercorriamo foto per foto ogni centimetro della parete. Tant’è vero che la domanda che gli facciamo è spontanea: «Si potrebbe scrivere un libro con queste storie…». La sua risposta è secca e non lascia a interpretazioni, seppur sia una battuta. «Il libro lo scriverete quando passerò a miglior vita, ora mi piace raccontarle a voce!». 

E’ il 2003, Falconi e Pantani testano le bici da crono durante il giorno delle misure
E’ il 2003, Falconi e Pantani testano le bici da crono nel giorno delle misure

Una foto in particolare ci colpisce. Falconi ha indosso il suo immancabile grembiule da meccanico (anche oggi lo porta). Pantani è in sella alla bici.

«Lì stavamo facendo le misure per la sua bici da cronometro. Eravamo alla vigilia della Coppi e Bartali di inizio stagione. Il giorno della crono era una brutta giornata. C’era un po’ da impazzire». 

Pignolo quando serviva

«Eravamo tutti e due romagnoli, ci si capiva subito». Dino continua così il suo racconto su Pantani. Per il campione di Cesenatico la bici era sempre stata una compagna di viaggio a partire da quando era giovane. Quando per lavarla la portava in casa e la immergeva nella vasca. Per Marco la bici non aveva segreti.

«Un buon corridore – dice il Falco – deve essere un buon meccanico. E Pantani ne capiva di bici, quindi non mi dava fastidio assecondarlo nelle modifiche che voleva. Era pignolo e a volte si intestardiva, ma lo faceva sempre con un senso. Non come Chioccioli che dalla mattina alla sera cambiava idea».

Una battuta quella su Franco Chioccioli che viene subito accompagnata da un’aneddoto su un paio di ruote realizzate ad hoc dai fratelli Arrigoni della Fir. Due ruote da 28 pollici con tre razze, utilizzate al Giro d’Italia vinto nel 1991 con un mozzo realizzato su misura da Pinarello su commissione di Falconi. 

Le ruote da cronometro a tre raggi utilizzate da Chioccioli durante il Giro d’Italia del 1991
Le ruote da cronometro a tre raggi utilizzate da Chioccioli durante il Giro d’Italia del 1991

Le misure del Pirata

Il rapporto tra il Falco e il Pirata era fatto di rispetto e stima reciproca. Infatti a convincerlo a seguirlo in Mercatone Uno e a prolungare le sue “ferie” per qualche anno fu proprio Marco. Forse perché il corridore con il meccanico sviluppa una sintonia e una fiducia che aiuta a trovare il giusto feeling con la bici fin da subito. Della messa in bici infatti se ne occupava proprio Dino.

«Lo mettevo in bici io -dice- mi dava delle dritte, certo. Ma le facevo tutte io ad occhio. E forse ci andavo più vicino io che con i macchinari che si utilizzano oggi. Guarda quella foto lì, com’è bello in bici. È messo bene!».

Marco Pantani in una foto che Falconi indica per mostrare la sua posizione in bici
Marco Pantani in una foto che Falconi indica per mostrare la sua posizione in bici

Aneddoti e storie

Ci spostiamo da un lato all’altro dell’officina guidati dalla sua voce, tenendo un occhio chiuso per volare con l’immaginazione e un’altro aperto per non inciampare nei cimeli. Tra questi ci imbattiamo in una Wilier di Juan Manuel Gárate.

«Quella secondo me – dice – è il miglior telaio realizzato da Wilier. Con la forcella posteriore in carbonio». Poco più avanti appesa in alto, una bici firmata Ortelli. «Quella è una Ortelli, mi diede il telaio Vito a patto di lavorare da lui per una settimana. Il manubrio invece me lo regalò Greg Lemond. Ha una forma strana che non prese mai piede».

Infine un altro nodo alla gola prende quando ci indica un’ultima foto. «Michele Scarponi venne insieme al mio amico Orlando Maini perché passavano di qui e avevano un problema con un freno. Io glielo cambiai e lui mi volle autografare una foto che poi mi riportò Maini. E’ un bel ricordo».

Un’infinità di storie che parlano di una persona che ha vissuto il ciclismo in lungo e in largo, dietro le quinte, vestito con l’umiltà di un grembiule e il grasso tra le mani, sempre al servizio dei corridori. 

Passo Fedaia, dove si decide il Giro. Conti, ti ricordi nel 1998?

29.11.2021
6 min
Salva

Sabato 28 maggio, arrivo del Giro sul Fedaia. In questa esplorazione delle tappe e delle salite del Giro, il penultimo giorno di corsa merita un bel respiro.

«Lo stesso che fai quando arrivi a quei rettilinei – ride Roberto Conti – e guardi verso l’alto. Lassù in cima se c’è bello vedi tutti i tornanti che si arrampicano sulla montagna. Allora il bel respiro lo tirano tutti, ma se non stai bene, vi assicuro che ti viene anche l’ansia. In certi giorni è meglio che ci siano le nuvole, almeno non vedi quello che ti aspetta…».

Il romagnolo ha smesso di correre nel 2003 sulla soglia dei 40 anni, mentre oggi ne ha 56. Fece l’ultimo anno accanto al piccolo capitano, con cui nel 1998 aveva conquistato il Giro e il Tour, e appese la bici al chiodo poco prima che Marco se ne andasse per sempre. Roberto, come Fontana, Sibo e pochi altri, è custode di storie che pochi hanno il privilegio di aver vissuto. Una di queste, che magari avrete ascoltato e letto centomila volte, riguarda proprio Pantani e la Marmolada. In quella tappa del Giro 1998 che conduceva a Selva di Valgardena e dritto nella storia.

Personale hit parade

Ma noi andiamo per gradi. Perché Conti quelle salite le ha masticate davvero (quasi) tutte e prima di parlare della Marmolada tira giù la sua personalissima classifica.

«Stiamo parlano di Dolomiti – dice – e lassù la salita più dura è quella delle Tre Cime di Lavaredo. Poi ci metterei Plan de Corones. Quindi il Fedaia, il Giau e il San Pellegrino da Falcade, che il Giro farà proprio nella tappa di quest’anno. Sono salite che si fanno rispettare, ognuna con le sue caratteristiche».

Tonkov fu il primo dei big ad attaccare, ma mancava ancora troppo al traguardo
Tonkov fu il primo dei big ad attaccare, ma mancava ancora troppo al traguardo

Il Fedaia mette ansia

Del Fedaia ha due ricordi. E volendo riprendere la sua espressione d’inizio, in uno dei due casi lo affrontò con l’ansia, guardando i tornanti lassù in alto.

«Come lunghezza del pezzo duro – dice – non è eccessiva, sono 6-7 chilometri. Però confermo (ride ancora, ndr) che anche a me capitò di avere l’ansia. Successe nel 1996 quando il Giro lo vinse Tonkov. Lavorammo tutto il giorno per lui, prima avevamo fatto il Pordoi e io ero stanco. Arrivai là sotto, guardai in alto e pensai che non sarebbe mai finito».

In vetta con il 41×24

Tra i motivi di sconforto per Conti quel giorno c’era anche la limitata scelta di rapporti che i corridori avevano a disposizione.

«Nel 1996 – ammette – avevo il 41×24. Neanche il 39, non mi sono mai trovato a girarlo (Conti era uno di quelli che in salita spingeva rapporti solitamente duri, ndr). A quelle condizioni era una salita dura. Mi ricordo che al massimo come scelta c’era il 25, per questo se guardate le immagini, in salita eravamo costretti ad andare molto sui pedali. In piedi, che è faticoso. Adesso è cambiato tutto. Con i rapportini di adesso e le frequenze di pedalata che fai, sono costretti a stare seduti».

Guerini sudò sette camicie per dare man forte al romagnolo
Guerini sudò sette camicie per dare man forte al romagnolo

Pantani al buio

In quel 2 giugno del 1998, la tappa partiva da Asiago e prima della Marmolada, il gruppo si era messo sotto le ruote Duran, Forcella Staulanza e Santa Lucia. Poi avrebbe scalato il Sella e sarebbe arrivato a Selva di Val Gardena.

L’aneddoto che rese celebre Conti nelle settimane dopo il Giro del 1998 riguardava proprio il Fedaia, che Pantani non aveva mai scalato. In quegli anni di poche ricognizioni, gliel’aveva descritta proprio Roberto e così erano andati al via.

«Quando passammo per i Serrai di Sottoguda – dice e gli verrebbe da mettersi una mano sulla testa – mi resi conto che io da lì non c’ero mai passato. Per cui arrivammo a Malga Ciapela e poi, come ho raccontato centomila volte, andai a chiedergli quando volesse attaccare. Lui mi guardò e mi disse che aspettava le gallerie, perché gli avevo raccontato la salita sbagliata. Per fortuna mi venne in mente di andargli vicino».

A Selva di Val Gardena, Guerini vinse la tappa, Pantani vestì la prima rosa di sempre
A Selva di Val Gardena, Guerini vinse la tappa, Pantani vestì la prima rosa di sempre

Tonkov in trappola

Quel confabulare prolungato fra Conti e Pantani per rimediare una situazione di lieve imbarazzo in realtà trasse in inganno Tonkov, che al pari di Marco aveva individuato nel tappone di Selva la prima buona occasione per attaccare Zulle in maglia rosa.

«Io Pavel lo conoscevo bene – ride Roberto – non uno che attaccasse da lontano. E alla fine ho scoperto che vedendoci parlare aveva capito che Marco fosse in crisi e così era partito. Poveretto, non sapeva quel che c’era dietro. Ma quando Marco finalmente attaccò, se ne rese conto».

Ecco la Mercatone in rosa del 1998. Da sinistra, Konychev, SIboni, Garzelli, Conti, Podenzana
Pantani fra Garzelli e Conti dopo la vittoria finale del Giro 1998

Un minuto a chilometro

Quest’anno la musica sarà diversa, perché là in cima ci sarà l’arrivo e la musica sarà completamente diversa. Non si percorreranno i Serrai di Sottoguda, la cui strada è stata danneggiata dalla tempesta Vaia del 2018.

«Se vai in crisi sul Fedaia – spiega – perdi anche un minuto per chilometro. Anche perché tenete conto che prima ci saranno due belle salite, compreso il San Pellegrino dal lato duro di cui s’è parlato prima. Si sale ai 2.000 metri, che a qualcuno possono dare noia. Io ero uno scalatore colombiano, si vede, perché più salivamo e meglio stavo. E poi, come disse Marco, che scalatore sei se ti dà fastidio l’altura?

«E’ una bella tappa, semmai un po’ corta. Sarebbe stata perfetta sui 200 chilometri. Con un’ora, un’ora e mezza di bici in più alla partenza, la differenza si sarebbe sentita…».

Campiglio, 5 giugno 1999. Il giorno che spensero il sole

05.06.2021
12 min
Salva

Paolo era ancora nel camper, nulla lasciava presagire quel che sarebbe accaduto. Sentì bussare. Disse semplicemente: «Avanti». Marco stava vincendo il Giro con un vantaggio più che tranquillizzante, in quel bel giorno di giugno fuori c’era il sole. Era un mattino che già solo svegliarti ti metteva di buon umore. Pregnolato aveva la faccia stravolta.

«Vieni su, fai il favore. C’è Marco incazzato duro, che non riusciamo a convincerlo. Ha dato un pugno nel vetro e si è spaccato tutta la mano. Vieni a vedere se riesci a calmarlo».

«Ma cosa dici?». Paolo si sentì morire.

«Sai cosa è successo?» gli disse. «L’hanno trovato con l’ematocrito alto…».

Roncucci, suo tecnico alla Giacobazzi, andò a trovarlo a Sansepolcro. Qui con Schiavina e Marco negli anni fra i dilettanti
Roncucci, suo tecnico alla Giacobazzi. Qui con Schiavina e Marco negli anni fra i dilettanti

Sangue e lacrime

Sentì una vampata di calore salirgli fino alla faccia. Poi il fiato che mancava. Reagì come un automa. Scese dal camper. Chiuse la porta. Entrò nell’albergo. Salì le scale. Entrò nella stanza.

Marco era lì che piangeva. Sangue dovunque, dalla mano al braccio, fino alla maglietta. Lo guardò. Quello che aveva fatto fino a quel momento era stato spazzato via. Guardò suo padre e gli sembrò di essere tornato bambino, quando ne faceva una più grossa delle altre e lui arrivava per punirlo. Ma questa volta anche il babbo si mise a piangere. Non aveva mai visto suo figlio in quelle condizioni. Nella stanza c’era Velo che cercava di parlargli. Poi iniziò un viavai che Paolo non ricorda ormai più.

Il silenzio di De Zan

Tonina chiuse il chiosco alle tre e mezza del mattino. Passò da casa per la doccia, si diede una sistemata e chiuse la borsa. Quelli della Fausto Coppi la aspettavano in piazza per raggiungere il Giro d’Italia. Arrivò appena poteva, poi partirono. C’era anche il fratello di Paolo. Sul pullman Tonina si addormentò.

Arrivarono ad Aprica in tarda mattinata e il paese era già in subbuglio per la tappa del Giro d’Italia che sarebbe arrivata nel pomeriggio. Tonina aveva mal di stomaco, così andarono alla ricerca di un bar. Quando lo trovarono, si accorsero che a un tavolo c’era Adriano De Zan che scriveva con la faccia scura. Andarono a salutarlo per tirarlo un po’ su.

«Marco non parte» le disse dopo un saluto laconico, poi scosse la testa, la abbassò nuovamente e si rimise a scrivere.

Tonina si voltò di scatto. Tutto intorno il gelo, facce livide, mani fredde.

«Cosa ha detto?».

Non capì più niente. Paolo era a Campiglio col camper, lui le avrebbe spiegato.

Marco va a casa

Lo chiamò e sentì la voce svuotata di ogni calore. Le disse soltanto che Marco sarebbe tornato a casa con Martinelli e che la squadra aveva deciso di non partire. Con lui sarebbe andato Fontanelli. Anche Tonina sentì il desiderio di andare via e per fortuna anche quelli della Fausto Coppi pensarono la stessa cosa, altrimenti avrebbe dovuto cercarsi un passaggio.

Un gruppo di tifosi la riconobbe. Le dissero che bastava una sua parola e avrebbero fermato il Giro d’Italia. Si sarebbero messi in mezzo alla strada sul Mortirolo. Lei disse di sì. Fu Savini, il primo direttore sportivo e poi coordinatore del fan club, a dire che sarebbe stato uno sbaglio. Era il loro capo, girava con l’ammiraglia gialla e si era tagliato i capelli come Marco. Lo ascoltarono e il Giro passò. Era il 5 giugno del 1999.

Discussioni con Tafi e la Mapei sull’adesione a Io non rischio la Salute e tensione alle stelle
Discussioni con Tafi e la Mapei sull’adesione a Io non rischio la Salute e tensione alle stelle

Il caso Alvisi

Pino Roncucci, direttore di Marco fra i dilettanti. in quel periodo faceva il direttore sportivo alla Rinascita di Ravenna e alla fine di maggio si stava preparando con i suoi ragazzi per il Giro delle Pesche Nettarine, corsa a tappe romagnola per corridori under 23.

Nella sua squadra c’era un ragazzino di belle speranze, che si chiamava Juri Alvisi ed era da poco rientrato dal Giro delle Regioni, corso con la nazionale. Nella corsa che ormai s’annunciava, sarebbe stato lui il capitano della squadra. Era uno che quando andava in fuga non mollava mai. Nulla a che vedere con Marco, ma un bel talento, di cui si erano accorti i tecnici federali che lo avevano inserito tra i convocati per i campionati europei a cronometro.

Il 31 maggio, prima di partire per il Pesche Nettarine, Roncucci lo aveva portato al Lam di Forlì, una struttura sanitaria in cui solitamente portava i suoi corridori a fare le analisi del sangue. L’ematocrito di Alvisi era risultato del 46 per cento, perciò il ragazzo era partito sicuro di svolgere una buona prova.

Due giorni dopo, il 2 giugno che era di martedì, accadde una cosa strana. Gli ispettori federali si presentarono per i controlli del sangue alle otto e mezza del mattino. Alvisi aveva già fatto colazione e lo trovarono con l’ematocrito a 51,8.

Al ragazzo crollò il mondo addosso. Roncucci invece rimase in silenzio. Pensò a quello che aveva sentito una settimana prima al Giro d’Italia dei professionisti e il suo cervello si mise in moto.

29 maggio: da solo sulla Fauniera. Là in alto ora lo ricorda un monumento
29 maggio: da solo sulla Fauniera. Là in alto ora lo ricorda un monumento

Controlli sballati

Stava per accadere qualcosa. Così Roncucci avvertì dell’anomalia Orlando Maini, che in quegli stessi giorni era al Giro d’Italia come direttore sportivo alla Mercatone Uno. Essendo amico di Alvisi, lo teneva in considerazione per un eventuale passaggio al professionismo. Quindi prese il ragazzo, lo caricò in ammiraglia e si diresse a tutta velocità verso lo stesso centro di Forlì in cui lo aveva controllato prima della corsa.

Il risultato fu quello di due giorni prima: 46 per cento. Così Roncucci prese gli esami e li affidò a un avvocato, il quale li mandò alla commissione medica federale, denunciando che le macchinette usate per i controlli in corsa erano tarate male.

Gli risposero che non gli importava e che il ragazzo doveva comunque rimanere fermo.

Alvisi infatti si fece i quindici giorni previsti dal protocollo, poi tornò all’ospedale Sant’Anna di Como, scelto dalla federazione per i suoi test. L’ematocrito risultò ancora intorno al 46 per cento, quindi gli venne restituita la possibilità di correre.

Nonostante una norma federale prevedesse che, in caso di problemi di quel tipo, il corridore avrebbe perso la nazionale per l’intero anno, Alvisi andò al campionato europeo e si piazzò all’undicesimo posto. Poi andò anche al mondiale. Il reclamo di Roncucci era fondato? Perché ad Alvisi non fu negata la nazionale? Quelle macchinette erano davvero tarate male?

L’allarme di Reverberi

Pino però non riusciva a stare tranquillo. Il problema era accaduto ad altre squadre anche al Giro d’Italia. Sembrava quasi che tutti gli apparecchi usati dalla federazione e dall’Uci fossero regolati allo stesso modo e i risultati erano stati bugiardi nel novanta per cento dei casi.

Ne aveva sentito parlare il 25 maggio, quando era andato a trovare Marco alla partenza della tappa che da San Sepolcro avrebbe portato il Giro a Cesenatico. Gli risposero che anche loro se ne erano accorti e che Reverberi in particolare aveva già dato l’allarme.

Bruno Reverberi dirigeva la Navigare ed era anche presidente dell’associazione dei direttori sportivi. Si era accorto che i risultati dei test dei suoi corridori erano tutti abbondantemente sopra la media e aveva cominciato a dire che le macchinette per il controllo erano state tarate male. Ma nessuno tra coloro predisposti ai controlli diede mai risposte. Roncucci aveva ascoltato e poi aveva chiesto dove fosse Marco, preoccupato anche per delle voci sentite in avvio del Giro, secondo cui Pantani alla tappa finale di Milano non ci sarebbe mai arrivato.

«E’ nel camper – gli disse Martinelli – vai pure. Ti vede sempre volentieri».

30 maggio: a Oropa una delle imprese di Marco che sono entrate nella leggenda
30 maggio: a Oropa una delle imprese di Marco che sono entrate nella leggenda

Giro nella bufera

Il Giro d’Italia era iniziato tra mille tensioni. Il Coni era nella bufera da quando si era scoperto che nel laboratorio romano dell’Acquacetosa erano stati nascosti i prelievi degli antidoping del calcio.

Il presidente Pescante si era dimesso e il nuovo arrivato Petrucci aveva buttato sul tappeto la campagna “Io non rischio la salute” cui nessuno sport tuttavia aveva aderito, perché nessuno aveva in animo di prestarsi ad analisi del sangue sulla cui attendibilità c’era più di un dubbio.

Serviva un esempio e la federazione ciclistica diretta da Giancarlo Ceruti si affrettò a dire che il ciclismo sarebbe stato ben lieto di fare da apripista. Nessuno capì il perché di quella accettazione incondizionata e fu immediato pensare che ci fosse qualcosa sotto, fosse anche la voglia del presidente federale di far carriera.

I ciclisti erano già gli unici atleti professionisti in quel momento a sottoporsi spontaneamente ai controlli del sangue. Venivano regolarmente controllati da parte dell’Unione ciclistica internazionale e dalla federazione. Accettare di dare il sangue a un terzo ente sarebbe stato troppo. Ma Ceruti alzò la voce, omettendo di dire che nessun corridore era stato informato di questa campagna e che nessuno aveva pertanto concesso il consenso firmato ad aderirvi. Perciò sembrò strano che al momento dei prelievi del sangue gli ispettori del Coni si presentassero con il modulo di adesione da firmare e riconsegnare.

Non rischio la salute

Il malumore iniziò a serpeggiare e alla fine la scelta di un corridore che parlasse per tutti cadde su Pantani, perché col carisma che aveva magari lo avrebbero ascoltato.

Solo una squadra fino a quel momento aveva accettato ed era la Mapei di Tafi campione italiano e di Tonkov

Quando Pantani si fece portavoce dei dubbi del gruppo, si scatenò un vero putiferio. Marco disse semplicemente che i corridori si rifiutavano si sottoporsi a un altro salasso, ma che avrebbero collaborato se i tre enti preposti avessero trovato un accordo tra loro. Disse soltanto che non potevano essere sottoposti a prelievo ogni giorno per soddisfare le pretese di tre diverse entità, invece si iniziò a dire che Pantani era contrario ai controlli del sangue. E il tono si alzò.

4 giugno 1999: a Madonna di Campiglio l’ultima vittoria in quel maledetto Giro del 1999
4 giugno 1999: a Madonna di Campiglio l’ultima vittoria in quel maledetto Giro del 1999

Giallo a Cesenatico

Quando Roncucci salì sul camper della Mercatone Uno, quel mattino a Sansepolcro, giugno era da venire. Pino suggerì a Marco di stare calmo, di non esporsi troppo, perché anche se avesse avuto l’appoggio di tutti i suoi colleghi, certe leggi non scritte non le avrebbe potute cambiare e contro i poteri forti non avrebbe potuto comunque vincere.

Marco lo guardò con il labbro superiore arricciato. Annuì e poi gli disse di stare tranquillo, perché sapeva quel che stava facendo. Poi aggiunse che gli dispiaceva di non arrivare a Cesenatico in maglia rosa e che la sera sarebbe andato a dormire a casa.

Non poteva ancora sapere che il mattino successivo ci sarebbe stato un controllo a sorpresa e che, per il ritardo con cui si sarebbe presentato davanti agli ispettori, questi avrebbero redatto un verbale e lo avrebbero inoltrato agli organi competenti.

Stava per accadere qualcosa. Marco vinse la tappa di Campiglio provocando malumori in quanti erano stanchi di vederlo vincere sempre e di rimediare sempre lezioni così pesanti.

Fermare Pantani

Sul traguardo trentino, in quel 4 giugno di sole appena velato, Paolo Pantani se ne andava in giro fiero e con il petto in fuori per la fortuna che finalmente arrideva a suo figlio, dopo la gamba spezzata e i due Giri saltati prima per l’investimento del primo maggio e poi per il maledetto gatto del Chiunzi.

Quel giorno sul traguardo, trovandosi per caso accanto a un capannello di uomini con la cravatta, gli capitò di ascoltarne il discorso.

Di sicuro, ricorda, c’era Castellano, il direttore del Giro d’Italia. Un po’ scherzava e un po’ era preoccupato. Parlavano della tappa del giorno dopo, la più dura.

Qualcuno gli disse che forse avrebbe fatto meglio a togliere la salita del Gavia, perché se Pantani avesse attaccato già da lì, considerato che poi avrebbero dovuto scalare anche il Mortirolo, tanti corridori sarebbero finiti fuori tempo massimo e a Milano sarebbero arrivati in dieci. Fu allora che qualcuno disse che, piuttosto che togliere il Gavia, sarebbe convenuto fermare Pantani.

Come Binda?

Paolo ascoltò e non capì. Così come non capì pochi minuti dopo la battuta di Angelo Costa, giornalista del Carlino, che con qualche imbarazzo gli disse che in sala stampa a forza di vederlo vincere i giornalisti non sapevano più cos’altro scrivere su Marco.

«Tu cosa faresti?» gli chiese Costa.

«Scriverei che domani Marco tenterà di fare poker», rispose Paolo con la prima battuta che gli venne in mente.

Marco aveva già vinto tre tappe, era facile prevedere che ci avrebbe provato anche il giorno dopo. Poi si incamminò verso il camper, pensando che fosse tutto molto strano. Cosa voleva dirgli Costa? Cosa aveva fiutato? Ma era soprattutto quella battuta sul Gavia e sul fermare piuttosto Pantani che lo lasciò parecchio perplesso.

Avrebbero parlato con suo figlio per raccomandargli di non attaccare come cinquant’anni prima era successo con il grande Binda?

Preferì non pensarci più e arrivò al piazzale dell’hotel dove aveva parcheggiato il camper.

Lungo le strade del Giro, con il sole o sotto la pioggia, decine di cartelli parlano ancora di lui
Lungo le strade del Giro, con il sole o sotto la pioggia, decine di cartelli parlano ancora di lui

Cannavò e carabinieri

«La sera del 4 giugno – racconta – nell’albergo venne anche Candido Cannavò, il direttore della Gazzetta dello Sport. Restò lì a mangiare nella tavola con Marco, ma io ero in disparte e non so cosa si dissero. Vidi solo che Marco mangiò poco e niente, aveva la faccia scura. Parlavano e discutevano. Avevo il camper a dieci metri dall’albergo e mi ricordo benissimo che già dopo l’arrivo c’era un traffico incredibile di carabinieri. C’erano otto o dieci uomini che giravano attorno a quella zona. Va bene che eravamo a duecento metri da dove il giorno dopo ci sarebbe stato il ritrovo, però… E mi ricordo che anche dopo cena c’era questo via vai di carabinieri, che giravano lì intorno. Che cosa stava succedendo quella sera? Ero sempre nei paraggi, negli alberghi, dentro dove c’erano le sale stampa. Non avevo mai visto tanti carabinieri. Ma mi dissi che erano curiosi anche loro o forse erano lì per proteggere Marco e me ne andai a dormire».

Ceruti e il diavolo

Marco ripartì il giorno dopo da Madonna di Campiglio assieme a Martinelli.

Lo fecero uscire dall’albergo come un criminale, ma trovò la forza per parlare. Pronunciò parole pesanti come il piombo, poi sparì nell’ammiraglia e il Giro d’Italia se ne andò senza di lui, senza che nessuno fosse andato nella sua stanza per mettergli una mano sulla spalla, per capire, sentire come andasse o semplicemente per insultarlo. Se ne andò nell’indifferenza generale, come se le belle parole usate fino al giorno prima non fossero mai state pronunciate né scritte.

Tra i tavoli della sala stampa, quel giorno il presidente federale Ceruti (scomparso a marzo 2020) andò sorridendo dai suoi amici più stretti a dire che avevano fermato il diavolo e che non c’era solo lui con il sangue in difetto, ma tutta la sua squadra. 

Non fu antidoping

Fu un controllo per tutelare la salute di Pantani. Non fu un controllo antidoping. Parlarono di positività, ma nessuno dal suo entourage avrebbe mosso un dito per denunciare l’imperdonabile imprecisione.

Si fermarono a Imola per mettere i punti alla mano ferita e ripeterono gli esami del sangue e quando ebbero la certezza che fossero nella norma e lo dissero ai tanti giornalisti che chiamarono, si sentirono rispondere dall’istituizione che durante il viaggio potevano aver combinato qualcosa.

A Imola invece i medici dissero che sull’ematocrito si poteva anche intervenire, ma che l’emoglobina era la stessa di sempre e l’emoglobina non la modifichi in così breve tempo. Ma nessuno ci prestò ascolto, né lo difese. Tutti si misero a smentire qualunque cosa Marco dicesse.

Il 26 maggio scorso, mamma Tonina ha ricevuto il premio per Marco come atleta più amato del Giro
Il 26 maggio scorso, mamma Tonina ha ricevuto il premio per Marco come atleta più amato del Giro

Fango e distruzione

Arrivò a casa e già c’erano fotografi e telecamere ad attenderlo. Si chiuse dentro. Tonina non ricorda di preciso cosa accadde, perché fu come se un fiume avesse spazzato via la sua vita precedente, portando solo fango e distruzione. Ricorda bene però la visita di Savini.

«Tonina – le disse – è andata bene così, perché altrimenti lo facevano fuori. Dai retta a me, è andata bene così. Mi hanno chiamato con un accento del Sud e mi hanno detto che è andata bene così».

Ricorda Tonina che Savini disse di non poter aggiungere altro, aveva paura che gli facessero saltare l’officina.

«Disse che non lo avrebbero fatto più lavorare – racconta Tonina – e a me sembrò tutto molto strano. Ma in quei giorni cosa c’era di normale? Mi ricordo questo casino di giornalisti… Non potevi mettere il naso fuori che vedevi dei gran flash. Dietro, in mezzo agli alberi, davanti. E’ stata una settimana da incubi. Venivo sotto, accendevo la tivù e ci vedevo i miei cancelli».

L’inizio della fine

«Paolo una volta andò al chiosco a prendere da mangiare e gli si buttarono sul cofano. Chiamò anche i carabinieri, ma gli risposero che purtroppo la strada è di tutti. Il giorno dopo smontò dalla macchina e li invitò ad andarsene. Disse: “Passi lunghi e ben distesi” e il giorno dopo sui giornali uscì che il padre di Pantani si era montato la testa con i soldi del figlio. E Marco intanto era rinchiuso dentro e si tormentava. Ma sai quante manifestazioni ha fatto mio figlio contro la droga? Tutti questi ragazzi con i palloncini contro la droga e lui con loro… Lo diceva anche il suo amico Gianni. Loro a quelle cose lì non ci pensavamo. Poi però lo hanno perso di vista. Lui si è chiuso e la sua manager ha allontanato tutti i suoi vecchi amici. Lo ha isolato, forse per proteggerlo, non lo so. Ma non capisco questa gente che è arrivata dopo da dove sia venuta fuori. Quelli non erano amici di Marco. Da loro non doveva essere protetto?».

Testo tratto da “Era mio figlio” – Tonina Pantani con Enzo Vicennati – Edizioni Mondadori

Giro d'Italia 1998

Ecco perché farebbe tremare anche la Ineos: parla Velo

13.01.2021
5 min
Salva

Velo non ha dubbi: «Anche oggi, con l’organizzazione di squadre come il Team Ineos, uno come Marco li farebbe morire. C’è riuscito Contador, figuratevi il Panta».

Il fruscio di fondo non lascia spazio a dubbi: Marco è in bici. Dice che ci sono due gradi, ma anche un timido sole. E in attesa di tempi migliori, quei due raggi tra le nuvole sono stati un invito irresistibile.«Ma ho gli auricolari – dice anticipando la domanda – parliamo pure».

Freccia Vallone 1998
Per Marco Velo nel 1998, le Ardenne e il Giro d’Italia
Freccia Vallone 1998
Per Marco Velo nel 1998, le Ardenne e il Giro d’Italia

Al Trentino del ’97

E allora partiamo in questo allenamento blando fra ricordi e pensieri con l’ex corridore che proprio Pantani andò a cercare, disegnando la Mercatone Uno per l’anno successivo, e che oggi fa parte dello staff di Rcs e corse e tappe nella memoria inizia ad averne tante.

«Eravamo al Giro del Trentino – racconta – e avevo appena vinto la tappa di Lienz, che era dura impestata, battendo Zaina, Piepoli, Belli e Faresin. Mi venne vicino durante la corsa e mi disse che stava pensando di rinforzare la squadra. Buttò lì due parole per capire se mi interessava venire via dalla Brescialat. Io non avevo tanto da pensarci perciò dissi di sì, anche se per sentire tutto parlai anche con Martinelli e Pezzi. Ai tempi funzionava così. Il capitano era libero di avvicinare i corridori che avrebbe voluto ingaggiare. Purtroppo adesso non va così. C’era un rapporto molto più umano e senza tanti filtri. Vuoi mettere come mi sentii gratificato a ricevere una proposta come quella? E questo fece sì che si creasse sin da subito un legame fortissimo».

Il treno del Panta

Ne abbiamo parlato nei giorni scorsi con Sabatini e Guarnieri prima, con Tiralongo poi. Il treno per il velocista e il treno per lo scalatore. La squadra di Marco a partire dal 1998 diventò una corazzata.

Tour de France 1998
Scherzi con Borgheresi nell’ultima tappa del Tour 1998
Tour de France 1998
Scherzi con Borgheresi nell’ultima tappa del Tour 1998

«Marco era ed è il ciclismo – prosegue Velo – essere il suo ultimo uomo ti metteva su un altro pianeta di responsabilità. Sono stato anche l’ultimo uomo di Petacchi, ma era diverso. Sapevi che a parte qualche imprevisto, dovevi fare solo il finale. Con Marco c’erano molte più variabili. E quando però arrivavi al dunque, eri quello che faceva l’ultimo passaggio, l’assist per Maradona o Messi nella finale di Champions League. Mi sentivo partecipe, era la causa comune. Anche se magari ti trovavi a gestire situazioni tattiche completamente diverse, rispetto a quelle che avevamo studiato e condiviso. Se l’istinto gli diceva di andare, raramente non lo assecondava. E di solito aveva ragione lui. Mai visto un attacco a vuoto del Panta».

Tutto sul gruppo

La Mercatone Uno raggiunse livelli di potenza e affiatamento che negli anni successivi, attorno a uno scalatore, avrebbero raggiunto la Saxo Bank di Contador e l’Astana di Nibali.

Davide Dall'Olio 1997
Dall’Olio in squadra dopo l’incidente del 1995: fu Marco a volere lui e Secchiari
Davide Dall'Olio 1997
Fu Marco a volere Dall’Olio (sopra) e Secchiari dopo l’incidente del 1995

«Per questo dico – prosegue – che ne avrebbe avuto per far saltare anche gli schemi Ineos. Perché non era un solista contro tutti, era la nostra corsa e gli altri a inseguire. Eravamo forti. Partivamo prima di Natale da Madonna di Campiglio, mentre gli altri erano alle Canarie. Non andavamo a perdere tempo, a casa ci eravamo allenati già tutti. Si andava su quei tre giorni a fare una cosa che ora va tanto di moda. Il team building, che in italiano si dice fare gruppo. Ed è vero che ai tempi si parlava tanto dei percorsi troppo facili a favore dei cronoman, ma quelli dopo Indurain iniziarono a sparire e tutto sommato a Marco per vincere bastavano le salite. Di tutti i tipi, quelle lunghe, ma anche quelle corte da fare a tutta con le mani sotto».

La tattica giusta

Velo ragiona ad alta voce e intanto pedala. «Avendo una squadra come la Mercatone Uno del 1999 e avendo ovviamente anche il Panta – dice – si potrebbe davvero far saltare la Ineos. Loro corrono a sfinimento, facendo un ritmo che impedisce gli scatti, ma si potrebbe sorprenderli tatticamente.

«Potresti fare il ritmo alto, rischiando di perdere i tuoi uomini. Loro hanno per gregari dei vincitori di Giro e di Tour, noi avevamo Garzelli, che aveva vinto il Giro ma singolarmente non eravamo così forti. Ma se c’è spirito di squadra, e noi ne avevamo da vendere, si può fare. Se tiri forte per fargli fuori sulla prima salita gli uomini delle pianure, quando Marco attacca e si porta dietro qualcun altro, nella valle successiva, loro devono far tirare gli scalatori. E allora magari sulla salita successiva il leader è un po’ più solo. Ma queste sono cose che potevi fare soltanto con un Marco in condizione, oppure il Contador degli ultimi anni».

Gli urli di Oropa

Secondo Velo, che intanto continua a pedalare accrescendo la voglia di farlo anche di qua dall’apparecchio, il capolavoro di squadra lo fecero a Oropa. Che sarebbe anche facile da dire, se non fosse che dopo l’arrivo Marco prese fiato e li mise tutti sugli attenti.

«Esatto – conferma – è facile dire Oropa, anche perché la fanno vedere spesso. In realtà prima di allora ci sono state tante situazioni, come tutto l’avvicinamento al Giro del 1999 dove Marco raggiunse un livello di condizione eccezionale. E comunque quel giorno avevamo fatto tanto lavoro per prendere la salita davanti e pensai che per uno stupido problema meccanico, rischiavamo di perdere tutto. Marco era dietro di me, ma io non avevo capito niente. Mi girai con la coda dell’occhio per controllare che fosse tutto a posto e non lo vidi. Fu uno della Saeco, mi pare Petito, a dirmi che si era fermato. Avrei voluto girare per tornare indietro, ma è vietato, così lo aspettammo. La rimonta l’avete vista, ma dopo l’arrivo si arrabbiò con me e con Zaina perché ci eravamo messi a tirare con troppa foga, volendo riportarlo sotto. Non c’erano le radioline. Lui urlava probabilmente per dire di andare regolari e io, in piena trance agonistica, continuavo ad aumentare. Ci disse che, ogni volta che uno di noi si spostava, lui doveva aumentare. E così avevamo rischiato di mandarlo fuori giri. A parte quella volta, che c’era una sola salita e anche durissima, Marco non ti metteva in difficoltà soltanto nei finali. Quando trovi uno così che ti va via a 30 chilometri dall’arrivo dopo averti tirato il collo, hai poco da controllare. Certo sarebbe difficile, ma sarebbe ancora uno spettacolo».

Marco Pantani, Piancavallo, Giro d'Italia 1998

Pantani, a Piancavallo quel giorno…

18.10.2020
4 min
Salva

Pantani ha Lago Laceno che brucia ancora nell’orgoglio. Zulle l’ha staccato e questo non gli è andato giù. Non vince al Giro d’Italia dal 1994, da quasi 1.500 giorni, perché dopo quel giorno ad Aprica la sfortuna ha infierito su di lui con una puntualità cinica e spietata. L’incidente del primo maggio nel 1995. Il Giro del 1996 saltato per la gamba spezzata l’anno prima. Il gatto nero del 1997. E siamo dunque al 1998, iniziato con una vittoria a Murcia davanti a Elli e Vinokurov. La Mercatone Uno è tutta per lui e poco importa che il giorno dopo ci sarà la cronometro di Trieste. Il Pirata vive un giorno per volta. E oggi il Giro affronta Piancavallo e c’è l’arrivo in salita. Noè l’ha anticipato nella sua San Marino, ma qui oggi c’è da mettere il punto.

Mercatone in testa

La tappa misura 165 chilometri, si parte da Schio. Noè ha la maglia rosa, il suo capitano Michele Bartoli ha vinto a Schio proprio alla vigilia. La Mercatone Uno si defila, ma quando serve prende la testa.

Marco Pantani, Piancavallo, Giro d'Italia 1998
Marco Pantani conquista Piancavallo: è il Giro d’Italia 1998
Marco Pantani, Piancavallo, Giro d'Italia 1998
Pantani conquista Piancavallo: è il Giro 1998

Pantani al Giro d’Italia è come Maradona nella finale dei mondiali. L’Italia si ferma e ne ha motivo. Quando in corsa c’è il Panta e la strada va in salita, è sicuro che lui farà il suo show. Che non è come le smorfie di Virenque o le fughe di Coppolillo. Quando Marco getta via la bandana e mette le mani sotto, significa che sta per attaccare i primi della classifica. Loro lo sanno e si attrezzano per capire come possono per rispondergli. L’anno prima sull’Alpe d’Huez ha spezzato la resistenza di Ullrich e Virenque, mentre Indurain ha smesso di correre da un paio di stagioni e anche lui quel giorno sul Mortirolo capì che sarebbe stato meglio girarsi dall’altra parte e lasciarlo passare.

Il solito Marco

Marco è sempre lo stesso che d’inverno si diverte con i rollerblade nelle strade coperte di foglie a Cesenatico. Che canta al karaoke con gli amici. Che si ferma ogni giorno a mangiare una piada al chiosco di Tonina. E che se glielo chiedi viene anche a provare le salite del prossimo Giro, solo perché glielo hai chiesto tu che gli fai simpatia. Dicono che sia magro per vincere un Giro, ma quando adesso la telecamera lo inquadra da dietro, i glutei e il quadricipiti dicono esattamente il contrario. Il ragazzino dei primi anni è cresciuto e quando a 12 chilometri dall’arrivo va all’attacco, si capisce che non ci sarà fumo ma soltanto arrosto.

Via il cappello

Il cappellino vola via. Garzelli ha quasi finito la sua spinta e Marco scatta. Zulle è orgoglioso. Lago Laceno per lui è stato la dimostrazione di una qualche forma di superiorità elvetica sul piccolo italiano. A ben vedere, l’errore dei passisti con Marco è sempre stato lo stesso. Nell’era in cui a supportare la fatica dei più pesanti intervengono altri fattori, la sensazione di onnipotenza dettata dai super watt ha indotto tanti nella tentazione di rispondere. E così succede anche questa volta.

Zulle risponde, ma poco dopo apre la bocca e le gambe. Tonkov invece no, perché il russo è a suo modo uno scalatore. Ha vinto il Giro del 1996, senza Pantani. E’ arrivato secondo l’anno dopo dietro Gotti, senza Pantani. E questa volta vuole battere il colpo contro quel rivale, evocato come un fantasma per ridimensionare ogni sua impresa.

Piancavallo, cartello Marco Pantani 1998
Piancavallo è da quest’anno una “Salita Pantani”
Piancavallo, cartello Marco Pantani 1998
Piancavallo è da quest’anno una “Salita Pantani”

Pantani da solo

Ma oggi Marco vuole arrivare da solo. Così scatta ancora. Scatta ancora. E scatta ancora. Tonkov più o meno resiste. Zulle soffre. Gotti si aggrappa al suo numero uno pregando di non cedere. I tifosi esplodono, il gruppo si è sbriciolato. L’arrivo sulla montagna friulana arriva rapido, perché alla fine la strada spiana e il vantaggio smette di crescere. Marco vince e cancella Lago Laceno. Tonkov arriva a 13 secondi, ripreso da Zulle proprio nel finale meno ripido. 

La classifica non si è smossa di molto. Zulle riprende la maglia rosa e guarda già alla cronometro del giorno dopo a Trieste. L’indomani il passivo di Marco sarà di 3’26”, ma poco importa. A Piancavallo il Panta ha capito che in montagna potrà affondare i denti. La Marmolada è in fondo alla strada. La storia della maglia rosa sta per essere riscritta. 

Sono passati più di vent’anni, ormai se ne può parlare. Chi scrive aveva perso il papà da cinque giorni, non aveva testa per il Giro. La sera di Piancavallo il telefono squillò inatteso. Era Marco. «Spero – disse – che questa vittoria ti sollevi un po’ il morale. Si vince il Giro, adesso ne sono sicuro».