Saronni e il primo Pogacar. La Vuelta della sua esplosione

03.10.2024
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Passano i giorni, ma l’eco della straordinaria impresa iridata di Tadej Pogacar non si spegne, soprattutto per come essa è arrivata. Per la dinamica che ha esaltato da una parte la sua follia, dall’altra la sua clamorosa superiorità sulla concorrenza. Sono ripartiti i confronti con i grandi del passato e c’è già chi afferma che siamo di fronte al più grande ciclista di sempre.

Andando più in là in questi discorsi di confronto che lasciano sempre il tempo che trovano, noi abbiamo voluto rispolverare il Pogacar dei primordi nel mondo dei professionisti, quel ventenne sloveno che si rivelò al mondo alla Vuelta 2019 con un terzo posto condito da tre vittorie di tappa. Giuseppe Saronni, che contribuì al suo arrivo alla Uae Emirates, ricorda bene chi era allora e le differenze con quello attuale.

Una delle tre vittorie di tappa alla Vuelta 2019, dove molti scoprirono il talento dello sloveno
Una delle tre vittorie di tappa alla Vuelta 2019, dove molti scoprirono il talento dello sloveno

Il ragazzino che sorprese tutti

«Io andrei ancora più in là nel tempo, all’anno prima e alla sua vittoria al Tour de l’Avenir che è sempre stata la corsa più importante della categoria inferiore. Già allora ci arrivavano testimonianze su questo sloveno bellissimo nell’andatura, nella posizione in bici, anche nella faccia limpida anche sotto sforzo. Si vedeva che aveva qualità non comuni, in salita staccava corridori che erano già nelle professional.

«Chi era presente alla corsa francese – prosegue – ci raccontò di imprese che fecero strabuzzare gli occhi a tanti e di Pogacar si cominciò a parlare con molta frequenza. Noi lo avevamo già contattato e dall’anno successivo era sotto contratto con noi. Appena passato di categoria ci mise poco ad ambientarsi, a vincere anche fra i grandi, soprattutto nelle piccole corse a tappe, conquistando quelle dell’Algarve, della California, ma soprattutto lo faceva con una facilità disarmante, che lasciava attoniti i diesse delle squadre avversarie. Procedeva passo dopo passo, ma si vedeva che stava bruciando le tappe e quindi decidemmo che fosse già maturo per farsi le ossa in un Grande Giro. Così lo portammo alla Vuelta e lì sbocciò il campione che conosciamo».

Pogacar vincitore dell’Avenir 2018: per Saronni è stato quello il momento della sua rivelazione al mondo
Pogacar vincitore dell’Avenir 2018: per Saronni è stato quello il momento della sua rivelazione al mondo

L’azzardo di cambiare le regole

A quel tempo però Pogacar era solito aspettare la fine delle tappe, piazzare la sua stoccata nei chilometri finali, ma già allora c’era l’impressione che quel modo di correre quasi lo annoiasse: «E’ un’ipotesi, solo lui potrebbe dare una risposta esauriente. Il principio è che quando stai bene e hai un potenziale come il suo, ti senti portato a fare cose anche illogiche come quella di domenica. Sei talmente superiore che sei in grado anche di cambiare le regole di corsa. Un’azione come quella era azzardata, non potevi sapere che cosa sarebbe successo dietro, se si sarebbero organizzati, inoltre se avevi forze sufficienti per portarla a compimento. Ora sappiamo tutti com’è andata…».

Saronni nei suoi primi anni di carriera ha convissuto con Eddy Merckx, al quale tutti avvicinano lo sloveno con il Cannibale che addirittura ha detto che gli è superiore. Fare confronti fra epoche diverse è difficile, ma Beppe li ha conosciuti bene tutti e due, in che cosa differiscono? «Non possiamo metterli di fronte, troppo diversi i periodi, la tecnica, la scienza del tempo. Ai nostri tempi non si parlava di preparazione, tabelle di allenamento, alimentazione, tutti temi che oggi sono all’ordine del giorno. Io ho un paio di foto con Eddy, fatte al mondiale del ’76 vinto da Moser che custodisco gelosamente: allora Merckx non faceva più paura, eppure aveva un carisma, meritava un rispetto enorme per quello che aveva fatto.

La voglia di vincere sempre

«Possiamo confrontarli dal punto di vista caratteriale, questo sì: Merckx sappiamo tutti che voleva vincere sempre. Per lui il mondiale e la gara di quartiere avevano lo stesso valore e le correva con lo stesso obiettivo. Tadej forse è da allora il corridore che più lo ricorda da questo punto di vista, non partecipa mai per il solo gusto di partecipare, ogni volta che inforca la bici vuole fare qualcosa, farsi vedere, provarci, a prescindere da quale sia il percorso».

Nelle dichiarazioni del dopo mondiale, Pogacar ha ammesso che teme di avere un tallone d’Achille nella Sanremo, che pure Merckx vinse ben 7 volte: «La Classicissima di allora era ben diversa proprio per le ragioni esternate prima: tecnica dei mezzi a disposizione, differenze dei corridori, preparazione… Il percorso della Sanremo permetteva anche di fare quelle differenze che oggi sono impossibili, sia perché è un tracciato molto semplice, sia perché a inizio stagione i corridori sono uniformati, vengono dalla preparazione invernale, sono tutti pronti e al massimo. Ma attenzione: proprio perché è semplice, la Sanremo è una corsa difficilissima da interpretare perché anche uno come Tadej non sa come esprimere la sua superiorità, non ci sono appigli per farlo, anche il Poggio è troppo poco. Non è un caso se coloro che l’hanno vinta con la maglia iridata addosso si contano sulle dita di una mano…».

Pogacar chiuse terzo a 2’55” da Roglic e alle spalle anche di Valverde. La maglia roja è un altro suo obiettivo
Pogacar chiuse terzo a 2’55” da Roglic e alle spalle anche di Valverde. La maglia roja è un altro suo obiettivo

Meglio la Roubaix della Sanremo…

E la Roubaix? Tadej farà come Hinault, che la corse e la vinse una volta sola e poi non ne volle più sapere? «Tadej l’ha già corsa da junior, sa che cos’è e sa anche che per certi versi è addirittura più facile rispetto alla Sanremo per lui. Io credo che quando vorrà e la preparerà a dovere potrà anche vincerla, a maggior ragione con condizioni climatiche estreme come c’erano quasi sempre quando correvo io mentre ora sono diventate piuttosto rare. Ripeto: la Roubaix ha quelle caratteristiche che possono esaltare la sua superiorità tecnica e tattica, la Sanremo resta un rebus, per questo è affascinante e lo sarà ancora di più».

Saronni, vuoi fare l’arbritro tra Alaphilippe e Lefevere?

01.03.2024
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E’ stato un continuo crescendo. Prima le provocazioni legate ai risultati. Poi al fatto che stesse invecchiando. A seguire sulla scarsa voglia di allenarsi. Ma nessuno avrebbe immaginato che l’ennesima bordata di Lefevere all’indirizzo di Alaphilippe avrebbe riguardato la sfera privata, l’uso di alcol e le troppe feste con la moglie.

Facciamo una premessa: un team manager conosce vita, morte e miracoli dei suoi corridori. Può capitare che qualcosa non vada come dovrebbe e che sia necessario richiamare un atleta all’ordine. E’ raro che si facciano simili sparate. Verrebbe da pensare che sia l’unico modo per dare un ultimatum al campione, ma in ogni caso è il modo giusto?

L’associazione dei corridori si è schierata contro Lefevere. La moglie di Alaphilippe ha trovato modo di rispondere al manager e anche alla moglie di Philippe Gilbert che per qualche motivo si è schierata con Lefevere. L’unico a non aver detto una parola è stato proprio Julian, impegnato domani alla Strade Bianche. Accanto a lui si è schierato anche Geraint Thomas, definendo le parole di Lefevere roba da matti.

Giuseppe Saronni ha oggi 66 anni, ha vinto due Giri d’Italia. Dal 1992 al 2017 è stato team manager
Giuseppe Saronni ha oggi 66 anni, ha vinto due Giri d’Italia. Dal 1992 al 2017 è stato team manager

Alla porta di Saronni

Dopo l’intervista, pubblicata sul settimanale Humo, il team manager della Soudal-Quick Step ha fatto di tutto per smorzare la polemica. Ma siccome ha fatto e detto così ogni volta, in attesa che lo faccia ancora, noi abbiamo bussato alla porta di Giuseppe Saronni.

Il piemontese è stato corridore e team manager, magari avrà capito che cosa abbia spinto un dirigente d’azienda a gettare un atleta in pasto al gossip. Saronni si è prestato allo scambio di vedute, dicendo però (giustamente) che per poter avere un’opinione davvero completa bisognerebbe conoscere tutta la storia, di cui sono al corrente soltanto i diretti interessati.

Il 2024 di Alaphilippe è iniziato in Australia. Alla Het Nieuwsblad si è fermato per una caduta
Il 2024 di Alaphilippe è iniziato in Australia. Alla Het Nieuwsblad si è fermato per una caduta
Beppe, tu che ne hai viste tante, perché di colpo un team manager attacca pubblicamente un campione della sua squadra?

Non saprei, è da un po’ che non seguo. Però questa cosa è abbastanza strana. Solitamente se devi dire qualcosa a un corridore, qualsiasi corridore ma soprattutto in questo caso con uno di una certa importanza, lo fai all’interno della squadra. E’ sempre stato così, bisognerebbe conoscere le loro dinamiche interne. Poi sai, quando vai a quelle latitudini, ci sono sempre delle cose strane…

A te è mai capitato di gestire un problema a porte chiuse e poi, vedendo che non passava, pensare di renderlo pubblico?

No, direi di no, tantomeno su cose private e riservate. Non è mai bello. Magari a volte posso aver fatto qualche critica a livello sportivo, sui risultati e il modo di correre (vengono in mente quelle ad Aru nel 2018, ndr). Ma normalmente si evita sempre di parlare della propria squadra e dei propri corridori. Alla fine cerchi sempre di difenderli, anche perché sono con te, li hai voluti tu, li hai scelti tu e alla fine un po’ di colpe ricadono anche su di te. Insomma, mi sembra che Alaphilippe corra da tanti anni in quella squadra, Lefevere dovrebbe già conoscerlo. E se gli ha fatto e rinnovato i contratti, probabilmente è perché ha ritenuto che fosse un corridore valido. Quindi, è difficile dire cosa sia successo, non capita spesso di sentire queste cose. Bisognerebbe capire e conoscere la realtà.

Ha iniziato piano e ha finito andando sul personale. Alaphilippe non ha risposto, ma domani sarà il loro leader alla Strade Bianche, chissà con quale serenità…

Questi contrasti creano situazioni che non portano bene. Non c’è la tranquillità, il rapporto resta conflittuale. A meno che Lefevere conosca talmente bene il corridore e magari sa quello che noi non sappiamo. Che magari tutto questo serve per stimolarlo, per tirargli fuori un po’ di orgoglio. Non lo so, magari è così. A me non è mai capitato, però non conoscendo bene come stanno le cose, possiamo solo ipotizzare. Ma sicuramente troppa serenità non potrà esserci. Non è bello sentirsi dire quelle parole.

Tour de Wallonie 2022, tutto sembra filare bene. Alaphilippe vince a Huy, Lefevere fa un selfie per Instagram
Tour de Wallonie 2022, tutto sembra filare bene. Alaphilippe vince a Huy, Lefevere fa un selfie per Instagram
Se il tuo manager ti avesse attaccato così, tu saresti rimasto zitto come il francese?

Ma no, aspetta. Bisogna capire il carattere e la professionalità delle nostre latitudini. Lì è diverso, hanno un altro modo di fare. Credo che un tecnico italiano, un manager italiano avrebbe cercato di parlare di più con il corridore, ma in privato. Anche perché esternare queste cose, alla fine a chi fa bene?

Forse serve per giustificare davanti agli sponsor i tanti soldi che gli dai?

Se l’hai preso, l’hai tenuto e l’hai rinnovato, hai fatto anche tu la scelta. Però, non conoscendo i dettagli, non me la sento di fare queste valutazioni. Poi c’è da dire anche che questa è un’esternazione arrivata fino a noi, magari se ne sono dette delle altre, che non sono arrivate fin qua. Insomma, bisognerebbe conoscere bene la storia, come la conoscono loro.

Ti farai vedere alla Sanremo?

Solitamente si va alla partenza, che però non è più a Milano. Per noi che abitiamo qua, la Sanremo è una corsa fastidiosa, nel senso che devi prendere, andare in Liguria e poi tornare indietro. E quindi, se devo dire la verità, per come si vedono oramai le corse in tivù, capisco anche la mancanza di tanti tifosi sulle strade. Una volta ce n’erano di più, ma una volta o andavi sul percorso, sulle salite o in qualche trasferta, sennò certe cose non le vedevi. Allora alla televisione davano 30-40 chilometri, oggi vedi tutta la corsa e capisco anche la pigrizia del tifoso che va molto meno alle corse e le guarda in televisione. Insomma, ogni tanto bisogna abbassare i commenti, però la Sanremo dal divano è davvero una bella corsa…

Van Aert è uomo da grandi Giri? Risponde Saronni

12.11.2023
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La prima bordata l’ha portata Adrie Van Der Poel, padre di Mathieu, parlando dell’intenzione di cambiare strategia da parte di Van Aert: «Penso che sia il più grosso errore che possa fare – ha dichiarato a Het Nieuwsblad – inizierebbe a gareggiare contro la sua stessa natura. Dovrebbe pensare agli errori commessi: la cessione della vittoria a Laporte alla Gand-Wevelgem o la tattica sbagliata che ha impedito a De Lie di vincere per distacco gli europei».

A metterci il carico da dodici è stato Johan Museeuw: «Forse gli manca lo spirito omicida per vincere una gara – ha sentenziato a GCN – una come la Gand-Wevelgem non si regala: alla fine della carriera la cosa più importante è quanto hai vinto e non ciò che hai dato via. Van der Poel a volte fa da apripista per Philipsen, ma questo è tutto, è più assassino. Van Aert è bravo nelle gare di un giorno: ecco dove dovrebbe essere la sua attenzione».

Van Aert agli europei al fianco di Stuyven. La condotta in gara di Wout ha dato adito a polemiche
Van Aert agli europei al fianco di Stuyven. La condotta in gara di Wout ha dato adito a polemiche

Gli esempi di Maertens e Saronni

E’ chiaro che fa molto discutere la stagione vissuta dal belga, intrisa di secondi posti (ma potremmo dire l’intera carriera), unita alle voci di mettersi alla prova come leader della squadra in un grande Giro, certamente non il Tour, magari la corsa rosa. Non sarebbe la prima volta che un grande specialista delle classiche, che fa della velocità allo sprint la sua forza, prova il grande colpo: uno sprinter puro come Maertens vinse una Vuelta e tutti ricordano Saronni capace di elevarsi fino al doppio trionfo al Giro d’Italia.

Proprio il grande Beppe è l’uomo adatto per provare a entrare nei meandri di Van Aert, alle prese con un bivio fondamentale per la sua carriera: «Wout è uno di quei 5-6 corridori che ti fanno appassionare al ciclismo. Io da spettatore lo adoro, ma se poi mi metto a ragionare da ex corridore e da manager quale sono stato allora le cose cambiano. Se Van Aert corresse meglio, vincerebbe molto di più: è evidente».

Giuseppe Saronni, 66 anni, ha vinto il Giro d’Italia nel 1979 e 1983
Giuseppe Saronni, 66 anni, ha vinto il Giro d’Italia nel 1979 e 1983
L’idea di fare il capitano in un grande Giro ti trova d’accordo?

Forse andrò controcorrente, ma io dico di sì. Non dico che vincerà, anzi è molto probabile che ciò non avvenga, ma deve farlo ora perché il tempo passa. Deve però mettere prima di tutto ordine in se stesso, nelle sue ambizioni perché non puoi fare tutto, devi saper rinunciare. E’ un po’ il discorso di Pogacar, che può vincere davvero dappertutto come nessun altro, ma non ci riesce e col livello generale che c’è deve per forza fare delle scelte.

Ha ragione allora Museeuw nella distinzione che fa tra l’olandese e il belga…

Sicuramente. Fino allo scorso anno VDP correva in maniera sin troppo generosa, faceva spettacolo ma perdeva troppe occasioni. Poi ha fatto delle scelte, ha orientato la programmazione in funzione degli obiettivi mirati e i risultati si sono visti. Che sia chiaro un punto: a me Van Aert piace da morire, lo ricordo giovanissimo che correva con le bici Colnago, solo che deve disciplinarsi e sacrificare qualcosa.

L’ultima delle 6 vittorie del belga nel 2023, alla Coppa Bernocchi. Un bilancio insoddisfacente
L’ultima delle 6 vittorie del belga nel 2023, alla Coppa Bernocchi. Un bilancio insoddisfacente
Un Van Aert capitano in un grande Giro significa dover anche gestire la squadra nei tapponi di montagna. Per uno che è abituato a farlo nelle classiche d’un giorno è la stessa cosa?

No, cambia molto. Devi saper gestire la situazione, la classifica, saper valutare quali sono le tappe più dure per te e sfruttare la squadra in modo da perdere il meno possibile. Il vero e proprio “correre in difesa”, sapendo che le crono possono essere invece un dato a favore come anche gli abbuoni in tante tappe. Evenepoel è la stessa cosa, si sa ormai che nei tapponi ha dei limiti, sulle salite lunghe e ripetute alla fine paga dazio. Bisogna saper gestire proprio quelle situazioni per poter emergere.

Tu per impostazione tecnica ti sei trovato a gestire la stessa situazione e hai portato a casa la maglia rosa…

E’ improponibile fare paragoni fra epoche così diverse, il ciclismo è cambiato enormemente da allora. Io ero veloce perché da dilettante avevo svolto un’attività prevalentemente da pistard, anzi la strada non l’avevo mai preparata realmente. Quando sono passato e ho iniziato a fare la vita da professionista è cambiato tutto, ma proprio a livello esistenziale. Ho iniziato a preparare l’attività su strada in maniera metodica, vedevo che in salita e a cronometro mi difendevo, mi sono evoluto tecnicamente e alla fine ho capito che potevo essere competitivo anche in un grande Giro. Ma rispetto a oggi c’è una differenza fondamentale…

Nel gravel, Van Aert ha conquistato uno dei 6 successi 2023, ma l’impegno in più specialità rischia di costargli caro
Nel gravel, Van Aert ha conquistato uno dei 6 successi 2023, ma l’impegno in più specialità rischia di costargli caro
Quale?

Io arrivai a essere pro’ che dovevo imparare tutto, dovevo anche evolvermi muscolarmente. Oggi invece i ragazzi fanno attività metodica sin da giovanissimi, arrivano alla massima categoria che sono già svezzati da quel punto di vista, devono solo adeguarsi alle esigenze dell’attività. Sono già formati, preparati. Quel salto non c’è.

Tornando a Van Aert, non pensi che i tanti secondi posti alla fine pesino psicologicamente?

Questo può essere. Alcune vicende, come quella della Gand-Wevelgem, dicono che Wout è uno buono per carattere e questo pregio può anche diventare un difetto. C’è il rischio che alla fine ti abitui a finire secondo, che perdi quella grinta necessaria per dare la zampata finale. Vincere è qualcosa di particolare, può anche farti scattare qualcosa nella testa. Meglio non abituarsi ai secondi posti, lo dico per lui…

Sulla Vuelta Saronni ne ha per tutti, da Vingegaard in poi

24.09.2023
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E’ passata una settimana dalla conclusione della Vuelta, da quel podio tutto targato Jumbo-Visma con Vingegaard e Roglic, ossia il re del Tour e del Giro a fare da valletti a Sepp Kuss, loro gregario nelle due prime avventure della stagione e questa volta proiettato sul gradino più alto. Un dominio incontrastato, ma con qualche perplessità destata dalla gestione del team olandese.

Le ultime tappe dure avevano dimostrato in maniera evidente come Jonas Vingegaard fosse il più forte della compagnia, ma hanno anche evidenziato come il danese abbia corso quasi con il bilancino, attento a non superare l’americano. Scelta dettata dal team? Volontà di non penalizzare Kuss che aveva capitalizzato al meglio la fuga bidone della prima settimana? Tante le ipotesi possibili, abbiamo allora provato a fare chiarezza parlandone con chi il mondo dei pro’ lo conosce in ogni sua sfumatura, Giuseppe Saronni.

Saronni, qui con Argentin, esprime le sue idee su vantaggi e svantaggi per la Jumbo-Visma
Saronni, qui con Argentin, esprime le sue idee su vantaggi e svantaggi per la Jumbo-Visma
Che idea ti sei fatto dell’epilogo della corsa iberica?

Io credo che la Jumbo-Visma abbia iniziato la corsa con qualche dubbio, legato al futuro di Roglic. Si parlava molto della possibilità che lo sloveno cambiasse squadra, invece pare rimanga perché il team olandese gli ha garantito il giusto spazio. Questo ha influito sull’evoluzione della corsa, che poi ha preso una piega probabilmente inattesa.

La vittoria di Kuss è stata decisa a tavolino dal team?

Penso di no, è certo però che la squadra aveva per certi versi interesse che Kuss vincesse, per molte ragioni: gratificare il corridore dopo quanto fatto a Giro e Tour, ma anche capire quali sono i suoi limiti e come può gestire la pressione di un grande giro. Attenzione però: la Vuelta non è al pari di Giro e Tour, che scatenano un’attenzione decisamente maggiore.

Anche alla Vuelta Vingegaard si è dimostrato il più forte, ma senza conquistare il trofeo
Anche alla Vuelta Vingegaard si è dimostrato il più forte, ma senza conquistare il trofeo
Vingegaard come l’hai visto?

Non era quello del Tour, è evidente, eppure in un buon campo partenti – e sottolineo buono, non oltre – aveva fatto la differenza. Poteva superare l’americano, è molto probabile, ma è stato bravo anche Kuss a tenere botta, restare lì davanti, meritandosi la maglia roja.

Resta però la sensazione di una classifica che non rispecchia la vera gerarchia dei valori…

Io credo che la Jumbo-Visma abbia lasciato mano libera ai suoi corridori. L’interesse del team era quello di vincere, a un certo punto quello di fare man bassa sul podio e scrivere una pagina storica, ma chi fosse, primo, secondo e terzo era delegato direttamente ai corridori, senza combinare disastri… Poi è chiaro che per i diesse una soluzione del genere, voluta dagli stessi atleti evita ogni malumore e questo nel prosieguo dell’attività è molto importante.

Da che cosa deduci la scelta di lasciare libertà ai propri atleti?

Se si guarda l’evoluzione delle tappe, si vedeva che quando partiva uno di loro gli altri stavano lì, aspettavano, poi appena conclusa l’azione partiva un altro e così via. Quelle sono azioni frutto di accordi in corsa, fatte per non pestarsi i piedi nella consapevolezza della propria superiorità. Anch’io l’ho fatto tante volte, poi è difficile che il progetto vada in porto in maniera così schiacciante come avvenuto alla Vuelta, ma i Jumbo non hanno davvero sbagliato nulla.

C’erano dubbi sulla permanenza di Roglic nel team, dissipati durante la corsa
C’erano dubbi sulla permanenza di Roglic nel team, dissipati durante la corsa
Pensi sia stata anche una scelta di Vingegaard evitare il sorpasso per non trovarsi un nemico in casa?

Sicuramente per Jonas questo è stato un investimento a lungo termine. Lui sa e Kuss sa altrettanto bene che il danese era il più forte e gli ha fatto un favore, verrà il momento che riscuoterà. Per l’americano, e ancor più per il team, la situazione era ideale perché anche avesse avuto un cedimento, c’erano gli altri due pronti a prendere il suo posto.

Domanda al Saronni campione: in questo modo però Vingegaard si trova con una Vuelta in meno…

Verissimo e nello sport non si può mai ipotecare il futuro. Fare due grandi giri in una stagione è sempre un rischio, non puoi sapere se l’anno prossimo sarai nella stessa situazione, nella stessa forma. L’incognita la devi mettere in conto, quindi è vero che il danese ha pagato un prezzo salato, per sua scelta. Solo in futuro sapremo se ha fatto bene e ha perso poco.

Kuss e Vingegaard. Ora l’americano ha un debito da saldare verso il danese…
Kuss e Vingegaard. Ora l’americano ha un debito da saldare verso il danese…
La Jumbo-Visma diventa così sempre più una squadra di leader che fanno anche da gregari, quasi cancellando questo ruolo…

E’ il ciclismo del futuro e io a tal proposito ricordo quand’ero alla Mapei, dicevo sempre che avrei sempre voluto tanti campioni da mettere d’accordo. Sarà anche difficile, ma lo è ancor di più cercare il risultato quando non hai qualità in mano. Oggi è un ciclismo fatto di punteggi, di calcoli, un ciclismo fatto col bilancino. Alla fine i fuoriclasse veri si contano sulle dita di una mano. Molto influisce anche il calendario, così ricco che dà spazio a tutti, ma le gare che contano sono sempre quelle poche e io preferirei un calendario più asciutto dove i campioni si scontrino in quegli stessi appuntamenti, tutti insieme. Invece ti trovi giornate anche con 6 gare in contemporanea, questo non è un bene.

Un dominio come quello del team olandese non rischia di creare inimicizie all’interno del gruppo?

Questo penso che lo abbiano messo in preventivo. Così aiuti nel gruppo non ne trovi. Hai fatto una cosa fantastica e difficilmente ripetibile, ora però andando avanti raramente troveranno qualcuno che gli darà una mano nel togliere le castagne dal fuoco…

Saronni, com’erano le kermesse di una volta?

13.12.2022
4 min
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Dopo i criterium nell’Estremo Oriente organizzati dalla società che allestisce il Tour de France, la serie di circuiti con i campioni è proseguita anche in Europa, con la prova di Montecarlo vinta da Gilbert (ultima uscita di Rebellin prima della sua tragica scomparsa) e la sfida di Madrid andata a Pogacar (nella foto di apertura). Dei circuiti extracalendario si erano un po’ perse le tracce e non solo per colpa del Covid. La stagione è talmente ricca che non ci sarebbe materialmente la possibilità di organizzare e avere al via professionisti in gare al di fuori dei programmi istituzionali. Una volta non era così, anzi…

A Madrid il circuito nel centro città ha premiato Pogacar, ma è stato un caso unico
A Madrid il circuito nel centro città ha premiato Pogacar, ma è stato un caso unico

L’occasione di questa inattesa ripresa di una moda antica è utile anche per fare un salto indietro nella memoria, quando i circuiti, criterium, kermesse o come si voglia chiamarli erano una pietra miliare nel panorama ciclistico. Giuseppe Saronni li ha vissuti dal di dentro e guarda alla loro ripresa con un po’ di scetticismo: «Non c’è paragone perché i tempi sono completamente cambiati. Una volta i circuiti erano molto più semplici da allestire perché c’erano molti più spazi nel calendario e trovare date e disponibilità era possibile, oggi neanche a pensarlo, salvo appunto qualche occasione quando la stagione è finita».

Perché una volta se ne allestivano così tanti?

Erano una voce fondamentale nelle entrate dei ciclisti, non c’erano i contratti principeschi di oggi. Noi raccoglievamo soprattutto nelle 6 Giorni e in queste kermesse: chi era capitano, chi vinceva grandi prove aveva ingaggi più alti e sicuramente contratti un po’ più importanti, chi viveva il ciclismo da gregario portava a casa soprattutto con i premi e con queste partecipazioni.

Il Cycling Stars di Valdobbiadene, kermesse post Giro d’Italia ha raccolto tanto pubblico
Il Cycling Stars di Valdobbiadene, kermesse post Giro d’Italia ha raccolto tanto pubblico
Gli organizzatori contattavano direttamente i corridori?

Sì, ma non solo. Una volta i direttori sportivi facevano anche un po’ da manager, soprattutto per tutti quei circuiti – ed erano davvero tanti – che si svolgevano dopo i grandi giri. Erano loro a fare un po’ le convocazioni per le varie prove. Poi anche noi campioni dell’epoca venivamo contattai direttamente e ci mettevamo d’accordo pensando anche a chi portare con noi. Per i compagni di squadra quelle presenze erano qualcosa di importantissimo alla fine dell’anno, quando si andava a fare il rendiconto delle entrate familiari…

Saronni e Moser hanno sempre corso numerosi criterium, favorendo anche l’ingaggio dei propri compagni
Saronni e Moser hanno sempre corso numerosi criterium, favorendo anche l’ingaggio dei propri compagni
Un sistema del genere vigeva nelle gare di atletica su strada e molti organizzatori, nell’atto di ingaggiare i corridori, stabilivano anche una sorta di “svolgimento” della corsa, decidendo di fatto in anticipo il suo epilogo per accontentare autorità e sponsor che mettevano i soldi e avere più spazio sui media. Avveniva la stessa cosa nel ciclismo?

Sì e no. Molto spesso questi circuiti erano corse vere e proprie, con la sola differenza rispetto alle gare normali che si svolgevano, come dice il nome, sulle stesse strade con il pubblico che li vedeva passare quindici-venti volte, tanto è vero che alcuni organizzatori facevano anche pagare un minimo biglietto d’ingresso al pubblico nei circuiti. Gareggiavano mai oltre la cinquantina di ciclisti e si trattava anche di gare di 100-140 km. Se il più delle volte vincevano i campioni erano perché erano al momento i più forti, ma poteva capitare anche che, soprattutto dopo il Giro d’Italia, gli organizzatori chiedessero un occhio di riguardo verso chi indossava la maglia rosa. Ma non avveniva spesso…

Voi come interpretavate queste gare?

Ripeto, erano corse vere dove anzi si correva davvero alla garibaldina perché non c’erano giochi di squadra. C’era chi cercava la rivincita, chi voleva confermarsi dopo le prove nelle grandi corse, insomma quando salivamo in sella per noi era gara a tutti gli effetti. Si badava solo a non farsi male. Spesso però non guardavamo tanto a noi, quanto ai nostri compagni: per noi era importante che loro partecipassero perché portavano a casa cifre per loro importanti. Bisogna tenere presente che a fine stagione avevamo partecipato a 30-50 circuiti nel complesso e i conti sono presto fatti…

Al Criterium di Saitama (JPN) Vingegaard ha corso in maglia gialla, come avveniva nei circuiti post Tour
Al Criterium di Saitama (JPN) Vingegaard ha corso in maglia gialla, come avveniva nei circuiti post Tour
Le prospettive oggi sono diverse: secondo te i criterium andrebbero ripensati?

Premesso che come si vede, trovare spazio non è semplice, quale interesse possono avere i campioni di oggi a gareggiare in quelle prove? Certamente gli ingaggi non influiscono sui loro conti correnti… Io penso che effettivamente andrebbero cercate finalità diverse: ad esempio quelli con funzioni di beneficenza si è visto che possono avere un loro spazio, i campioni partecipano più volentieri. Ma certamente quei tempi, con così tante gare non torneranno più.

Tour of the Alps, qualità e sicurezza: scelte azzeccate

05.11.2022
7 min
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Quello che è andato in scena ieri a Milano, durante la presentazione del Tour of the Alps 2023, è stato il confronto fra due modi di intendere il ciclismo. Alla presenza di Mauro Vegni, organizzatore del Giro d’Italia, il tema è venuto fuori da sé. Poi è rimasto sotto traccia, forse perché non era quella la sede idonea per un approfondimento.

Il Tour of the Alps – si legge nel comunicato ufficiale – ha infatti affermato un proprio modo di interpretare il ciclismo. Salite, dislivelli importanti ma senza altitudini estreme, brevi chilometraggi e trasferimenti ridotti al minimo. Così si può sintetizzare la “Formula TotA”, premiata dall’apprezzamento di campioni e squadre – prova ne sia il nutrito contingente World Tour schierato al via anno dopo anno – oltre che dall’entusiasmo di un pubblico sempre più vasto e internazionale.

Rohregger, Evangelista, Rossini, Giacomo Santini, Pichler: il motore operativo del Tour of the Alps
Rohregger, Evangelista, Rossini, Giacomo Santini, Pichler: il motore operativo del Tour of the Alps

La formula ToTa

Il Tour of the Alps partirà il 17 aprile 2023 dall’Austria e si concluderà il 21 in Alto Adige. Le cinque tappe propongono un modello moderno e avvincente, in cui lo spettacolo e i corridori sono prepotentemente al centro della scena. Lunghezza media delle tappe di 150,52 chilometri: la più breve di 127,5 mentre la più lunga ne misura 165,2. Ciascuna tappa del Tour of the Alps parte a metà mattinata, per concludersi nel primo pomeriggio. Una volta anche il Giro faceva così. Poi le esigenze televisive hanno fatto passare in secondo piano le esigenze degli atleti. Per cui le tappe partono all’ora di pranzo e si concludono sul far della sera, con tutte le problematiche connesse.

«Credo che per una corsa di una settimana – ha spiegato Giuseppe Saronni – la formula tecnica del Tour of the Alps rappresenti la soluzione ideale. C’è brillantezza, c’è spettacolo tutti i giorni. Il Tour of the Alps propone percorsi da ciclismo moderno. E’ corsa per scalatori, non c’è dubbio, e gli atleti la affronteranno con intensità dall’inizio alla fine».

Qualità e quantità

Probabilmente la modernità non c’entra affatto: il ciclismo è ciclismo e basta. Tuttavia è un dato di fatto che la progressiva riduzione delle distanze di gara negli ultimi tempi abbia prodotto lo spettacolo maggiore. Un orientamento nato dalla Vuelta, che non ha però rinunciato ai suoi tanti arrivi in salita, poi ripreso dal Tour. La tappa più spettacolare dell’ultima edizione, quella del Granon e del crollo di Pogacar, misurava appena 151,7 chilometri. Anche nella prossima edizione le tappe più brevi saranno quelle con l’arrivo in salita.

«Il Tour of the Alps – ha detto Davide Cassani, presente in sala – ha trovato una forte identità, grazie ai percorsi impegnativi che contraddistinguono i territori. A questa gara non si arriva per prepararsi, ma per vincere. L’inizio della prima tappa non sarà morbido e già da qui si potrà capire chi potrebbe essere il favorito della gara. In generale le corse rispetto a un tempo sono molto più spettacolari e questo perché si punta maggiormente alla qualità, rispetto alla quantità. Bisogna puntare a offrire corse che siano belle da vedere, proprio come il Tour of the Alps».

Tivù, croce e delizia

Le tre settimane dei grandi Giri non si toccano e così pure i tapponi, su questo siamo d’accordo. Eppure le tappe troppo lunghe sembrano noiose, al punto di chiedersi se i corridori di una volta fossero davvero più battaglieri. La risposta probabilmente è no, tanto che le tappe leggendarie ricorrono in un numero limitato di racconti e il resto rimane nelle statistiche.

Quel che fa la differenza è la copertura televisiva. La diretta integrale mostra anche i momenti di presunta… fiacca, risulta soporifera e costringe i cronisti spesso a vere maratone. Ne abbiamo davvero bisogno? Quei chilometri sono alla base del cumulo di fatica che nei finali avvantaggia i corridori più solidi, ma non sono spettacolari. Si ha modo finalmente di apprezzare il lavoro dei gregari, ma lo spettacolo della corsa è quello dei finali. Né si può pretendere che si vada a tutta dalla partenza all’arrivo nel nome dello spettacolo.

E’ corretto che la televisione diventi la discriminante per la modifica dei percorsi e della loro lunghezza? E’ corretto che costringa gli atleti a barbari orari di corsa? Si comprende il costo dei diritti, ma la risposta è no.

Secondo Vegni sono le grandi distanze fra Nord e Sud a costringere il Giro a tappe molto lunghe
Secondo Vegni sono le grandi distanze fra Nord e Sud a costringere il Giro a tappe molto lunghe

«Per quello che propone dal punto di vista tecnico – ha commentato Mauro Vegni – il Tour of the Alps mette in luce i corridori veri e anche coloro che potranno pensare di presentarsi con ambizioni al Giro d’Italia qualche settimana dopo. Un identikit del prossimo vincitore? Sarà un campione assoluto, un grande scalatore. Quanto al Giro, l’esigenza di tappe più lunghe deriva dal fatto che l’Italia è allungata al centro del Mediterraneo. Per coprire il più elevato numero di regioni, non si possono fare tappe troppo brevi».

Le tappe di montagna del prossimo Giro sono tutte intorno ai 200 chilometri. Non sarà questo spauracchio a indurre i corridori a condotte meno garibaldine, in attesa dell’ultima salita?

Obiettivo sicurezza

E così il Tour of the Alps si gode il momento e va avanti nel segno della sua filosofia. Al suo fianco, Trentino Marketing e la partnership entusiasta con gli omologhi del Sud Tirolo e del Tirolo Austriaco, orgogliosi di dare la partenza alla corsa.

«Intendiamo proseguire – ha detto Maurizio Evangelista, General Manager (foto di apertura) – su una direzione tecnica che incarna la modernità del ciclismo. Il ciclismo di oggi è decisamente più spettacolare rispetto a quello del passato e si è spostata anche l’asse della carriera di un corridore. Ci saranno sempre più atleti precoci ed è giusto dar loro grandi sfide con le quali confrontarsi».

«Fra i capisaldi per noi – ha proseguito – c’è il tema della sicurezza. All’interno del nostro team organizzativo, è presente un nucleo tecnico che lavora tutto l’anno su questa tematica».

Fra le note più toccanti della presentazione, c’è stato l’intervento di Sonny Colbrelli. Il video ha mostrato un uomo ancora alle prese con una scelta di vita importante e dolorosa, ma sempre innamorato pazzo della bici e del ciclismo. Sonny in Trentino ha vinto il suo titolo europeo e nel raccontarlo aveva gli occhi lucidi. Probabilmente, neanche noi siamo pronti a restare senza di lui.

Stanga

Stanga, smettere presto è sempre colpa dei corridori?

18.01.2022
4 min
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Quella frase di Alex Carera continua a risuonare nella mente: «Coloro che smettono non sarebbero nemmeno dovuti passare». Ne avevamo parlato anche nell’editoriale della settimana scorsa, perché in essa è contenuto molto del malessere che vive attualmente il ciclismo italiano. Si parla tanto di passaggi precoci al professionismo, ma nella storia italiana periodi simili non sono una novità, lo ha raccontato anche un campione del secolo scorso come Silvano Contini. Allora dov’è la verità?

Per approfondire il discorso abbiamo voluto confrontarci con Gianluigi Stanga, marinaio di lungo corso che ha vissuto molteplici ruoli nel ciclismo professionistico (ha anche il patentino Uci come procuratore), per verificare innanzitutto se è davvero un problema nuovo con cui dobbiamo aver a che fare.

«Ci sono stati più periodi – dice – nei quali si passava pro’ appena scavallata la maggiore età. Non solo ai tempi di Saronni e Contini, non dimentichiamo ad esempio Pozzato, anche lui passò professionista sulla base dei risultati nelle categorie giovanili. Quando il talento emerge in maniera prepotente, è chiaro che si tende a massimizzare e a iniziare la carriera che conta quanto prima. Allora però le squadre erano composte al massimo da 14-15 corridori, oggi ne hanno il doppio e quindi si pesca con maggiore frequenza».

Carera 2021
Alex Carera, procuratore, ha messo sul piatto una prospettiva diversa sui passaggi precoci
Carera 2021
Alex Carera, procuratore, ha messo sul piatto una prospettiva diversa sui passaggi precoci
Venendo nello specifico, Carera ha ragione?

Per alcuni versi sì, ma è chiaro che i procuratori fanno di tutto per accelerare i tempi. Guardiamo il caso di Ayuso, appena ha iniziato a ottenere risultati è subito passato, io credo che rimanere ancora fra gli under 23 gli avrebbe fatto bene, anche per incassare meglio le giornate storte che ci sono state e ci saranno, come per ogni corridore. Poteva bastare anche terminare la stagione, poi affrontare il nuovo anno nella categoria maggiore con meno pressioni.

Perché il passaggio di categoria è così traumatico?

E’ un ciclismo diverso, con molta più pressione e pochi si adattano subito. Nelle categorie precedenti si è tutti coccolati, quando passi sei uno dei tanti e molti si sentono abbandonati. Alla fine emergono quelli che hanno più carattere, quindi è parzialmente vero che i corridori prima di passare dovrebbero pensarci bene, è pur vero però che poi hai il terrore che il treno non passi più e i procuratori, che nel tempo si sono moltiplicati, spingono per farli passare.

Saronni Moser 1980
Un giovanissimo Saronni in maglia tricolore, insieme al “nemico” Moser. Beppe passò a 19 anni, nel ’77
Saronni Moser 1980
Un giovanissimo Saronni in maglia tricolore, insieme al “nemico” Moser. Beppe passò a 19 anni, nel ’77
E’ giusto dire che vendono il loro prodotto?

Solo in parte. Un procuratore non finisce il suo lavoro quando il corridore ha firmato il contratto, ma deve continuare a seguirlo, deve aiutarlo a emergere perché solo così anche lui potrà guadagnare. Nel calcio è più semplice, i giocatori hanno tempo per emergere, ci sono le squadre Primavera, qui invece si consuma tutto più in fretta, da junior puoi essere un vincente, ma da pro’ non è detto che sia la stessa cosa.

Non sarebbe il caso di porre un freno, imporre una militanza nella categoria, se non per tutta la sua durata almeno per parte?

Le regole ci sono in Italia, ma si aggirano facilmente con la residenza estera, perché il problema è a monte, nel regolamento internazionale che è cambiato con le Olimpiadi. Mi spiego meglio: prima del 1992 c’erano due federazioni distinte, quella per professionisti e per dilettanti, che comunicavano ma gestivano autonomamente l’attività. Poi con l’avvento dei professionisti alle Olimpiadi in ogni sport, si è proceduto all’unificazione e venendo ai giorni nostri, all’estero il problema non è così sentito come da noi e nessuno ha interesse a rimettere mano al regolamento. Quel che dovrebbe vigere è il buon senso: d’altronde come fai a impedire a un maggiorenne di firmare un contratto proposto? Si rivolgerebbe subito a un tribunale del lavoro vincendo la causa…

Pozzato 2013
Anche Filippo Pozzato passò professionista a 19 anni saltando di categoria
Pozzato 2013
Anche Filippo Pozzato passò professionista a 19 anni saltando di categoria
Sei d’accordo sul fatto che il precoce passaggio di Evenepoel ha provocato danni nell’ambiente?

Tutte le squadre cercano il Remco o il Pogacar della situazione e quindi appena uno vince, anche da allievo, subito si grida al campione. Se hai una squadra di 30 corridori, 10 saranno per le vittorie, 10 per lavorare, fra gli altri puoi anche permetterti di scommettere…

Quale potrebbe essere allora la soluzione?

L’ho detto, il buon senso. Ricollegandosi al ciclismo di una volta, mettendo un limite al numero di ciclisti tesserabili nelle varie squadre, limitando l’attività come giorni di gara, tanto le prove che contano veramente, che cambiano la vita di un corridore e fanno la fortuna di un team sono sempre quelle: una Liegi non potrà mai essere paragonata a un Uae Tour… Manager e diesse, procuratori e corridori, io dico che bisogna lavorare tutti di comune accordo avendo a mente il bene generale e non del singolo, se serve tenere i giovani un po’ di più a bagnomaria, facciamolo, se ne gioveranno più avanti. Ma mi rendo conto che sto parlando di un’utopia, vista la società nella quale viviamo…

Contini 1982

Contini, quel giorno a Liegi e le uscite con Saronni

13.01.2022
5 min
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Nell’era del ciclismo specialistico ci è tornato alla mente un personaggio degli anni Ottanta, un corridore che sapeva emergere ovunque, nelle classiche come nei grandi Giri, pur non essendo (e lui stesso non perde occasione per ripeterlo) un campione. I più anziani ricorderanno la figura di Silvano Contini (nella foto d’apertura ai mondiali 1982, il suo anno d’oro), colui che riaprì la storia della Liegi-Bastogne-Liegi come la “course des italiens”, prima dei successi a ripetizione di Argentin, Bartoli e Bettini con condimento di altre vittorie tricolori.

Contini chiuse la sua carriera del 1990, poi non se ne è saputo più nulla, nel senso che è uscito dal mondo delle due ruote. Nessun incarico neanche a livello locale, nessuna ospitata televisiva. E’ rientrato nei ranghi, ma la curiosità di sapere che fine ha fatto ci è rimasta.

Contini famiglia 2021
Contini con la famiglia: alla sua destra il figlio Moreno, al centro la figlia Romina e sua moglie Bibiana
Contini famiglia 2021
Silvano Contini con parte della famiglia: suo genero Marco, sua figlia Romina e la moglie Bibiana

Da allora Contini, oggi 63 enne, si è sempre dedicato alla falegnameria di famiglia: «Ero stanco di girare il mondo – racconta – il ciclismo si era allontanato dal mio modo di essere. Misi la bici in soffitta e ce l’ho tenuta per 25 anni, ogni tanto sentivo qualche collega dei tempi, guardavo le gare in Tv ma nient’altro. Poi pian piano è tornata la nostalgia e ho ripreso in mano la bici: nei fine settimana mi vedo con Saronni al negozio di Luigi Botteon (ex pro’ dal 1987 al 1991) e ci facciamo una pedalata tranquilla, chiacchierando sul passato e il presente».

Con Saronni è rimasta quest’amicizia salda e duratura, mentre in gara ve le davate di santa ragione…

Eravamo amici già allora, avevamo praticamente iniziato insieme, ci affrontavamo già da junior. Ma non eravamo la stessa cosa: lui era un fuoriclasse, che ha vinto dappertutto e trionfato in corse importantissime, io ero un buon corridore che si difendeva un po’ su ogni terreno e che alla fine ha portato a casa un buon numero di vittorie. Oltretutto con Beppe abbiamo condiviso un anno alla Del Tongo e due alla Malvor (dal 1987 al 1989, ndr) dove trovammo anche Giovanni Visentini.

Contini gara
Contini è nato nel 1958 a Leggiuno (VA). Pro’ dal 1978 al 1990, ha conquistato 48 vittorie in carriera
Contini gara
Contini è nato nel 1958 a Leggiuno (VA). Pro’ dal 1978 al 1090, ha conquistato 48 vittorie
Dicevi di aver ottenuto un buon numero di vittorie: 48 per la precisione, con la Liegi come perla ma anche altri importanti traguardi come Giro di Germania, Giro dei Paesi Baschi… Qual era la tua forza?

Mi sono sempre applicato con forza e dedizione, ero molto serio nella mia vita d’atleta, anche se negli ultimi anni uscirono fuori tante storielle sulla mia vita privata. Negli ultimi due anni ero meno concentrato, sentivo che quello non era più il mio ambiente e decisi di chiudere. Tecnicamente me la cavavo dappertutto, ma credo che sia stata la testa la mia arma in più.

Tu passasti professionista molto presto, a 19 anni.

In quel periodo accadde lo stesso proprio con Saronni e Visentini, ma rispetto a oggi c’è una differenza sostanziale: ci davano il tempo per crescere. Io nel 1978 passai grazie alla Bianchi, ma in quella squadra c’era gente come Gimondi, De Muynck che vinse il Giro d’Italia, Knudsen, Van Linden che era un grande velocista. Non mi chiedevano di vincere, solo di imparare, come fossi a scuola e di crescere per gradi. E’ stata la scelta giusta, da lì sono venuti i risultati. Oggi invece vedo che tutto è esasperato.

Contini De Wolf 1982
Una storica foto d’epoca, la volata vincente su Fons De Wolf: la Liegi torna a essere italiana dopo 17 anni
Contini De Wolf 1982
Una storica foto d’epoca, la volata vincente su Fons De Wolf: la Liegi torna a essere italiana dopo 17 anni
Quando si parla di te la mente torna a quel giorno di primavera del 1982, quando trionfasti a Liegi. Che cosa ti è rimasto nella memoria di quel giorno?

Tutto. Quando ripenso a quello sprint con De Wolf, a quella ruota davanti sulla linea del traguardo mi sembra di averla vista ieri, di aver provato ieri quell’immensa gioia derivata dalla constatazione che avevo vinto. Sapevo di star bene, venivo dalla mia unica partecipazione alla Parigi-Roubaix chiusa al 25° posto pur non essendo la mia gara. Per vincere però serve che tutto collimi alla perfezione e quel giorno tutto girò davvero per il verso giusto. Ero un corridore che negli arrivi ristretti poteva dire la sua. Mi era già capitato un arrivo a due al Lombardia 1979, ma allora avevo di fronte un certo Hinault

Quell’Hinault con il quale battagliasti a lungo al Giro del 1982, chiuso al terzo posto.

Io ho avuto a che fare con grandi campioni e un fuoriclasse assoluto, che è alla stregua dei Coppi e Merckx. Molti paragonano i campioni di oggi a quelli del passato, ma bisogna andarci piano con i paragoni, quelli erano uomini speciali. Pogacar è bravissimo, ma deve ancora far vedere e vincere tanto prima di poter essere inserito in quella categoria.

Contini Bianchi 2021
Con Ferretti i “suoi ragazzi”: Pozzi, Vanotti, Baronchelli, Contini e a sinistra Prim
Contini Bianchi 2021
Con Ferretti i “suoi ragazzi”: Vanotti, Baronchelli, Contini e a sinistra Prim
C’è in vista un nuovo Contini?

E’ difficile da dire, giovani di valore ne abbiamo, il problema è che mancano le squadre. Ai miei tempi c’erano 8-10 team internazionali in Italia, i giovani avevano modo di poter passare e come detto essere lasciati crescere con calma, oggi il ciclismo ha costi enormi. Noi nel team eravamo al massimo in 15 corridori, ora ce ne sono 30 senza contare tutto il personale. Però un nome mi sento di farlo…

Chi?

Alessandro Covi, perché Saronni lo sta facendo crescere alla vecchia maniera, in un team di grandi corridori nel quale sta imparando. Beppe me ne dice un gran bene e penso che ci darà soddisfazioni quando sarà il momento giusto.

Aru, l’ultima tappa di un cammino non sempre agevole

07.09.2021
6 min
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La fine del cammino è segnata dal tic tac. Con i loro bastoncini da nordic walking, i pellegrini si mettono stanchi e sorridenti in coda, davanti all’Oficina de Acogida per mettere il “sello”, il sigillo sul loro registro di viaggio. Poco più in là, davanti alla Cattedrale di Santiago di Compostela, un altro tic tac, quello del cronometro, scandisce le ultime pedalate della carriera di Fabio Aru. Il Cavaliere dei 4 Mori ha scelto la Spagna, dove fu consacrato re nel 2015, per scendere di sella. Voleva conservare nelle orecchie e nel cuore l’applauso di un pubblico che l’ha conosciuto nel massimo splendore, che non l’ha dimenticato.

La scena perfetta

La scena è semplicemente perfetta, forse neppure lui se lo sarebbe potuto immaginare. Taglia il traguardo mentre la voce inconfondibile dello speaker Juan Mari Guajardo lo acclama. Sale sulla rampa che porta al podio allargando il suo sorriso più felice, quello dei giorni migliori e si lascia travolgere dagli applausi, dagli abbracci. Ci sono i suoi compagni, lo staff della Qhubeka-NextHash con la quale è rinato, ci sono mamma Antonella e papà Alessandro, c’è Valentina (che ha lasciato ai nonni la piccola Ginevra). E c’è il manager Alberto Ziliani che ha preparato per tutti magliette con la scritta “Il Cavaliere dei Quattro Mori” che ritraggono Fabio con le quattro maglie più importanti: tricolore, gialla, rosa e roja. Fabio è confuso, emozionatissimo, ringrazia e sorride. Improvvisamente è di nuovo al 100 per cento il campione che ha voluto essere, non sempre riuscendoci, non sempre per demerito proprio. 

La squadra gli ha riconosciuto l’impegno, tributandogli un saluto molto caloroso
La squadra gli ha riconosciuto l’impegno, tributandogli un saluto molto caloroso

Scrive Locatelli

Fabio abbraccia i genitori, come faceva quando li salutava nelle rare visite sul “continente”, ai tempi della Palazzago e della rigorosa conduzione di Olivano Locatelli. «E’ stato il solo che ha tirato fuori tutto il meglio di me a livello caratteriale, la grinta, la voglia di non mollare mai. Anche in questa Vuelta, lui che non scrive mai a nessuno, a me ha mandato un messaggio in cui mi diceva di non mollare. Ed è ciò che ho imparato da lui».

In quell’abbraccio c’è la riconoscenza verso chi gli ha consentito di spiccare il volo. Fabio ha trovato in casa le risorse per inseguire il proprio sogno, con “caparbietà”. Poi abbraccia a lungo Valentina, la donna della sua vita: «Lei è senza ombra di dubbio sopra tutti. E’ parte del mio percorso e di me stesso».

Del passato e del futuro, come lo sono stati tanti personaggi che idealmente sono ai piedi di quel palco, lungo quel “cammino” che per Fabio non è stato forse un pellegrinaggio, ma certo ha avuto tanti momenti di sofferenza. Entusiasmante nella prima fase, dal ciclocross ai successi da under 23 (doppio Val d’Aosta, su tutti). Dal debutto con podio in Colorado nel 2012 al trionfo nel Giro 2013 come gregario di Vincenzo Nibali. E poi le due annate d’oro, il 2014 e 2015 con i tre gradini del podio di Giro e Vuelta, il 2016 olimpico, il 2017 tricolore e giallo.

Dalla Sardegna, oltre a Carlo Alberto Melis, sono arrivati i genitori Alesandro e Antonella
Dalla Sardegna, oltre a Carlo Alberto Melis, sono arrivati i genitori Alesandro e Antonella

Figure chiave

Due i personaggi-cardine di quel periodo dell’Astana. Il primo è Paolo Tiralongo. «Con Tira abbiamo passato molti bei momenti e mi godo più quelli da corridore che non gli ultimi anni, come la sua vittoria al Giro. Quelli sono stati i momenti migliori».

L’altro è Beppe Martinelli: «A Martino devo la tattica, l’esperienza sui percorsi». Un rapporto schietto, intenso: «Da parte mia con certe persone il rapporto è sempre profondo».

Anche nel periodo buio della Uae Emirates, con l’operazione all’arteria iliaca e la difficile risalita, ci sono stati personaggi di spicco. Matxin o Saronni? «Matxin tutta la vita! A lui voglio bene e gliene vorrò sempre, una persona che mi ha dato e mi ha lasciato tanto, Saronni per me non esiste».

Le scelte di getto

Ecco, da lì in poi il percorso di Fabio Aru diventa un cammino in salita, talvolta al buio. Fabio, che recentemente ha rivelato a Famiglia Cristiana la propria fede, si chiude, come fa quando non riesce a dare in corsa la miglior immagine di sé. I suoi interlocutori sono selezionatissimi, evita i proclami, lavora in silenzio e in silenzio soffre per quelle critiche che arrivano come un fuoco amico. Spesso ha detto di non essersi mai allenato con l’intensità e la costanza degli anni in cui non ha vinto. «Le decisioni che ho preso di getto si sono rivelate meno buone», ammette. Tra queste, la scelta di alcune persone che accanto a lui non hanno funzionato. E in quei momenti che il filo invisibile con la Sardegna è stato la sua salvezza. Il conforto degli amici veri gli ha fatto digerire il voltafaccia dei finti tifosi. «Sono sempre stato nell’occhio del ciclone, si parla spesso di me, fa notizia se non arrivano i risultati. Adesso magari se ne parlerà un po’ meno…», dice tradendo l’amarezza.

Sorridente alle interviste alla fine del cammino, come dopo essersi tolto un peso dalle spalle
Sorridente alle interviste alla fine del cammino, come dopo essersi tolto un peso dalle spalle

L’asticella sempre alta

Sul podio della Vuelta (con la bandiera sarda che lo fece ribattezzare da Riccardo Magrini “Il Cavaliere dei 4 Mori”) o ciondolante sulla bici in coda al gruppo nei giorni più bui, Fabio è sempre rimasto se stesso. Ed è così, può piacere o no. Il suo carattere testardo, deciso, lo ha fatto arrivare dove le gambe non lo avrebbero portato. La sua determinazione lo ha spinto oltre un’asticella che ha sempre cercato di sollevare al massimo. Ha sempre voluto competere al massimo livello. Soltanto quest’anno, quando è entrato in una squadra diversa dalle altre, la Qhubeka-NextHash dopo la consapevole rinuncia al Tour de France, ha accettato di ridimensionarsi. In Romania ha fatto una scelta in linea con quella di tornare alla semplicità del fango, al ciclocross. E lì ha ritrovato la sua dimensione. Quella di corridore d’attacco, a caccia della vittoria.

E con la mascherina si riconosce Valentina Bugnone, sua compagna e mamma di Ginevra, rimasta con i nonni
E con la mascherina si riconosce Valentina Bugnone, sua compagna e mamma di Ginevra, rimasta con i nonni

Cuore sardo

A quel punto ha capito di essere nel punto giusto del cammino. Gli mancava fare la stessa cosa al cospetto dei rivali più forti e il secondo posto di Burgos lo ha fatto sentire di nuovo Fabio Aru. Adesso poteva lasciare senza che sembrasse una fuga dall’incubo. Ha scelto lui quando smettere, ha fatto di testa sua, come sempre. Scende dalla bici a 31 anni e 2 mesi, la stessa età che aveva Gigi Riva quando lasciò il calcio accasciandosi sul prato con un grido di dolore. Fabio Aru lascia con il sorriso, dopo aver dato un nuovo simbolo alla Sardegna che già ne sente la mancanza e ha chi gli chiede perché risponde: «Perché voglio godere appieno della mia grande passione, andare in bicicletta».