Milan in verde, Merlier esulta, Philipsen saluta e Leoni commenta

07.07.2025
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«Le cadute ci sono perché le velocità sono basse», spiazza subito tutti Endrio Leoni. L’ex velocista che se la vedeva con Martinello, Cipollini, Minali, Abdujaparov, e ogni tanto li batteva pure, ha fatto un’analisi tecnica molto interessante di quel che è successo oggi a Dunkerque. La parola d’ordine odierna infatti è stata: paura. Pero fateci aggiungere anche gioia. Gioia per la maglia verde di Jonathan Milan.

Prima la caduta di Jasper Philipsen, che è stato costretto a salutare il Tour de France, poi le cadute in prossimità del traguardo e quell’involata che è stata a dir poco spettacolare. Per la cronaca la tappa è andata a Tim Merlier, che per un paio di centimetri o poco più ha battuto il nostro Jonathan Milan. Questa mattina il gruppo era partito sotto un fortissimo scroscio di pioggia.

L’arrivo al photofinish di Dunkerque fra Merlier e Milan (immagine fornita da Tissot)
L’arrivo al photofinish di Dunkerque fra Merlier e Milan (immagine fornita da Tissot)

Tra pioggia e speranza

Il tempo non prometteva nulla di buono, la temperatura era intorno ai 15 gradi. E l’umore che si respirava in partenza non era dei migliori per tutti. Non è mai facile, infatti, pedalare in queste condizioni. Ma tant’è.

Poteva essere davvero la giornata di Milan. I presupposti c’erano: la tappa era veloce, il finale ideale per lui. Ha un buon treno e oggi lo ha dimostrato, anche se manca ancora qualcosa per perfezionarlo al 100 per cento. E lui stesso ci è parso, come sempre, davvero tranquillo. Un controllo sereno, un vero atleta maturo. Tra l’altro, curiosità non da poco: la sua bici montava una corona da 54 denti.

I meccanici all’inizio non erano stati contentissimi delle foto che gli avevamo fatto, perché la corona, la catena e la trasmissione avevano un trattamento particolare, vista la pioggia, per mantenere la scorrevolezza a lungo. Un trattamento che probabilmente deriva anche dalla pista. E Jonathan è un gigantesco pistard, lo sappiamo.

Tuttavia questa accortezza non è bastata. Ai 1.200 metri il treno della Lidl-Trek era effettivamente corto. Due uomini sono pochi a quelle velocità per scortare Milan fino ai 250 metri, tanto più col vento contro. Tant’è vero che quando Stuyven si è spostato, ha lasciato l’altro compagno al vento, ma la velocità non era alta e gli altri lo hanno rimontato.

«Sono andato vicino alla vittoria, ma non è bastato – ha commentato Milan – Mi dispiace perché i miei compagni hanno fatto un grande lavoro, ma nel finale non è stato facile. C’è stata grande lotta per mantenere le posizioni. Di buono c’è che abbiamo altre opportunità. Chapeau a Merlier che ha fatto un’ottima volata».

La monocorona di Milan e la catena con trattamento (probabilmente a cera) di questa mattina al via da Valenciennes
La monocorona di Milan e la catena con trattamento (probabilmente a cera) di questa mattina al via da Valenciennes

Maglia verde

In tutto questo contesto, con la caduta di Philipsen e il secondo posto di Milan, Jonny si è preso la maglia verde. E non è poco, alla prima partecipazione al Tour. Da qui bisogna ripartire e andare avanti.

Tra l’altro, ci crede eccome a questo obiettivo. Uno che ha già conquistato la maglia ciclamino al Giro d’Italia, dove le salite sono anche più pendenti, ha tutte le carte in regola anche per la maglia verde.

«Adesso – ha detto Milan – cercheremo di mantenere questo primato. Per noi è molto importante. E’ un obiettivo sin dall’inizio. Oggi puntavamo alla vittoria di tappa e sono contento in parte, direi 50-50, tra gioia e delusione». Quando si dice il piglio del campione che non si accontenta…

L’ultimo italiano ad indossare questa maglia è stato Petacchi, che poi la portò a Parigi. A Milan serve la ciliegina sulla torta. Ma, come ha detto lui, le occasioni non mancheranno e rispetto ad altri sprinter ha dalla sua una squadra forte e completa.

Wellens in fuga per i punti dei Gpm e sfilare la maglia a pois a Pogacar, che senza premiazioni e interviste recupera prima
Wellens in fuga per i punti dei Gpm e sfilare la maglia a pois a Pogacar che senza premiazioni e interviste recupera prima

Parola a Leoni

E dal discorso delle squadre passiamo all’analisi di Leoni: «Le cadute – spiega l’ex sprinter – avvengono perché molti dei corridori coinvolti nelle volate di oggi non sono adatti, non autentici. Si limava anche una volta, forse più di oggi, ma questi incidenti accadono perché le velocità sono più basse. Mancano quei treni che mettevano tutti in fila. Oggi invece ci sono tante squadre, senza veri treni e con corridori poco adatti».

«Sono meno preparati tecnicamente e tatticamente. E anche senza caratteristiche fisiche specifiche. Ai miei tempi nei treni c’era gente che veniva dalla 100 Chilometri. Corridori come Poli, Vanzella… ti tenevano fuori a 55 all’ora per un bel po’. Oggi quegli atleti ci sono, ma sono Pedersen, Van Aert, Van der Poel… che sono capitani. Si va forte è vero, ma anche perché hanno bici che vanno 7-8 chilometri orari più veloci a parità di sforzo».

«Quando oggi si è spostato Stuyven, la velocità è calata e i PicNic-PostNL sono risaliti forti. Milan è quasi dovuto ripartire. Bravo Merlier, che ha vinto da mestierante. Mi ha ricordato me, che dovevo fare un continuo destra-sinistra. E lì spendi tanto. Oggi non puoi farlo, perché fai una volata e sei fuori. Ma Merlier è stato bravo lo stesso. Tatticamente per me è il migliore. Nonostante abbia sbagliato il colpo di reni: lo ha dato troppo tardi altrimenti avrebbe vinto con più margine, molto meglio Milan in tal senso».

Leoni parla poi anche delle altre cadute e di certi fondamentali che mancano. Remco Evenepoel, per esempio, si lascia sfilare all’improvviso al centro del gruppo e probabilmente è lui che indirettamente innesca la caduta ai 4 chilometri dall’arrivo (metro più, metro meno).

«In teoria, per regolamento, quella manovra neanche si potrebbe fare. Ti devi spostare a destra o a sinistra. Perché chi arriva da dietro ti prende. Magari è a testa bassa anche lui. E se non ti prende, frena forte e mette nei guai quelli dietro».

Infine Leoni dà un giudizio su due team poco in vista ma che ci hanno provato. «Non mi sembrano male Uno-X Mobility e i Picnic-PostNL, mi sembrano ben corposi per gli sprint, ma altrettanto non mi sembrano ben gestiti dall’ammiraglia».

Alla fine nello sprint fra Merlier e Milan la differenza è stata davvero esigua
Alla fine nello sprint fra Merlier e Milan la differenza è stata davvero esigua

Bravo Tim

Infine, non possiamo non chiudere con lui: Tim Merlier, il re di Dunkerque. Ha vinto senza un treno. Quello che avevamo scritto prima del Tour, parlando con Petacchi, si è avverato in parte.

La squadra, la Soudal-Quick Step, è giustamente tutta per Remco e alla fine Merlier aveva un solo uomo. Però è bastato a vincere: lo ha portato, si è mosso nel momento giusto al posto giusto e gli ha consentito di alzare le braccia sul traguardo.

«E’ stata una corsa molto complicata. Era difficile essere in una buona posizione. Abbiamo perso Bart prima dell’ultimo quarto di gara, quindi ho detto alla squadra di fare il loro lavoro fino agli ultimi 5 chilometri. E poi è iniziata la vera corsa. E’ stato davvero difficile trovare la posizione. Negli ultimi due chilometri sono riuscito a recuperare, a riposizionarmi, ed ero costantemente nel vento. E visto che era contrario ho anche speso più energie.
«E’ sempre difficile battere Milan. Sono contento di aver conquistato la mia seconda vittoria al Tour de France. All’inizio ero sicuro, ecco perché ho alzato le mani, ma dopo non lo ero più. Ho aspettato con ansia. Certo, la maglia gialla era l’obiettivo, ma va bene così».

Cinque sprinter italiani sotto l’occhio di Endrio Leoni

01.02.2023
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La stagione è ripartita e come di consueto lo ha fatto dando una grossa priorità alle volate. Hanno gioito per ora soprattutto sprinter stranieri. Giusto ieri ha rotto gli indugi Jonathan Milan, il quale però bisogna vedere se va inquadrato come un velocista puro.

Con Endrio Leoni , grande sprinter degli anni ’90-2000, abbiamo voluto fare un approfondimento sulle ruote veloci del Belpaese. Gli abbiamo chiesto di individuarne cinque. Cosa ci possiamo aspettare da loro? Quali sono quelle più pure che ci consentiranno di tenere alta la bandiera negli sprint più importanti?

Endrio Leoni (classe 1968) è stato un grande sprinter. Professionista dal 1990 al 2002, ha vinto oltre 30 corse… ai tempi di Cipollini
Leoni (classe 1968) è stato un grande sprinter. Pro’ dal 1990 al 2002, ha vinto oltre 30 corse… ai tempi di Cipollini

Tempi duri

Endrio schietto come era in bici lo è anche ai “microfoni” e dice subito che anche gli sprinter italiani di oggi non stanno passando un super momento.

«Faccio un po’ fatica a trovarne cinque – dice Leoni – perché un conto è il “mezzo velocista” che fa settimo, decimo… Un conto è il velocista che lotta per la vittoria. E’ un po’ lo stesso discorso degli scalatori che sento spesso. Dice: “Va forte in salita”. Okay ma se poi non vince….

«Comunque scelgo Nizzolo, Viviani, Dainese e Consonni».

Nizzolo (qui al centro) è potente ma non potentissimo, secondo Leoni
Nizzolo (qui al centro) è potente ma non potentissimo, secondo Leoni

Nizzolo, non solo potenza

E seguendo l’ordine di Leoni, iniziamo questa analisi con Giacomo Nizzolo.

«Nizzolo è uno che vince le sue 2-3 corse l’anno come minimo. All’inizio era davvero un velocista di belle speranze, aveva ottime premesse poi sul più bello ha avuto quel problema fisico, al ginocchio se ben ricordo, e questo gli ha tolto molto. Ti porta via tempo, energie mentali, toglie qualcosa al tuo fisico… mentalmente non sembra, ma si fa sentire».

«Giacomo era uno di quelli che teneva bene sulle salitelle e questa sua caratteristica mi piace molto. Vediamo se potrà arrivare al suo livello (o forse sono gli altri che sono cresciuti molto, ndr). In più è anche capace di destreggiarsi nei finali».

E anche se Nizzolo spinge e ricerca rapporti molti lunghi, Leoni non sembra essere d’accordo sul fatto che Giacomo sia un super potente.

«Non si tratta tanto del rapporto. E’ vero lui parte da lontano, ma poi devi capire anche cosa fanno i tuoi avversari. E’ potente sì, ma quel che voglio dire è che non è un Kittel».

Per Leoni, Elia Viviani (qui affiancato da Albanese, al centro), deve trovare la fiducia totale della squadra
Per Leoni, Elia Viviani (qui affiancato da Albanese, al centro), deve trovare la fiducia totale della squadra

Viviani e la Ineos

Si passa poi a “sua maestà” Elia Viviani, che più passa il tempo e più è stimato da colleghi e tecnici.

«Elia – spiega Leoni – si è un po’ perso nel tempo, almeno su strada. Ed è un peccato. Non so se sia stato uno sbaglio per lui andare in Francia e lasciare il team dove vinceva. Su strada deve rivedere qualcosa.

«Gli servirebbero almeno un paio di uomini, perché è vero che è bravo a saltare di qua e di là, ma se ogni volta sei da solo hai già fatto mezza volata e poi le gambe per l’altra mezza? La mia preoccupazione è che non so se in Ineos Grenadiers gli diano due uomini o comunque lo spazio necessario».

«Cosa mi piace di lui? Che a 33 anni ha ancora una grossa determinazione. Correre su pista e su strada a quel livello è difficilissimo. Ha qualche stagione per fare ancora bene».

Tour de France 2022, Alberto Dainese (in maglia nera) tra i giganti: Sagan, Van Aert e Groenewegen. Alberto può crescere molto
Tour de France 2022, Alberto Dainese (in maglia nera) tra i giganti: Sagan, Van Aert e Groenewegen. Alberto può crescere molto

Speranza Dainese

E veniamo ad Alberto Dainese. Complice forse la sua giovane età, Leoni si accende. L’atleta della DSM è quello più in rampa di lancio se vogliamo…

«Tra quelli nominati – prosegue Leoni – è quello che lascia più speranza. E’ un bravo ragazzino ed è veneto come me! Dovrebbe trovare una squadra a sua disposizione, sarebbe il massimo. Perché vedo che spesso è troppo indietro quando viene lanciato lo sprint. Non può sempre consumarsi per rimontare… e finire quarto, per dire. Ai 250 metri lui è 12°-13°, quando dovrebbe essere 6°-7°. Al Giro d’Italia gli ha dato una mano anche Bardet, che per carità è anche bravo, ma è uno scalatore. Lì ci serve uno sprinter forte quasi quanto te che sei il leader. Uno che sappia spingere bene il rapporto specie con le velocità (e i rapporti stessi) che ci sono oggi. Per me se lo merita, la sua gavetta Alberto l’ha fatta».

«Dainese è esplosivo. Può fare anche una volata di 180 metri. Ma poi queste sono analisi che lasciano il tempo che trovano. Ogni volata è diversa dalle altre. Magari c’è una curva ai 300 metri oppure si arriva velocissimi da un rettilineo di 1.500 metri… come quelle che preferivo io».

Consonni, che sa destreggiarsi benissimo in gruppo, potrebbe essere un ottimo apripista per Endrio
Consonni, che sa destreggiarsi benissimo in gruppo, potrebbe essere un ottimo apripista per Endrio

Consonni, apripista?

La lista dell’ex sprinter veneziano si chiude con Simone Consonni. 

«Simone – va avanti Leoni – è un gran bell’atleta, però io lo vedo più come velocista d’appoggio. In quel ruolo è ottimo… chiaramente se lui è mentalmente disposto a farlo. Può dire la sua in tante occasioni ma è un piazzato. In più tiene bene sulle salitelle».

«Per me Simone dovrebbe trovarsi un velocista di quelli super: uno Jakobsen, un Groenewegen, per dirigere il loro treno. Perché poi è la cosa più difficile quel ruolo, serve un’intelligenza tattica superiore e al tempo stesso bisogna essere fortissimi: qualità che lui ha. Potrebbe essere un Martinello, un Lombardi. Ecco, Giovanni non era super potente, ma era il più intelligente».

E il quinto?

I nomi che snoccioliamo sono tutti di buoni corridori: da Lonardi ad Attilio Viviani. Da Konychev a Fiorelli. Da Mareczko a  Mozzato

«Siamo nella schiera dei piazzati – spiega Leoni – Mareczko è il più sprinter di tutti, anche di quelli nominati prima, ma va bene per le corse più piccole. Io lo seguo da tempo. Da giovane pensavo: “Però, bravo questo ragazzo”. Ma evidentemente non è facile adattarsi tra i pro’».

«Sì, poi ci sono nomi come Trentin o Pasqualon, ma non sono dei velocisti. Sono corridori velocissimi. Anche Pantani era veloce e se si buttava in volata faceva decimo. Ma un conto è lottare tra i primi tre e un conto è farlo per il decimo posto. E’ un altro lavoro, un altro sport, cambiano le velocità, cambiano i watt. Ce ne sono 200 in meno. Un conto è fare lo sprint di testa a 1.600 watt e un conto è farne 1.400 a ruota.

«Semmai aspettiamo i giovani, come Milan ieri. Jonathan lo conosco bene. E’ un 2000, correva con mio figlio. E’ veloce, alto, potente… speriamo che possa trovare lo spazio giusto in quella squadra».

La forza del velocista negli anni ’90. Leoni era già nel futuro

02.01.2022
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Negli articoli che abbiamo dedicato al lavoro sulla forza ci aveva colpito il grande ricorso alla palestra che faceva, e che fa, Davide Cimolai il velocista chiamato in causa. Spesso abbiamo sentito dire che corridori di 20 o 30 anni fa si allenavano in maniera molto più semplice, salivano in bici e andavano. Incuriositi da tutto ciò, abbiamo chiesto ad Endrio Leoni, uno degli sprinter più forti degli anni ’90 e anche di inizio 2000.

Vi anticipiamo però che dopo averlo sentito siamo rimasti parecchio colpiti anche noi. Leoni infatti era un vero antesignano della preparazione moderna, anche se non mancavano, come vedremo, elementi vecchio stampo.

Endrio Leoni è stato pro’ dal 1990 al 2002, era davvero molto potente. Il guizzo dei 50 metri finali era il suo punto di forza
Endrio Leoni è stato pro’ dal 1990 al 2002 era davvero molto potente. Il guizzo dei 50 metri finali era il suo punto di forza
Endrio, come allenava la forza il velocista ai tuoi tempi?

Posso dire come facevo io e non tanti avevano i miei metodi. Oggi il preparatore ha una certa idea di forza e impone i suoi lavori agli atleti, ma ognuno è diverso. Io sono Leoni, tu sei Cipollini e lui è Van der Poel: ognuno è diverso e reagisce diversamente a questa componente. Io per esempio non credevo alle classiche SFR in salita. Almeno per un velocista, a mio avviso, non andavano bene perché rallentavano troppo le fibre.

E come facevi la forza in bici?

Facevo molte partenze da fermo e delle volate in salita. Entrambe con il rapportone… Iniziavo con durate di 12”-15” secondi fino ad arrivare a 30”. Le facevo al massimo.

E lavoravi anche in palestra?

Sì, molto, anche quattro volte a settimana.

Cosa facevi?

In palestra lavoravo con massimali abbastanza alti, al 90%. Facevo il “castello”, lo squat… Lavoravo da prima con una gamba, esercizi monopodalici, e poi con due gambe con le quali curavo soprattutto l’esplosività. Ero arrivato a fare lo squat anche con più di 120 chili.

Tante volate al massimo con il lungo rapporto per Leoni: così curava la forza in bici
Tante volate al massimo con il lungo rapporto per Leoni: così curava la forza in bici
Come eseguivi queste ripetizioni?

Facevo delle serie da 5-6 ripetute molto veloci. E già nel 1999 usavo il “biorobot” il quale mi dava dei range di velocità di esecuzione da rispettare.

Biorobot? Di cosa si tratta?

È un macchinario che si attaccava il bilanciere. Bisognava eseguire la ripetuta più o meno in 3-4 decimi di secondo. Se si era più veloci vuol dire che il carico era poco, se si era più lenti vuol dire che era troppo. Era un qualcosa di molto raro, di derivazione dall’atletica leggera. Mi seguiva Mario Del Giudice, un preparatore molto esperto appunto nell’atletica. Colui che accompagnò Manuela Levorato (fortissima sprinter degli ’90-2000 e tutt’ora primatista dei 100 metri, ndr) ai suoi record. Del Giudice poi lavorò anche con Davide Rebellin.

Quanto facevi palestra e quante volte ci andavi a settimana?

La iniziavo a novembre e la concludevo a fine gennaio. Anche perché poi si andava in ritiro e la si lasciava. I ritiri non erano organizzati come adesso. Ci andavo quattro volte a settimana: due volte facevo pesi e corpo libero e due volte solo corpo libero. Tanta palestra mi ha fatto molto bene, a mio avviso. Mi ha “ringiovanito” muscolarmente. E infatti nel 2001 e nel 2002, a 33-34 anni, ho vinto ancora abbastanza.

Durante la stagione mantenevi le sedute in palestra?

Ho fatto dei richiami, ma non mi davano grossi frutti. Credo che fosse un qualcosa di molto soggettivo. Avevo la sensazione di “incatramarmi”. Lavorare in palestra era un mesociclo che richiedeva 30, anche 40, giorni per essere metabolizzato. Invece oggi vedo che è cambiato molto. Ho sentito di gente che ha fatto i pesi prima delle crono o anche durante il Giro d’Italia. Poi vedo anche che si cura la forza in altri modi: con corde in sospensione, che riguardano anche l’equilibrio, come voi stessi avete scritto.

Hai parlato anche di esercizi a corpo libero: cosa facevi?

Sostanzialmente ci curavo l’esplosività, l’agilità generale del corpo. Penso per esempio al mezzo squat (balzi accosciati molto veloci, ndr), skip, corsa calciata…

In effetti c’è molta atletica leggera in tutto ciò…

Vero. Ma lo dice la parola stessa: atletica, atleta. Prima si forma l’atleta poi il corridore, il ciclista. Sotto questo punto di vista il ciclismo è stato indietro per molti anni. Ci si è messo un bel po’ a capire l’importanza della palestra e di certi esercizi.

Com’era pertanto una tua seduta in palestra?

Iniziavo con il tapis roulant, 20′ anche 30′ di riscaldamento. Poi passavo alla bici: 15′ di rulli. E poi ancora mi dedicavo agli esercizi a corpo libero. Successivamente passavo al castello, agli esercizi di squat. Dapprima monopodalico, anche per ritrovare una simmetria tra le due gambe che io non avevo, e poi con tutte e due. Quindi facevo la pressa. Al termine della seduta trasformavo tutto in bici. Ogni due o tre settimane aumentavo i carichi. Con il preparatore valutavamo i miglioramenti in modo costante.

Leoni faceva molta ruota fissa nel periodo invernale. Secondo lui sarebbe stato ottimale riprenderla anche nel corso della stagione
Leoni faceva molta ruota fissa nel periodo invernale. Secondo lui sarebbe stato ottimale riprenderla anche nel corso della stagione
Cosa facevi, agilità?

Uscivo con la ruota fissa. Per me è un gesto molto importante, fondamentale direi. Si utilizzano appieno i muscoli antagonisti e protagonisti. Completano la preparazione e il lavoro a secco.

Che rapporti giravi?

Utilizzavo il 39×19 e man mano andavo a scalare con il 18, il 17… a non meno di 110 rpm. Facevo la ruota fissa per un arco di tempo di 40 giorni, tre volte a settimana. Ci facevo anche 100 chilometri. Per un velocista potente è anche più facile farla rispetto ad uno scalatore, anche psicologicamente. Ecco, la ruota fissa sarebbe stato opportuno richiamarla anche durante la stagione, ma spesso per “pigrizia” nel preparare la bici non la si faceva. Se potessi tornare indietro…

Una tua settimana tipo d’inverno quindi com’era strutturata?

Il lunedì andavo in palestra e poi uscivo in bici due ore. Il martedì correvo a piedi, attività che se ben fatta dà molti benefici, facevo poi degli esercizi a corpo libero e un giretto in bici. Il mercoledì facevo esercizi a corpo libero e poi uscivo in bici. Il giovedì riposavo (giovedì e mercoledì a volte si potevano invertire). Il venerdì come il lunedì: palestra e bici. Il sabato e la domenica pedalavo con la bici normale. Iniziavo con un paio d’ore e man mano andavo ad aumentare.

Volate. L’arte (quasi persa) del fare da soli: parola ad Endrio Leoni

26.08.2021
6 min
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Anche alla Vuelta lo stiamo vedendo, vincono i velocisti che hanno un treno o quel che ne resta dell’immaginario comune, cioè il treno rosso della Saeco di Cipollini. E quando manca almeno quel paio di compagni fidati lo sprinter non vince. L’esempio Guarnieri-Demare ne è la prova più calzante. Dov’è finito il velocista che fa tutto da solo? Dov’è finito l’Endrio Leoni della situazione?

Beh, lo chiediamo proprio all’ex ruota veloce veneziana. Oggi Leoni lavora nel settore immobiliare, ma è sempre molto attento a quel succede nel ciclismo. Segue anche i giovani. Leoni ha vinto molto, ma spesso ha avuto degli infortuni e la sua bacheca poteva anche essere più folta.

Endrio Leoni, classe 1968, vanta oltre 20 vittorie in carriera e 13 anni da pro’
Endrio Leoni, classe 1968, vanta oltre 20 vittorie in carriera e 13 anni da pro’
Endrio, dicevamo: facevi le volate da solo. Pronto a fare a spallate, ad infilarti, a saltare da una ruota all’altra…

Le mie volate diventavano un lavoro. Quando non avevi un treno dovevi adattarti. Dovevi portare un risultato a casa ed ogni volta poi era una guerra per trovare un contratto. Oggi magari le cose sono un po’ cambiate, in ogni senso. Velocisti così ce ne sono pochi. In pochi hanno pelo sullo stomaco. Forse un po’ Groenewegen, ma gli altri sono tutti sui binari e se salta il treno non vincono, anzi non riescono neanche a fare la volata.

Sagan però è uno che sa fare anche da solo…

Però Peter non è un velocista puro e poi adesso ha perso un po’ di esplosività. E si è anche un po’ adagiato. Rischia meno.

Che differenze c’erano tra i tuoi tempi (gli anni ’90-2000) e le volate attuali?

Adesso i “treni” partono ai meno due chilometri, tre al massimo. Una volta iniziavano ai -10. Il treno di Cipollini era quello super-collaudato, ma lo poteva fare perché aveva gente adatta e dei “centochilometristi”: Poli, Vanzella, Scirea, Calcaterra, Ballerini… già in quella fase. Era già tanto stargli a ruota. Lì c’era la vera lotta. Però sapevi che stando lì, male che ti andava, facevi secondo o terzo. Era durissima restarci, perché una spallata, un colpo d’aria a 60 all’ora e perdevi un sacco di energie.

Ricordi una delle volte che hai battuto Mario?

A Bassano, avevo preso la sua ruota. Lui aveva Chioccioli e Ballerini. Quel giorno stranamente fu facile prendergli la ruota e restarci. Non ci fu troppa bagarre e arrivai “fresco” allo sprint, altrimenti facevo sempre la volata con “mezza gamba”. In carriera ho fatto 42 secondi posti, una ventina dei quali dietro di lui! Purtroppo non avendo un treno tutto mio negli d’oro è andata così.

Prendevi proprio la ruota di Cipollini o quella di un suo uomo?

No, no la sua. Mario era talmente tranquillo che non metteva nessuno dietro di lui. Anche perché quella gente che aveva lo portava allo sprint ad un velocità pazzesca. Credo che con le bici di oggi Cipollini avrebbe toccato 3-4 chilometri orari in più. Con i nuovi telai e le nuove ruote non disperdi energia.

Prima hai detto che gli sprinter attuali sono tutti “sui binari”, però è anche vero che hanno molte più regole da rispettare. Il “fair play” è, come dire, molto imposto…

Vero. Non dico che bisogna fare come negli anni ’60 quando in tanti arrivavano senza numero perché si attaccavano alla maglia, ma un po’ più di libertà ci vorrebbe. Le mani non vanno staccate dal manubrio e va bene, era così anche ai miei tempi, 20 anni fa. Però c’era più spazio per delle furbizie, come tenere un avversario alle transenne, mettergli paura, tenerlo in spazi stretti… E si vedeva chi aveva l’esperienza e la scuola della pista. Oggi invece una volta partito lo sprint devono mantenere la linea. Una regola un po’ estremistica per me.

Hai parlato di “guerra di posizione”: come ti sentivi quando era il momento di allargare il gomito?

Istinto – risponde secco Leoni – negli ultimi 10 chilometri sei come il toro che vede rosso. Non ricordi niente. Il velocista senza treno deve solo difendersi dall’avversario che viene a disturbarti, devi chiudere sulla ruota che hai battezzato. Però era bello. Io vivevo per quei dieci chilometri. Era adrenalina pura. E ancora oggi m’immedesimo nelle volate che vedo.

Come proteggevi quella posizione? Dove guardavi?

Ripeto: istinto. Facevi tutto sul momento. Eri a tre centimetri da quello davanti (gli spazi si restringevano) ma non guardavi davanti. Cercavi di capire dov’eri e chi c’era intorno a te. Per questo la volata non è per tutti. Ce n’è di gente forte e veloce, ma non tutta è adatta per la bagarre.

Si frenava?

Il freno non si toccava – esclama Leoni – In volata ti appoggiavi. Se frenavi perdevi posizioni e poi era un bel dispendio energetico per recuperarle. In quel caso, se non ne perdevi troppe, meglio restare dove eri finito e fare la volata magari dalla quinta, sesta ruota che cercare di risalire. Ma io lo dicevo ai miei avversari: non mi venite dietro perché io non freno!

Tra i battitori liberi come te chi è che ti dava più filo da torcere?

Beh, Abdujaparov era un “cagnaccio”. Ma negli ultimi tempi anche McEwen… caspita se ci sapeva fare! E infatti ha vinto tanto. Un altro davvero tosto era Kirsipuu. Lui era forte perché era capace di prendere molto vento ma di riuscire a fare la volata lo stesso. Molto bravo anche Danny Nelissen: fortissimo ma sfortunato.

Guarnieri-Demare, l’esempio migliore del feeling tra velocista e apripista attuali. Il francese è così coperto da Jacopo che quasi non si vede
Guarnieri-Demare, l’esempio migliore del feeling tra velocista e apripista attuali. Il francese è così coperto da Jacopo che quasi non si vede
La grande rivalità è stata con Cipollini e Mario era da volata lunga. Tu come ti allenavi per batterlo? Puntavi sullo sprint lungo o sugli ultimi 50 metri?

Di testa partivo sempre per batterlo, poi magari non ci riuscivo, ma sin da giovane avevo sempre vinto parecchio allo sprint e quella era la mia mentalità. Mi allenavo anche sulle volate lunghe. Le facevo anche da 250 metri e se serviva le facevo più corte, ma tutto stava a come ci arrivavi. Non era tanto la lunghezza dello sprint a fare la differenza, ma quanto spendevi per arrivarci. Con quante energie arrivavi ai 4-500 metri. A volte non avevi neanche la forza per alzarti sui pedali. In questo contava molto anche il ruolo dell’ultimo uomo.

Cioè?

Lui doveva, e deve, essere bravo a portarlo il più avanti possibile, ma in modo regolare. Senza strappare, perché più lo sprinter arriva regolare alla volata e più va forte. E per questo è molto importante che il pilota conosca bene il suo capitano.

Tra i tuoi tanti successi qual’è quello che ti ha dato più emozione?

La prima tappa del Giro (era il 1992 e Leoni prese la maglia rosa, ndr). Era il sogno da bambino, lo vedevi in tv. Ci misi un paio di giorni a realizzare, sul momento non mi resi bene conto.