Veneto Classic 2025, VF Group Bardiani

EDITORIALE / Riforma dei punti, qualcosa si muove

09.12.2025
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Il sistema dei punti, che ha già modificato il mercato e il modo di correre, cambierà la storia del ciclismo. Si tratta di un tentativo già visto, che in passato non produceva promozioni o retrocessioni, ma determinava la partecipazione delle squadre alle grandi corse e alimentò indirettamente lo sconquasso del doping. L’UCI di certo proseguirà su questa strada: raramente l’abbiamo vista tornare sui suoi passi, se non a seguito di sentenze inappellabili. Tuttavia l’ambiente ha preso coscienza che il sistema così non funziona e avrebbe prodotto una richiesta di riforma, di cui è venuto in possesso il quotidiano spagnolo Marca.

Cristian Scaroni, XDS Astana, Giro di Romagna 2025
Cristian Scaroni ha vinto il Giro di Romagna conquistando 125 punti. La sua vittoria di tappa al Tour des Alpes Maritimes è valsa 14 punti
Cristian Scaroni, XDS Astana, Giro di Romagna 2025
Cristian Scaroni ha vinto il Giro di Romagna conquistando 125 punti. La sua vittoria di tappa al Tour des Alpes Maritimes è valsa 14 punti

Classiche contro tappe

Il ragionamento è semplice e parte da una considerazione matematica. Le corse di un giorno, anche le minori, assegnano più punti di quelle a tappe. Ed è vero che vincere resta l’anima dello sport, ma per quale motivo il vincitore di una semiclassica deve valere meno di chi porta a casa una classifica generale?

Il calcolo è presto fatto. Una classica di categoria 1.1 assegna 125 punti in un solo giorno, la tappa di una corsa di cinque giorni della stessa categoria ne assegna 14. Salendo di livello, una corsa di categoria 1.Pro assegna 200 punti, la tappa di una corsa di cinque giorni nella stessa categoria ne vale solo 20. Con questi dati alla mano, le squadre pianificano la stagione e il mercato, in barba a ogni logica sportiva. La conquista dei punti è prioritaria rispetto alla costruzione di un progetto solido. Roberto Reverberi (in apertura con la sua VF Group-Bardiani che ha chiuso il ranking UCI in 30ª posizione evitando la retrocessione) ha più volte ammesso di non aver corso come sarebbe stato giusto fare, ma come era necessario.

VF Group Bardiani, ranking UCI, punti
Giro del Veneto, cinque corridori della VF Group appaiati per la volata. Hanno ottenuto 55 punti, ma non hanno corso per vincere
VF Group Bardiani, ranking UCI, punti
Giro del Veneto, cinque corridori della VF Group appaiati per la volata. Hanno ottenuto 55 punti, ma non hanno corso per vincere

Corridori da punti

Le squadre stanno ingaggiando corridori capaci di fare punti nelle classiche minori. Chiaramente si tratta di una problematica inversamente proporzionale al valore tecnico dei team: le grandi squadre fanno punti con i grandi corridori e anche i loro gregari corrono a un livello impensabile per i leader dei team minori. Dai livelli medi e a scendere, abbondano i corridori che sprintano senza essere velocisti, solo per entrare tra i primi venti e accumulare i punti utili per negoziare il contratto. Così facendo, il risultato modesto in una classica vale più di una vittoria di tappa e questo svilisce lo sforzo collettivo e svaluta il patrimonio storico del calendario. Quasi che non abbiano più importanza la fatica accumulata, la strategia, la difesa del leader, le cronometro e alla narrazione sportiva costruita sul cumulo dei giorni. Non c’è da stupirsi che l’istanza così ragionata nasca dalla Spagna, il cui calendario è storicamente imperniato sulle corse a tappe.

Il nesso fra punti e contratto è sempre stato diabolico. Nel ciclismo degli anni 80-90 si pagava un milione (di lire) a punto e ci trovammo di colpo davanti a gregari che smisero di essere tali per guadagnare di più, ricorrendo al doping. Per ora il rischio sembra remoto, ma non è passato inosservato l’improvviso risveglio di anomalie nei passaporti biologici che da agosto a oggi hanno determinato lo stop di quattro atleti, dopo anni di silenzio.

Il Tour of the Alps, che fu prima Giro del Trentino, è una delle corse che trarrebbe vantaggio dal riequilibrio dei punti
Il Tour of the Alps, che fu prima Giro del Trentino, è una delle corse che trarrebbe vantaggio dal riequilibrio dei punti

Proposta di riequilibrio

Per riequilibrare la situazione nasce la proposta cha sarebbe arrivata fra le mani del giornale spagnolo e che porterebbe, con il contributo di tutti gli attori coinvolti (ovviamente ad eccezione dell’UCI che dovrà valutarla) a una ridistribuzione più logica dei punti. 

Non si tratta di svalutare le classiche, ma di impedire che le corse a tappe vengano penalizzate oltre il lecito. La proposta è chiara: le corse a tappe dovrebbero assegnare il 70 per cento dei punti giornalieri assegnati da una classica della stessa categoria. Non si arriverà parità completa, ma organizzare cinque classiche smetterà di essere più vantaggioso del mantenere in vita una corsa a tappe storica.

E proprio sul fronte delle corse a tappe, si è pensato a una ridistribuzione dei punti. Il 50 per cento spetterebbe alla classifica generale, il 40 alle tappe e il 10 a maglie e classifiche secondarie. Così facendo, una corsa a tappe più lunga apporterebbe più valore di una più breve, cosa che incredibilmente oggi non accade.

Javier Guillen, patron della Vuelta, è il presidente internazionale degli organizzatori e sarà chiamato a ragionare sulla nuova proposta
Javier Guillen, patron della Vuelta, è il presidente internazionale degli organizzatori e sarà chiamato a ragionare sulla nuova proposta

Rinnovare e non rinnegare

Le principali corse WorldTour sono protette dal calendario e dal loro prestigio, ma i livelli inferiori ne stanno già risentendo. Corse che un tempo erano simboli di identità regionale ora faticano ad attrarre squadre, che rispondono ad algoritmi di punteggio piuttosto che a esigenze sportive. Il ciclismo si trova davanti a un bivio. Può smantellare la struttura che lo ha sostenuto per oltre un secolo o rinnovarsi seguendo criteri più ampi e non solo numerici.

«Le corse a tappe – scrive Marca – sono molto più che semplici gare: collegano regioni, creano tifosi, creano ricordi e hanno costruito la narrazione emotiva del ciclismo moderno. Se il sistema continua a spingerle verso l’irrilevanza, non solo le competizioni andranno perse, ma anche un modo di comprendere questo sport. Trovare un equilibrio non significa sottrarre, ma proteggere ciò che dà significato all’insieme».

La riforma sarà presentata al Consiglio dei Ciclisti Professionisti (CCP) e all’Associazione Spagnola degli Organizzatori di Corse Ciclistiche (AEOCC) all’organismo internazionale ora presieduto da Javier Guillén. L’UCI dovrà studiarla e prendere una decisione. Il futuro del ciclismo è in gioco.

Sei Giorni di Gand 2025, Elia Viviani, ritiro

EDITORIALE / Le domande su Viviani team manager azzurro

24.11.2025
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Elia Viviani saluta dalla Sei Giorni di Gand e diventa il nuovo team manager delle nazionali. Prende il posto di Amadio, che prende il posto di Villa. Quest’ultimo lascia la nazionale dei professionisti su strada, tiene le crono e torna a pieno titolo nella pista donne, affiancando Bragato. Lo annuncia il comunicato successivo al Consiglio federale del fine settimana. Nulla cambia per il resto, neppure la sensazione di una architettura suggestiva, ma forse un po’ rischiosa.

Chi sia Viviani non lo scopriamo oggi. Chi scrive lo conosce, lo intervista e ha iniziato a parlarci da quando era un U23. Sarebbe stato bello semmai che negli anni lo avessero scoperto anche altri addetti ai lavori che, ipnotizzati dalla strada, non hanno mai riconosciuto al veronese il prestigio che merita. Elia ha costruito la sua carriera fra pista e strada. Ha sacrificato a volte l’una e più spesso l’altra, diventando però uno dei pochi atleti nella storia dello sport italiano ad aver vinto medaglie in tre diverse edizioni delle Olimpiadi. E’ sempre stato un professionista meticoloso, già da ragazzino stupiva per la concretezza delle risposte e la lucidità nel progettare gli obiettivi. Dopo 16 stagioni da professionista, 90 vittorie su strada (fra cui un titolo europeo), 3 medaglie olimpiche su pista (una d’oro), 11 medaglie ai mondiali su pista (3 d’oro), 22 medaglie agli europei su pista (15 d’oro), avrebbe tutto il diritto di fermarsi, studiare e scegliere la sua strada. E’ pronto per fare il team manager delle nazionali?

L’esperienza di Villa alla guida dei pro’ è durata un solo anno, con risultati molto interessanti
Campionato del mondo Kigali 2025, prova su strada professionisti, Marco Villa e Giulio ciccone, dopo corsa
L’esperienza di Villa alla guida dei pro’ è durata un solo anno, con risultati molto interessanti

Un tutor per Viviani

Magari sì, glielo auguriamo di cuore. Di certo, conoscendolo, Elia non farà mancare l’impegno e cercherà di portare nell’ambiente azzurro le idee e le soluzioni ipotizzate in tanti anni da corridore, osservando e vivendo le realtà delle squadre in cui ha militato. Basta per gestire il movimento azzurro? Avrà un tutor che lo affiancherà? Amadio, che ha ricoperto il ruolo fino ad oggi e da nuovo tecnico della strada non avrà per un bel pezzo giornate frenetiche, si incaricherà della sua formazione? E’ questa la strada più logica e probabilmente il motivo per cui Viviani ha accettato la proposta azzurra. Le scelte dell’ultimo Consiglio federale fanno pensare infatti alla grande voglia di coinvolgerlo e alla necessità conseguente di disporre il resto.

Giusto ieri, Villa ha dichiarato di essere stato sempre consapevole che il suo ruolo di tecnico della strada fosse a tempo determinato. In realtà, in questi mesi ha spesso parlato al futuro: lo faceva immaginando il suo lavoro o quello del futuro tecnico? Quando il 23 febbraio venne annunciato il nuovo assetto delle nazionali, nel non confermare Bennati, le parole del presidente Dagnoni non lasciavano intuire che ci fosse nell’aria un avvicendamento a breve termine. «Il valore indiscusso di Villa – si leggeva nel comunicato – ci ha convinto in questo cambiamento. A lui l’incarico sicuramente più difficile in questa fase storica, ma anche di maggior prestigio».

Forse se Viviani si fosse fermato all’inizio della stagione, l’assetto varato ieri sarebbe stato anticipato di nove mesi. Ma Elia, che ha più volte ribadito di non aver mai pensato di fermarsi senza averci riprovato alle sue regole, ha probabilmente scombussolato i piani di chi lo vedeva già team manager all’inizio del 2025.

Campionati dle mondo pista 2025, Santiago del Cile, Roberto Amadio, Elia Viviani
Ha fatto passare Viviani fra i pro’, lo ha seguito da team manager su pista e ora Amadio lo aiuterà nel nuovo incarico
Campionati dle mondo pista 2025, Santiago del Cile, Roberto Amadio, Elia Viviani
Amadio ha fatto passare Viviani fra i pro’, lo ha seguito da team manager su pista e ora lo aiuterà nel nuovo incarico

Amadio e il Consiglio

Roberto Amadio diventa il tecnico dei professionisti: ha l’esperienza per quel ruolo e un parco di azzurri giovani e con personalità tutte da costruire. Rinunciando a lui come manager, la Federazione si indebolisce in un ruolo cruciale oppure è consapevole che Roberto potrà svolgere il doppio incarico, affiancando Viviani. La parte burocratica del lavoro federale non gli è mai piaciuta, alcuni consiglieri si sono spesso lamentati delle sue assenze, ma avendo la pelle dura e sulle spalle l’esperienza da manager di squadre WorldTour, Amadio è riuscito ad arrivare fin qui dai giorni di Tokyo.

Già durante l’estate si sussurrava della volontà di una parte del Consiglio di modificare il suo incarico: va capito se fare di lui il tecnico della nazionale vada considerato una promozione. Non è consuetudine, almeno nel WorldTour, che un team manager diventi direttore sportivo, semmai il contrario: l’esempio di Luca Guercilena è lampante. Di certo la nuova qualifica di Amadio ha liberato spazio per Viviani. A quest’ultimo basterà essere stato un campione per navigare nelle dinamiche della politica federale? Amadio ha ammesso più volte che quando si è abituati a intervenire in modo rapido per superare una necessità, è difficile dover chiedere il permesso a chi non ha neanche la completa consapevolezza del problema. Forse, non avendo alle spalle alcuna esperienza da manager, Viviani troverà meno sconcertante certe dinamiche che per Amadio sono state spesso indigeste.

Campionati del mondo Kigali 2025, Rwanda, Ruanda, Segretario generale FC Marcello Tolu, presidente Cordiano Dagnoni, Lorenzo Finn iridato U23, Gianni Vietri consigliere federale
Da sinistra, il segretario Tolu e i presidente Dagnoni: questo il tandem che guida la FCI. A destra, dopo Finn, il consigliere Vietri
Campionati del mondo Kigali 2025, Rwanda, Ruanda, Segretario generale FC Marcello Tolu, presidente Cordiano Dagnoni, Lorenzo Finn iridato U23, Gianni Vietri consigliere federale
Da sinistra, il segretario Tolu e i presidente Dagnoni: questo il tandem che guida la FCI. A destra, dopo Finn, il consigliere Vietri

Il passo più lungo

L’inverno in arrivo ci offrirà la possibilità di cercare risposte alle tante domande di questo lunedì freddo e piovoso. Le Olimpiadi di Los Angeles non sono tanto lontane e la pista azzurra è nella delicata situazione di avere più da perdere che da vincere. Siamo arrivati molto in alto e serve un cambio di passo per salire ancora, lavorando sugli atleti e contemporaneamente sullo sviluppo dei materiali. Quanto alla strada, i pochi mesi di gestione di Villa hanno segnato un risveglio di interesse e di entusiasmo. Probabilmente Amadio proseguirà sull’identica strada, avendo condiviso con Villa la maggior parte delle scelte.

Ora il quadro appare stabile. Restiamo dell’avviso che un professionista scrupoloso come Viviani meriterebbe il tempo per studiare e affrontare il mondo del lavoro con una formazione più completa. Accettare questo incarico azzurro è forse il passo più lungo della sua carriera sempre molto controllata. Per fortuna avrà attorno persone consapevoli del suo valore, che lo supporteranno al meglio possibile.

Coppa Città di San Daniele 2025, devo team (photors.it)

EDITORIALE / I corridori, la scuola, gli agenti, i soldi, il futuro

10.11.2025
3 min
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Si pensa tanto al modo per limitare la velocità delle biciclette, ma nessuno si è reso conto che la velocità da limitare è anche quella dei processi di formazione dei corridori. Gli allievi hanno già un agente che li segue. Gli juniores sono l’anticamera del professionismo. I devo team sono l’anticamera del WorldTour. E i numeri si restringono drammaticamente (almeno in Italia) perché il numero delle squadre si va erodendo progressivamente ogni anno (in apertura, immagine photors.it della Coppa Città di San Daniele).

I devo team, a ben vedere, rischiano di essere fumo negli occhi. Se non sfondi, smetti. Se ti va bene, ti prende qualche altra continental. Ma se nel frattempo sei anche diventato elite, il destino è segnato. Si potrebbe obiettare che se non sfondi dopo quattro anni da U23, forse non sei nato per fare il corridore. Ma se nel mezzo ci sono stati problemi fisici che ti hanno tenuto fuori dalle gare, ecco che la logica si inceppa.

Bryan Olivo, Bahrain Victorious Development, Trofeo Piva 2025 (Photors.it)
Bryan Olivo non fa più parte del devo team Bahrain, perché è diventato elite. Come lui, Marco Andreaus (photors.it)
Bryan Olivo, Bahrain Victorious Development, Trofeo Piva 2025 (Photors.it)
Bryan Olivo non fa più parte del devo team Bahrain, perché è diventato elite. Come lui, Marco Andreaus (photors.it)

Dentro o fuori

Sarebbe utile che queste poche righe le leggessero i genitori dei ragazzi che corrono in bici. Sia quelli che vedono nei giovani corridori l’occasione per veder aumentare le risorse, sia quelli che ne hanno a cuore il futuro e si chiedono come gestirli.

A 17 anni sei nel meccanismo, forse anche a 16. A 18 ti consigliano di mollare la scuola e iscriverti a un corso online, così riesci a gestire meglio l’allenamento e la maturità. Poi magari diventi professionista che ne hai 19 e siccome non hai paura di niente, molli i freni e porti in gruppo la tua quota di disordine. Infine a 23 anni risiedi probabilmente in un posto dove si pagano meno tasse.

Se volete divertirvi a incrociare i nomi dei corridori, le loro scelte e gli agenti che li rappresentano, noterete che lo schema è abbastanza ripetibile. Ciascuno, giustamente, ha individuato la sua ricetta e la offre ai propri assistiti. Sulla ricetta c’è scritta anche la percentuale di riuscita?

Repubblica di San Marino, turisti (depositphotos.com)
La Repubblica di San Marino è diventata un approdo privilegiato grazie alla tassazione favorevole (depositphotos.com)
Repubblica di San Marino, turisti (depositphotos.com)
La Repubblica di San Marino è diventata un approdo privilegiato grazie alla tassazione favorevole (depositphotos.com)

Le regioni fantasma

Sarebbe utile disporre di un’informazione in più rispetto a quella offerta sul sito dell’UCI, che riporta l’elenco degli agenti abilitati. Sarebbe interessante infatti avere accanto a ciascun agente il numero dei corridori seguiti. E’ vero che se guadagni sulla percentuale, è fisiologico cercare di aumentare il numero dei… contributori. Forse però non è nemmeno salutare per il movimento che si creino alte concentrazioni sotto lo stesso ombrello, escludendo di fatto chi a 17 anni non ha un agente, ha dello sport una concezione ancora relativa e pensa prima a finire la scuola e poi a buttarsi a capofitto sui pedali.

In tutto questo, avete fatto caso che sono ormai spariti i corridori calabresi, sono pochissimi i pugliesi e i laziali, mentre non ci sono quasi più siciliani, che pure negli ultimi anni hanno vinto fior di corse? Questo perché al Sud non ci sono squadre né corse e le società del Nord e i talent scout non si prendono neppure la briga di andare a vedere il poco che c’è. Tanto ci pensano i procuratori a passargli i corridori, che importa da dove vengono? Loro fanno il proprio interesse e il proprio lavoro, poco da aggiungere. Ma così si rinuncia a una fetta importantissima di popolazione e ad atleti potenzialmente fortissimi. A chi tocca fare sì che il meccanismo non sia occasionale o predatorio?

Trofeo Piva 2025, Under 23, gruppo, devo team (photors.it)

EDITORIALE / Gli under 23 che nessuno vuole più

20.10.2025
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Il divieto di partecipazione per i corridori professional under 23 alle gare internazionali della loro categoria, di cui ci ha parlato ieri Roberto Reverberi, è stato salutato con enfasi da un paio di gruppi sportivi di casa nostra che ravvedono in questo più spazio e maggiori possibilità di prendere corridori. Il punto è capire quale sarà il destino di questi ragazzi… finalmente liberi sul mercato e quali margini di carriera sarà possibile offrirgli. Se l’obiettivo è quello a medio termine per cui la piccola squadra possa fare una bella stagione nel calendario nazionale, allora ne comprendiamo la soddisfazione. Se l’obiettivo è quello a lungo termine di creare potenziali professionisti, allora l’ottimismo viene meno, dato che le squadre italiane in grado di fare formazione per i giovani atleti (per adeguatezza dei loro tecnici e mezzi a disposizione) sono sempre meno. Non si può chiedere alle professional di avere anche il devo team, si potrebbe convincerle dell’utilità di avviare collaborazioni con squadre U23 già esistenti. Il fatto di farle correre nelle internazionali era un compromesso probabilmente accettabile.

Filippo Turconi ha conquistato il Trofeo Piva under 23: dal prossimo anno non potrà parteciparvi (foto Alessio Pederiva)
Filippo Turconi ha conquistato il Trofeo Piva under 23: dal prossimo anno non potrà parteciparvi (foto Alessio Pederiva)

Cercasi squadre under 23

La situazione attuale del mercato giovanile vede i procuratori armati di setaccio, che opzionano corridori anche fra gli allievi e poi li propongono ai devo team e ai team di sviluppo U19, il più delle volte non italiani. Si parla certamente di atleti dotati di cuore, muscoli e polmoni, dato che la selezione avviene sulla base dei test. Poco si riesce a valutare, in questa fase, della maturità, dell’intelligenza tattica, della scaltrezza. I numeri comunque sono bassi: togliamo dal mazzo i grandi motori, che cosa accade a tutti gli altri?

Una delle migliori continental di casa nostra ha ricevuto 40 richieste da parte di juniores in cerca di squadra. Tanti di loro ovviamente smetteranno, anche perché nel frattempo non si registra un aumento delle società under 23, tutt’altro. Basti semplicemente annotare, un anno dopo la chiusura della Zalf Desirée Fior, che a causa della trasformazione in professional, anche il vecchio Team Colpack – dallo scorso anno Team MBH Bank-Ballannon sarà più nella categoria under 23. Mentre il CT Friuli, diventato devo team della Bahrain Victorious, quest’anno aveva solo 8 italiani sui 15 atleti dell’organico.

La MBH Bank-Ballan-CSB diventa un team professional: i suoi under 23 potranno correre soltanto tra i pro’
La MBH Bank-Ballan-CSB diventa un team professional: i suoi under 23 potranno correre soltanto tra i pro’

Motorini spinti al limite

Qualche giorno fa, Daniele Fiorin ha raccontato la difficoltà di fare formazione anche negli allievi. Ormai i ragazzi e le ragazze scelgono di investire tutto sulla strada, perché è qui che si può concretizzare il sogno di farne un lavoro. Ci si trova quindi con società e famiglie che investono (non solo tempo, anche parecchi soldi) su ragazzi di 16-17 anni, perché abbiano il livello necessario per essere notati dai procuratori e di conseguenza dagli squadroni. Ragazzi che magari avrebbero bisogno di fare due stagioni nella casetta di una squadra in cui imparare a diventare adulti e atleti, invece rincorrono il risultato e la prestazione assoluta nel momento in cui dovrebbero soprattutto maturare. Ne deriva una generazione di motori ancora da sviluppare ma spinti al limite che, qualora non trovassero lo sbocco desiderato, si ritroverebbero alle prese con i pochi posti disponibili fra gli juniores. Ha chiuso la Aspiratori Otelli e ha chiuso il Team Giorgi, le squadre che resistono sono ormai piene fino al collo.

Qualcuno dice sorridendo amaramente che se non ci fosse mai stato Remco Evenepoel, tutto questo non accadrebbe. Forse è vero. Le WorldTour sono ancora vittime della ricerca del talento in erba e hanno innescato il meccanismo di una ricerca spasmodica e autodistruttiva. Che fine fanno i diciottenni, dotati di grande motore, che non dovessero risultare appetibili per il WorldTour? Potrebbero diventare interessanti per le squadre professional, che sfrutterebbero la formazione ricevuta nei devo team e potrebbero portarli in un professionismo meno estremo.

Belletta non è arrivato nel WorldTour con la Visma-Lease a Bike e dopo un passaggio alla Solme Olmo diventa pro’ con il Team Polti
Belletta non è arrivato nel WorldTour con la Visma-Lease a Bike e dopo un passaggio alla Solme Olmo diventa pro’ con il Team Polti

Il ciclismo di una volta

La ricerca del talento passa necessariamente dai grandi numeri: se si riduce il campione, è probabile che si riduca anche la probabilità di trovare atleti su cui investire. Quante delle 10 continental italiane del 2025 possono dire di aver proposto ai loro atleti un’attività internazionale qualificata? Quanti giorni di gara all’estero sono riuscite a fare? Quante di loro dal prossimo anno pensano di poter fronteggiare i devo team nel calendario internazionale? Quante si sono date una tabella di investimenti perché i talenti scelgano di restare in Italia anziché andare all’estero?

Fa notizia per questo la scelta del toscano Del Cucina, che dopo aver svolto lo stage con la Tudor Development, ha scelto per gli U23 la SC Padovani 1909 di Ongarato e Petacchi. La sua gestione sarà la cartina al tornasole della possibilità di fare ciclismo giovanile di buon livello anche in Italia. Ma questo evidentemente non passa più per le squadre che arrivano al Giro Next Gen senza aver ancora partecipato a una corsa a tappe e si accontentano di dare ai corridori la dotazione di 10 anni fa, accompagnandola col vecchio motto: «Zitti e menare!». Il mondo è cambiato, in ogni ambito. Il ciclismo di una volta non basta più.

Vuelta Espana 2025, ultima tappa MAdrid, protesta pro Palestina, disordini, tappa annullata

EDITORIALE / La Vuelta si ferma, il resto va avanti

15.09.2025
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Dopo due tappe rimodellate per la presenza dei manifestanti pro Palestina, ieri la Vuelta ha dovuto cancellare il finale di Madrid. Il corteo è diventato distruttivo. Le transenne sono state divelte. I palchi sono stati occupati. I corridori sono stati fermati. Si parlava da giorni dell’impossibilità che l’ultima tappa si svolgesse regolarmente, ugualmente però i velocisti hanno tenuto duro sulla Bola del Mundo e ogni altra salita, sperando di avere l’ultima chance che non c’è stata.

Di questo tema abbiamo già scritto in occasione della tappa di Bilbao, privata ugualmente del finale. Avevamo trovato fuori luogo l’osservazione di Vingegaard, dispiaciuto per non aver potuto vincere l’orsacchiotto per suo figlio che compiva un anno, percependo il gruppo della Vuelta come un’entità avulsa dal contesto sociale e politico in cui viviamo. Da allora, sia il danese ledaer della corsa sia altri rappresentanti del gruppo hanno trovato però il modo per rimarcare l’orrore di quanto sta accadendo a Gaza, riconoscendo le ragioni di chi protesta, ma stigmatizzando le azioni violente. Posizione anche questa ineccepibile.

Un podio posticcio a tarda sera: così Vingegaard riceve il trofeo della Vuelta, davanti ad Almeida e Pidcock (immagine @lavuelta)
Un podio posticcio a tarda sera: così Vingegaard riceve il trofeo della Vuelta, davanti ad Almeida e Pidcock (immagine @lavuelta)

Uno sport di strada

Il ciclismo sta in mezzo alla gente ed è impossibile chiuderne l’accesso. E’ il bello del nostro sport e insieme la sua condanna, quando certi limiti non sono soltanto dati dalle transenne, ma anche dalle varie volontà politiche.

Se una manifestazione decide di bloccare una corsa, non ci sono reparti di celerini che tengano. La corsa magari passa, ma in un contesto inaudito di violenza. Vale la pena caricare centinaia di manifestanti, se l’alternativa è fermare un evento sportivo WorldTour che vede al via alcuni tra i più forti professionisti al mondo? Certo che no, il ciclismo si farà da parte per quel senso di responsabilità che l’ha sempre accompagnato. Non ci sono biglietti da rimborsare e tutto sommato i corridori sono abituati a chinare il capo.

La Gran Via di Madrid è stata invasa dai manifestanti in un baleno: la Vuelta non poteva che essere fermata
La Gran Via di Madrid è stata invasa dai manifestanti in un baleno: la Vuelta non poteva che essere fermata

Il ciclismo che subisce

Come quando lo sport decise di dichiarare guerra al doping e si lanciò in campagne sul non rischiare la salute e altri slogan vanificati dall’esperienza. Aderì soltanto il ciclismo, nel nome dello stesso senso di responsabilità. Il ciclismo sapeva – dicono i ben informati – di avere situazioni da sanare. Lo sapevano anche gli altri – si potrebbe rispondere – ma ritennero che non fosse un problema. I calciatori beffeggiarono la necessità di sottoporsi ai controlli. Rino Gattuso, l’attuale cittì della nazionale di calcio, rifiutò di sottoporsi a un prelievo ematico: poté farlo perché per loro si trattava di controlli su base facoltativa, che per i ciclisti erano invece obbligatori.

Sull’altare di quella correttezza, pertanto, il ciclismo immolò alcuni dei suoi campioni più carismatici, il più delle volte senza un’evidenza sostenuta da prove. Per delle percentuali di ematocrito, poi ritenute inaffidabili. Oppure per cervellotici algoritmi australiani, poi cancellati. Per quantitativi infinitesimali di sostanze che più di recente sono state ritenute una colpa lieve e punite con tre mesi di squalifica. Non ci stancheremo mai di ripetere che per un caso identico a quello di Sinner, Stefano Agostini prese due anni di squalifica e smise di correre. E la normativa nel frattempo non è cambiata.

Il gruppo fermato all’ingresso nel cicrcuito di Madrid. Ivo Oliveira parla con un uomo della Guardia Civil
Il gruppo fermato all’ingresso nel cicrcuito di Madrid. Ivo Oliveira parla con un uomo della Guardia Civil

Il mondo non si schiera

La protesta della Vuelta era nata per fermare la Israel-Premier Tech, poi è degenerata. Si è fatto più volte il paragone con la russa Gazprom, fermata quando la Russia iniziò l’invasione dell’Ucraina: lo abbiamo fatto anche noi. Eppure ha detto bene il presidente dell’UCI Lappartient: la disposizione scattò quando, in seguito alle disposizioni politiche internazionali, il CIO decise di fermare lo sport russo. Contro Israele nessuno ha detto nulla. Da quelle parti hanno il diritto di bombardare, affamare e azzerare una popolazione, figurarsi se qualcuno troverà mai utile parlare del loro diritto allo sport.

Per questo, di fronte alla codardia o alla convenienza politica internazionale, i manifestanti hanno attaccato uno dei pochi sport che non si può difendere, che non divide diritti televisivi e non ha biglietti da rifondere. Sarebbe invero stupendo, per quanto utopistico, che lo sport si fermasse anche solo per un minuto per commemorare le vittime di quel conflitto disumano, senza bisogno di manifestanti. E’ inutile tuttavia aspettarsi che accada. Sarà curioso invece vedere cosa accadrà il 14 ottobre a Udine, quando l’Italia si giocherà contro Israele la qualificazione per i mondiali di calcio. Di certo uno stadio dotato di cancelli e barriere sarà un luogo più facile da difendere di un viale alberato delimitato da semplici transenne.

EDITORIALE / Anche diplomazia nella stanchezza di Pogacar?

11.08.2025
5 min
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Il fatto che abbia visto il limite della riserva ha reso improvvisamente Pogacar più umano e questo non è necessariamente un male. Ieri Komenda, il suo paese, lo ha accolto con una gratitudine e una marea umana degna del Tour de France (in apertura un’immagine di Alen Milavec). Dalla Slovenia, la Grande Boucle dovrebbe partire nel 2029, costringendo implicitamente il campione del mondo a ripensare la data del ritiro che nei giorni francesi aveva invece legato alle Olimpiadi del 2028.

In tempi non sospetti, comunque dopo la seconda vittoria del Tour, Mauro Gianetti disse parole chiare sulla necessità di tenere a freno lo sloveno per tutelarne la carriera e la salute. «Lui si diverte – disse nel 2023 lo svizzero – ma dobbiamo comunque gestire la cosa con calma e tenere anche una visione sul lungo termine. Perché è chiaro che Tadej abbia delle grandi potenzialità, delle ambizioni grandissime, però sappiamo che è importante guardare oltre il presente. E quindi corre, va forte perché va forte e fa la stessa fatica di quello che arriva decimo o cinquantesimo. Perché tutti si impegnano al 100 per cento, ma lui è davanti. Secondo noi, corre il giusto: l’anno scorso ha fatto 54 giorni di gara».

Nella terza settimana del Tour si è avuta spesso la sensazione di un Pogacar stanco o meno motivato del solito
Nella terza settimana del Tour si è avuta spesso la sensazione di un Pogacar stanco o meno motivato del solito

La fine della carriera

I giorni di corsa sono stati 50 nel 2023 con l’interruzione per la frattura dello scafoife; 58 nel 2024 con il Giro e poi il Tour; sono 43 per ora quest’anno. La gestione è stata molto oculata e questo ha permesso a Pogacar di tenere un altissimo livello, che ne ha fatto il campione acclamato in tutto il mondo.

«Ho iniziato a vincere abbastanza presto – ha detto ieri nella conferenza stampa – e da allora tutto è andato alla grande. Alcuni ridono leggendo che conto gli anni che mancano al mio ritiro. A ogni stagione ci alleniamo più duramente e più velocemente, quindi guardo al mio futuro con piacere. Da un lato, so che la mia carriera sportiva non sarà lunga, ma dall’altro sono consapevole di poter godere del livello attuale per qualche anno ancora. Mi aspetto che questo livello calerà a un certo punto e che non ci saranno più vittorie in stagione di quelle attuali e che prima o poi ci sarà un anno negativo. Sono preparato a tutto ciò che sta arrivando, quindi sono ancora più consapevole di dover godermi il momento. Devo essere pronto a fermarmi, ringraziare e dire addio alle gare ai massimi livelli».

A Komenda ieri un pubblico degno del Tour de France se non superiore (foto Alen Milavec)
A Komenda ieri un pubblico degno del Tour de France se non superiore (foto Alen Milavec)

Ragioni di opportunità

E se all’aumento della fatica, si fosse sommata davvero la necessità di non dare troppo nell’occhio? Ospite del programma Domestique Hotseat, Michael Storer del Tudor Pro Cycling Team ha raccontato un singolare retroscena della tappa di Superbagneres, che a suo dire Pogacar avrebbe rinunciato a vincere.

«Quel giorno il UAE Team Emirates-XRG ha tirato a tutta per tutto il giorno – ha raccontato – e poi Pogacar, sull’ultima salita, non ha fatto nulla. Per quello che mi hanno riferito, lungo la strada ci sono stati dei cori di disapprovazione da parte del pubblico e quindi i direttori della squadra hanno deciso che quel giorno era meglio che Pogacar non vincesse, in modo da tenere i tifosi francesi dalla loro parte. E penso che abbiano tenuto in conto la cosa anche durante l’ultima settimana del Tour de France: non volevano vincere tutto».

Un punto di vista che cancella parzialmente l’immagine di Pogacar stanco o aggiunge ad essa una differente sfumatura? «A La Plagne può anche essere che non avesse le gambe – ha proseguito Storer – ma a Superbagneres ha proprio detto ai compagni che non voleva vincere. Allora avrebbe potuto lasciar andare subito la fuga e non spremere la squadra per tutto il giorno. Si vedeva che i suoi compagni erano molto stanchi e anche Tadej sembrava provato».

Dopo l’arrivo, Pogacar è andato da Arensman e si è congratulato: ha davvero rinunciato a vincere?
Dopo l’arrivo, Pogacar è andato da Arensman e si è congratulato: ha davvero rinunciato a vincere?

Meno obiettivi e… divertenti

La stanchezza c’era e l’abbiamo toccata ogni giorno con mano. Se Pogacar avesse tenuto fede agli annunci di inizio stagione, sarebbe dovuto andare alla Vuelta e a quel punto i giorni di gara sarebbero saliti per la prima volta sopra quota 60. La scelta di ridisegnare il finale di stagione risponde alla volontà di mantenere una prospettiva di carriera. Stesso motivo per cui ad esempio lo scorso anno, di fronte alla possibilità di aggiungere la Vuelta alle vittorie del Giro e del Tour, si optò per il passo indietro.

C’è stato un periodo in cui si pensava che certi campioni potessero correre a ruota libera tutto l’anno. Poi, uno dopo l’altro, si sono accorti loro per primi che per restare in alto c’è bisogno di selezionare gli impegni. Van der Poel, ad esempio, lo scorso anno si è fermato a 42 giorni di gara. Pogacar è stato sinora l’eccezione alla regola, ma forse le fatiche del Tour gli hanno fatto capire che il livello medio è cresciuto ancora. Le squadre dei suoi avversari si sono rinforzate con fior di campioni che hanno lui come bersaglio e questo di certo induce parecchio stress. Il programma di Tadej prevede la trasferta canadese con il Grand Prix Cycliste de Quebec e Montréal. Poi Tadej difenderà il mondiale in Rwanda e potrebbe anche correre ai campionati europei in Francia. Nei prossimi anni lo sloveno tornerà al Tour, difficilmente la squadra glielo risparmierà. Ma la sensazione è che quel senso di fatica sia più legato al dover portare a casa risultati che ormai per lui significano poco. E quando Pogacar non si diverte, se ne accorgono davvero tutti.

EDITORIALE / La morte di Drege, Van Aert e la velocità

06.01.2025
5 min
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Che sia necessità o falso mito, la velocità tiene banco. Si lavora su tutti i fronti immaginabili perché resti alta e possibilmente aumenti. Quelli che cercano a tutti i costi le ombre si interrogano sul perché oggi si vada molto più forte di quando dilagava il doping, senza rendersi conto – per disinformazione o cattiva fede – di quanto oggi sia tutto qualitativamente migliore. Infinitamente migliore. Lo diceva ieri Pino Toni a Fabio Dal Pan, parlando dei record d’inverno.

La media calava quando la stanchezza prendeva il sopravvento, ma quando soprattutto i paninetti e i gel di un tempo non bastavano per supportare la prestazione. E’ tale invece il quantitativo di carboidrati che gli atleti ingeriscono oggi in gara, che semplicemente la velocità non decresce. E’ un andare forte che poggia su corridori di qualità eccezionali, allenamenti mirati e materiali così performanti, che le medie sono per forza destinate ad aumentare. La scrematura dei talenti è così elevata che nelle corse – specialmente quelle WorldTour – difficilmente ci si imbatte in un corridore meno che eccellente.

André Drege è scomparso in seguito alla caduta nello scorso Tour of Austria (foto Afp)
André Drege è scomparso in seguito alla caduta nello scorso Tour of Austria (foto Afp)

La morte di Drege

Chiaramente qualche nodo arriva al pettine, come avemmo modo di scrivere dopo la morte di André Drege al Giro d’Austria. Non sempre si può parlare di fatalità e in quel caso si accennò alla possibilità che la caduta del norvegese fosse stata dovuta a un difetto nei materiali, all’uso di cerchi hookless con pneumatici non dedicati al 100 per cento. Una prima conferma è arrivata il 3 gennaio, come scrive l’austriaco Die Presse. Thomas Burger, perito incaricato dalla procura di Klagenfurt, ha dichiarato: «La gomma posteriore è stata danneggiata passando su un oggetto duro, probabilmente nell’ultima curva prima dell’incidente».

La non perfetta aderenza fra la gomma e il cerchio avrebbe a quel punto provocato lo stallonamento e la perdita di aderenza. Non è un caso che durante la visita al quartier generale di Pirelli che facemmo ai primi di novembre ci venne spiegato che l’uso di certi materiali è sicuro quando per ciascun cerchio viene prodotta una gomma dedicata. Tuttavia, vista la difficoltà di venderli e usarli in accoppiamento esclusivo, l’utilizzo generalizzato di cerchi hookless resta inaffidabile ed è pertanto sconsigliato.

La ricerca della velocità deve poggiare su una perfezione su cui a volte si chiudono gli occhi. Confidando che le gomme più grosse e i freni a disco permettano di gestire biciclette che sembrano moto da corsa e corrono sugli stessi viottoli di cent’anni fa.

La discesa, magistrale e da brividi, di Pogacar dal Galibier nella quarta tappa del Tour
La discesa, magistrale e da brividi, di Pogacar dal Galibier nella quarta tappa del Tour

La caduta di Van Aert

I corridori a volte se ne rendono conto, perché sopra alle bici ci sono loro. Finché va tutto bene, tanti applausi e braccia al cielo. Quando va male, vista appunto la velocità di esercizio, sono grossi guai. Il fatto è che i corridori non li ascolta nessuno, almeno finché non si metteranno seriamente di traverso. A loro è richiesto di allenarsi, ingerire 130 grammi di carboidrati per ora, firmare contratti (semmai anche di stracciarli) e condividere sui social il bello di quello che fanno. E se per caso alle maglie della perfezione dovesse sfuggire qualcosa, si mette in campo l’intelligenza artificiale. Manca di vederli con la mano davanti alla bocca quando parlano fra loro, invece dovrebbero farsi ascoltare, perché senza di loro il circo si ferma.

Il 30 dicembre il belga Het Nieuwsblad ha pubblicato un articolo in cui ricostruiva la caduta di Van Aert alla Dwars door Vlaanderen, mettendo insieme alcuni contributi.

Eddy Dejonghe, testimone oculare davanti casa sua, ha raccontato: «Non sapevo che un ciclista potesse volare così in alto. Il ricordo mi ha svegliato più volte di notte. Continuo a vederlo. Quando chiudo gli occhi, vedo di nuovo Van Aert volare in aria».

Il giardiniere Johan, che per caso stava lavorando in zona e si era preso una pausa per veder passare i corridori, è stato uno dei primi ad arrivare sulla scena. «Un corridore ha raschiato l’asfalto quattro o cinque metri proprio davanti a me – ha detto – un secondo dopo ho capito: accidenti, quello è Wout Van Aert. E’ rimasto seduto lì per diversi minuti, gemendo di dolore. Il suo lamento mi ha attraversato il midollo e le ossa».

La caduta di Van Aert alla Dwars door Vlaanderen del 27 marzo
La caduta di Van Aert alla Dwars door Vlaanderen del 27 marzo

Limitare i rapporti

Van Aert quella caduta la ricorda bene e ha commentato prima con una battuta, poi con un’osservazione ben più pertinente.

«Non mi dà fastidio che vengano mostrate nuovamente quelle immagini – ha detto ai microfoni di Sporza – a patto che togliate l’audio. Il fatto che me ne stia seduto lì a lamentarmi in quel modo non rende felice nessuno. Gli organizzatori hanno fatto bene a rimuovere il Kanarieberg dal percorso, perché era pericoloso. E’ un punto cruciale, basta un piccolo errore e si cade. Tra i corridori è nato un dibattito interessante, proprio come sulla velocità del ciclismo. Penso che limitare lo sviluppo dei rapporti renderebbe lo sport molto più sicuro. Gli altri probabilmente non la pensano così, ma io ne sono convinto. Con un limite nella possibilità di rilanciare, nessuno potrebbe pensare di superare in certi tratti. Invece i rapporti sono così grandi, che non si smette mai di accelerare».

Commentando la discesa di Pogacar dal Galibier avanzammo l’ipotesi di limitare l’uso delle ruote ad alto profilo nei tapponi di montagna, per ridurre le velocità e di conseguenza migliorare la guidabilità delle biciclette. La proposta di Van Aert va nella stessa direzione, ma rimarrà inascoltata. Il Kanarieberg non era pericoloso in quanto tale, non lo sarebbe percorrendolo a 60 all’ora, ma a 90 cambia tutto. A nessuno piacciono i limiti di velocità. Nemmeno quando è chiaro che a volte ti salvano la carriera e in altri casi la vita.

EDITORIALE / Under 23, davvero una categoria da estinguere?

25.11.2024
5 min
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A voler essere gentili, si potrebbe dire che da un certo punto in poi, non ci abbiamo più capito niente. Il ciclismo mondiale degli under 23 ha preso una direzione diversa, mentre noi abbiamo continuato per la nostra ritrovandoci da tutt’altra parte, senza che il navigatore ci abbia detto che eravamo sulla strada meno utile. Oppure, se lo ha detto, abbiamo creduto di poter fare senza e ora ci ritroviamo sull’orlo di un precipizio, al culmine di una strada senza uscita. Cosa fare?

In occasione dell’Open Day di Beltrami, Bruno Reverberi ha detto quello che nessuno voleva sentirsi dire, ma che rispecchia il nuovo corso del ciclismo. «Le squadre under 23 non hanno più senso di esistere, bisognerebbe eliminare la categoria e far correre i giovani tra i team devo del WorldTour e le continental…». Anche in questo, se vogliamo c’è un’inesattezza: i devo team infatti sono tutti under 23 e le continental italiane, ad eccezione di pochi atleti rimasti, appartengono alla stessa categoria. Resta il senso del messaggio: non servono più le squadre che fanno solo attività non professionistica, perché non offrono ai ragazzi le occasioni di formazione che invece ricevono altrove.

Bruno Reverberi si è espresso ieri contro i team italiani under 23, il cui calo è anche un effetto e non solo una causa
Bruno Reverberi si è espresso ieri contro i team italiani under 23, il cui calo è anche un effetto e non solo una causa

La Zalf che chiude

I presidenti che si sono susseguiti al comando del ciclismo italiano negli ultimi 20 anni hanno tirato a campare, come si fa quando si manda avanti un vecchio albergo pieno di storia, ma con i segni del tempo che lo rendono meno appetibile delle strutture moderne tutte elettronica e integrazione. Perché lo hanno fatto? Proviamo a capirlo.

Probabilmente perché non ne hanno mai visto davvero la necessità, pensando che l’acqua nel pozzo non sarebbe mai finita. Poi perché questo avrebbe significato radunare un quantitativo enorme di direttori sportivi che hanno superato i 65 anni, costringendoli ad aggiornamenti che non tutti avrebbero gradito. Forse perché mettersi contro le società che ogni volta sono chiamate a votarli avrebbe significato perdere consenso. Magari anche perché consapevoli che la natura locale degli sponsor italiani non consentirebbe grosse aperture. E quando ci si è rassegnati alla conversione in continental, dopo l’entusiasmo della prima ora, si sono fatti bastare la qualifica (e i contributi che ne derivavano), senza sincerarsi che i team facessero un’attività all’altezza.

Il risultato finale, uno dei risultati finali più eclatanti è che la gloriosa Zalf Desirée Fior, che del vecchio albergo pieno di gloria ha tutta la nobiltà e gli acciacchi, è arrivata al capolinea ed è stata costretta a chiudere i battenti. Perché andare avanti se anno dopo anno ci si è ritrovati sempre di più ai margini, senza il minimo spiraglio di poter tornare ai vertici?

Dopo 43 anni si è interrotta la strada della Zalf Fior, con una cena di commiato a Castelfranco Veneto (photors.it)
Dopo 43 anni si è interrotta la strada della Zalf Fior, con una cena di commiato a Castelfranco Veneto (photors.it)

Il pasticcio del 1996

Come se ne esce? Reverberi ha una parte di ragione, ma non tutta. Anzi, il suo progetto giovani è per lui una necessità, ma anche una delle cause dello svuotamento della categoria under 23 italiana, assecondando le esigenze degli atleti e quelle dei loro procuratori che hanno una gran fretta di farli firmare. E allora perché non giocare una carta che finora pochi hanno azzardato, se non a sprazzi nei mesi dopo il Covid?

Il grosso gap fra i devo team e una squadra under 23 italiana è il livello dell’attività che svolgono. E se la scelta o la possibilità di andare a correre tra i professionisti riguarda le singole squadre, nulla o nessuno vieta di riqualificare le corse italiane.

L’UCI ha la sua responsabilità. Quando nel 1996 impose la categoria under 23, volendo a tutti i costi isolare i ventenni dagli elite, come prima disposizione impose il taglio dei chilometri di gara. E così classiche italiane per dilettanti, che si correvano da decenni sopra i 180 chilometri, divennero corsette per giovani corridori da tutelare. Preso atto che la misura non servì a risolvere i problemi più evidenti e che ormai un under 23 corre regolarmente tra i professionisti su distanze ben superiori ai 200 chilometri, forse è il caso di fare un passo indietro. Se non altro a livello italiano.

Il Palio del Recioto e il Giro del Belvedere richiamano devo team da tutta Europa. Ecco Nordhagen lo scorso aprile
Il Palio del Recioto e il Giro del Belvedere richiamano devo team da tutta Europa. Ecco Nordhagen lo scorso aprile

Il calendario che non c’è

Volendo dare un suggerimento al futuro presidente federale, fra i vari provvedimenti si potrebbe dirgli di mettere mano in modo incisivo al calendario. E se è vero che le internazionali venete di aprile sono piene dei devo team di tutta Europa, potrebbe offrire un sostegno cospicuo agli organizzatori delle classiche italiane di maggiore prestigio, supportandole nel passaggio alla qualifica di internazionali e mettendole nel calendario in modo che con un solo soggiorno, i team europei possano disputare almeno tre gare.

A quel punto, dotate di altimetrie e chilometraggi degni di attenzione, le nostre internazionali sarebbero di nuovo un richiamo per i team stranieri, tornando al contempo dei banchi di prova più attendibili anche per gli under 23 italiani. Lo scadimento dei nostri team, oltre a conduzioni superate e a volte supponenti, è anche l’effetto di un’attività insufficiente. Se per una settimana al mese fosse possibile creare un simile meccanismo, le cose cambierebbero. Le squadre avrebbero qualcosa da raccontare ai loro sponsor. E gli under 23 italiani non sarebbero costretti a saltare frettolosamente nel vuoto, avendo nel fallimento la sola alternativa al successo.

EDITORIALE / Remco nella storia, Pogacar ha perso l’occasione

05.08.2024
5 min
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Luka Mezgec, corridore sloveno, ha dichiarato alla televisione nazionale che l’assenza di Pogacar alle Olimpiadi di Parigi sia stata dovuta principalmente alla non convocazione della compagna Urska Zigart per le gare femminili. Nonostante sia campionessa nazionale di crono e strada, l’atleta del Team Jayco-AlUla è stata lasciata a casa dai selezionatori sloveni e questo avrebbe provocato la reazione amara del vincitore del Giro e del Tour, che ha comunicato la sua assenza olimpica a causa della stanchezza accumulata.

«Per quanto riguarda la ragione ufficiale secondo cui è stanco – ha detto Mezgec a RTV Slovenija, per come riportato da cyclingnews.com – credo che non sia la più realistica. So che anche se fosse stato sul letto di morte, sarebbe venuto qui se Urska fosse stata convocata, perché così non sarebbe stato da solo a casa.

«Se ci fosse stata una probabilità dell’uno per cento che per qualsiasi motivo volesse rimanere a casa, quella percentuale sarebbe stata molto più bassa se Urska fosse stata qui. Ovunque sia Urska, c’è anche Tadej. Può sembrare cattivo – ha concluso il corridore del Team Jayco-AlUla – ma forse avrebbero dovuto rischiare un posto per lei, anche se non fosse stata la migliore, perché con questa mossa si sarebbero assicurati Tadej, ma non l’hanno fatto. Sfortunatamente, chi ha preso la decisione non aveva previsto tutti gli scenari».

Davvero bisogna credere che questo Pogacar non avesse la forza per sfidare Evenepoel a Parigi?
Davvero bisogna credere che questo Pogacar non avesse la forza per sfidare Evenepoel a Parigi?

L’occasione mancata

Alzi la mano chi, avendo seguito la vittoria di Evenepoel sabato a Parigi, non si sia chiesto quale spettacolo ancora più immenso ci sarebbe stato con lo sloveno in gara. E chissà se lo stesso Pogacar ha seguito la corsa e abbia riflettuto sulla sua scelta. Si può fargli una colpa per aver rinunciato alle Olimpiadi? Probabilmente no, cosa vuoi dirgli a uno che nei pochi giorni di gara del 2024 ha realizzato una simile grande impresa? Però forse si può fare una riflessione.

Siamo sicuri che lo sloveno avrà un’altra occasione come questa? Il ciclismo non è paragonabile ad altri sport: Djokovic ha vinto l’oro nel tennis a 37 anni, ma tanta longevità da queste parti non è scontata. Quando nel 2028 le Olimpiadi si correranno a Los Angeles, Pogacar avrà 30 anni: sarà ancora in grado di competere al massimo livello?

Il tema della stanchezza non convince, anche rapportato al voler puntare sui mondiali di Zurigo, mettendo nel mirino Roche che nel 1987 vinse Giro, Tour e mondiale. Nel 2021 Tadej volò a Tokyo pochi giorni dopo aver vinto il Tour e conquistò il bronzo nella gara in linea. Vista l’apparente facilità con cui ha conquistato la maglia gialla e il breve viaggio da Monaco a Parigi, si può immaginare che davvero non avesse le forze per lottare con Evenepoel?

Tour de France 2021, Alaphilippe vince la prima tappa e la dedica a Marion e alla nascita del figlio Nino
Tour de France 2021, Alaphilippe vince la prima tappa e la dedica a Marion e alla nascita del figlio Nino

Compagne e atlete

Anche Alaphilippe nel 2021 rinunciò alle Olimpiadi, per stare accanto alla compagna Marion, che aveva da poco messo al mondo il figlio Nino. Julian era iridato e ancora volava. Aveva vinto la Freccia Vallone, era stato battuto solo da Pogacar alla Liegi, aveva vinto la prima tappa del Tour e a settembre avrebbe vinto il secondo mondiale. Eppure rinunciò. E quest’anno che si è rimboccato le maniche, avendo capito che forse allora commise una leggerezza, non è andato oltre l’undicesimo posto a 1’25” dal compagno di squadra Evenepoel. Perché in questo ciclismo che va veloce, 32 sono anni pesanti per sfidare i padroncini del gruppo.

E’ legittimo per chiunque scegliere di stare accanto alla famiglia: non si può fargliene una colpa. Quel che sorprende è semmai la dinamica domestica, in cui casualmente o forse no, entrambe le donne in questione sono o sono state atlete. Come reagì Marion Rousse? E come ha vissuto Urska Zigart la rinuncia del fenomenale compagno che vincendo le Olimpiadi sarebbe potuto entrare nella storia? Lo ha abbracciato intenerita e fiera per il gesto oppure lo ha esortato a non buttare l’occasione? Se teneva così tanto alla convocazione, ha vissuto a cuor leggero la rinuncia da parte del compagno?

Urska Zigart è ormai una presenza fissa per Pogacar dopo gli arrivi
Urska Zigart è ormai una presenza fissa per Pogacar dopo gli arrivi

Tadej e la storia

I campioni come Pogacar piacciono perché sono capaci di trasfigurarsi nella fatica, tirando fuori da se stessi imprese inimitabili. Lo fanno perché hanno dentro il fuoco, quale che ne sia l’origine. Se rabbia sociale, fame, voglia di dimostrare qualcosa, un agonismo esagerato: l’elenco è lungo e complesso. Ma a volte dimentichiamo che hanno pochi anni e rischiano di cadere in errori adolescenziali, ripicche fatte con la pancia più che col cervello. E la scelta di Pogacar, se è vero quello che ha dichiarato Mezgec, è stata a nostro avviso tale.

Le Olimpiadi sono un traguardo da conquistare, non un viaggio premio. E’ vero che le due ragazze che hanno sostituito Urska Zigart non siano fulmini di guerra, ciò non toglie che il campione abbia rinunciato a una occasione forse irripetibile. Potrà anche vincere il mondiale di Zurigo, ma questa rinuncia resterà per sempre come un vuoto nel suo palmares. Con buona pace di Evenepoel, che la sua chance l’ha presa e sfruttata al meglio. Otto corridori hanno vinto Giro e Tour nello stesso anno, nessuno aveva mai vinto il doppio oro olimpico. A conti fatti, ammesso che il ragionamento abbia un senso, la storia l’ha fatta Remco. Pogacar a nostro avviso è ancora più fenomeno del fenomeno belga, ma s’è aggiunto a una strada già tracciata.